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Omaggio a Horcynus Orca

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di Davide Orecchio

horcynus

C’era un uomo coi capelli rossi, che non aveva né occhi né orecchie. Non aveva neppure i capelli, quindi dicevano che aveva i capelli rossi tanto per dire. Non poteva parlare, perché non aveva la bocca. Non aveva neanche il naso. Non aveva né braccia né gambe. Non aveva neanche la pancia, non aveva la schiena, non aveva la spina dorsale, non aveva le interiora. Non cera nulla! Insomma, non sappiamo nemmeno di chi stiamo parlando. Meglio non parlare di lui mai più”. – Daniil Charms

 

Molti anni fa. Pochi anni fa. Conoscevo uno scrittore italiano.

Se non fosse stato italiano, lo scrittore che io conoscevo, potrei dire della sua altezza media, dei suoi capelli soffici e neri, della sua lieve miopia. E che portava gli occhiali di John Lennon: rotondi, dorati, sottili. E che indossava felpe di cotone e pantaloni larghi. E giacche di velluto. E che mangiava kebab. E che non era interessato alle cose attuali della vita, alla cronaca, ai fatti e ai misfatti. E che amava i libri. E che cercava la vita nei libri.

Molti anni fa. Pochi anni fa. Conoscevo quindi anche un lettore. E se fosse stato solo un lettore, colui che io conoscevo, potrei dire della sua grandezza. Aristocratica. Perché molti anni fa, pochi anni fa, oggi: ciascun lettore che è solo un lettore, che non vuol essere altro, ha una grandezza. Aristocratica. Una libertà. Una completezza. Ed è raro. Ed è pregiato.

Ma lui, che io conoscevo, non era solo un lettore, era anche uno scrittore, era solo uno scrittore italiano e dunque dovrò dire che non era né alto né basso né di altezza media. Che non aveva capelli. Che non aveva occhi né occhiali. Che era nudo. Che non vestiva alcun abito. Che non mangiava. Che non beveva. Che era invisibile. Che nessuno aspettava la sua scrittura: non per un giorno, non per un mese, non per vent’anni. Che a nessuno interessavano le sue correzioni, i suoi progressi, le prime stesure, le seconde stesure. Che nessun editore gli versava anticipi e attendeva consegne da lui.

Non per un giorno, non per un mese, non per vent’anni.

Molti anni fa, pochi anni fa, oggi, nel nostro tempo questo scrittore italiano non aveva le mani per digitare sui tasti e non arrivava all’altezza del tavolo e, privo di un corpo, non poteva sedere, accendere, guardare, correggere, moltiplicare le pagine, mettere al mondo capitoli, diventare nonno di paragrafi, zio delle digressioni, bisnonno di indici e ringraziamenti.

Non per un giorno, non per un mese, non per vent’anni.

Ma c’era la casa. Lo scrittore per sua fortuna aveva una casa. Piena di libri, questa era davvero la casa ideale per un lettore, e per lo scrittore. I libri erano migliaia ed erano creature che si offrivano come in un parco di giochi (sali sulla mia giostra), o come in un quartiere a luci rosse (scegli me, vieni a divertirti). La casa era la madre dei libri, o forse la ruffiana, e li conosceva tutti e nella casa lo scrittore non era invisibile. Nella casa lo scrittore aveva gli occhi, gli occhiali, l’altezza media, le mani per scrivere, le dita per accendere il computer, la forza di mettere al mondo capitoli, diventare nonno di paragrafi, zio delle digressioni, bisnonno di indici e ringraziamenti.

E aveva i libri.

Alcuni li portò lo scrittore. Altri già erano nella casa, i più misteriosi: perché erano vecchi, più vecchi dello scrittore, perché erano nati prima di lui e avevano polvere, odore antico, un colore giallo di fossile, benda di mummia. Lo scrittore, che abitava la casa da sempre, si fidava di lei, la notte si addormentava sereno dentro di lei, non temeva spettri né fantasmi e nessuna imboscata nei corridoi fitti di scaffali e volumi. Ogni tanto prendeva un libro, lo leggeva e qualcosa di lui cambiava. Questa era la scrittura del mondo. E il mondo entrava nello scrittore.

Ma lui cercava una voce. Molti anni fa. Pochi anni fa. Prima ancora che io lo conoscessi. Lo scrittore era stato giovane. E aveva iniziato a cercare una voce. Questa voce, pensava lo scrittore, un giorno verrà fuori e sarà solo mia, inconfondibile, forse roca, forse acuta, ad alcuni piacerà, ad altri farà schifo, ma sarà pur sempre la mia voce e io non sarò più invisibile. Nel frattempo lui esercitava la voce. Perché aveva i libri per esercitarsi.

Lesse Carver e iniziò a scrivere frasi brevi per racconti concisi. Lesse Proust e per imitarlo si perse in un proprio journal intime di periodi incatenati. Erano solo stagioni della sua scrittura. Mentre cercava una voce. Esercitava lo stile. Non sapeva chi fosse. Rubava agli altri lo stile. Si infilava in un ventriloquio di stile. Erano solo stagioni. Molti anni fa. Pochi anni fa. Della sua scrittura. Lo scrittore ne usciva sempre. Lasciava Proust alle spalle. Lasciava Carver alle spalle. E andava avanti.

Finché da uno scaffale, una notte, tirò giù un libro.

E tutto, all’improvviso, cambiò1.

La copertina del libro era una cornice di blu. Il libro era enorme. Il libro contava più di mille pagine. Eppure lui non si scoraggiò, decise di leggerlo, aprì la prima pagina e il sole tramontò quattro volte sulla sua lettura e alla fine del quarto giorno e della quarta notte lo scrittore italiano che io conoscevo, molti anni fa, pochi anni fa, era diventato un marinaio, anzi un nocchiero, e viaggiava nel paese delle Femmine, e solcava i mari dello scill’e cariddi e il sole lo aveva raggiunto

 

«COL SUO FREDDO RIFLESSO DI MORTE. DALLE ISOLE, E OLTRE, DA GIBILTERRA, LA SUA LUCE RASENTE AL MARE APPRODAVA UN’ULTIMA VOLTA A QUELLA RIVA, SENZA PIÙ PESO NÉ FULGORE, E PIGLIAVA A SALIRE, OSCURANDO PER LA SPIAGGIA E LA PLAIA: DIETRO, FRA IMPROVVISE SERPENTINE, BIANCHE E ROSSE, DI FIAMMA, SI FACEVA VIAVIA L’OMBRA, COME SE GLI ULTIMI RAGGI SI CONSUMASSERO DA SOLI IN UN GUIZZO, RIDUCENDOSI IN CENERE E CARBONELLA, CONFUSI AI GRANELLI DI SABBIA».

 

E lui leggeva, viveva, s’inoltrava nel viaggio, arrivò persino a «nuotare un bel pezzo fra tenebre e trasparenze azzurrastre, andando e venendo in giro fra gli scogli sabbiosi (…) in un silenzio senza schiume». Nuotava «il nuotare del pesce che nuota nel verso del pelo marino». Però lo scrittore, che adesso era un lettore, e che abitava una lingua potente, «gira gira, non si ritrovava, qualcosa gli sfuggiva sempre e questo qualcosa gli pareva di averlo sempre alle spalle e gli pareva per questo di inseguire se stesso».

Insomma era pieno di dubbi, ma senza il tempo di coltivarli perché già gli appariva l’orcaferone che intitolava il libro di polvere dalla cornice di blu, e questo «animalone» affiorò proprio tra lo scill’e cariddi che lui andava leggendo, e aveva una «piagona sdilabbrata» il cui fetore raddoppiava nel sole e lui, lo scrittore che io conoscevo, molti anni fa, pochi anni fa, fece il gesto di turarsi il naso mentre la bestia enorme, terribile «andava sfilando» «da mare a mare e nella gran solitudine dello scill’e cariddi, attorno alla sua mole gigantesca, attorno alla sua sagoma tenebrosa e rabbrividente» e «sembrava spirare un alone di spaventevole fatalità, come di essere fantastico e irraggiungibile» e lo scrittore – ormai un lettore – pensò – nella lingua che lo possedeva tutto, con le parole esatte del libro che diventavano anche sue proprie, anzi era lui che apparteneva a quelle parole – di assistere a «un essere dell’altromondo, per il quale vita e morte facevano una cosa sola, e lui aveva, contempo, tutte e due le cose insieme e nessuna delle due», e ascoltò poi «il fischio o sibilo, sgraziatissimo» dell’orcaferone che nel suo «massimo nuoto» gli passava accanto (a lui, allo scrittore che io conoscevo) e sfiatava, spruzzava, pigliava l’acqua «sfacciatamente». E si spaventò di quello che lesse e di quello che vide.

Al quinto giorno interruppe il libro. Si alzò dal letto. Accese il computer. Provò a scrivere ma non trovò più la sua voce. Trovò invece un pupazzo parlante. Il pupazzo parlava la lingua di Horcynus. Il pupazzo era lui. Legava i vocaboli in nuove parole. Lessicava in dialetto. Non faceva che nominare fere e femminote, e pellisquadre e femminotari, naviscuola porpose e uomini insoldatati e vermiditerra. E vedeva solo lo Stretto, e le isole, e l’isola grande, e i delfini feroci, e il più grande dei pesci, e non aveva più nomi se non quelli nominati da Horcynus, e non aveva più verbi se non quelli coniugati da Horcynus. E di nuovo si spaventò. Anche ai pupazzi capita di spaventarsi. Avrebbe potuto fare l’inchino come un gatto di legno. E, come un orsetto di pezza, avrebbe potuto, fino all’esaurirsi delle sue batterie, cantilenare il verdone che, «si sa, è lui il vero pellesquadra, lui è lo sguardo di nome e di fatto, lui è l’origine, pelle per squadrare, rasposa come la cartavetrata».

