Articolo precedente
Articolo successivo

Mettere alla prova l’esistenza: mistica, estetica e relatività radicale

di Daniele Barbieri

“Chiudo gli occhi e vedo uno stormo di uccelli. La visione dura un secondo o forse meno; non so quanti uccelli ho visto. Era definito o indefinito il loro numero? Il problema implica quello dell’esistenza di Dio. Se Dio esiste, quel numero è definito, perché Dio sa quanti uccelli ho visto. Se Dio non esiste, quel numero è indefinito, perché nessuno ha potuto contarli.”

È Jorge Luis Borges, ne El Aleph (1949), trovato in exergue a un articolo de Le Scienze (maggio 2025, “Il senso degli umani per il numero” di Giorgio Vallortigara). La (comunque sempre) brillante riflessione di Borges sollecita il filosofo che c’è in me a osservare che l’argomento vale solo se si accetta un’ontologia cartesiana: una res extensa esterna, che io mi sforzo di conoscere, e una res cogitans interna, che solo io posso conoscere. A parte Dio, il quale, se c’è, conosce tutto – e conosce quindi anche il numero degli uccelli della mia visione, numero che altrimenti resterebbe inesorabilmente indefinito.

Borges (brillantemente) ci inganna, dando per presupposta quella che è semplicemente una tra le ontologie possibili, sia pur quella storicamente più assestata. Sono, quest’anno, esattamente 1700 anni da quando il Concilio di Nicea ha stabilito definitivamente la verità del credo cristiano cattolico (in opposizione a quello ariano), una verità che Cartesio, 1300 anni dopo, si limita (indirettamente, perché i suoi interessi sono altri) a cristallizzare in termini più chiari e filosoficamente definiti.

Definire Cristo come consustanziale al Padre implica evidentemente che Dio sia una sostanza, ovvero una cosa, sebbene una cosa affatto particolare, e questa cosa esiste sebbene su un piano trascendente, diverso da quello immanente. Il Concilio di Nicea, insomma, fonda il Cristianesimo su una base metafisica, ontologica, platonica ma soprattutto aristotelica, perché quella è la prospettiva di riferimento: l’esito della filosofia greca (compatibile con la componente ebraica) che dà senso compiuto al tutto. Dio è sostanza, dunque essere. Anzi, nello specifico, è l’essere per antonomasia.

Come sarebbe andata se il greco e il latino non avessero avuto, nella loro struttura grammaticale, la possibilità di nominalizzare il verbo essere? Come ci fa notare François Jullien, il cinese classico non ha questa possibilità (in verità non ha nemmeno il verbo essere – e la predicazione funziona in altri modi); e da questo semplice fatto linguistico deriva uno sviluppo culturale radicalmente differente da quello occidentale.

Dal 325 fino a ieri, e in parte ancora oggi, la teologia è stata l’impresa di spiegare razionalmente Dio, ovvero l’essere, la sostanza per antonomasia – anche senza arrivare a quell’argomento ontologico che dovrebbe dimostrare (almeno per Sant’Anselmo) incontrovertibilmente l’esistenza di Dio, il quale essendo per definizione l’essere dotato di tutte le perfezioni, non può mancare della perfezione più fondamentale di tutte, ovvero l’esistenza.

Da quando il confronto tra le culture e tra le lingue ci ha reso più consapevoli della relatività culturale dei presupposti filosofici di Nicea, alcuni teologi maggiormente sensibili hanno cercato vie differenti per affrontare il problema di una fondazione della religione cristiana. Trovo particolarmente interessante la posizione, per esempio, di Raimon Panikkar, un pensatore sottile, formatosi attraverso un confronto profondo tra il pensiero cristiano e quello delle religioni dell’India.

Panikkar (Mito, fede ed ermeneutica. Il triplice velo della realtà, 1979, Jaka Book pp. 350-351) distingue tre posizioni possibili sul deontologizzare Dio:

La prima è la posizione dell’ateo razionale: Dio non c’è, non esiste. Non esiste perché nel mondo non c’è traccia di lui, e la scienza va spiegando progressivamente le leggi della natura senza ricorrere a nessun Primo Motore Immobile. Del resto a suo tempo Kant ha avuto buon gioco a inserire la questione dell’esistenza di Dio nella sua Dialettica trascendentale, dimostrando in parallelo (pagine di sinistra e pagine di destra) sia la sua esistenza che la sua non esistenza – così mostrando che la questione è empiricamente e razionalmente indecidibile. Di questa indecidibilità, l’ateismo è una potenziale soluzione; ma è, evidentemente, a sua volta una soluzione di fede: non c’è argomento che dimostri l’attendibilità delle nostre percezioni. Noi crediamo ai nostri sensi, e poiché i nostri sensi non ci mostrano Dio, Dio non c’è.

