I Sonnambuli: IV, Suckert o la blockchain
di Tommaso Ghezzi
Nel panorama letterario contemporaneo, poche traiettorie creative si rivelano tanto prolifiche quanto eteroclite come quella di Vanni Santoni. Un eclettismo di generi, forme e immaginari che si sviluppa su linee diverse. La peculiarità della sua opera risiede in una tensione incessante alla contaminazione, le linee stilistiche e tematiche non si giustappongono, ma si compenetrano. Possiamo identificare infatti linee separate e contigue ben riconoscibili nella carriera di Santoni: il trittico dedicato alle subculture — pubblicato nella collana Solaris di Laterza e incentrato, rispettivamente, sulla cultura dei free party (Muro di Casse), i giochi di ruolo (La Stanza Profonda) e il mondo del writing (Dilaga Ovunque, già finalista al Premio Campiello 2024)— si affianca alle incursioni nel fantasy-visionario (Terra ignota, sviluppata nei due volumi Risveglio e Le figlie del rito, e L’impero del sogno), così come all’attività critica, istintiva e militante, che lo ha visto come promoter di autori contemporanei che hanno mosso un interesse consistente nel pubblico e nella critica letteraria. Si tratta di figure eterogenee del pensiero e della letteratura come Michael Pollan e Mircea Cărtărescu su tutti, così come i recuperi di autori del passato (penso a von Hoffmanstal).
Vanni Santoni è però soprattutto un narratore. È nella narrativa che si coagula, in modo quasi carsico, l’autentico nucleo pulsionale della sua scrittura. Le ultime tre opere narrative disegnano l’arco di un autore ormai pienamente consapevole dei propri strumenti, capace di coniugare complessità e leggibilità, impianto teorico e piacere del racconto. I fratelli Michelangelo (Mondadori, 2019) si è posto come ambizioso affresco familiare, in cui l’eco di Thomas Mann e del Dostoevskij dei Karamazov è stata traslata in un ordito narrativo che ha sancito la sua consacrazione come “grande autore”, con un pubblico affezionato – quasi una fanbase – e un interesse critico mai superficiale. Nel 2022 con La verità su tutto, uscito sempre per Mondadori, Santoni si è mosso di nuovo nella fertile intercapedine tra la sperimentazione ibrida tra saggio e romanzo — quasi una cifra distintiva dei testi usciti per Laterza — in cui il bagaglio di theory accumulata nei campi del misticismo, dei free party, della psichedelia, e in generale della controcultura degli anni Zero, trova uno sfogo narrativo, fungendo da innesco per lo sviluppo della vicenda.
Già confrontando questa produzione più recente con gli esordi, che già manifestavano le pulsioni centrifughe dell’espressività di Santoni, si può notare come tutto si tenga. I Personaggi Precari – opera di letteratura potenziale, in cui vengono presentati personaggi con caratteri specifici e piccoli elementi di drammatizzazione, i quali non hanno campi di finzione nei quali muoversi, e sono quindi per questo precari – così come i protagonisti di Gli interessi in comune, ma anche racconti usciti in antologia come Emma & Cleo, possiamo constatare la volontà di creare un ciclo di narrazioni, nel quale tornano personaggi, elementi e ambientazioni.
Arriviamo al presente, con Il detective sonnambulo, pubblicato nell’aprile del 2025 Santoni sembra tornare a lambire le proprie origini, premendo l’acceleratore sulla preminenza del racconto, tenendo l’impianto teorico, pure presente, come guarnizione, appoggio, sostegno critico. Attingendo ai fantasmi della formazione adolescenziale — Hubert Selby Jr., Chuck Palahniuk, ma anche Bret Easton Ellis, Irvine Welsh et similia — dà forma a un oggetto narrativo che si colloca all’incrocio tra noir psicotropico e Bildungsroman allucinato.