Allora spense il computer. Pupazzo horcynusorcizzato. Scrittore di una scrittura d’altri. Immaginatore di fantasie in prestito. Creatore di creature già create. Pensò: faccio ancora in tempo a salvarmi? E già correva al libro dalla cornice blu. E lo prendeva. E apriva un ripostiglio di cappotti e coperte. E ci seppelliva il libro di Horcynus. E chiudeva il ripostiglio. E chiudeva la stanza dov’era il ripostiglio. E andava lontano, nella casa, nel punto più distante dal ripostiglio. E pensava: forse mi sono salvato, adesso riprendo a parlare e vediamo se sono ancora un pupazzo.

Molti anni fa. Pochi anni. Lo scrittore che io conoscevo parlò e gli tornarono in bocca fere e femminote, e pellisquadre e femminotari, naviscuola porpose e uomini insoldatati e vermiditerra.

E gli tornò in bocca l’animalone.

Allora era finito. Era posseduto. Non aveva più la sua voce. Moriva la speranza di trovare una voce.

Moriva la speranza.

Ma da uno scaffale, a quel punto, cadde un libro. Questo volume s’intitolava Una storia di amore e di tenebra, ed era dell’israeliano Amos Oz. Il libro cadendo si aprì su una pagina. Lo scrittore che io conoscevo raccolse il libro e lesse la pagina, dove il padre di Oz (studioso di polvere, navigatore di tomi e biblioteche) raccontava questa storiella: “Se rubi la tua sapienza da un libro solo sei un ladro letterario. Un plagiatore. Ma se rubi a piene mani da cinque libri, non sei più un ladro bensì uno studioso, e se poi ti industri a saccheggiare da ben cinquanta libri, allora assurgi al grado di luminare”.

Adesso ho capito – esclamò lo scrittore rivolgendosi alla casa –, hai fatto cadere questo libro per mostrarmi la cura. Posso guarire da Horcynus solo con un altro libro e poi con un altro e un altro ancora. Centinaia di libri mi guariranno da Horcynus. Questo consiglia il padre di Amos Oz. Ma da dove iniziare? Io sto soffrendo. Cosa mi indichi?

E da un altro scaffale cadde un secondo libro. E lo scrittore che io conoscevo, molti anni fa, pochi anni fa, si precipitò a raccoglierlo e subito lesse e si ritrovò in una squadra che ‘era giunta ai piedi dell’ultimo pendio’ e vide che Johnny sospirava ‘al calvario che esso comportava: era così plasmato di fango lievitante che la superficie ne pulsava tutta. L’argilla bulicante aveva pochissimi, quasi ironici cespi di erba fradicia’. Attorno non c’era mare, non c’erano mostri marini, né fere né animaloni. C’era giusto Johnny con la sua squadra, Johnny che ‘prese ad inerpicarsi sui ginocchi, ancorandosi al fango con la mano libera; s’inerpicò e ricadde. Così gli uomini’, così lo scrittore che io conoscevo, molti anni fa, pochi anni fa, ‘l’angoscia strappando loro bestemmie ed insulti. In una scivolata si perdeva in un lampo quel che era costato minuti di penosa ascesa. Il ricadente precipitava su quello che saliva speranzoso, ed entrambi crollavano al fondo in un abbraccio di disperazione ed ingiurie’.

 

Al fianco dello scrittore che io conoscevo ‘JOHNNY GIACEVA A MEZZA COSTA, ANSANTE E PAZZAMENTE ASSETATO, IN QUELL’ORGIA D’ACQUA; ATTRAVERSO LE MANICHE IL FANGO GLI SI ERA INSINUATO FINO ALLE ASCELLE. SI VOLTÒ A GUARDARE DALLA PARTE DEL NEMICO; FRA UNA FASCIA DI VAPORI VIDE L’AVANGUARDIA FASCISTA A MEZZO CHILOMETRO (…) ALLORA SBATTÉ PIÙ SU LA MITRAGLIATRICE, COME UN TRAGUARDO EMBEDDED NEL FANGO, LA RAGGIUNSE SALENDO SUL VENTRE, LA RISBATTÉ PIÙ SU ED ANCORA LA RAGGIUNSE, FINCHÉ EMERSE, UNA STATUA DI FANGO, SUL CIGLIONE’.

 

Molti anni fa. Pochi anni fa. Conoscevo uno scrittore. Che si rivolse al partigiano Johnny e gli disse: io qui, su questa altura, sono felice al tuo fianco. Adoro la tua lingua di foresti, valli e macchioni. Adoro la tua browning. Il tuo fango. I tuoi altipiani. Partigiano Johnny. Qui ci sono solo fascisti. Uccidiamo fascisti. Questa è vita. Questa è lettura. Forse sono guarito. Guarda laggiù verso il campo nemico: se tutti dormono, possiamo attaccare, e possiamo vincere. Raggiungeremo il campo passando per il lago che l’affianca. Non hai visto quel lago? Non c’è nelle tue pagine? Vieni con me. Il lago esiste. Immergiamoci. Nessuno ci vede. Il nemico dorme. Saranno poche bracciate. L’acqua non è fredda. L’acqua è calma. L’acqua ci è amica.

Ma molti anni fa, pochi anni fa, lo scrittore che io conoscevo si sbagliava su tutto. Si sbagliava sull’acqua. Si sbagliava su Horcynus. Perché nell’acqua di quel lago, mentre il partigiano Johnny spariva, mentre lo scrittore avanzava in un nuoto sottomarino, all’improvviso, ancora una volta, riassommò l’orcaferone, persino nell’acqua dolce, «aggallando come d’abitudine, veniva ormai da dire, simile a un isolotto lavico in ebollizione, che raffreddandosi si mostrava ribellato, qua e là, da macchie di filamenti bianchi, striato d’argentature, di tenebrosi luccichii».

E mentre lo scrittore che io conoscevo lo seguiva in silenzio, attentissimo, «e lui si metteva a sfiatare l’acqua imbarcata, impalmandosi la testa con lo zampillo», molti anni fa, pochi anni fa, lo scrittore, «come non si potesse trattenere», come se gli venisse proprio dal cuore, gridò all’animalone: «anima pia, animona generosa e pia», sono ancora il tuo pupazzo, sono ancora prigioniero di Horcynus.

Molti anni fa. Pochi anni fa. Conoscevo uno scrittore. Che cercava una voce. Che perse la voce. Che si spaventò. Che lasciò il libro di Johnny. Che cadde sul pavimento della propria casa e le disse: non ha funzionato, sono perduto, tutto è perduto. Ma da un nuovo scaffale cadde un terzo libro, e poi ne cadde un quarto. E lo scrittore che io conoscevo, molti anni fa, pochi anni fa, si precipitò a raccoglierli e subito lesse e si ritrovò su un sentiero di nidi di ragno assieme a un bambino di nome Pin, e tutti e due, bambino e scrittore, camminavano << nel gracidare delle rane >> che << nasce da tutta l’ampia gola del cielo >>, e << il mare è una grande spada luccicante nel fondo della notte >>. Camminano assieme << per i campi coltivati a garofani e a calendule >>. Cercano di tenersi alti << sul declivio delle colline, per passare sopra alla zona dei Comandi >>.

Poi scenderanno al fossato. Questi sono i loro luoghi.

 

<< FRA GRANDI SASSI BIANCHI E IL FRUSCIARE CARTACEO DELLE CANNE. IN FONDO ALLE POZZE DORMONO LE ANGUILLE, LUNGHE QUANTO UN BRACCIO UMANO, CHE A TOGLIERE L’ACQUA SI POSSONO ACCHIAPPARE CON LE MANI. (…) ECCO IL BEUDO, ECCO LA SCORCIATOIA CON I NIDI >>.

 

Riconoscono le pietre. Dissotterrano una pistola. Poi, il bambino Pin e lo scrittore che io conoscevo, si addormentano. E al risveglio vedono << i ritagli di cielo tra i rami del bosco, chiari che quasi fa male guardarli. È giorno, un giorno sereno e libero con canti d’uccelli >>.
Sereno. Così si sentiva lo scrittore leggendo. Immerso in una scrittura rasserenante. Perspicua. Ragionevole. Non mostruosa. Rispettosa di lui. Una scrittura che non l’avrebbe mai potuto trasformare in pupazzo. Molti anni fa, pochi anni fa, lo scrittore che io conoscevo pensò che forse stava guarendo da Horcynus e prese l’altro libro e tutto andò sempre meglio intanto che lui viaggiava tra le città invisibili. Per un breve periodo visse a Sofronia, una città sottile che

 

<< SI COMPONE DI DUE MEZZE CITTÀ. IN UNA C’È IL GRANDE OTTOVOLANTE DALLE RIPIDE GOBBE, LA GIOSTRA CON LA RAGGIERA DI CATENE, LA RUOTA DELLE GABBIE GIREVOLI, IL POZZO DELLA MORTE COI MOTOCICLISTI A TESTA IN GIÙ, LA CUPOLA DEL CIRCO COL GRAPPOLO DEI TRAPEZI CHE PENDE IN MEZZO. L’ALTRA MEZZA CITTÀ È DI PIETRA E MARMO E CEMENTO, CON LA BANCA, GLI OPIFICI, I PALAZZI, IL MATTATOIO, LA SCUOLA E TUTTO IL RESTO. UNA DELLE MEZZE CITTÀ È FISSA, L’ALTRA È PROVVISORIA E QUANDO IL TEMPO DELLA SUA SOSTA È FINITO LA SCHIODANO, LA SMONTANO E LA PORTANO VIA, PER TRAPIANTARLA NEI TERRENI VAGHI D’UN’ALTRA MEZZA CITTÀ >>.