Si osservi che questa soluzione contraddice l’argomentazione di Borges. In una posizione coerentemente scientista, la mente non è che la manifestazione percepita dell’attività cerebrale, e quindi non una res cogitans separata da quella extensa. La mia visione dello stormo di uccelli deve dunque corrispondere a un mio preciso stato neurofisiologico di quel momento. Se avessimo gli strumenti e le conoscenze adeguate per fare corrispondere lo stato misurabile dei miei neuroni al numero degli uccelli da me visti, quel numero sarebbe definito, anche se io non ho potuto contarli. Se si crede all’oggettività del reale, non c’è bisogno di Dio: la scienza basta, almeno virtualmente. Ma sempre su una fede ontologica ci si fonda, anche se si è abbandonato il dualismo di immanente e trascendente.

La seconda posizione è quella apofatica: Dio non è. L’apofatismo può essere epistemico, sostenendo che Dio non è conoscibile (o che è conoscibile solo in negativo, per negazione, per ciò che non è) ma può anche essere paradossalmente ontologico (Dio è il non essere). Il buddismo, pur profondamente religioso, oscilla tra le due posizioni. Panikkar ha dedicato un intero libro (Il silenzio del Buddha. Un ateismo religioso, 2006, Mondadori) a discutere un aneddoto della predicazione del Maestro. Un giorno un discepolo chiede al Buddha: “Maestro, esiste Dio?”. Buddha, senza rispondere, si volta e se ne va. Il giorno dopo chiama il discepolo e gli dice: “Sai perché non ti ho risposto ieri? Se ti avessi risposto, con qualsiasi risposta, avrei dato valore alla domanda: ma è la domanda che è sbagliata!”

Otto secoli prima di Nicea (ma con presupposti culturali un po’ diversi), il Buddha aveva già vanificato le posizioni del Padri fondatori della Chiesa: dell’esistenza non si può parlare. E in questo senso Dio appare come la non-sostanza. In questa prospettiva, ci dice Panikkar, “La fede in Dio richiede una confidenza così totale che non ci importa del suo essere o della sua esistenza” (Mito, fede ed ermeneutica, p. 350). Con buona pace dell’argomentazione di Borges, che in questa prospettiva perde qualsiasi significato.

La terza posizione è quella della relatività del reale: Dio è nella relazione tra le cose. È relazione, non sostanza: quindi non si può dire né che ci sia né che non ci sia. Scrive Panikkar (ibid. p.351) “Poiché la realtà è la relatività radicale di tutte le cose, essa ci mostra il divino non come un aspetto delle cose, né come pura totalità o alterità, ma come la pura e realmente infinita correlazione reciproca di tutte le cose. La realtà non è niente altro. Il tutto non è che un fascio inesauribile di relazioni. In altre parole: l’esperienza genuina della contingenza porta l’uomo a scoprire non tanto che egli si appoggia ad un ‘altro’ essere per poter sussistere, quanto che il suo stesso essere non è altro che uno stare dentro, un venire da, un far parte, una tensione, un polo, un elemento del tutto, e che questo tutto è la somma degli infiniti fattori esistenti intesa come relazione di tutte le cose. Dio non è né essere né non-essere; né esiste né non esiste; non è tutt’uno col mondo o con l’uomo, ma non è neppure differente e altro; egli è la relazione stessa, la relatività radicale, la dimensione non-dualistica, il fondo o la sommità o qualunque nome vogliamo dargli.”

Questa posizione, che è quella che Panikkar sostanzialmente sposa, è molto vicina a quella che troviamo sostenuta nel più recente libro di Roberto Tagliaferri, Razionale e irrazionale: svolta per un sacro ecologico. 1700 anni dopo Nicea, Cittadella Editrice 2025. Al centro del discorso di Tagliaferri (e di Aldo Natale Terrin e Sergio Manghi, autori di alcuni dei capitoli) c’è il pensiero di Gregory Bateson, con particolare riferimento al suo ultimo libro (in realtà confezionato dalla figlia Mary Catherine sulla base di abbozzi del padre e dialoghi con lui) Dove gli angeli esitano. Verso un’epistemologia del sacro (1987, Adelphi).