Il risultato è un romanzo che nel titolo evoca Bolaño e soprattutto Hermann Broch, i cui protagonisti, i suoi Sonnambuli (Pasenow, Esch, e soprattutto Huguenau) incarnano tre declinazioni dell’uomo moderno in segmenti storici sull’orlo dell’abisso e della catastrofe. Allo stesso modo, Martino Suckert — il sonnambulo di Santoni — attraversa un tempo sul punto di disgregarsi, un impero che implode, non più l’Impero tedesco ma il liberismo assolutistico del XXI secolo, un’ecumene digitale ad un passo dalla singolarità, dalla cancellazione dell’umano.
La storia è quella di Martino — o Luther, come viene ribattezzato dalla seconda protagonista, Johanna — giovane italiano che vive a Parigi con il pretesto degli studi universitari, ma che compone piuttosto la sua vita di transiti precari, impieghi volatili: sogna il cinema — nello specifico, la scrittura per il cinema — ma vive un’esistenza interstiziale, una vita nei margini del visibile e del realizzabile. Un cervello in fuga che non è neanche un cervello. Quando incontra Johanna, il suo universo si riconfigura: attraverso di lei penetra in una Parigi polifonica, una città palinsesto in cui l’élite artistica e il sottobosco miserabile si sovrappongono come livelli di un’unica mappa, inafferrabile e pulsante.
Ma quando Johanna scompare, volatilizzata senza preavviso, per Martino Suckert il mondo perde consistenza. È il Peter Pan abbandonato dalla sua fatina, ma senza Isola che non c’è a cui tornare; Martino si mette quindi sulle tracce di Johanna in una caccia spasmodica che somiglia a un open world senza HUD, senza quest log, un’esplorazione cieca attraverso soglie urbane e psichiche che si moltiplicano.
La scomparsa di Johanna aveva reso di nuovo il mondo reale, ero atterrato e mi ero fatto male, e se il mondo era più reale era anche di nuovo senza direzione […] Ma era vero che con lei tutto assumeva un contorno più vivido e anche più semplice, una maggior coerenza potremmo dire, proprio come se ci fosse almeno uno straccio di regia dietro le quinte della realtà, e il caos della metropoli tornava a essere quello che avevo sperato che fosse: un segnale, un indizio, dell’essere più vicino a dove accadevano le cose… Ma dove accadevano? Quali cose, poi? Beato te, Luther, mi diceva Johanna, che non ti fai mai prendere dalla follia del mondo… Magari! Adesso l’impressione era che il mondo fosse tornato ad avere un significato grazie a Tanya: davvero avevo bisogno degli altri per dar senso alle cose?
(Il detective sonnambulo, p. 91)
In questa deriva entra in contatto con Tanja, militante radicale di un gruppo antispecista, il cui attivismo assume tratti ambigui quando la ricerca individua un personaggio chiave, che è allo stesso tempo il vero protagonista e il villain del romanzo: Manfredi Della Torre — figura cardine, asse obliquo del romanzo, avatar contemporaneo del Grande Inquisitore dostoevskiano – è un campo di forze: esperto di blockchain, accumulatore visionario, affabulatore e tycoon, è l’incarnazione estrema del paradosso postmoderno per eccellenza. È personaggio sineddotico del cryptobro, del guru inconsapevole, del ragazzino che si è ritrovato multimilionario bazzicando nel mondo dei bitcoin per puro spirito nerd, interessato per lo più al mercato delle carte Magic ed entrato in contatto con la riserva di valore più rivoluzionaria degli anni ‘10.