 

Proprio in questo intervallo lo scrittore che io conoscevo si stancò di Sofronia e decise di partire per Despina, << città di confine tra due deserti >>, città che si raggiunge in due modi: << per nave o per cammello >>, << e si presenta differente a chi viene da terra e a chi dal mare >>. Lo scrittore che io conoscevo, molti anni fa, pochi anni fa, decise di raggiungerla dal mare e, << nella foschia della costa >>, dal ponte del veliero, già gli sembrava di scorgere la gobba di un cammello, ossia la città di Despina.

Ma si sbagliava. Si sbagliava sull’acqua. Si sbagliava su Horcynus.

Al suo fianco, molti anni fa, pochi anni fa, c’era un marinaio. Viaggiava con lui. Lo scrittore però non s’era accorto di lui. Solo adesso lo vedeva. Studiò il suo profilo, il naso d’aquila, i capelli di corvo, e poi gli chiese: tu sei Calvino? E quello rispose: sono io, mentre tu sei un illuso.

Perché?, domandò lo scrittore che io conoscevo.

Perché non posso aiutarti, rispose Calvino, e tu non puoi fuggire da Horcynus.

Che vuoi dire? Io sono sereno nella tua scrittura. Raggiungeremo Despina. E poi un’altra città. Già si vede la costa.

Non è la costa che vedi, lo corresse Calvino. Quella gobba laggiù, che affiora dal mare, non è la città. Guarda bene. Cos’è che vedi? Non vedi?

Molti anni fa, pochi anni fa, lo scrittore che io conoscevo guardò meglio la gobba che affiorava dal mare. E iniziò a piangere. Senza rimedio. Perché vide che non era la gobba di un cammello, né quella di una città. Invece era il dorso di un animale che «brancolava ancora cieco e sonnoso, oscuro e inavvertito come tutti i cataclismi nelle loro sotterranee origini, quando non se ne ha ancora segno e sono già sotto i nostri piedi. La sua immensa mole» apparve «affusolata» allo scrittore che io conoscevo mentre «saliva preceduta dall’alta pinna dorsale ad ascia, come un sommergibile dal suo periscopio, e salendo, dalle bocchette dello sfiatatoio sprigionava un sibilo come di fuoco che va per acqua, di lava di vulcano che erutta dagli abissi e raffreddandosi, forma un isolotto in superficie. E qui, alla superficie, dall’apertura occhiuta dietro la grande testa incorporata, rigettava acqua soffiando come una tromba marina».

Era di nuovo il pupazzo, lo scrittore che io conoscevo. E la nave affondava. E Calvino annegava.

E l’animalone nuotava «sempre dov’era rema morta, come se lo attirassero acque d’abisso, fredde e ferme, in cui appiccionarsi senza temere sconzo. Era l’Orca, quella che dà morte, mentre lei passa per immortale: lei, la Morte marina, sarebbe a dire la Morte, in una parola».

Dava morte anche a lui, allo scrittore che molti anni fa, pochi anni fa, cercò una voce, e poi cercò scampo, e non lo trovò, e pianse, e nuotò nel suo pianto, e poi si stancò, e annegò nel suo vasto mare di pianto.

Ma, di nuovo nella casa, trovò l’ossigeno che serve per sopravvivere. Adesso sveglio. Rincasato. Risorto. Sconfitto. Horcynusorcizzato. Rimproverò la casa: non mi hai aiutato. Si alzò da terra. Raccolse i libri. Li chiuse. Li ripose negli scaffali. Molti anni fa, pochi anni fa, lo scrittore che io conoscevo liberò il libro di Horcynus dal ripostiglio, poi disse alla casa: è evidente, il padre di Amos Oz il libro di Horcynus non lo conosceva. Il suo consiglio dunque non vale. Cento libri non nascondono il libro dell’orca. Io invece, che lo conosco, mi sottometto al libro dell’orca. Non fuggo più.

Che sia fatta la sua volontà.

 

***

 

Le citazioni
Tra « … »: Stefano D’Arrigo, Horcynus Orca.
Tra “ … ”: Amos Oz, Una storia di amore e di tenebra.
Tra ‘ … ’: Beppe Fenoglio, Il partigiano Johnny.
Tra << … >>: Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Le città invisibili.

Nota
1 «Nei racconti si trova spesso questo “all’improvviso”. Gli autori hanno ragione: la vita è così piena di cose inaspettate». Anton Čechov, La morte dell’impiegato.

Questo testo è un intervento tenuto al convegno «Horcynus Orca. Il quarantennale», 9-10 ottobre 2015, Arcinazzo romano -Trevi nel Lazio. Successivamente è stato pubblicato su «Lo Straniero», Aprile 2016 – N. 190.

i poeti appartati: Christian Tito

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Copia di copertina tito

Ai nuovi nati

di

Christian Tito

Incisione

Alejandro Fernandez Centeno

ed. FIORI DI TORCHIO

Amici del Libro d’Artista Seregn de la Memoria Circolo Culturale

prefazione di

Corrado Bagnoli

 

Altre notizie su Nuvola

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di Damiano Sinfonico

[inediti, aforismi e dintorni]

Una volta Nuvola andò a Cuneo a cercare dei poeti. Gli dissero che non ce n’erano, si erano trasferiti a Milano. Però in provincia ne era rimasto uno, un mezzo poeta, perché scriveva prose. Allora andò in cerca di lui e lo trovò. Aveva la testa rasata e con accento piemontese gli disse: “Io scrivo prose brevi”. E Nuvola gli disse: “Io ho bisogno di alcuni versi, per favore, scrivine qualcuno solo per me”. Allora il mezzo poeta si chiuse tutta la notte nel suo studio e quando uscì brandiva un foglio con una prosa breve. E Nuvola gli chiese: “E i miei versi?”. “Ci sono, ma non si vedono, come le stelle durante il giorno”. 

les nouveaux réalistes: Francesco Delle Donne

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La consistenza del cane

di

Francesco Delle Donne

Da quando è successo tutto, la casa è diventata un camposanto. Mamma non l’ho mai vista così triste. Vincenzo gira per casa che sembra un leone in una gabbia, e dice che così, a vivere come bestie alla catena, mica si può andare avanti. Senza Ettore e Marilena, poi, ci sta troppo silenzio e se faccio una domanda a papà, lui mi risponde col solito mugugno.

Il silenzio è una cosa strana, perché non lo puoi vedere e non lo puoi toccare, senti solo che si appiccica addosso e sulle cose, come una domanda senza risposta. E poi si sa, a noi napoletani troppo silenzio ci indispone perché ci fa pensare. Se proprio dobbiamo scegliere, preferiamo l’ammuina.

All’inizio, quando ho portato Ettore a casa, a mamma per poco non veniva una crisi. “Ci mancava solo il cane, adesso, non basta lo zoo che teniamo!”
Poi col tempo si è affezionata, pure se Marilena è allergica ai peli.
Anche Ettore, da quando ha capito che a cucinare ci pensa mamma, è diventato un cane devoto e la segue passo passo come se fosse la Madonna dell’Arco. Mamma si commuove e lo ingozza di polpette e frittatine. Infatti, anche se Ettore ha solo quattro anni, sembra già vecchio per l’affanno che tiene. Il signor Michele – un veterinario zoppo che viene a domicilio e si fa pagare con le teglie di pasta al forno – dice sempre “La diagnosi è che… ‘stu cane magna cumme ‘nu puorco” e “Se continuate così, signora, questo vi schiatta sotto gli occhi.”

Ettore è il mio miglior amico perché se qualcosa va storto, e a casa cominciano a strillare, lui si avvicina e mi fissa con gli occhi umidi. Sembra quasi che dica “Chi te muorto, lo so che questa vita è dura, a me mi avete pure tagliato i testicoli. Ma io scodinzolo sempre e vado avanti”. In quei momenti penso che quando morirà io tornerò solo, e quasi mi dispiace di averlo preso quel giorno al canile. Poi dicono che i cani quando muoiono si allontanano e vanno a cercarsi un posto per non essere visti. Ma Ettore non so come si può arrangiare nei quaranta metri quadri di casa nostra. Mio fratello Vincenzo dice che sicuramente si va a mettere sotto al letto mio, perché è l’unico posto quieto.

Mamma ha preso questa abitudine: se le vengono i nervi e le gocce non bastano, si prende il cane in braccio e lo strapazza tutto. A volte lo chiama sarchiapone mio e gli dice anche le cose nell’orecchio. Nemmeno a me che sono il figlio mi dice più le cose nell’orecchio.

“Ormai sei grande, e poi ti ho detto che è scortesia”
“Allora Ettore?”
“Che c’entra! Ettore è cane, non conosce l’etichetta”.
Poi però anche io, ultimamente, se tengo i pensieri, mi stringo forte a Ettore. Affondo le dita nella sua pelliccia morbida, fino a quando non arriva un calore fortissimo e subito mi passano le formiche nelle mani di quando sono arrabbiato. Se poi accosto la testa, sento pure il battito profondo del suo cuore. Allora tutto diventa piccolo e lontano, come dietro a una plastica, le mani di zio Alfredo che frugano tra le cosce di mamma, gli occhi chiusi di papà girato di lato a bersi la birra, gli strilli di Marilena, le bestemmie in tre lingue di mamma…

Poi mia sorella, dopo la seconda crisi anafilattica, è guarita dall’allergia a Ettore. Lei però, quando aveva sei mesi, le è venuta una febbre altissima ed è rimasta ritardata. Così quando l’abbiamo portata al Cardarelli, il dottore era stranito. Ma io l’ho subito informato, “Non vi preoccupate, capo, Marilena è handicappata”.