Che cos’è il sacro per Bateson? Che cos’è il sacro per un non credente quale lui tranquillamente era (come pure, peraltro, chi scrive queste righe)? Potremmo dire che si tratta proprio di questa dimensione di radicale relazionalità delle cose, una dimensione in cui noi siamo costantemente immersi e che ci colpisce, ci sovrasta, senza che possiamo arrivare a comprenderla nella sua interezza. Quello che la scienza fa (e Bateson era uno scienziato: antropologo, psicologo, biologo figlio di biologi) è di sondare localmente questa natura delle cose, fornendone locale spiegazione. Questa spiegazione, per quanto innegabilmente utile, non è mai sufficiente, e, anzi, talvolta persino alimenta a sua volta la meraviglia e lo stupore per la complessità del tutto. Nessuna comprensione razionale può cogliere nel suo insieme questa dimensione, e il sacro (o Dio) è il senso di meraviglioso e insieme terribile che la sua contemplazione suscita in noi: è la sensazione di essere al cospetto della rete, del sistema di relazioni che ci comprende e dà vita.

All’inizio di Mente e natura (1979, p. 20 dell’edizione Adelphi), Bateson pone un’opposizione tra due universi esplicativi, che lui chiama, con termini gnostici e seguendo Jung, il pleroma e la creatura. Il pleroma è il mondo spiegato secondo le leggi dell’inanimato, quelle della fisica, in altre parole: quelle del determinismo, o delle sue versioni aggiornate dopo Heisenberg. La creatura è quel medesimo mondo spiegato secondo le leggi del vivente, come interpretazioni e finalità, evocando differenze e distinzioni. Nessuno dei due universi esplicativi è più vero o fondamentale dell’altro, anche se ci sono ambiti specifici in cui uno dei due funziona meglio dell’altro.

Indubbiamente, là dove è applicabile, la spiegazione pleromatica fornisce dei vantaggi di capacità di previsione che la farebbero preferire alla spiegazione creaturale; ma la pretesa di riportare quest’ultima ai principi della prima, che viene detta riduzionismo, è a sua volta una posizione di fede, molto vicina alle posizioni sostanzialiste di cui si diceva sopra. La posizione di Bateson, viceversa, non è una posizione ontologica, perché non viene posta nessuna sostanza cui vengano attribuite caratteristiche di per sé. Tutto, piuttosto, si definisce in relazione.

In più luoghi Bateson accenna a una vicinanza tra il senso del sacro e quello del bello, e questa prossimità viene sottolineata anche da Tagliaferri. Credo che questo accostamento ci possa chiarire qualcosa di più su ambedue le dimensioni, mistica ed estetica.

Si può considerare il bello come qualcosa che evoca in noi un senso di sintonia con il mondo, una sintonia dei sensi o anche una sintonia più squisitamente intellettuale. Il senso di bellezza potrebbe essere la consapevolezza di questo senso di sintonia che stiamo provando. Si tratta comunque di un’esperienza, per quanto importante, locale e limitata. Il sacro sembra funzionare allo stesso modo, ma ha carattere globale, e quindi soverchiante, e questo aspetto soverchiante è talmente cruciale che può anche includere il senso (drammatico) di una dissintonia radicale. Il mistico è colui che si mantiene pericolosamente in contatto con questo estremo (insieme meraviglioso e terrificante). La religione (ci dice Bateson) sarebbe quindi il sistema di regole (di riti) attraverso il quale cerchiamo di mantenere il contatto con il sacro senza esserne bruciati.

Lo stesso Tagliaferri ci aveva già raccontato, in un libro del 2013, Sacrosanctum. Le peripezie del sacro (Edizioni Messaggero Padova), come il cristianesimo abbia consapevolmente rinunciato al contatto con il sacro, sostituendolo con un molto più controllabile santo. La stessa impresa razionale della teologia appare, in generale, come un tentativo di controllare Dio sottraendolo alla dimensione pericolosa del sacro, e non pochi mistici sono a loro tempo finiti sul rogo, da Margherita Porete a Giordano Bruno, proprio perché riportavano la dimensione del sacro troppo al centro dell’attenzione, e troppo al di fuori della razionalità imposta dall’istituzione.

