Cavazzoni: esploratore pacato dell’abnorme
Di Andrea Inglese
Ermanno Cavazzoni fa parte di quegli scrittori umoristici che hanno il privilegio non solo di farvi sorridere e divertire, ma di provocare proprio lo scoppio di risa. Non sono in tanti gli autori che, attraverso le uniformi e inerti lettere stampate, provocano il sussulto cinetico e sonoro della risata. È così, d’altra parte, che l’ho scoperto, divorando anni fa, tra franche risate, il suo Vite brevi di idioti (Feltrinelli, 1994). Per carità, Cavazzoni non si può certo ridurre al solo lato comico, all’assurdità pratica e logica di certe situazioni, in cui infila i suoi malcapitati personaggi. Uno dei fili rossi che attraversa la sua opera è l’esplorazione pacata dell’abnorme, in tutte le sue forme, sociali, culturali, metafisiche. Che si tratti della lista degli idioti che “santificano” i trentuno giorni di un mese, o la casistica che permette a degli aspiranti scrittori di diventare pienamente inutili, o ancora del trattato sulla storia e i costumi dei giganti, Cavazzoni c’introduce, accompagnato da qualche meticolosa attrezzatura da entomologo, allo studio di metamorfosi kafkiane: nulla di meno capriccioso e straordinario lo interessa.
Anche il Manualetto per la prossima vita, apparso nel 2024 per Quodlibet appartiene a questo casistica. Il titolo, per altro, già annuncia il doppio passo tipico dell’autore: sistematicità del buon padre di famiglia e ricognizione dell’oltretomba. I metafisici abissi di ciò che potrebbe attenderci dopo la morte sono ricondotti alla spicciola praticità del manualetto domestico: il gigantesco scarafaggio è trattato con un comune retino per farfalle. L’umorismo di Cavazzoni gioca, infatti, sia sulla sproporzione tra mezzi espressivi e oggetto del discorso, sia sul contrasto tra il fantasmagorico più gassoso e un approccio sistematizzante, da mesto produttore di tassonomie che intrappolino la furiosa eterogeneità dell’esistente. Come già in altri suoi libri, una stringata premessa ci fornisce argomento principale (consigli per le prossime reincarnazioni) e svolgimenti secondari (le sei questioni fondamentali che guideranno i criteri di comportamento nella nuova vita). Tutto sembra ben ordinato, architettato secondo criteri di coerenza logica o di consecutività pratica, ma immediatamente siamo presi nel movimento zigzagante e serpentino della sua prosa: la voce ragionante salta di palo in frasca, mescola le carte, confonde i sentieri, e soprattutto strattona e rovescia il nostro mondo storico, come fosse un calzino.
In un saggio del 2016 sulla letteratura umoristica (L’umorismo letterario. Una lunga storia europea (secoli XIV-XX), Carocci), Giancarlo Alfano aveva dedicato un capitolo specifico all’uso delle prospettive insolite, che permette “uno straniamento ottenuto attraverso il gioco dei punti di vista”. Cavazzoni è un maestro, nel far vedere il mondo, ad esempio, dall’occhio di una vite a ghiera, che tiene stagno il tubo di scarico del lavandino, o da quello dei lepidotteri, le cui vicende metamorfiche forniscono il modello di una plausibile vita oltre la morte. Vi è poi uno sguardo che in questo Manualetto sembra trionfare, perché garante dell’unica via di salvezza ormai percorribile: quella del vagabondo nullatenente e senza fissa dimora, vero eroe di una decrescita affrontata a passo di marcia. Se Cavazzoni fosse un assessore all’urbanismo, sostituirebbe in blocco le panchine dal bracciolo anti-barbone con statue pedestri di anonimi e raminghi personaggi, che celebrano l’adozione di una filosofia cinica aggiornata coi tempi. In tutte queste operazioni di spiazzamento della prospettiva domina un’insolenza satirica, che travolge eroi e miti della nostra società: le star televisive, gli esperti, le tecnologie elettroniche, le liberazioni sessuali, le utopie politiche, ecc. Alla critica sociale, però, l’autore associa un ancora più destabilizzante riso metafisico, e qui siamo nei dintorni delle Operette morali, di cui l’amico Gianni Celati elogiava “La linea astratta della prosa leopardiana [che] ci toglie sotto i piedi la pretesa dei fondamenti, dei valori che hanno fondamenti” (“Discorso sull’aldilà delle prosa””, in Studi d’affezione per amici e altri, Quodlibet, 2016). Se il lettore si diverte alla fustigazione insolente dei vizi collettivi, il suo divertimento si tinge di spavento, quando Cavazzoni passa dalla manomissione sociale a quella cosmologica e deplora la velocità delle luce perché troppo lenta per la vastità del cosmo oppure assimila il nostro universo a una bolla di schiuma, in attesa del grande risciacquo (apocalittico) di una lavatrice. In queste pagine, infatti, abbiamo la sensazione che, a finire a gambe all’aria, non sarà solo il bersaglio ridicolo, ma anche noi lettori mentre ridiamo a suo discapito.
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[Articolo uscito in origine per “L’Indice” (gennaio 2025)]
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che bella recensione! la definisco apposta “recensione”: perché lo è, e per ricordare che questa non è una parolaccia, non è un insulto alla scrittura, non comporta nessuna lacuna creativa (cosa di cui pare sia ormai convinta anche l’Associated Press). C’è dentro un libro, una pista di lettura, dei ragionamenti più ampi sulla letteratura, una soggettività (quella del critico) che pensa. W le recensioni, leggerò Cavazzoni e mi reincarnerò.
Cara ornella, in effetti, le recensioni sono un genere specifico, e molto esigente. Io, grazie al nostro ex-indiano Domenico Pinto, ho scoperto, ad esempio, quelle di Cordelli: e le ho amate molto. Libere, non accademiche, sempre un po’ idiosincratiche… E’ comunque un genere molto praticato, ma non sempre ben praticato, siamo d’accordo.