“Menomale” ha risposto “mi pensavo che era stato il pelo del cane a scemunirla!” Siamo scoppiati tutti a ridere, pure mamma che ha dato un pacchero forte in testa a Marilena per farla smettere di piangere. “Non rompere il cazzo, piccerè, che già stai inguaiata!”

Il dottore si è complimentato con mamma dicendole che è importante saper gestire con ironia la malattia della figlia. Le ha fatto pure l’occhiolino, mentre si allungava per darle la ricetta, e allora mamma ha stretto le labbra, piegando il collo di lato come nella foto sul comodino, quando era giovane e senza i segni sulla faccia.

Ettore è un bravo cane, ma tiene ancora questo vizio di sgarrare sul pavimento con la pipì, se sta nervoso o qualcosa lo emoziona. Prima di queste feste, zio Alfredo stava assai di genio per qualche motivo suo, e allora si è preso una fissa: si doveva vestire da Babbo Natale e presentarsi a mezzanotte del ventiquattro vicino all’albero di Ikea con tanto di barba finta e sacco dei regali.
Io ormai sono grande, e altri bambini in casa non ce ne stanno, ma zio Alfredo stava così preso dal suo piano che quasi subito abbiamo smesso di dirgli “Non ti preoccupare, zio. Grazie ma basta il pensiero”.

Zio Alfredo è uno che quando gli prende la fissa per qualcosa, smette di esistere. Anzi, esiste solo per quello, e tutti gli ostacoli che trova tra lui e la cosa che ha in testa li abbatte con una furia che non ho mai visto in faccia a nessuno. Si era pure convinto che il costume doveva cucirselo da solo, perché aveva cercato e cercato, ma quei mariuoli dei sarti non sapevano fare il loro mestiere e “Quanto è vero che mi chiamo Alfredo Palmisano, non mi metterò mai il costume made in china della Coin”. E allora, visto che non c’era soluzione, perché da mamma stava tutta la roba per cucire, zio Alfredo prima si è messo in aspettativa dal lavoro e poi si è trasferito praticamente a casa nostra, per fare tutte le prove e le misure indispensabili a finire il suo capolavoro.

Io ho subito capito che dovevo tenere Ettore lontano dalla stanza di mamma e papà, dove zio Alfredo si era accampato assieme al manichino di polistirolo e ai rotoloni di tessuto rosso.
Come tutti i cagnolini, a Ettore piace molto pisciare su cose nuove. E il gusto aumenta se sono cose tanto colorate e tengono una forma strana. Allora per evitare tragedie e salvare il Natale, ho fatto un segno bianco con il gesso per terra davanti alla mia porta e sono stato un giorno intero accovacciato di fronte a Ettore, per ficcargli in testa che non doveva superare la striscia.

Visto che non volevo sculacciarlo, ho trovato il modo di punirlo tirandogli piano la punta delle orecchie. Ogni volta che sgarrava, gli dicevo “No Ettore, cattivo!”. E tiratina di orecchie. Ma, alla terza tiratina, Ettore si è capovolto per chiedermi i grattini sulla pancia, e io ho capito che per lui quella non era una punizione, ma solo un gioco molto divertente.

Infatti è stato faticosissimo, e alla fine della giornata, quando è scattata la serratura della porta e papà è rientrato col silenzio, io mi tenevo Ettore tra le braccia e lo scongiuravo nell’orecchio “Hai capito? La striscia è importante. Io lo so che per te è strano, ma fidati di me: non superarla… MAI”.

Mentre papà passava come un’ombra tra noi, Ettore si è avviato svelto verso la striscia, poi si è fermato a due centimetri, si è voltato a guardarmi e zampettando è tornato da me. Ho tirato un sospiro di sollievo e me lo sono strapazzato tutto, dicendogli “Bravo Ettore, sei proprio un cane bravo”. Lui ha scodinzolato e per premio gli ho lanciato tre biscottini a forma di osso che ha ingoiato come fossero aspirine, senza nemmeno masticare. Mentre Ettore sbavava dalla felicità di avermi accontentato, io tra me e me pensavo: manca ancora una settimana a Natale, speriamo bene.

Il giorno dopo ho portato Ettore dal signor Peppino, al secondo piano. A casa di Peppino, Ettore si arricrea perché c’è un odore di piscio così forte che il cane si pensa di essere arrivato in paradiso. Io, invece, cerco di andarmene subito perché l’odore mi fa vomitare. Questa volta però Peppino era curioso di sapere perché si doveva tenere il cane. Allora gli ho spiegato: “Vincenzo si porta a casa la nuova fidanzata e non vuole Ettore tra i piedi. Dice che questa qui tiene molta classe e quel maiale del tuo cane lo sgozzo se le salta addosso come ha fatto con l’ultima! Che sarebbe Mena, quella chiatta che odora di salame”

“Filomena Mangiarulo, la nipote di Ciccio il pescivendolo?”
“No, un’altra. E poi Vincenzo ha detto a mamma: ‘Sta volta mi sono sistemato, a ma’! Questa Sonia sta sfondata di soldi, tiene pure la proprietà. A me che cazzo me ne fotte. Mi sveglio a mezzogiorno che quella sta già a faticare, giro per casa in mutande, mi faccio i cazzi miei, gioco con la playstation e mò per Natale mi compro pure la vestaglia di seta rossa come quella dei Conti.
Ma almeno è una brava ragazza? Ha detto mamma. Vincenzo allora è scoppiato a ridere così forte che si vedevano i pezzi di pomodoro tra i denti: Come no, una santa! Uguale a questo mamoziello qui. E mi ha sollevato peso peso per l’orecchio.”
“È vero!” ha detto Peppino stupito “guarda, pare che tieni una zampogna!”
“Mamma gli ha urlato in faccia, allora lui mi ha lasciato l’orecchio, e io sono salito sopra a portarvi il cane”
“Aspetta, vado a prenderti il ghiaccio”
“No no, me ne torno. Mi raccomando Ettore”. E sono scappato via prima di svenire per la puzza.

Sembra strano, ma dopo sono passati sette giorni senza incidenti. Anzi, zio Alfredo stava in stato di grazia, era molto gentile con mamma e cercava di ripagare l’ospitalità portando quasi sempre le paste mignon a pranzo. Parlava poco della sua opera, ma da come teneva spiritati gli occhi si capiva che il suo pensiero era: Non voglio dirvi niente, perché a parole non si può spiegare la magnificenza che sta venendo fuori. Ma a Natale vi sbalordirò, e tutti sapranno chi è Alfredo Palmisano, perché il babbo natale mio rimarrà nella storia mondiale dei babbi natali e il mio nome si tramanderà tra le renne di tutto l’emisfero australe.

Mamma in quei giorni stava troppo contenta e pure un po’ sorpresa che niente di brutto era ancora successo, visto che di mezzo ci stava zio Alfredo. Io lo so, lei si diceva: sarà la volta buona che pure Alfredino è cambiato, si è fatto più tranquillo, maturo. Perché mamma da fuori sembra più vecchia della sua età per via di quei segni che le sofferenze le hanno fatto uscire sulla fronte e sul collo, ma certe volte, dentro, pare una bambina piccola che ancora crede nelle favole.

I giorni passavano, e ogni pomeriggio verso le cinque, appena la luce del sole calava un poco nascondendosi dietro alla collina dei Camaldoli, zio Alfredo smetteva di cucire e si faceva mezz’ora di pennica sulla poltrona sfondata di nonna. Nella casa tornava il silenzio buono, che riposa le orecchie, perché la cucitrice di mamma è vecchia e fa il rumore di un treno dentro una galleria.

Dopo nemmeno un’ora rientrava papà e senza salutare nessuno andava spedito al frigorifero per ritrovare la sua amica birra. A volte nemmeno si accorgeva del fratello minore lì vicino con addosso la sua vestaglia e ai piedi le sue pantofole che sorseggiava caffè freddo dal bicchierino di plastica.

In quei giorni Ettore stava sempre insieme a me e mamma in cucina, con Marilena seduta sulla sedia vicino al balcone e la radio accesa su Napoli Sound.
Quando le cose vanno bene, non ci pensi mai. Poi qualcosa inizia a scricchiolare, e allora capisci, quella era la felicità. Mamma che accompagna le canzoni della radio con un lamento allegro e ci mette le parole sue inventate durante i ritornelli, Ettore accucciato tra i miei piedi, mentre cerco di fare i compiti per il giorno dopo e ogni tanto lancio in alto la penna facendola volare attraverso il vapore che sale dalle pentole, e la riacchiappo appena in tempo sulla discesa, prima che Marilena si metta a gridare indicando a terra come se un meteorite si fosse schiantato sul pavimento della cucina.

Finalmente eravamo alla vigilia. Vincenzo stava ancora con la famosa Sonia di buona famiglia, chiatta e con i buchi in faccia ed era già la terza volta che la portava a casa nel giro di una settimana. Un’altra cosa strana, che non era mai capitata prima.

La prima volta, questa Sonia a mamma non le aveva fatto una bella impressione, e nemmeno la seconda e la terza se è per questo, ma teneva così tanta voglia di vedere Vincenzo sistemato, o perlomeno tranquillo, senza problemi di debiti o amici fatti che lo cercano alle tre di notte, che si era data un pizzicotto sulla pancia e l’aveva invitata personalmente al cenone di Natale.

“Vincè…” ha detto timidamente mamma la mattina del ventiquattro appoggiando una spalla alla porta del bagno, mentre mio fratello si schiaffeggiava le guancie con il dopobarba verde ammirandosi la museruola appena rifatta nello specchio, “…ma questa Sonia… fosse la volta buona?”

