Kim Simonsen: l’oceano, i pesci, l’uomo
di Giovanni Agnoloni
I due testi che seguono sono tratti dalla postfazione del traduttore Giovanni Agnoloni al volume di poesie del faroese Kim Simonsen “La composizione biologica di una goccia di acqua di mare porta con sé l’eco del sangue nelle mie vene”, pubblicato di recente da I libri di Mompracem
La prima volta che incontrai Kim Simonsen fu nell’agosto 2015, durante una residenza letteraria presso Hald Hovedgaard, nelle campagne intorno a Viborg, in Danimarca. Io e gli altri scrittori ospiti sapevamo del prossimo arrivo di un poeta delle Isole Fær Øer, anche se non avevamo idea del momento esatto. L’attesa si protrasse un paio di giorni più quanto avevamo immaginato, tanto che ci preoccupammo un po’. Passato il fine-settimana, però, eccolo entrare nella cucina comune della residenza con aria tranquilla, salutandoci affabilmente e spiegandoci che aveva avuto impegni imprevisti a Copenaghen. Cenammo insieme e iniziammo a parlare del nostro lavoro letterario. Il suo mi attirò fin dall’inizio, tanto che gli proposi di tradurre in italiano qualche sua poesia per il blog “La Poesia e lo Spirito”, cosa che poi in effetti avvenne, seguita, nel 2019, da un tentativo – purtroppo naufragato a causa della pandemia – di invitarlo una prima volta a Firenze per un reading.
Ma non fu questo a contare. Fu proprio quel suo modo silenzioso e quasi dimesso di arrivare e di iniziare a conversare, come se fosse spuntato dalle foreste o dal lago intorno alla residenza. In altre parole, come se fosse stato un tutt’uno con la natura di quei luoghi. È infatti precisamente questo il nucleo della sua poetica contemplativa, e direi perfino meditativa: il tutto, l’holos che abbraccia gli esseri umani, le creature viventi e il mondo nel suo insieme e in ogni sua parte, e il “racconto” per impressioni – o per epifanie – che le sue liriche incarnano.
Si tratta peraltro di tematiche che, come evidenziato dai versi inclusi in questa raccolta, sono al centro degli interessi dell’autore nelle vesti di accademico, e che appassionano profondamente anche me come scrittore e traduttore. Per questo, quando Kim, circa un anno fa, mi ha parlato di questo suo nuovo libro, già uscito in faroese e al tempo in corso di traduzione inglese, l’idea di progettare una versione italiana – partendo dal testo americano di prossima pubblicazione, a cura di Randi Ward, ma appoggiandomi ove necessario alle assonanze tra il faroese e lo svedese – mi è sorta spontanea.
Fin dal titolo emerge il sottile ma evidente nesso tra la biologia umana e la biologia e la chimica organica e inorganica dell’oceano e di tutti i corsi e gli specchi d’acqua. Conseguenza naturale dell’origine faroese del poeta, qualcuno potrà pensare. E in parte può essere vero. Il remoto arcipelago delle Fær Øer è situato ai margini tra l’Atlantico settentrionale e il Mar di Norvegia, e a metà strada tra le Isole Shetland (le più a nord della Scozia) e l’Islanda. La sua lingua infatti somiglia più all’islandese che a quelle scandinave – e in specie al danese, dato che le Fær Øer appartengono ancora alla corona di Danimarca, pur essendo autonome per le questioni interne fin dal 1948. Insomma, la natura di queste isole è profondamente imbevuta dell’umidità oceanica, capace di insinuarsi in tutte le sue nicchie, in ogni anfratto del paesaggio, entrando fin nel midollo del legno, della pietra e della pelle dei suoi abitanti. Luoghi di mare e di monte, di pesce e di carne allevata e cacciata, aspri e al contempo armoniosi, con fugaci squarci di luce netta che si espandono durante le brevi estati e frequenti nebbie capaci di rendere tutto indistinto, facendo sfumare il confine tra realtà e sogno, forme viventi e spettri.
Consideriamo tutte queste come premesse o suggestioni preliminari all’immergerci in una sorta di concept-book, che è appunto un concetto più evoluto della semplice idea di una silloge poetica. È quasi una sinfonia in quattro movimenti che ruota attorno alla profonda (e plurisfaccettata) interazione tra l’universo liquido che tutto permea e un’umanità – che mi viene da definire “superstite” – che giunge alle sue sponde, ancora una volta, in silenzio e quasi dimessa. È questo che accade al poeta, di ritorno a casa nei giorni della morte di suo padre. La presenza dell’autore-contemplatore in questi luoghi fa sempre corpo unico con quell’assenza vigile, legandovisi come una particella e un’antiparticella capaci di non annichilirsi a vicenda. E questo muto dialogo, riemergendo in più momenti come il tema musicale di una passacaglia – del resto, annunciato fin dall’inizio: «Stamani è morto mio padre» –, getta luce e significato sul fiume interiore di ricordi e sul treno di riflessioni filosofiche che seguiranno circa il rapporto tra la condizione umana e il Tutto, strettamente legate alla sostanza di quei paesaggi.