È interessante notare poi come la Chiesa arrivi progressivamente a sbarazzarsi del misticismo nel corso del Settecento. Fa notare Marco Vannini (Storia della mistica occidentale, Mondadori 1999, p. 286) che in quel periodo “la mistica venne espulsa dal terreno comune dell’esperienza religiosa e confinata in una ‘riserva’ soprannaturalistica, senza alcuna vera importanza”, di fatto molto più di competenza dell’istituzione psichiatrica che di quella religiosa.

Ancora più interessante è rendersi conto che mentre il Settecento è il secolo dell’abbandono del sacro in occidente, è anche, d’altra parte, il secolo in cui progressivamente si afferma il sentimento del sublime. Il sacro e il sublime hanno una quantità di aspetti in comune, ma mentre il sacro è di pertinenza della religione, il sublime è di pertinenza estetica. Attraverso la contemplazione mediata dall’arte, il meraviglioso e il terribile rientravano tramite il sublime mentre venivano espulsi insieme con il sacro. Con l’ingresso in campo del sublime, la dimensione estetica si configura spesso come una sorta di misticismo controllato, spogliato dei suoi aspetti più pericolosi, più brucianti; ma ugualmente non così tradito – meno tradito, certo, rispetto alla razionalizzazione della fede che è diventata la norma cristiana.

I tempi sono fortunatamente cambiati, e Tagliaferri non farà la fine di Giordano Bruno, e probabilmente nemmeno quella di Baruch Spinoza, cacciato dalla comunità ebraica cui apparteneva perché sosteneva posizioni non così lontane da queste. Ho il sospetto che il libro creerà qualche problema ai credenti più tradizionalisti: è vero che pensare alla relatività radicale getta nuova luce sulla questione della Trinità, la quale è prima di tutto una relazione – ma è anche vero che diventa difficile concepire come persona un Dio che sia pensato in questo modo.

 

Non ho citato integralmente il testo di Borges. Il breve racconto, intitolato “Argumentum ornithologicum”, continua e si conclude così: “In tal caso [il caso in cui il numero è indefinito], ho visto meno di dieci uccelli (per esempio) e più di uno, ma non ne ho visti nove né otto né sette né sei né cinque né quattro né tre né due. Ho visto un numero di uccelli che sta tra il dieci e l’uno, e che non è nove né otto né sette né sei né cinque, eccetera. Codesto numero intero è inconcepibile; ergo, Dio esiste.” L’argomento di Borges contiene un errore (suppongo intenzionalmente) analogo a quello dell’argomento ontologico di cui è la parodia: il passaggio inferenziale dal sapere all’essere, dalla logica all’ontologia.

 

 

4 Commenti

  1. Caro Daniele, grazie di questo scritto, che è già un vero trattatello, sul quale potrebbe innestarsi una discussione assai articolata, che certo non riesco a fare qui. Dirò solo che qualcosa nella “terza posizione” che descrivi mi ricorda la più recente posizione di Federico Faggin, nel suo ultimo “Oltre l’invisibile”. Dirò un’eresia: e se tutto fosse più assurdamente semplice? Dio non esiste e l’universo ubbidisce a leggi che conosciamo in piccola parte (5%, dicono gli scienziati, quelli ehm veri . . .) , rimane naturalmente il problema di chi l’abbia creato e messo in moto. Oppure Dio esiste e tutto funziona grosso modo come ci propongono alcuni frammenti (ovviamente da precisare, escludendo ad esempio gli orrori perpetrati dalla nostra Chiesa Cattolica, così come molto altro) di alcune tradizione religiose. Per varie esperienze personali avrei qualche propensione per la seconda alternativa. Grazie comunque assai a te.

    • Ciao Antonio. Faggin non l’ho letto, però l’ho sentito parlare diverse volte. La sensazione è che faccia un salto indebito dall’indeterminismo (e fin qui tutto ok) al libero arbitrio. Certo il secondo implicherebbe il primo, ma l’implicazione inversa è molto problematica, perché mette in gioco una teleologia che si fa fatica ad attribuire al “campo”; e l’autoconoscenza non basta. Soprattutto bisognerebbe per prima cosa definire che cosa sia “conoscenza” a questo livello; e poi cosa sia il sé che giustificherebbe l'”auto”. Mi sembra tutto troppo calcato sul modello di Dio concepito come pensante se stesso pensante, e che poi emanerebbe questo a tutte le sue sottoparti olografiche.
      Non in tutte le tradizioni religiose Dio è creatore. Nell’induismo il principio divino (da cui derivano tutti i moltissimi dei specifici) esiste da sempre come il mondo, e nessuno si pone il problema di chi abbia creato chi. Del resto, questo evita il problema cruciale che viene implicitamente posto da chi sostenga che il mondo sia stato creato da Dio; perché allora il problema diventa: chi ha creato Dio? E così via, di eone in eone.
      Pensare il sacro come Bateson evita la questione della creazione, ma rende difficile pensare a un Dio personale come quello cristiano, e problematizza fortemente il concetto di esistenza.