Vincenzo ha fatto il sorriso delle grandi occasioni e tirandosi mamma sotto braccio le ha strofinato pollice e indice della mano destra davanti agli occhi dicendo piano piano una sola parola, quasi se la volesse trattenere ancora un poco in bocca, per assaporarsela meglio, prima di farla uscire fuori e sprecarla come una qualunque del vocabolario. La parola era “Munnezza”.

Nel pomeriggio sono salito da Peppino e con la scusa di fargli gli auguri, gli ho domandato di questa storia della munnezza. Lui ha fatto una smorfia e se n’è rimasto zitto, come se la mia domanda gli avesse messo una tristezza dentro che non si aspettava.

Dopo un po’ ha scosso la testa e mi ha fatto lui a me mille domande su cosa combinava Vincenzo e in quali giri si era cacciato questa volta. Alla fine mi ha scompigliato i capelli e con un mezzo sorriso ha detto “Speriamo che hai capito male, e noi ci stiamo facendo sopra il film. Quelli sono degli schifosi. Più malamente dei malamente. Perché ce ne stanno tanti che fanno la malavita da noi, lo sai, ma non tutti tengono genio di avvelenare l’acqua che si bevono pure i loro figli. Per fare così bisogna essere il diavolo in persona. E non è più facile che questa Sonia di mestiere fa la spazzina? Oppure tiene tutta la famiglia sistemata alla nettezza urbana, fosse ‘a primma vota…”

Siamo scoppiati tutti e due a ridere forte e Peppino mi ha abbracciato stretto facendomi tanti auguri di un sereno Natale. Mi ha pure chiamato “ragazzo mio”. Io ero così sorpreso per la sua gentilezza, che nemmeno mi sono accorto della puzza di pipì. O forse, visto che Natale viene un solo giorno all’anno, Peppino aveva festeggiato l’Avvento con un bel bagno profumato.

Quando sono sceso giù, che mancava solo mezz’ora all’inizio del cenone, mi è sembrato quasi di tornare in una casa diversa dalla mia. La tavola nel soggiorno era apparecchiata con tanto di candele dorate e ogni tovagliolo era annodato in modo strano al centro del piatto, come nei ristoranti di lusso. Nemmeno un bicchiere era di carta, e le posate brillavano come se qualcuno le avesse lucidate una per una.

Mamma con quel vestito rosso fuoco sembrava Rossella O’Hara, e aveva riempito la testa di Marilena con tanti fiocchettini dello stesso rosso identico. A me mi ha mandato subito in camera a mettere le bretelle del nonno, pure quelle rosse, e io ho cominciato a girare per casa con Ettore al guinzaglio e uno stuzzicadenti in bocca, molleggiandomi avanti e indietro con l’aria severa che fanno gli adulti quando tengono troppi pensieri.

Nel giro di dieci minuti è comparso zio Alfredo quatto quatto con un borsone sottobraccio. Sembrava un ladro appena scappato dalla gioielleria. Subito appresso sono arrivati Vincenzo e Sonia. Lui stava vestito con gli stessi jeans e la stessa camicia della mattina, mentre lei era truccatissima come un femminiello e sembrava una caramella con tutti i merletti che le uscivano dalla minigonna stretta stretta sulla pancia. Quando si è seduta io le ho contato almeno tre rotoli, uno in più di Gennaro ‘o puorco, il più chiatto delle Scuole Medie Giacomo Leopardi.

Pareva di essere tornati a quei giorni quando Marilena era ancora piccola e papà qualche parola la diceva pure. Infatti anche lui era di buon umore. Stava a capotavola e continuava a dire una frase, sempre la stessa, nel modo suo, con la voce che appena si sentiva e le parole stiracchiate per lo sforzo di uscire “C’è una bella atmosfera oggi, a casa”. E poi annuiva, sforzando l’angolo destro della bocca a sollevarsi per mandarmi una specie di sorriso.

Prima di mangiare ho portato Ettore sul tappetino morbido davanti alla porta della cucina e gli ho posato vicino l’osso di bue legato con un fiocco rosso avanzato da quelli che mamma aveva cucito per Marilena.
A tavola non abbiamo parlato tanto, perché tutti tenevamo troppa fame. Il pranzo della vigilia, infatti, lo avevamo saltato apposta per strafogarci meglio la sera. Marilena è stata buona buona per tutto l’antipasto e il primo, poi ha ricominciato con gli strilli. Mamma per distrarla le ha passato una fetta di pane cafone. Marilena ha buttato sul pavimento la crosta e ha bagnato la mollica con la Ferrarelle nel bicchiere. Mentre noi finivamo il baccalà fritto e l’insalata di rinforzo, ci ha bombardato tutti con le palline di pane zuppo nei capelli.

Verso le undici e mezza, zio Alfredo si è quasi strozzato con la terza fetta di pastiera, si è sollevato di scatto da tavola arraffando l’ultimo babbà ed è scomparso in camerino per prepararsi (“camerino” era il nuovo nome della camera di mamma e papà).

Quando mancavano pochi minuti alla mezzanotte, ci siamo alzati tutti da tavola e mamma come ogni anno è andata a prendere dal suo posto segreto il Bambinello di plastica che a mezzanotte in punto va sistemato tra il bue e l’asinello nel presepe sulla credenza all’ingresso.

Sonia fino a quel momento non aveva ancora detto una parola, teneva i capelli pieni di palline di pane e continuava a stringere il suo bicchiere di champagne come fosse il collo di qualcuno, ma sempre col sorriso. Ogni tanto si guardava intorno stordita, ma i suoi occhi spalancati erano vuoti, senza luce.

Marilena la fissava come fa sempre con le persone nuove e ogni tanto si avvicinava e le tirava un merletto diverso della gonna. Forse Sonia, per come stava vestita, le ricordava una delle sue bambole di pezza.
Mamma è riapparsa dal buio del corridoio portando il bambiniello stretto tra le mani come fosse un bimbo vero e preziosissimo. È stato in quel momento che Sonia ha detto quello che ha detto, e poi è successo tutto: il cielo è cascato sul tetto e il tetto sulla nostra testa.

È stato così in fretta che i miei ricordi sono confusi, ma le parole di Sonia me le ricordo bene, perché ridendo sembrava che le vomitasse al centro della casa con tutto lo champagne che si era stipato fino a quel momento nei rotoli della pancia.
“Signora bella, mi è venuta un’idea”, indicando Marilena, “la parte del bambiniello facciamola fare a questa scimmietta qui, così la smette di fare la deficiente!” Qualcuno deve aver spalancato la finestra della cucina, perché una corrente freddissima è soffiata sulle nostre facce e un silenzio cattivo ha riempito l’aria come una gelatina. Dopo qualche secondo mamma ha rotto la gelatina e calma calma, a voce bassissima che a stento si sentiva, ha detto a Sonia “Piccerè, che bella idea! Ma se a Marilena la deficiente facciamo fare la parte di Gesù bambino, a Sonia la vacca dove la mettiamo? Al posto del bue o dell’asinello?”

A questo punto Sonia si è trasformata che nemmeno la bimba nel film dell’esorcista. Sulla sua fronte larga e bucata dai segni dei brufoli sono comparse delle pieghe profonde, le labbra si sono storte e su tutta la faccia hanno iniziato a spuntare delle chiazze rosse e viola. Quando ha parlato, anche la voce era diversa, più sguaiata e maschile, come se le venisse direttamente dai rotoli pure quella.
“Piezze ‘e cantera, che vai ricenno? Marit’t è nu scemo, e tu ce fai pure ‘e corna co’ frate! Io te sparo in bocca a te e a tutta a famiglia toia!”

Finanche Vincenzo si è spaventato e ha fatto un passo indietro perché sembrava quasi il verso di un animale, e le parole erano mischiate a una specie di ringhio selvaggio. Ettore, che per tutta la cena se ne era restato buono buono sul tappetino a guardarci da lontano, accovacciato con le zampette di dietro rilassate sulle mattonelle della cucina, si è risollevato tutto rigido e impettito, e si è messo a rispondere al ringhio di Sonia con il suo ringhio di cane.

“E ‘o primmo c’acciro è chella bestia!” ha gridato Sonia ancora più forte indicando con il dito a forma di wurstel il mio Ettore. Vincenzo sembrava un fantasma, tutto bianco in faccia e senza parole.
Nemmeno il tempo di calmare Ettore, che quando mi sono girato mamma e Sonia erano venute già alle mani, anzi ai capelli, visto che se li tiravano tra loro urlandosi in faccia “Mò te faccio ‘o strascino!”

“No, io a te!”, finché non è intervenuto papà che si è messo a dividerle come se aprisse una cozza gigante, poi, quando finalmente si sono staccate, ha preso Sonia per la gola con una mano e Vincenzo per un orecchio con l’altra, ha spalancato la porta con un calcio e li ha buttati fuori sulle scale. Si vede che non era ancora soddisfatto, perché è tornato dentro, ha raccattato la borsa a pois di Sonia e gliel’ha chiavata dietro insieme al bicchiere di champagne sporco di rossetto.

“Voi munnezza siete, la munnezza degli esseri umani!” ha detto tra i denti mentre rientrava tutto rosso in casa. Mamma si è seduta tremando in punta alla poltrona col bambiniello stretto ancora nel pugno chiuso. In quel momento è scoccata la mezzanotte e da dietro una pianta è comparso zio Alfredo vestito da babbo natale cantando Jingle Bells mentre scuoteva un campanaccio da pecoraro in mano.

Ettore, che fino a quel momento si sarebbe meritato il premio Nobel dei cani perché nonostante tutti gli odori del cenone se ne era rimasto buono buono sul suo tappetino a giocare con l’osso di bue – e poi non si era mosso nemmeno al ringhio di Sonia – è sgattaiolato sotto al tavolo fino ai piedi di zio Alfredo, ha annusato con calma il tessuto rosso del vestito e ha sollevato la zampa. Io lo avevo portato giù qualche ora prima, ma si vede che la vescica si era di nuovo riempita tutta, oppure Ettore si sentiva assai ispirato. Zio Alfredo è rimasto immobile con il campanaccio fermo in mano. Continuava a guardarsi i pantaloni zuppi e le scarpe allagate di pipì con la fronte pensierosa, come uno che vede qualcosa che lo incuriosisce ma non capisce cos’è.
Marilena, che pure lei fino a quel punto era rimasta tranquilla (molliche di pane a parte), ha ripreso a gridare e ridere forte e più mamma provava a calmarla, più lei indicava zio Alfredo e sbracciando urlava “Piscia, piscia! Zio Alfredo piscia!”

Io ho fatto segno a Ettore di tornare subito da me, ma lui se ne è rimasto fermo a scodinzolare davanti a zio, lasciandogli il tempo di prendere coscienza. E infatti all’improvviso zio si è come scetato da un sogno, gli occhi si sono fatti piccoli e cattivi e con una mano sola ha acchiappato Ettore per la coda tenendolo sollevato a testa in giù come un coniglio. Mentre lo strattonava malamente gridava “‘Stu cane è muorto! ‘Stu cane adda murì!”

Così l’ha trascinato in cucina. Mi sono fiondato appresso a zio per salvare Ettore. Il cuore mi batteva tra i denti, come se tutto il sangue si fosse spostato nella testa. Mamma si è allungata di scatto e mentre teneva ancora una mano sulla bocca di Marilena, con l’altra ha cercato di acchiapparmi sotto la spalla per non farmi andare. Io già tenevo le mani che mi tremavano e sentivo le formiche salirmi veloci nelle braccia attraverso i gomiti. Con un gesto brusco le ho scansato la mano e fissandola con rabbia l’ho spinta verso il muro con tutta la forza che tenevo. Solo dopo, a ripensarci, mi sono accorto che negli occhi di mamma c’era la paura, e dietro alla paura una domanda, grande ma silenziosa.

Io però dovevo pensare a Ettore, così l’ho lasciata scivolare con la schiena al muro fino a terra, mentre il bambinello rotolava sul tappeto rincorrendo le palline di pane di Marilena.
Zio Alfredo continuava a urlare “Cane ‘e merda! T’aggia accìrere!”

Il guaito di Ettore mi faceva male alle orecchie e quando il neon della cucina mi ha illuminato in pieno la faccia, Zio Alfredo si è girato verso di me con gli occhi del pazzo.
“Tu qua stai? Bravo, è giusto. Devi vedere l’esecuzione”.

Io piangevo e non mi usciva una parola. Mi faceva male la testa, non riuscivo a pensare e gli occhi da pazzo di zio Alfredo mi mettevano paura.
Sempre tenendo Ettore come un coniglio, con la mano libera zio si è avvicinato al forno elettrico e ha schiacciato ON. Poi ha aperto lo sportello e ci ha ficcato dentro Ettore, che però non voleva entrare e si agitava tutto come un capitone. Quando lo sportello del forno si è chiuso, Ettore ha fatto un ultimo guaito disperato.
È sceso il silenzio. Zio Alfredo mi ha guardato sospirando e sembrava di colpo tornato tranquillo. Si è seduto su una delle sedie di paglia intorno al tavolo, si è asciugato il sudore sulla fronte con un tovagliolo di carta e poi si è scavato nella manica per trovarsi l’orologio. L’ha osservato a lungo come se dovesse leggerci dentro il futuro e mi ha chiesto con calma “Sai quanto ci mette l’agnello a cuocersi bene bene, fino a dentro?”

Io tremavo tutto e riuscivo solo a pensare che volevo stare nel forno insieme al mio Ettore, perché la cosa più brutta non è soffrire, ma soffrire da soli.
Dopo qualche secondo che a me però è sembrato un’ora, mamma è comparsa sulla porta della cucina che pareva un’altra donna, proprio diversa da quella che bestemmiava a Sonia e dopo la spinta mi guardava impaurita, tremando sul pavimento. Si era tolta le scarpe e teneva un lembo del vestito penzolante per le mazzate di prima, ma pareva comunque vestita di tutto punto, quasi stesse portando l’alta uniforme, e la sua camminata era lenta ma molto sicura. Negli occhi teneva una luce cattiva che non le conoscevo.

Con gesti semplici semplici, come quelli che fa ogni giorno per mettere i panni in lavatrice o cucinarmi una fettina, si è diretta alla parete dove stanno tutte le padelle in alluminio appese ai ganci, ha afferrato per il manico la più grande, l’ha soppesata bene come fanno i tennisti con la racchetta prima di servire, e dopo un lungo respiro l’ha chiavata con tutta la forza in faccia a zio Alfredo. Poi ha riappeso la padella ammaccata al muro, ha aperto il forno e facendosi piccola piccola si è allungata fino all’angolo in fondo dove Ettore stava rannicchiato e tremava come una foglia. Quando finalmente l’ha tirato fuori, lui stava tutto spaurito e mamma se l’è tenuto in braccio come un bambino, e ogni tanto gli diceva “Schhh, tu sei un bravo cagnolino, va tutto bene adesso, schhh…”

Lo so che è stupido, perché a finire nel forno è stato Ettore, però quasi l’ho invidiato in quel momento perché poteva essere il bambino che io non sarò mai più.
Ho pensato male, perché a Ettore non sono bastate un po’ di coccole. Era troppo spaventato e appena mamma l’ha posato dolcemente sul divano che di solito è il suo posto preferito, è saltato giù come tenesse una scarica di corrente ancora in circolo, si è messo a correre per casa come un coniglio pazzo, ha sbattuto tre volte contro un tavolino e due sedie, poi, come le mosche quando si sbattono in un posto chiuso, non appena ha incarrato la via di uscita della porta di casa rimasta semiaperta dopo il mazziatone di papà, non ci ha pensato due volte ed è scappato fuori.
Sono corso subito da Peppino facendo le scale due a due, sperando che Ettore si fosse nascosto da lui, ma niente, nemmeno l’aveva visto. Quando sono rientrato, mamma stava guardando papà in silenzio e papà guardava il presepe e ogni tanto si girava verso mamma con l’aria di rimprovero di un bambino offeso, senza mai riuscire a fissarla dritta negli occhi.

Mamma mi è venuta incontro e mi ha detto con un filo di voce “Vieni, piccerì, andiamo a dormire in camera di mamma. Attento a dove metti i piedi. Domani pensiamo a tutto”.

Da qualche giorno siamo entrati nel nuovo anno, e Ettore ancora non si è visto. Vincenzo sta ai domiciliari, perché il giorno di Natale, dopo essersi lasciato malamente con Sonia, per sfogarsi lo stress ha picchiato a sangue un tunisino alla stazione che voleva vendergli un accendino. Mamma ha riportato Marilena all’istituto, e passa le giornate a piangere. Mi chiede duecento volte al giorno dove sta Ettore, perché le goccine non fanno più effetto.

“Non lo so”
“Ma l’hai cercato bene?”
“Come no”
“E dove sta, dove sta…”
So che vorrebbe stringerlo come faceva prima e allora le dico che ho cercato, e continuo a cercarlo. Ma non è vero. Faccio dieci volte il giro della casa, lo chiamo e lo richiamo. Controllo anche fuori al pianerottolo e dai vicini. Ma già lo so, non può rispondere da dove sta. Certe volte mi viene di guardare sotto al mio letto, ma poi non lo faccio. Forse era solo stanco di vivere con noi, in una casa dove non sai mai se è peggio il silenzio o l’ammuina.
Quando succede qualche cosa o, peggio ancora, quando non succede, e allora mi iniziano a salire le formiche nelle mani, terrei tanta voglia di metterle dentro al pelo di Ettore, fino a che non sento più niente, tranne il battito caldo del suo cuore. Il fastidio delle mani aumenta, ma ho capito che se le chiudo facendo i pugni stretti poi, dopo un poco, mi passa.
Ma devo stringere forte, più forte che posso.

Il sentimento d’impostura

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di Ornella Tajani

Càpita, anche ormai lontani dalla maggior età, di sognare di dover ripetere l’esame di maturità, o di ritrovarsi davanti a un imprecisato tribunale che ci accusa di non aver sostenuto tutti gli esami universitari: nel sogno siamo ingiustamente costretti a tornare fra i banchi per la versione di greco o il compito di matematica, oppure ci accorgiamo di avere per anni montato una truffa, perché nel nostro percorso scolastico o accademico c’è una falla.

Nella realtà che diventa letteratura, la trama di una menzogna di questo tipo è magistralmente sviluppata da Emmanuel Carrère in L’Adversaire. Ma nella realtà che ci riguarda, in quella cioè in cui siamo – da svegli – effettivamente diplomati o laureati, un sogno del genere è per Belinda Cannone, scrittrice e saggista francese, un chiaro sintomo del sentimento di impostura (Le sentiment d’imposture, éditions Calmann-Lévy, 2005; oggi Folio Gallimard; tradotto da Giovanni Lombardo per Edizioni di Passaggio, 2011).

Gli esempi che Cannone fornisce sono vari e accattivanti: si passa dalla letteratura alla psicanalisi, dalla politica al cinema, alla diretta testimonianza di suoi amici e conoscenti. Il sentimento di impostura è quello che affligge tutti gli esseri che sentono, per una loro intima, terrificante e spesso irrazionale convinzione, di occupare da impostori un posto che non gli spetta, una posizione – professionale, sociale, intellettuale, o di rivestire un ruolo all’interno di una relazione sentimentale – che non meritano. Ciò che Cannone vuole descrivere è «una di quelle forme chimeriche della mente che ossessionano un individuo, condizionando a volte la sua intera esistenza o una parte della sua esistenza, e che puntualmente la rovinano» (trad. mia per le citazioni).

Prendiamo un altro esempio: Rebecca, la prima moglie. Nel capolavoro di Hitchcock, Rebecca è soltanto un fantasma: la vera protagonista femminile non solo non compare nel titolo, ma resta senza nome per l’intera durata del film. Questo perché tutta la sua identità è condensata nel ruolo di seconda moglie: nessuna altra complessità sembra esserle concessa. La donna, di umili origini, occupa questa casella sociale afflitta da un fortissimo sentimento di impostura: dopo essersi sposata con l’uomo che ama, il ricco Maxim de Winter, nonostante sia ormai diventata padrona del castello di Manderley, quando qualcuno telefona a casa e chiede della sig.ra de Winter, lei, piuttosto che riconoscersi in quel titolo, risponde «La sig.ra de Winter è morta». Non si sente legittimata a occupare il suo posto accanto a Maxim, nonostante il suo ruolo sia ufficialmente riconosciuto.

«Per provare un sentimento d’impostura, bisogna aver raggiunto un traguardo», spiega Cannone: bisogna cioè aver conquistato la posizione desiderata. Succede, ad esempio, al personaggio letterario del «negro bianco»: in La macchia umana di Philip Roth, Cole Silk giunge all’obiettivo accademico prefissato, celando però a tutti un dato fondamentale sulle sue origini. L’autrice tiene a sottolineare la differenza tra impostura e vergogna, ritenendo che quest’ultima sia determinata da una colpa reale o da una «macchia», appunto, socialmente condannabile. Laddove la vergogna inibisce l’azione e porta all’isolamento, l’impostura si accompagna invece a una volontà più attiva, a un desiderio di vittoria. Schematicamente, per Cannone, «alla triade inibizione-depressione-vergogna, l’impostore contrappone quella desiderio-angoscia-sentimento d’impostura». In verità la distinzione è forse meno netta di quanto affermi l’autrice, poiché impostura e vergogna possono confondersi e sfumare, ad esempio, nel solco di una mémoire humiliée, tema splendidamente trattato da alcuni autori francesi contemporanei (Annie Ernaux, Didier Eribon) e sul quale mi riservo di tornare in futuro.

Uno dei nodi più interessanti del saggio è invece il legame dell’impostura con il precariato: se un tempo l’affermazione professionale era molto più semplice e rapida, diremo quasi automatica, oggi la sua mancanza provoca un inevitabile senso di crisi. Diventa difficile, così, conquistare il famoso posto all’interno della società, o magari questo posto è occupato parzialmente, temporaneamente: al suo interno ci sediamo di traverso, restando scomodi. È una scomodità che diventa esistenziale, alla quale rispondiamo mediante una iper-affermazione della nostra singolarità. In altre parole: se le dichiarazioni «sono un avvocato», «sono una scrittrice», «sono un’insegnante di matematica» suscitano in chi le pronuncia un sotterraneo senso di impostura, perché a parlare è un praticante/una scrittrice senza editore/una supplente, cos’altro si può fare per combattere il senso di crisi se non ribadire costantemente – magari sui social – che si è avvocato, scrittrice o docente di matematica? L’ipotesi di Cannone è che l’autopromozione generalizzata sia una reazione di difesa psichica dell’individuo costretto all’interno di una società labile e precaria, in cui la «casella» da occupare nel mondo non è già pronta, ma è tutta da montare, come un mobile Ikea, e non è detto che si disponga di tutti i pezzi. Oppure ci sono i pezzi ma non le istruzioni: è il caso divertente, per quanto un po’ forzato, di Antoine, un altro degli intervistati, professore di ruolo di letterature comparate, la cui testimonianza sottolinea come il campo della comparatistica richieda ai suoi appartenenti di possedere una imprecisata, ma fondamentale, «identità» comparatista che lui stesso non riuscirebbe a definire. La questione identitaria, insieme all’indissolubile rovello rappresentato dal merito in una società che si vanta della propria meritocrazia, è l’asse principale dell’esplorazione, da parte dell’autrice, del disagio intimo dell’impostura.

Nella parte finale del libro Cannone si dedica a casi di impostura determinati dalla provenienza sociale, trattando esempi di persone appartenenti a classi disagiate che sono riusciti ad affermarsi nel campo del lavoro o della politica. L’autrice, con una provocazione, si spinge a dire che in fondo, nonostante le trombe dell’ideologia meritocratica quasi d’obbligo in una società democratica, la maggior parte degli individui cova nell’animo una concezione aristocratica del valore, legata a una distinzione di nascita. «Non si tratta di credere davvero che il ceto aristocratico sia per natura superiore – chiarisce Cannone -, ma piuttosto del fatto che il loro titolo indica un’antichissima familiarità con il potere». Qui l’autrice cita Freud e la patologia del romanzo familiare, per la quale, dato l’assioma mater certissima/pater incertus, il bambino di origine modesta inizia a fantasticare sulla possibilità di essere in realtà figlio di un uomo ricco e potente. Questo è il tema, fra l’altro, di un bel racconto di Didier Daeninckx, La particule (in Off Limits, trad. Fabio Gambaro, Donzelli), nonché il punto di partenza del saggio di Marthe Robert del 1977, Roman des origines et origines du roman, in cui l’autrice, partendo dallo studio di Freud, teorizzava due differenti tipologie di romanzo: quella dell’enfant trouvé, del trovatello, e cioè della letteratura che inventa, mettendo magari in scena un personaggio che fantastica su un’esistenza straordinaria e altra da quella che gli è concessa (così come fa il trovatello sulle proprie origini; Don Chisciotte sarebbe l’archetipo di questo modello); e quella del bastardo, dunque della letteratura realista, che conosce i fatti, il cui protagonista è consapevole della propria condizione e affronta il mondo per quello che è, cercando di conquistarlo (il Balzac della Comédie, ecc.).

Ciò significa – prosegue Cannone – che la questione dell’essere “nati bene” non riveste solo una dimensione sociale. Nell’infanzia quest’idea si mescola a vari sogni e fantasmi […]. Da adulti, ognuno viene restituito alla propria modesta condizione reale. Così, quale che sia la nostra origine sociale, il vecchio piccolo principe che alberga in ognuno di noi reclama all’io diventato adulto un’identità grandiosa – insostenibile. È da qui che forse proviene il tanto diffuso sentimento d’impostura.

Questa penultima proposizione di Cannone è solo una possibile ipotesi dell’imbrigliabile oggetto d’analisi che l’autrice prova a ritrarre in questo breve saggio, a-scientifico, irriverente e spesso arbitrario, ma ricco di suggestioni. L’epilogo, invece, apre a una interrogazione ampia sul senso dello stare al mondo, sullo stupore primitivo della nascita e lo sconcerto provocato dall’esistere che portano l’individuo a mettersi continuamente in discussione, e a sentirsi spesso fuori posto. È anche da qui che, forse, scaturisce il sentimento d’impostura, faticoso ma appassionante, perché obbliga a uscire da se stessi, a ricercare un confronto costante con l’altro – un altro cher imposteur, mon semblable, mon frère.

Un salotto a Salò. Pasolini in Arcitaliani di Massimo Sgorbani

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di Marco Simonelli

arcita

A quarant’anni dal brutale omicidio di Pier Paolo Pasolini, l’humus social-mediatico italiano ha ricordato il poeta friulano glorificandone il nome e in linea di massima tacendone l’asperità e complessità dell’opera poetica e cinematografica: persino le Poste Italiane hanno emesso un francobollo che ne raffigurava l’effige, sancendone così la beatificazione nell’empireo filatelico. Chi invece ha preferito ricordare Pasolini e il suo acume critico nei confronti del perbenismo della società italiana post-bellica è il drammaturgo Massimo Sgorbani che con Arcitaliani o le 600 giornate di Salò ha omaggiato l’opera pasoliniana isolandone alcuni temi fondamentali per poi rielaborarli nella costruzione di uno spettacolo teatrale della durata di tre ore.

Lo spettacolo si apre all’indomani della liberazione della Sicilia da parte degli Alleati e segue le vicende di uno strampalato e fumettistico nucleo familiare orgogliosamente fascista ispirato al personaggio di Sor Pampurio Arcicontento iconica creatura partorita dalla penna di Carlo Bisi per il Corriere dei Piccoli: un padre presuntuoso e autoritario (Marco Natalucci) che, come il suo doppio d’inchiostro, costringe la famiglia a cambiare casa continuamente; una madre (Rosanna Gentili), ingessata in un tailleur verde sotto al ginocchio, che soffre di tremende quanto provvidenziali emicranie; un figlio  adolescente (Roberto Caccavo) alle prese con le prime pulsioni sessuali che comunica, attraverso stati onirici, con i fantasmi dei partigiani trucidati, una fedele e stralunata servetta di estrazione contadina (Gaia Nanni) e un pappagallino che, dalla sua gabbietta, commenta in versi le vicende dei protagonisti. Al plot principale del testo si aggiungono gli inserti grotteschi di Ben e Claretta (Mussolini e la Petacci, rispettivamente Gianfranco Quero e Giusi Merli), marionette umane dalla fisicità distorta i cui dialoghi altro non sono che decontestualizzati  lacerti della corrispondenza intercorsa fra il Duce e la sua amante. Da subito il colorato e disfunzionale nucleo familiare si rivela un microcosmo di fascismo: i vari componenti infatti, avvalendosi del ricatto e della minaccia, costringeranno a turno la servetta a consumare con loro un rapporto sessuale. Esilaranti e terribili, gli amplessi a scena aperta altro non sono che esplicite citazioni pasoliniane: la famiglia borghese risemantizza quella di Teorema sconvolta dall’attrazione erotica per l’ospite Terence Stamp; il personaggio della servetta abusata è un emblema dei giovani sottoproletari che in Salò subiscono le torture dei quattro carnefici fascisti mentre il personaggio del pappagallino che interagisce con i protagonisti commentandone le azioni cita i pennuti parlanti di Uccellacci e uccellini.