In sintesi, questo libro nasce e si sviluppa nel punto d’intersezione tra l’esperienza di vita di Kim Simonsen, la natura delle Isole Fær Øer e gli interessi accademici e filosofici dell’autore, già docente all’Università di Bergen e, in seguito, ricercatore presso l’Università di Amsterdam e oggi presso l’Accademia di Reykjavik, e legato ai temi non solo dello studio dei nazionalismi, ma anche del pensiero eco-critico, del postumanesimo (una sorta di versione aggiornata dell’umanesimo in chiave di integrazione dell’essere-uomo con la dimensione del “non umano” e in particolare con i ritrovati dell’evoluzione informatica e biotecnologica) e del nuovo materialismo (un insieme di teorie volte a reinterpretare il materialismo in ottica non antropocentrica), con significative manifestazioni d’interesse per autrici e studiose come Donna Haraway (favorevole al superamento dei dualismi non solo di genere, ma anche tra natura e dimensione artificiale), Astrida Neimanis (propugnatrice del cosiddetto “idrofemminismo”, un’altra modalità non duale di guardare alla vita, partendo da una prospettiva imperniata sull’acqua, che permea i nostri corpi così come forma gli oceani) e Jane Bennett (sostenitrice di una visione detta “materialismo vitale”, per cui tutto è imbevuto di un’intrinseca forza vibrante, che abbraccia e corre attraverso tanto gli esseri umani quanto le cose). Infine, a queste considerazioni di natura teorico-filosofica (in particolare a quelle neomaterialistiche) si aggiunge la coscienza linguistica (sia pur non in senso “nazionalistico”) dell’autore, che qui scrive in faroese, un idioma con un’antica tradizione letteraria orale, ma formalizzato in un sistema di regole intorno alla metà dell’Ottocento e “nato” con le prime opere pubblicate all’inizio del Novecento.
…
Il senso del pensare poetico (e del poetare filosofico) di Kim Simonsen consiste proprio nel compiere il salto verso un’origine profonda e in sé indicibile, che si manifesta nel dare “voce e pensiero” all’universo oceanico e agli stessi pesci – in qualche modo, con qualche (del tutto casuale) affinità con l’oggetto della mia traduzione della scrittrice svedese Sanja Särman in Lettere delle piante agli esseri umani[1], dove peraltro la “voce” è quella del reame vegetale.
Ecco allora il significato del titolo della terza sezione: “La filosofia dei pesci”. Che inizia con un altro concetto per me nuovo ma molto interessante e legato proprio alla dialettica che si stabilisce tra il mare e la dimensione umana, ovvero la “Tidalettica” (da tide, che in inglese significa “marea”, simbolo autoevidente dell’andare e venire del moto ondoso dell’esistenza). Tidalectics. Imagining an oceanic worldview through art and science è precisamente il titolo di una pubblicazione (a cura di Stefanie Hessler) realizzata nel 2017 dalla MIT Press – la casa editrice del Massachussets Institute of Technology[2] – che si propone, attraverso contributi di molteplici coautori, di dare voce agli ecosistemi oggi più minacciati, che sono appunto gli oceani. E infatti Simonsen, con parole che sanno di monito, scrive
«L’oceano è sempre fuori,
finché non inonda le nostre case.
Tidalettica – Immaginare una visione del mondo oceanica
Attraverso l’Arte e la Scienza.»
Perché, sebbene sia oggettivamente impossibile attribuire una filosofia ai pesci (tanto che una delle poesie più brevi in questa sezione recita «Rimane la domanda: / Qual è la filosofia dei pesci?», senza dare alcuna risposta), è altrettanto innegabile che tutta la vita, inclusi noi stessi, viene dall’oceano, o comunque da una dimensione liquida, quella dell’utero materno:
«(…) è questo che è rimasto con noi,
ma è anche ciò che non abbiamo mai compreso fino in fondo:
la coscienza che proveniamo dall’oceano.
Che ogni cellula è piena d’acqua,
come l’oceano stesso,
che siamo solo un appannato battito di ciglia
nell’offuscarsi del flusso evolutivo —
è così che ci viene celata l’acqua che è in noi,
perfino il più minuscolo oceano:
l’utero dal quale proveniamo.»
Eppure, tutta la tensione del poeta, in particolare in questa parte del libro, è rivolta verso tale limite di indicibilità che, pur non potendo essere adeguatamente reso a parole, può essere ascoltato. Ecco allora i suoi spunti di scrittura:
«Ascolta ciò che non può essere udito, e poi scrivine.