  2. Grazie Daniele, lettura densa e illuminante.
    Mi ha colpito soprattutto la “terza via” Panikkar – Bateson, quella del sacro come relazione: oggi mi pare anche la più urgente. Leggendo, però, pensavo a quanto questa visione urti contro la nuova “ontologia dei dati” – la fede algoritmica nel numero come garanzia d’esistenza.
    Borges aveva intuito il rischio: confondere sapere ed essere.
    Forse il compito contemporaneo, se il sacro è davvero relazione, è proprio proteggere il legame contro la riduzione a dato o previsione.
    Grazie ancora per aver riportato il dibattito su un piano così vivo e necessario.

LASCIA UN COMMENTO

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui

articoli correlati

Pietro Polverini, La nostra villeggiatura celeste

È appena uscito, a cura di Francesco Ottonello, La nostra villeggiatura celeste. Dieci anni di poesia di Pietro Polverini (2012–2021), per Interlinea, nella collana LyraGiovani diretta da Franco Buffoni. Domani pomeriggio, 30 novembre, ci ritroveremo, con il curatore, Simone Ruggieri, Edoardo Manuel Salvioni, Virgilio Gobbi Garbuglia...

Una cantada

Di David Eloy Rodríguez, José María Gómez Valero, Alberto Masala e Lorenzo Mari.
Una cantada nasce come dialogo tra le forme della poesia e della musica popolare dell’Andalusia, della Sardegna e dell’Emilia-Romagna che – evitando una riproposizione puramente conservativa della tradizione o una velleitaria “andata al popolo” – ne evidenzi il portato critico e politico.

Spritz et circenses

di Paola Ivaldi
Dannati noi siamo abitanti di città
della notte abbiamo perduto le stelle
i cieli vuoti come fondali minimali
di miseri allestimenti teatrali.
Per sempre smarrite sorelle,
forse loro stanno a guardare
gran spettacolo, ora, essendo noi,
noi essendo, ora, quelli che cadono.

Un utile Decalogo per la Scuola del Pluralismo e della Libertà

Di Gian Nicola Belgire
Giunge dal Ministro, come rinfrescante toccasana, la nota 5836 del 7 novembre 2025 che invita gli istituti a garantire nei loro eventi la presenza di «ospiti ed esperti di specifica competenza e autorevolezza», per permettere il «libero confronto di posizioni diverse». Come possono i docenti italiani, fin qui dimostratisi inadeguati, far fronte? Viene in soccorso un agile vademecum, che qui mostriamo in anteprima:

Lackawanna (e altri fantasmi)

Di Isabella Livorni

beatatté che tieni un corpo giovane e forte
e fai tutto ciò che la testa ti dice di fare.
noi teniamo i pollici storpi e cioppi, le ossa fraciche
[...]
rintaniamo. ci strascichiamo.
dinanzi alla pietra impara.

Ox e Mandarin ‖ un rorschach

Di Milla van der Have, traduzione di Laura di Corcia

danzano piano fino al mattino
la musica come un tenero bozzolo
rotolando al centro della loro gravità

non si sono incontrati

ma si tengono stretti
renata morresi
renata morresi
Renata Morresi scrive poesia e saggistica, e traduce. In poesia ha pubblicato le raccolte Terzo paesaggio (Aragno, 2019), Bagnanti (Perrone 2013), La signora W. (Camera verde 2013), Cuore comune (peQuod 2010); altri testi sono apparsi su antologie e riviste, anche in traduzione inglese, francese e spagnola. Nel 2014 ha vinto il premio Marazza per la prima traduzione italiana di Rachel Blau DuPlessis (Dieci bozze, Vydia 2012) e nel 2015 il premio del Ministero dei Beni Culturali per la traduzione di poeti americani moderni e post-moderni. Cura la collana di poesia “Lacustrine” per Arcipelago Itaca Edizioni. E' ricercatrice di letteratura anglo-americana all'università di Padova.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: