Desire
di Gianluca Veltri
“A volte nelle canzoni si dicono certe cose, anche se c’è solo una piccola probabilità che siano vere. A volte si dicono cose che non hanno niente a che fare con la verità […]. O magari si finisce per credere che l’unica verità esistente al mondo è che sul mondo non c’è nessuna verità”.
Bob Dylan, Chronicles Volume 1
Lo avevamo lasciato “aggrovigliato nel blu”, soltanto pochi mesi prima.
Ma Bob Dylan fermo non sa stare. E così torna a New York, dove tutto era cominciato. È lì che realizza e registra, mezzo secolo fa, i brani per l’album “Desire”.
Si tratta di un disco che segna un deciso cambio di registro, dopo un lavoro confessionale e di forte scavo interiore come era stato il precedente “Blood on the Tracks”, ch’era un vero e proprio manuale dei cantautori. Da un lavoro molto introverso, che guardava dentro i propri recessi più intimi, a un album molto estroverso, che getta a piene mani sé stesso nel mondo.
“Desire” sarà fortemente peculiare nella discografia del futuro Nobel. Anzitutto per la sua genesi a quattro mani: quasi tutte le composizioni portano anche la firma del regista teatrale e psicologo newyorkese Jacques Levy, che aveva già collaborato con i Byrds; non è frequente riscontrare un sodalizio così totale, sebbene episodico, nel book dylaniano. Ora è momento di fervore aggregativo, per Dylan, in cui si avverte la necessità di condividere, uscire da sé, mescolarsi. E documentarlo. I pezzi di “Desire” saranno infatti l’ossatura del film “Renaldo e Clara”, diretto dallo stesso musicista e, molto più in là, del docufilm di Martin Scorsese “Rolling Thunder Revue”. L’album infatti sgorga dalla stessa fucina da cui nacque la carovana circense della Rolling Thunder Revue, “l’orchestrina di uno spettacolo di vaudeville” itinerante con cui Dylan attraversa l’America, imbarcando per strada poeti, musicisti, amici, coinvolti in una festa mobile. Per questo motivo tante canzoni del disco sono presenti anche nel film: erano nuove di zecca e si prestavano più che mai allo spirito trobadorico del tour.
Tanti sono i brani degni di nota di “Desire”, la cui grana sonora e melodica, fortemente solcata dal violino di Scarlet Rivera e dai controcanti di Emmylou Harris, si muove tra atmosfere esotiche, nostalgie gitane e caraibiche, murder ballads, scenari tex-mex, colori western e echi di sapore mediterraneo, dall’Egitto alla Francia del Sud.
Ma qui vogliamo approfondire soprattutto i due lunghi brani che aprono le rispettive facciate del 33 giri: “Hurricane” (lato A) e “Joey” (lato B).
In queste due canzoni un Dylan neorealista e cinematografico prende posizioni forti, si espone in modo apologetico in favore di due figure assai diverse tra loro: un boxeur nero in carcere e un esponente della malavita italo-americana morto ammazzato.
LATO A. Il pugile Rubin Carter, detto “Hurricane”, era stato condannato per un triplice omicidio avvenuto nel 1967, che aveva mobilitato una vasta corrente di pensiero, convinta della sua innocenza. Dopo una complessa storia giudiziaria durata quasi un ventennio, la Corte Federale si pronuncerà sulla mancanza di equità del processo, affermando che l’accusa fosse stata dettata da motivazioni razziali. Il brano di Dylan, che avrà un suo peso nella vicenda, esce subito dopo l’autobiografia di Carter, quando il tema è assai caldo e gran parte dell’opinione pubblica era schierata in favore dell’ex pugile.
Tutte le carte in mano a Rubin furono truccate,
il processo fu una pagliacciata e lui non ebbe modo di difendersi.
Per il giudice i testimoni a favore di Rubin
erano solo ubriaconi dei ghetti
per i bianchi che stavano a guardare
lui era un buono a nulla sovversivo
e per i neri era solo un negro pazzoide
nessuno dubitava che avesse premuto il grilletto.
E anche se la pistola non venne mai trovata
il pubblico ministero sostenne che il colpevole era lui
e la giuria fatta di soli bianchi fu d’accordo.
La vibrante, lunga ballata (8.35) che apre “Desire” è un pezzo che non va controcorrente, è tutt’altro che impopolare, perché si fa testimonial ulteriore di una campagna ampiamente condivisa: quella a favore dello scagionamento di Rubin Carter. Insomma, qui Dylan sta dalla parte giusta e “Hurricane” sarà destinata a diventare uno dei suoi cavalli di battaglia.
LATO B. La musica cambia decisamente, se giriamo il vinile. La seconda facciata si apre con la fluviale “Joey” (11.05), un memorabile e toccante poema epico in ben dodici strofe. Per un ascoltatore ignaro – è possibile che buona parte degli ascoltatori italiani lo fosse – “Joey” è una piccola Odissea contemporanea, imbastita dal più grande aedo dei nostri tempi. Lenta e solenne, “Joey” è il ritratto elegiaco e elogiativo di un eroe. Peccato che questo eroe fosse un boss della malavita di Brooklyn, Joseph Gallo, detto “Joe il Pazzo”, ucciso in una faida tra famiglie rivali tre anni prima, nel giorno del suo 43esimo compleanno.
Era vero che negli ultimi tempi non portava armi addosso.
“Ho troppi bambini intorno”, diceva.
“È meglio che neanche le vedano”.