Ascolta gli alberi più antichi, rendi omaggio a quelli morti da poco.
Ascolta il tempo in cui gli oceani erano ancora giovani.
Parla con la notte invernale.»
Così facendo, il contemplatore dell’Holos della vita, sub specie del microcosmo faroese immerso nel macrocosmo oceanico, entra in contatto con un fenomeno che mi viene da definire di risonanza narrativa, ovvero il modo in cui gli oggetti, i dettagli del paesaggio, ciò che materialmente forma quel piccolo angolo di mondo, racconta storie, in un sovrapporsi ininterrotto (e turbinoso, come abbiamo visto) di strati. Lo si trova già nella prima parte («Dalle storie che raccontiamo, / possiamo dedurre quali / in definitiva raccontano altre storie?»), ma lo ritroviamo anche qui, quando, citando Donna Haraway, il poeta scrive: «è importante capire quali pensieri pensano altri pensieri»[3]. Insomma, ogni storia, ogni riflesso informativo proveniente da parole umane o da risonanze lanciate dalla natura che ci circonda, genera una sorta di reazione a catena che interagisce con noi. Per questo, prosegue Simonsen,
«(…) è fondamentale che io cammini
su questa spiaggia, in questi sciaguattanti stivali di gomma verde
e mi fermi a sedere sulle rocce e lasci andare lo sguardo
verso le vecchie, familiari zone di pesca,
e i faraglioni
appena visibili sopra le onde.»
Così diventa possibile penetrare in profondità nello spartito della natura e attingere direttamente dalla fonte di tutte le storie, che porta impressa in sé l’eco vibrazionale di cose ancestrali: quel tessuto vibrante della materia di cui parla Jane Bennett, citata da Simonsen nella lirica successiva:
«Jane Bennett afferma che le poesie possono aiutarci
a familiarizzarci con la vita che risiede nelle cose,
e rivelare più aspetti della vitalità nascosta in loro:
possono mostrarci ancor più fili
d’interconnessione che ci legano alla materia.
L’erba avvizzita si è clonata,
appena fuori della mia finestra
pecore nere delle Shetland cantano l’una per l’altra;
i loro antenati ormai estinti, i dinosauri, erano i soli altri
pienamente capaci di comprendere il loro canto.»
Approdiamo così, al termine di questa “ricognizione del Tutto”, alla dimensione pienamente umana, con la quarta sezione intitolata appunto “Umani”. E il senso di quel pienamente sta proprio nell’essere la nostra umanità ormai consapevole dell’Holos oceanico-materico-vibrazionale del quale è imbevuta e compartecipe. La coscienza della nostra parentela con questa dimensione globale permette a tratti di accedere a una sorta di stato “nirvanico”, quando il dolore del passare delle cose e delle persone cede il passo alla quieta coscienza dell’esistere nel qui e ora:
«Siamo umani,
mentre l’erba avvizzita
freme nel vento
e semplicemente ci deliziamo
di esistere.»
E ancora:
«Siamo umani,
ci svegliamo ogni mattina
con memorie senescenti
e beviamo il nostro caffè
con sogni provenienti dal passato.»
Ma anche in questi attimi di lancinante consapevolezza residua una componente pesante, remota, risalente a stadi pregressi dell’evoluzione della specie umana, e perciò quasi animalesca:
«Siamo umani
anche quando il Neanderthal che è in noi
afferra una mosca
e, per una frazione di secondo,
valuta se mangiarla.»
E poi, alla base, ecco la coscienza nuda, nella poesia più ermetica e onnicomprensiva del libro:
«Siamo umani.»
A partire da questo punto, le poesie dell’ultima sezione tornano ad aprirsi a ventaglio su tutto il composito ventaglio di possibilità d’interazione orizzontale e verticale tra esseri umani, oceano, piante, animali e forme di vita elementare, in una sorta di deflagrazione ubiqua che evidenzia sinteticamente e icasticamente tutti i concetti finora osservati più nello specifico. E ogni volta che il poeta parla di ciascuna di tali manifestazioni dell’energia vitale della materia, di fatto parla di noi – ed è vero anche il reciproco.
«I funghi
fanno quello che vogliono degli alberi
feriti e morenti,
devastandoli.»
O ancora:
«Ogni singolo pesce in un banco è
un essere luminoso—
dietro di loro,
trascinandosi dietro tutti loro,
sono filamenti
di discendenza.»
Ma soprattutto, tornando al titolo del libro:
«La composizione biologica di una goccia
di acqua di mare porta con sé l’eco del sangue nelle mie vene»
È la chiusa perfetta di questo ragionamento (ma non dell’intera raccolta), perché sottolinea il nesso profondo, ineliminabile, tra noi e l’acqua che imbeve tutto di sé. E qui colgo anche l’occasione per aprire una parentesi sul mio lavoro di traduzione, che ha mirato sì alla resa filologicamente corretta del testo, ma ancor più al suo senso profondo e alla sua musicalità. Come dicevo all’inizio, la mia traduzione non è stata diretta dal faroese, ma mediata dall’ottima versione inglese della poetessa e traduttrice statunitense Randi Ward. L’originale inglese recitava: «The biological composition of a drop of / seawater is reminiscent of the blood in my veins», che in effetti riproduce perfettamente il faroese «Lívfrøðiliga samansetingin í einum dropa / av havvatni minnir um blóðið í mínum æðrum». L’ho decifrato non perché conosca il faroese (pur avendo svolto varie ricerche su dizionari online), ma perché “minnir um” somiglia molto allo svedese påminner om, cioè appunto “is reminiscent of”. In italiano, alla lettera, sarebbe “ricorda”, a sottolineare le affinità chimiche tra la goccia di sangue e quella d’acqua. Ma il verbo italiano ricordare è ambiguo, perché ha la particolarità di essere identico sia nel significato di “avere memoria di qualcosa”, sia in quello, che qui ci interessa, di “rammentare”, “richiamare alla mente”. Ora, questi ultimi due sinonimi, che in teoria avrei potuto scegliere, si prestano però meglio a sottolineare una somiglianza superficiale, magari notata occasionalmente o per coincidenza, e non un’affinità profonda, una sorta di scia di “parentela” simile a quei filamenti di discendenza che, nelle parole del poeta, i pesci si lasciano dietro. Da qui l’idea dell’eco, che, oltre ad essere più musicale nella nostra lingua, ben s’intona con il concetto delle molteplici e sovrapposte risonanze che percorre tutta la silloge. Anzi, l’idea della goccia d’acqua che “porta con sé l’eco del sangue nelle mie vene” ribalta, dandole un senso schiettamente naturale e “oceanico” – scevro da qualunque sfumatura di carattere politico – l’idea della profondità delle origini. L’eco del sangue è, in altre parole, solo l’oceano, solo la natura.
Avevo però anticipato che non eravamo ancora alla chiusa del volume. E questa non poteva non tornare a focalizzarsi sul padre – colui che, vivendo, ha fornito al figlio i contenuti emotivi riemersi al momento della sua morte, creando l’occasione per questo suo ritorno gravido di pensieri, sensazioni e intuizioni. E il punto più alto, a mio avviso, Simonsen lo tocca qui, dove contemplazione, meditazione e profondità filosofica raggiungono una sintesi (quasi il sinolo di aristotelica memoria, syn-holos, “tutto insieme” di materia, intesa come mero potenziale, e forma, ovvero la traduzione in atto di tale potenziale). Il risultato è di assoluta bellezza, e arriva a sfiorare la dimensione spirituale.
«Ora che te ne sei andato,
la magia si è impadronita dei miei pensieri
facendomi vedere
che le superfici hanno profondità,
che il corpo è una sorta di anima,
e che è attraverso quest’anima
che il mondo entra in noi,
che noi entriamo nel mondo—
che posso camminare in questo paesaggio
mentre vedo gocce di rugiada sullo stelo
di una pianta sempreverde
che trema nel vento
questa prima mattina
sulla terra
senza un padre.»
L’unica cosa che resta, dopo questa potente deflagrazione di amore e ricordo, idea e percezione oltremondana – sia pur di una spiritualità assolutamente radicata nella materia e nel segreto più intimo della stessa struttura dello spaziotempo – è la coscienza che anche questo, come ogni altra cosa, tornerà al Tutto che scorre, fluisce e rifluisce, nell’eterno moto ondoso dell’esistenza.
«Ben presto mio padre s’infrangerà come un’onda contro gli scogli e sparirà.»
[1] Sanja Särman, Lettere delle piante agli esseri umani (Ortica Editrice, 2023).
[2] Si veda https://tba21.org/tidalectics-catalog
[3] La citazione completa (che comprende anche la frase citata nella poesia di Kim Simonsen), tratta dal saggio di Donna Haraway Chthulucene: sopravvivere su un pianeta infetto (NERO, 2019), è (nella traduzione di Claudia Durastanti e Clara Ciccioni, alle pagg. 57 e 58 dell’edizione citata): «È importante capire quali pensieri pensano altri pensieri. È importante capire quali conoscenze conoscono altre conoscenze. È importante capire quali relazioni mettono in relazione altre relazioni. È importante capire quali storie raccontano altre storie».
Affascinante. Acquisto subito il volume, e complimenti a Giovanni Agnoloni.
Ringrazio molto per l’attenzione.
Giovanni A.