Diario di un uomo solo

Immagine generata da AI

di Michele Muresu

La ragione genealogica di questi appunti che con molta spocchia proverò a far passare per un diario è una sola: benché sia un momento di grande rivalutazione terapeutica della solitudine, io non ho mai avuto il privilegio di stare solo. Mai fino ad oggi.

Il mio psicoterapeuta me l’ha detto senza giri di parole: in relazione alla mia presunta grafomania, un modo per mettere ordine alle sensazioni e ai pensieri può essere quello di tenere un diario. La mia mente ha vagheggiato, in fondo puzzava un po’ d’imbroglio. Ma lui mi ha esortato battendo la strada del tempo, quello utile a scrutare dentro me stesso – santiddio – al fine di dargli una forma, oltre che una sostanza nebulosa. Così abbiamo optato per questa soluzione, consapevoli che sin da quando avevo sedici o diciassett’anni ho sempre avuto una compagna ad annacquare la mia solitudine, ostacolare la discesa speleologica nella caverna del mio io – la rubo poco convinto di come suoni.

Quindi un diario per mettere ordine, dare una forma a un qualcosa di sostanza fumosa: solitudine come tempo, come lembo di oscurità palliativa. In genere nei diari si mette ordine con le date, secondo un paradigma per cui il quindici maggio può essere successo qualcosa di molto diverso dal quattordici. Per un umile uomo solo questo schema non può funzionare per via del ripetersi di giornate tremendamente uguali; così meglio optare per le tematiche come coordinate del mio insperato ordine. Già. Questa prima parte potrebbe essere un prologo, ad esempio. Lo scrivo dopo anziché prima: prologo.

Il mio psicoterapeuta. In fondo questa idea folle parte da lui e merita lo spazio dopo il prologo. Se fosse un quadro potrebbe essere L’Origine du monde di Gustave Courbet. Da lì si è originato, quasi la vagina corrisponda alla sua bocca, il pelo alla baffetta, il mondo che ne fuoriesce alle sue parole. Nel suo studio spoglio, brutalista perfino, caratterizzato dai colori freddi e pochi sparuti oggetti privi di significato sulla scrivania. Lui seduto dietro, baffa nera sollazzata dal pizzetto, che mi scruta come si scruta l’abisso e struttura la sua idea attraverso un paio di sedute. Usa la metafora del vaso – debolissima, peraltro, va detto – nel quale custodire questa solitudine e contaminarla il meno possibile. Il suo piano prevede che io stia solo ad assorbire me stesso, vedere dove slittano i pensieri, rispettare le sensazioni. Suggerisce di frequentare parenti e amici e mi esorta ad evitare in tutto e per tutto incontri occasionali con donne, almeno il primo periodo. La sua mi è sembrata un’ottima idea, se non fosse per la sua incuranza dei normali bisogni fisiologici di un uomo. In realtà vi ho trovato anche un altro dettaglio contraddittorio: per quanto probabilmente sbagli io a radicalizzare il senso dello “stare solo”, mi sono chiesto se sfruttare la compagnia di amici e parenti non vanificasse il mio scopo. Probabilmente sono un perfezionista o, come suggerisce lui, ho qualche tendenza ossessivo compulsiva. Ma torniamo al punto dei bisogni di questo povero uomo solo che sarei io, e lasciamoci volentieri alle spalle anche la metafora del vaso. Come con le 5W c’è sempre un dove. E il posto perfetto per custodire la mia solitudine è senza dubbio casa mia.

Che è bella. È quel tipo di casa dall’estetica fredda, minimalista e ricercata. È un posto perfetto in cui stare soli. Non ha fronzoli e i colori tendono a giocare sul contrasto tra bianco, nero, panna ed altre sfumature di questi. Ogni tanto compare un verde tenue a spezzare il conflitto tra il giorno e la notte. Nel salone concentra l’angolo cucina, il tavolo con le sedie, un divano dalle dimensioni e la forma simili a quelle di un letto da una piazza e mezzo, una tv di ultima generazione. Un uomo solo non necessita di nient’altro. È una casa perfetta in questo piccolo e trascurabile paese della periferia cagliaritana, una casa perfetta nel posto sbagliato, o nel posto perfetto se l’obiettivo è stare da soli; per l’appunto il mio. Pertanto, si potrebbe dire che casa mia giochi un ruolo collaborativo.

In questo piccolo e trascurabile paese non conosco nessuno, se non in modo labile e superficiale. La solitudine abbonda qui. La prima faccia familiare è a venticinque minuti d’auto. Il silenzio abissale. Essendo al secondo piano, la vista dalla finestra premia delle montagne in lontananza, altra trascurabile periferia cagliaritana a tantissimi chilometri di distanza. Il tempo così sembra non passare ed è facilissimo diventare ostaggio di me stesso, con buona soddisfazione del mio psicoterapeuta che dovrebbe esserne felice.

Non lo sarebbe invece di una delle mie prime uscite in qualità di uomo solo. Qualcosa che si potrebbe definire un intermezzo, per quanto abbastanza ravvicinato al prologo. E dunque per questa uscita con due amici in veste di uomo solo decidiamo di andare in un triste locale del centro, confacentissimo al mio corpus. Lo scenario: l’una del mattino, dj-set scadente, io e due amici in piedi, cocktail pessimo- tuonante in mano, gomiti poggiati ai tavolini. Io non ero molto in vena di uscire ma ho ceduto per via di quei convenevoli che si dipanano con la forza di un cliché, soprattutto in queste situazioni post separazione. Per trovarmi a mio agio dovevo mantenere una faccia tendente al triste, utile a darmi tono e postura opportuni per il mio stato d’animo. E questa donna più grande di me, più di una decina d’anni coi suoi quaranta lasciati alle spalle, si avvicina al mio tavolo. Probabilmente fatta, sicuramente fatta. Mi domanda cosa bevo, le rispondo benzina, imbarazzandomi e provando un poco pena per me stesso. Ma lei ride a dismisura e mi trovo a domandarmi se la battuta fosse davvero così divertente. Poi, d’improvviso, l’epifania, ciò che ha alleviato la mia paura di produrre un risultato miserabile al piano d’azione del mio psicoterapeuta. L’epifania di una speculazione basata su una conoscenza che andava avanti da cinque secondi, peraltro scanditi da un anoressico scambio domanda-risposta, ma pur sempre epifania: la sua compagnia era un ottimo modo per restare solo.

La donna ungherese. Lei. Con lei sto solo a meraviglia. Viene da me, scopiamo, va via. In realtà parliamo, anche. Qualcosa di labile e sfuggente, più che altro basato su giudizi sulla mia persona, il cui più ricorrente è che io sia un piccolo comunistello bastardo. Sostiene che noi intellettualotti spiantati qui facciamo i comunisti perché non abbiamo avuto il comunismo, e che nel suo paese gli intellettualotti non facciano i comunisti perché il comunismo l’hanno avuto. Io non riesco a capire, affacciato dall’altra sponda continentale sull’oceano che ci separa, se questa donna sappia cosa stia dicendo; se sia geniale o parli perché la sua struttura chimico-biologica glielo consenta. È il problema della solitudine, quel gustoso paradosso per cui nonostante l’intercorrere del tempo trascorso assieme io continuo a non conoscerla. Ed è presto detto il perché, consolidato dal ripetersi d’un paradigma fisso articolato in tre momenti: 1 viene da me, 2 fa sesso – per quanto possa non evincersi dalla formula ci sono anch’io, – 3 se ne va. Nei momenti di maggiore auto affermazione mi tira schiaffi. Una volta, presa da ruolo e situazione, ha insistito per mettermi un collare ordinato online, probabilmente pagato poco a causa della dozzinalità dei dettagli, per poi ordinarmi ora tu fa bau-bau. Com’è naturale non mi son prestato, consapevole dei pericoli insiti nel consegnarle le chiavi del gioco. Purtroppo ignoravo quanto fosse strutturato il suo problem solving, dettaglio che si è debitamente svelato quando ha ricorso ad un frustino di pelle sino a quel momento conservato nella sua borsa. Ho fatto bau-bau.

Il mio psicoterapeuta ha detto che non dovrei fare cose che non mi va di fare, ignaro della soggezione in cui ti può indurre, nel tuo stato di solitudine plastica, una donna ex sovietica con un frustino in mano e una parlata simile allo stereotipo da commedia americana. Farebbe tutto molto ridere ma lei non ha una struttura umoristica attigua alla nostra e per queste cose non riderebbe. Al mio psicoterapeuta, che ce l’ha, ha fatto ridere eccome. Non fosse per quel problemuccio con la deontologia avrebbe riso di più, ma la necessità di darsi un tono l’ha obbligato a ricomporsi al fine di redarguirmi circa la mancata osservanza del piano, per poi aggiungere che nelle mie derive ossessive compulsive ho sviluppato un interesse maniacale verso il sesso. Ha aggiunto che un uomo di più di trent’anni dovrebbe riuscire a trascorrere sette o dieci giorni senza farlo, senza considerarlo al pari di bisogni quali bere, mangiare, dormire.

Il mio psicanalista è molto simpatico. Dovrebbe essere un discreto baluardo contro la mia solitudine ma la sua parcella lo esenta da questo scopo. In fondo sono sessanta euro a botta. Quando l’ho detto a un mio amico mi ha subito fatto notare che aggiungendo dieci cucuzze potrei avere una vigliacca. Il suo discorso mi è sembrato abbastanza allietante nell’ottica di mantenere illibata questa placenta di solitudine nella quale sono avvolto, eppure per altre ragioni che la mia solitudine mi permetterà meglio di esplorare non ne sono attratto. Ci ripenso con un po’ di invidia per la sua capacità di auto compimento, semplicità nel mantenersi sano di mente e corpo. Eravamo da me, seduti nel mio divano con due bicchieri di birra in mano. Birra in lattina, pessima qualità, sfizio congruo allo status di uomo solo nella sua casa di periferia. L’odore era metallico e il sapore aveva un retrogusto – non troppo retro – di sapone. Una bevuta davvero comfort. E quindi eravamo nel divano con la dinamite nel bicchiere e lui divagava sconsolato per la situazione che avevo passivamente accettato. La sua tesi era semplice ma brillante: il mio psicoterapeuta per sessanta euro mi suggeriva di tenermi alla larga per un po’ dalle donne, ma con dieci euro in più, secondo lui, potevo tenermi alla larga dal mio psicoterapeuta. Avvertii nella mia mente un terremoto di magnitudo 6.8, ma tenni botta.

Il mio psicoterapeuta, ogni volta che vado a presentargli il resoconto delle mie macerie, mi disegna una torta nella quale proviamo a mettere in ordine gli elementi necessari e superflui nella vita di tutti i giorni. Analizziamo le emozioni e cerchiamo di contestualizzarle e assegnare loro uno scopo, nel tentativo di non buttare via nulla. Divaghiamo parecchio in questa stratificata pangea per razionalizzare quello che è successo ed evitare che si ripeta. Parliamo moltissimo ma credo che abbia pochissima fiducia in me. Non lo ammetterebbe mai e devo confidare che non mi peserebbe nemmeno se questa poca fiducia in me non mi costasse sessanta a botta. Forse con settanta si fiderebbe un po’ di più, non posso saperlo. Quello che so è che la mia frequentazione con la donna ungherese l’ha un po’ sconsolato. Vorrebbe mettere il discorso sul tavolo ma quando ci prova non riesce a ribattere la mia tesi per cui mi sento più solo quando sto con lei di quando sono sul water. Allora l’ultima volta, forse spronato dal pensiero della sua parcella, ha provato a rilanciare. E questo l’ho trovato davvero sorprendente perché si è comportato come un giocatore di poker che procede con un all-in a cuor leggero dinanzi una disfatta. Di qua la sua proposta, per cui a queste condizioni avrei potuto provare a comunicare con la donna che a questo punto frequentavo. È stato un colpo basso e da lui non me lo sarei aspettato. Se in ogni piano di crescita esiste un momento in cui abbandonare il rigore, nel mio caso mi sembrava senza dubbio ancora presto. Nella mia mente ha generato un magnitudo di 7.2 cui ho tenuto botta. Forse lo stoicismo del mio amico era più funzionale oltre che economico. Quando gli ho fatto notare che stavamo smontando un edificio che non aveva ancora le basi, ha tirato i remi in barca ed è tornato nella comfort zone del suo solito diktat, quello di passare più tempo con amici e parenti. Gli stessi che tendo a evitare per mantenere intonsa la mia solitudine, perché quando c’è di mezzo la salute probabilmente bisogna alzare l’asticella.