Eppure, un giorno entrò nel locale del suo mortale nemico,
svuotò la cassa e disse: “Ditegli che è stato Joe il Pazzo”.
Un giorno a New York gli spararono in una ostricheria.
Li vide entrare dalla porta mentre aveva la forchetta alzata.
Rovesciò la tavola per proteggere la sua famiglia
e si trascinò fuori barcollando per le strade di Little Italy
Joey, Joey,
re delle strade, ragazzo d’argilla,
Joey, Joey,
perché mai sono venuti a farti fuori?
Era possibile che Gallo venisse visto come una figura in qualche modo atipica di mafioso: lettore accanito, aspirante intellettuale, attento allo stile, forse non estraneo a qualche comportamento edificante, a suo modo fascinoso con i Rayban in stile “Dylan-a-Newport”. Nel loro sodalizio, Dylan e Levy scoprirono di essere fatalmente attratti dalla figura del fuorilegge escluso dalla società, sfortunato, ingiustamente perseguitato, braccato dalla giustizia o dall’opinione pubblica. Il tema, con le sue varianti, ricorre già in “Hurricane”, oltre che in un altro brano dell’album, “Romance in Durango”.
Dylan e Levy imbastiscono il ritratto sentimentale e dolente di un paladino romantico, di un benefattore ucciso ingiustamente. Ma dalla biografia del “ragazzo d’argilla” – a opera di Donald Goddard, all’epoca fresca di stampa – si evince un ritratto radicalmente incompatibile con l’esaltazione di Gallo: psicopatico, violento, misogino, uomo di gang.
Nondimeno, la sua sorte e la sua recente morte violenta diventano un giacimento mitico e compassionevole a cui attingere. A Dylan non interessa più di tanto attenersi alla necessaria verità dei fatti, quanto invece trasformare i fatti in epos.
La canzone, la più controversa nella carriera di Dylan, sarà destinata a suscitare parecchie polemiche e altrettante stroncature, e questo riapre un’annosa diatriba tra l’arte e ciò che è socialmente e eticamente accettabile, visto che “Joey” è una canzone meravigliosa e contemporaneamente il brano più odiato e discutibile di Bob Dylan. Dove sistemiamo il limite? Fin dove alziamo l’asticella al di sopra della quale un oggetto artistico è irricevibile?
È vero che il musicista aveva sempre mostrato fascino per i criminali solitari, e ne aveva cantato le gesta senza suscitare scandali. Ma Levy e Dylan non fecero i conti – o forse sì, calcolandone il rischio – con la circostanza che Gallo non era un personaggio lontano nel tempo come certi pistoleri ormai storicizzati di secoli passati, Billy the Kid o John Wesley Hardin, le cui imprese avevano ispirato dischi precedenti del cantautore. Joe il Pazzo era invece un boss contemporaneo da poco scomparso, le cui gesta tutt’altro che edificanti erano ancora troppo recenti e presenti nella memoria americana. Sembrò assurdo che uno come Dylan, nello stesso disco in cui si ergeva a difensore dei diritti civili di un nero accusato ingiustamente a causa di pregiudizi razziali, dedicasse un poema pieno di pathos all’affiliato di una famiglia malavitosa.
In fondo anche qui, come in “Hurricane”, Dylan cerca di riabilitare, con parecchie chance di successo in meno, una figura sotto accusa. Lo fa da una prospettiva non militante, ma poetica; mentre “Hurricane” è un manifesto politico indignato, “Joey” è un canto epico.
Come spesso gli capita, Dylan, uomo che contiene moltitudini, non ha dato versioni univoche a proposito di “Joey”: è arrivato a paragonare sé stesso a un moderno Omero, definendo anche a distanza di tempo “grandiosa” la sua canzone, ma in altre occasioni ha preferito precisare che il testo del brano è interamente di Levy, e lui si sarebbe solo limitato a musicarlo e a cantarlo. La figura di Joe il Pazzo fu effettivamente tirata in ballo e suggerita al musicista dal suo sodale di turno Levy, che nutriva ammirazione per Gallo dopo averlo personalmente conosciuto. Per i due, in Joseph Gallo prevalevano le caratteristiche del perdente e dell’underdog su quelle del delinquente e del sopraffattore; uomo d’onore degno di rispetto più che spietato criminale. Joseph Gallo, dal canto suo, era desideroso di riuscire gradito all’intellighenzia newyorkese e non risultava del tutto indifferente a una parte di essa, per il suo stile e la sua preparazione culturale, acquisita negli anni di detenzione.
Il critico Lester Bangs – uno di quelli che è quasi inevitabile definire “autorevole” – è stato il più aspro detrattore di “Joey”, fino a considerarla persino una canzone noiosa, oltre che inaccettabile per aver preteso di rendere romantica la storia di un gangster. In realtà Gallo, sia questo aggiunto in fil di voce e per quel che vale, malgrado sia spesso definito “gangster” e “killer”, non fu mai condannato per aver commesso omicidi. C’è infine da aggiungere che in quello scorcio di tempo non era certo infrequente raccontare la mafia romanzandone i protagonisti oltre ogni limite, specie al cinema: Coppola, Scorsese, De Palma.
Insomma, risposta non c’è, almeno non ce n’è una sola, valida per tutti.
Se “Hurricane” unisce, “Joey” inevitabilmente divide. Per un Lester Bangs che la detesta, c’è un Jerry Garcia, il leader dei Greateful Dead, che la adorava. Non che risultare divisivo rappresenti un problema per Bob Dylan: non lo è mai stato.