Piccola nota di natura personale: Mentre leggevo il romanzo, ho guardato una docuserie intitolata Dirty Pop incentrata sul manager dei Backstreet Boys e degli N-Sync, Lou Pearlman, e mi sono letto Dominio di Marco d’Eramo (Feltrinelli, 2020). Due oggetti lontani, ma che sono finiti per entrare in relazione con il libro di Santoni. Entrambi dedicano ampio spazio al meccanismo fondamentale del potere contemporaneo: la lotta di classe non è finita negli anni settanta, l’hanno continuata i ricchi contro i poveri e l’hanno stravinta; hanno imparato a far bollire lentamente i subalterni, far loro assaggiare la ricchezza e il privilegio quel tanto che basta da impedirgli di riconoscerlo come nemico e renderli complici. E Manfredi Della Torre fa esattamente questo con i personaggi: offre l’accesso a una felicità avvelenata, dà abbastanza potere da far dimenticare chi lo detiene davvero. Manfredi però, essendo un personaggio romanzesco, e in fondo un eroe postromantico, confonde talmente tanto le acque da rimanere egli stesso vittima del castello che ha costruito.
Manfredi – scopriremo poi che anche questo non è il suo vero nome – è poi colui che ha metabolizzato l’estetica e l’etica hippy, la retorica della controcultura, e l’ha rifusa in un apparato ultracapitalistico, un sistema di potere talmente sofisticato da sembrare una setta iniziatica. Silicon Valley e cyberesoterismo, anarcoindividualismo e controllo algoritmico: tutto convive in lui, in una sintesi tecnognostica, troppo bombastica ed elettrificata per non nascondere una debolezza patologica, una malinconia profonda:
– Certo, certo. È un grande dono, sai, Martino, quello di poter creare, – diceva Manfredi […] – io ci ho provato, a creare, non dico che non abbia dei talenti, di certo sono veloce, soprattutto a imparare […] ma in questi stessi anni, questi anni di fortuna e di conseguente, inevitabile ricerca, sono stato costretto a capire che non ho il dono della creazione. La creazione diretta, mi capisci? La magia del fare.
– Be’, di soldi ne hai fatti…
– I soldi! Bof, a parte che io sono stato solo tra i primi ad averli, quei cavolo di bitcoin, ben prima che il valore schizzasse su, – diceva Manfredi […] – i soldi non sono una creazione. Si dice che i soldi si fanno, è vero, you make money, ma in realtà mica esistono, a meno di considerar tali quei foglietti che la gente tiene nel portafoglio: i soldi sono un’energia astratta, sono mana, ki, orenda, prana, shakti, sono la forza di Star Wars, il chakra di Naruto, non si creano e non si distruggono, crescono, si contraggono, respirano, sono una funzione d’onda con cui puoi o non puoi sintonizzarti…
– Il denaro non dorme mai, come diceva Gordon Gekko in Wall Street.
– Sbagliatisssssimo, Martino. Il denaro dorme sempre, il denaro sogna, è un sogno, un altro piano di realtà, sfuggente eppure grandioso
(Il detective sonnambulo, pp. 152-53)
Manfredi Della Torre non è soltanto un personaggio, ma è la cifra critica del romanzo; è intorno a lui che Martino — e con lui il lettore — comincia a comprendere che la ricerca non riguarda più Johanna, ma qualcosa di più vasto, di più oscuro: la possibilità stessa di orientarsi in un mondo che ha perso il proprio asse.
Anche in Il detective sonnambulo, come già accadeva in Dilaga ovunque, i protagonisti si muovono all’interno di un ecosistema culturale iperdenso, saturo di referenze incrociate, in cui l’arte contemporanea e il collezionismo post-concettuale diventano oggetti di riflessione, ma anche strumenti per decifrare — o forse soltanto per estetizzare — il caos. I dialoghi si muovono liberamente tra il linguaggio di Magic: The Gathering, i riferimenti agli anime giapponesi, soprattutto One Piece, Demon Slayer e Naruto, il folklore globale dei Pokémon, le teorie dell’esperienza sensoriale espansa e le sostanze psicoattive come strumenti di esplorazione dell’interiore.
…questo John Cunningham Lilly aveva dedicato la vita a studiare i delfini, convinto di poterci comunicare telepaticamente col giusto mix di LSD e ketamina… Era anche l’inventore della vasca di deprivazione sensoriale, e quel che mi svelò il tizio accendendo le luci della stanza principale, che lui chiamava “transfert area”, ovvero quella specie di sarcofago hi-tech che stava là in mezzo, pareva proprio uno di quegli aggeggi là: psichedelia quindi, nient’altro che volgare espansione della coscienza… Ora, un po’ di esperienza con gli psichedelici ce l’avevo, perché nel giro californiano erano tutti in fissa con ’ste robe, una volta ero pure andato in questa clinica a Portland, mi avevano dato dei funghi, messo tutto a mio agio in una stanzetta con un “agevolatore” che mi aiutava a guidare il viaggio verso la mia “intenzione”, che era poi avere nuove idee sulle crypto, e nulla, motivi colorati quanti ne volete, ma idee di business zero… Un’altra volta, un altro cryptobillionaire mi aveva fatto una testa così sul DMT, che a suo dire ti avrebbe fatto incontrare entità aliene… Che fai, non provi? Ma il sapore di quella roba nel vaporizzatore era orrendo, tossii di brutto e non vidi che forme caleidoscopiche… Ma avessi anche inspirato a modo, può essere alieno ciò che emerge dalla tua mente?
(Il detective sonnambulo, p. 189)
Il DMT e l’LSD non sono più, qui, droghe in senso classico, ma chiavi ontologiche: dispositivi per varcare soglie percettive, per scardinare la visione ordinaria del reale. La cocaina, paradossalmente, serve invece a “tornare normali” — come se la normatività psichica fosse diventata essa stessa un effetto collaterale, un altro stato alterato. La techno-trance è invocata non come semplice colonna sonora, ma come pratica sciamanica, come vibrazione capace di indurre visioni — qualcosa che si avvicina, inquietantemente, alla meditazione.
Tutti questi personaggi sono figli di un intreccio di sottoculture che Santoni ha già esplorato, raccontato e in qualche modo cartografato nelle sue opere precedenti. Sono creature post-identitarie, fluide, ibride, che si muovono in un paesaggio in cui l’underground non è più un altrove, ma una superficie incorporata nel sistema stesso. Il romanzo, in questo senso, non è soltanto il racconto di una vicenda individuale, ma un tentativo — riuscito, potente — di tratteggiare l’ontologia di una generazione cresciuta tra le macerie dell’utopia, e che ha imparato a usare i suoi detriti come materiale narrativo, come equipaggiamento minimo per attraversare il presente. Nella seconda parte del romanzo, l’intreccio che lega Johanna, Martino, Tanja e Manfredi Della Torre evoca da vicino le geometrie autodistruttive – quasi “giusnaturalistiche” – di Tabù di Giordano Tedoldi (uscito nel 2017 nella collana Narrazioni di Tunué, diretta, guarda un po’, da Santoni stesso). Là, i protagonisti Piero, Lucia e Bruno si ritirano in una sorta di comune fuori dal perimetro della civiltà per liberare le pulsioni e violare ogni divieto; il risultato è un progressivo collasso interno, un’autofagia dei desideri che conduce alla rovina di ciascuno. Allo stesso modo, nel libro di Santoni, i quattro personaggi vivono la loro bolla, il progetto comune tenuto in piedi con un equilibrio molto precario della Schloss, un’enorme spazio di aggregazione e residenza per artisti, attivisti e cryptobro, obiettivo principale di Manfredi Della Torre.
La differenza, però, è nella chiusura: Santoni riesce a convogliare quelle pulsioni verso uno sbocco narrativo che, pur violento, appare necessario e pienamente funzionale sia al senso complessivo dell’opera sia al ritmo incalzante del racconto. Così la spirale autodistruttiva non resta pura dispersione, ma si risolve in un gesto finale che serra le linee di conflitto, rende coerente il disegno e rilancia il romanzo oltre la semplice contemplazione dell’abisso.
Manfredi si fermò, scrollò il capo e disse: – Martino, Martino… Vedi, Martino, – come recitando una preghiera, – noi generosi e ricchi di spirito, stiamo aperti al mondo come fontane, e non impediamo a nessuno di attingere dalle nostre acque. Per questo non possiamo nemmeno impedire a chicchessia di renderci torbidi: non possiamo impedire che il tempo in cui viviamo getti in noi la sua “attualità”, i passanti le cartacce e le bottiglie, i piccioni la loro merda… Ma faremo come abbiamo sempre fatto: lasceremo che tutto ciò scenda giù, in profondità – perché noi siamo profondi, non lo dimentichiamo – e torneremo a essere limpidi… Vero che mi aiuterai, Martino? – A far cosa? Certo che ha ragione Johanna, sei proprio stancante… – dissi così, una cosa normale, e quindi fuori luogo: ma la speranza era di riportarlo almeno un po’ alla normalità.
(Il detective sonnambulo, p. 328)
I luoghi che costellano Il detective sonnambulo non sono semplici coordinate geografiche, ma superfici di proiezione, paesaggi simbolici la cui potenza risiede nella loro trasfigurazione. Tutti, in modi diversi, sembrano essere stati risucchiati in un processo di mutazione semantica, in un ribaltamento del loro portato immaginario e politico. La Parigi bohemien, una volta rifugio dell’avanguardia e dell’emarginazione oggi la capitale europea con i prezzi più alti, sede di una postmilitanza diffratta e capillarizzata, infestata dai celerini, dai complottisti manipolabili, dalla sorveglianza diffusa e dall’attivismo postidentitario. Tanto è forte questa geografia del romanzo – che viene ribadita nella prima parte dal name dropping di rue, boulevard, place, toponomastica esplicita – che sarebbe interessante utilizzare lo strumento critico del primo capitolo de Les Règles de l’art di Bourdieu, con gli spostamenti di Frédéric Moreau nella topografia parigina del 1848 che diventano l’orientamento analitico delle posture sociali e linguistiche che il protagonista del romanzo adotta nei confronti del circostante.
C’è poi Davos, che fu la Davos della Montagna Magica, della malattia come soglia conoscitiva e del tempo sospeso come apertura metafisica, è ora la Davos del WEF, emblema del capitalismo estrattivo che finge di redimersi tramite panel e governance. Come Castorp resta suo malgrado coinvolto dallo scenario della malattia, che lo circonfonde, lo determina, così Martino Suckert si lascia trascinare nel vaneggiamento ipermoderno di Manfredi.
E poi ci sono gli Stati Uniti, New York e Palo Alto, la California evocata da Manfredi che non è più il luogo delle comuni hippy, delle scuole vediche, dell’utopia di una controcultura che sfidava la norma, ma è la culla opaca e scintillante della Silicon Valley, dove la forza lisergica è diventata acida, con luoghi che si sono svuotati di visione e riempiti di branding, che hanno mutato pelle e postura, diventando paesaggi della deprivazione sensoriale più che della visione.
Santoni sembra indicarci che la mappa è cambiata, certo, ma non per questo è meno reale: semplicemente, è diventata un campo minato di nostalgia e disincanto, di estetica e di controllo, di memoria e potere. E in questo campo minato, l’unico movimento possibile resta — forse — il sonnambulismo.
Che sia, in fondo, questo il vero sottotesto del romanzo? Il sonnambulismo come forma artistica di diserzione e galleggiamento? Forse l’atto stesso di scrivere è uno stoico aggrapparsi a questo demi-monde vacillante, tra la realtà e l’abisso, un mondo che respinge sempre di più l’antropico e trasforma ogni visione, ogni arte in mercato? Un tentativo — lucido, quasi inconsapevole nella sua inevitabilità — di raccontarci il privilegio stesso dello scrivere, dell’essere “artisti”? Un privilegio che è razzializzato, classista, geografico: tutti bianchi, tutti ricchi, tutti immersi in un’estetica del disfacimento, della perdita, che, però, è sempre filtrata da una rete di salvataggio? Qualsiasi sia il messaggio, è scritto in maniera esemplare.