La stessa che la mia non compagnia ungherese da qualche tempo ha deciso di voler alzare. Non so il motivo, ma ho provato a formulare delle tesi, quali: noia a lavoro, nuova voglia di sperimentazione, psicosi da sesso, insoddisfazione latente. Tutte cose che possono rendere interessante una persona – pericolosissima speculazione. Quando è arrivata da me era un po’ sfatta dal lavoro, che non so quale sia, com’è ovvio. Era la prima volta che si lamentava con me della stanchezza, cosa che non aveva mai fatto. Invece quella sera ha tenuto a precisare da subito che aveva il morale a terra e che per questo non era proprio il caso di farla incazzare. Tutta questa premessa le serviva ad informarmi delle sue nuove idee; questo sproloquio disarticolato e scomposto è andato avanti per una quindicina di minuti in cui mi sono richiuso nel mio giaciglio di solitudine, deturpato appena dalla rivelazione delle sue reali intenzioni nei confronti del mio condotto anale. Le ho precisato che non se ne parlava nemmeno, trovando in risposta uno sguardo corrucciato. Dopo avermi riferito che tali pratiche le aveva testate su altri comunisti, le ho fatto notare che da un po’ di tempo il mio approccio con la politica era abbastanza disilluso, oltre che svilito dall’incapacità di trovare un partito in cui identificarmi. Non contenta ha insistito, al che ho ribattuto sul memorandum del mio psicoterapeuta, quella poesia violentata dalla prosa che mi esortava a non fare niente che non mi andasse fare. Al richiamo dello psicoterapeuta ha sbottato: pure frocio – ha detto.

Il mio sedere, manco a dirlo, non l’ha toccato. Dopo averlo fatto mi ha raccontato del suo odio verso i comunisti, scaturito da un matrimonio andato male con un dottorando dell’università di Debrecen, un ragazzo che stava lavorando ad un trattato su Trotskii. In quel momento, mentre mi parlava di quel ritaglio della sua vita, ho temuto parecchio per la contaminazione della mia solitudine. Fortuna ha voluto che dopo mezz’ora trascorsa con le gambe incrociate e la schiena appoggiata allo schienale del letto, per un piccolo impeto sguinzagliato di egocentrismo, l’abbia bloccata per informarla che stavo tenendo degli appunti sui miei giorni di solitudine nei quali figurava anche lei. Poi gliel’ho chiesto, le ho chiesto se lei acconsentisse ad apparirci, esattamente come tutti gli altri qui riportati, piegati al servizio dei miei biechi scopi. Fa come cazzo vuoi, ha risposto, per poi riprendere quel discorso alla ricerca di un contatto oltre quello fisico. E io mi sono sentito come il povero Lev, nel suo esilio in un paese lontano, tradito dopo aver fatto entrare la persona sbagliata in casa, nonostante i moniti del mio psicanalista, che presumo Lev non avesse. La fortuna – se di fortuna si può parlare – era che lei non teneva nessuna picozza nella mano, ed era più interessata al mio condotto anale che a spaccarmi il cranio, così rimasi sul letto ad ascoltarla ancora e ancora, scortato a passo lento e cauto all’interno del suo mondo.

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davide orecchio
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Vivo e lavoro a Roma. Libri: Lettere a una fanciulla che non risponde (romanzo, Bompiani, 2024), Qualcosa sulla terra (racconto, Industria&Letteratura, 2022), Storia aperta (romanzo, Bompiani, 2021), L'isola di Kalief (con Mara Cerri, Orecchio Acerbo 2021), Il regno dei fossili (romanzo, il Saggiatore 2019), Mio padre la rivoluzione (racconti, minimum fax 2017. Premio Campiello-Selezione giuria dei Letterati 2018), Stati di grazia (romanzo, il Saggiatore 2014), Città distrutte. Sei biografie infedeli (racconti, Gaffi 2012. Nuova edizione: il Saggiatore 2018. Premio SuperMondello e Mondello Opera Italiana 2012).   Testi inviati per la pubblicazione su Nazione Indiana: scrivetemi a d.orecchio.nazioneindiana@gmail.com. Non sono un editor e svolgo qui un'attività, per così dire, di "volontariato culturale". Provo a leggere tutto il materiale che mi arriva, ma deve essere inedito, salvo eccezioni motivate. I testi che mi piacciono li pubblico, avvisando in anticipo l'autore. Riguardo ai testi che non pubblico: non sono in grado di rispondere per mail, mi dispiace. Mi raccomando, non offendetevi. Il mio giudizio, positivo o negativo che sia, è strettamente personale e non professionale.
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