Ma al di là delle suggestioni pasoliniane, Arcitaliani appare come un dramma allegorico che esplora l’archetipo di una famiglia affetta da un fascismo inteso come disfunzione affettiva, violenza sopraffatrice, incomunicabilità. I componenti della famiglia infatti sembrano comunicare fra loro avvalendosi di frasi fatte, consuetudini, tic non solo linguistici: il figlio, che cresce -amleticamente- comunicando con i fantasmi dei partigiani trucidati, il padre che cambia continuamente abitazione poiché insegue l’irraggiungibile ideale di un appartamento perfetto, la madre che nasconde la propria sessualità ed evita il “dovere coniugale” con la scusa del mal di testa celano, dietro la loro tendenza macchiettistica, i fantasmi che potevano alternarsi nella psiche di chi visse, come Pasolini, in quel contesto storico. Si tratta di un teatro freudiano che esplora le conseguenze sadiche dell’incomunicabilità e della solitudine. L’enuresi del figlio, la fissazione scatologica del padre, il rigido perbenismo fobico della madre sono altrettante spie di un malessere storico-filosofico che sembra affondare le proprie radici nella marionettistica rappresentazione del dux-pater patriae Ben(ito), ipersessualizzato megalomane tiranno che risulta comico e grottesco nella sua spavalderia di latin-lover senile. Unica remissiva risorsa affettiva e comunicativa affidabile dell’intera famiglia risulta essere l’abusata servetta sottoproletaria che non si limita a fornire ai tre il proprio corpo bensì l’ascolto di cui necessiterebbero ma che non riescono a darsi reciprocamente.

I momenti più trascinanti di Arcitaliani sono indubbiamenti i monologhi in cui ogni membro della famiglia borghese rompe la quarta parete e si produce in un’autoanalisi psico-semiologica con lo scopo di illustrare al pubblico il significato profondo delle proprie azioni: ne emergono patologie neuro-sociali come l’analisi che la madre fa dell’origine della sua emicrania, ricondotta all’usanza iconografica dell’aureola che nell’arte sacra denota la santità del personaggio rappresentato.

Nel salotto della famiglia borghese irrompono, attraverso gli incubi del figlio, i fantasmi veri e propri dei partigiani che hanno perso la vita per mano dei tedeschi: vengono realizzate in questo modo le scene più commoventi dell’intero testo, affidate a un coro di giovani attori che si producono in un suggestivo controscena.

La regia di Gianfranco Pedullà accentua ed esaspera i connotati fumettistici della famiglia di Pampurio: sgargianti e stereotipati, creature smaccatamente finte (come del resto lo sono Ben e Claretta, amanti tragici ridotti a fantocci o macchiette d’avanspettacolo) si contrappongono alla coralità lucida e precisa nell’iperrealismo dolente delle scene oniriche.

Significativa la scelta di scritturare un poeta (Rosaria Lo Russo) per interpretare il pappagallino: a questo personaggio, che si esprime utilizzando luoghi testuali di Malaparte e D’Annunzio, è affidato il ruolo di fool shakespeariano, linguacciuta presenza che dalla sua gabbietta rammenta alla famiglia borghese l’oscenità delle loro azioni. Nella sua morte (verrà brutalmente freddato dal figlio con un colpo di pistola) è possibile leggere in filigrana sia un riferimento al D’Annunzio dell’impresa di Fiume (il cui spirito verrà in seguito tradito dagli esiti del fascismo), sia un riferimento all’omicidio di Pasolini intellettuale scomodo.

Il dramma troverà il suo epilogo in piazzale Loreto, fatale ultimo domicilio della famiglia di Arcitaliani dove la servetta rivelerà il suo ruolo di allegoria del sottoproletariato: verrà infatti sedotta dalla Radio stessa, nella persona del cantante (Massimo Altomare) che interpreta brani dell’epoca (Mamma mi ci vuol la fidanzata, La famiglia canterina etc) per permettere agli attori un rapido cambio di scena. Nel suo destino si traduce la lucida visione che Pasolini ebbe del sottoproletariato e della sua inurbanizzazione e conseguenti “corruzione” e imborghesimento fra gli anni ‘50 e ‘70, forse il modo più schietto e incisivo per ricordare il lascito intellettuale di Pasolini all’Italia.

Date dello spettacolo presso il Teatro delle Arti di Lastra a Signa

2015
– 30 ottobre (anteprima)
– 01 novembre (anteprima)
– 02 novembre (debutto)
– dal 03 all’ 08 novembre (repliche)
2016
– dal 13 al 15 maggio (repliche)

La vita esemplare di Fabio Maniscalco, archeologo in trincea

1

di Tomaso Montanari

(Pubblichiamo l’intervento di Tomaso Montanari letto alla presentazione romana del volume di Laura Sudiro e Giovanni Rispoli, Oro dentro. Un archeologo in trincea: Bosnia, Albania, Kosovo, Medio Oriente, Skira 2015. Nato a Napoli il primo agosto 1965, Fabio Maniscalco, archeologo, è protagonista di una serie di originali, pionieristiche esperienze nella tutela del patrimonio culturale minacciato, sovente offeso, dai conflitti insorti tra la fine del Novecento e i primi anni Duemila. Rielabora e sistematizza le conoscenze sperimentate in Bosnia – Sarajevo in particolare –, Albania, Kosovo, Cisgiordania dando vita a una nuova disciplina, per l’appunto la tutela dei beni culturali nelle aree di crisi, che insieme all’archeologia subacquea diventa per lui materia d’insegnamento all’Orientale di Napoli. Un tumore provocato dall’esposizione all’uranio impoverito durante le missioni nei Balcani lo stronca, a soli quarantadue anni, il primo febbraio 2008.)

oro dentroOro dentro. Un archeologo in trincea: Bosnia, Albania, Kosovo, Medio Oriente è un libro che bisognava scrivere: Laura Sudiro e Giovanni Rispoli lo hanno fatto nel migliore dei modi. L’ ‘oro dentro’ del titolo è quello, metaforico, di chi ha il cuore abbastanza grande da spendere la propria vita per salvare un bene comune (proprio quel patrimonio culturale: e cioè la memoria e il futuro, di paesi in guerra). Ma è anche quello, purtroppo letterale, che l’uranio impoverito delle bombe Nato esplose in Kosovo ha fatto penetrare, insieme ad altri metalli, nel corpo in cui batteva quel cuore: fino a ucciderlo. Sono queste le due terribili facce della breve, ma meravigliosa, vita di Fabio Maniscalco.

Se questo Paese avesse ancora un servizio pubblico televisivo, la figura di Fabio (che non ho avuto la fortuna di incontrare di persona, ma che dopo aver letto questo libro mi sembra di conoscere da sempre) dovrebbe essere al centro di un racconto fatto di documentari, rigorose inchieste giornalistiche e (perché no?) anche di fiction capaci di far conoscere a tutti un italiano di cui essere, finalmente, fieri. Un italiano da cui imparare qualcosa.

Questo libro, d’altra parte, fa esattamente questo: anzi, fa qualcosa di più. È sempre raro (ma oggi è rarissimo) che un libro riesca a storicizzare la figura di un contemporaneo senza affogarla nella retorica, o senza ridursi ad un’inchiesta o ad una denuncia. Oro dentro, invece, ci riesce: è come se la materia della nostra vita quotidiana, la nostra cronaca, le nostre esistenze così seriali, simili, piccole e in fondo irrilevanti riuscissero qui ad apparire in una luce esemplare. Si arriva all’ultima pagina commossi, e profondamente turbati: ma soprattutto pieni di una fiducia rinnovata nelle possibilità di ognuno di noi.

Laura Sudiro e Giovanni Rispoli sono riusciti a trasmetterci il messaggio essenziale della vita di Fabio Maniscalco: e quel messaggio è che un singolo individuo può fare la differenza. Sempre: e – pensate! – perfino in Italia. Anche di fronte a sistemi corrotti e impermeabili (la nostra povera università), o ben decisi a non farsi cambiare (l’esercito): e perfino nel fuoco di terribili conflitti armati, mossi spesso da interessi imperscrutabili, giocati così in alto sopra le nostre teste.

Questo libro, dunque, fa quello che dovrebbero fare la scuola, o per l’appunto l’università: farci capire (quando siamo ancora in tempo) che la nostra vita è preziosa, importante. Forse essenziale. Può essere il granello che finalmente inceppa la macchina del sistema. Può essere quel millimetro in più che riesce a fare saltare lo stato delle cose. Può lasciare un segno. Può fare, davvero, la differenza.

fabio maniscalcoFabio cresce a Napoli, dove la progressiva distruzione del patrimonio artistico pare – come molte altre cose – fatale, irreversibile, immutabile. Se crolla un Lungarno nella mia Firenze (giustamente) il mondo tiene il fiato sospeso: ma se l’ennesima chiesa storica della Napoli in cui ho scelto di insegnare sprofonda nell’ennesima voragine, la notizia non arriva nemmeno al telegiornale regionale. Non inganni la propaganda di Pompei che rinasce e della Reggia di Caserta che risplende: chiunque vive in Campania conosce il vero stato delle cose.

Ma Fabio – che lo conosce come nessuno – non si arrende, e non si abitua: studia, invece. E non per fuggire: ma per cambiare le cose. A Napoli succede. C’è un bellissimo film (La seconda natura, di Marcello Sannino) che racconta l’esperienza di Gerardo Marotta e dell’Istituto di studi filosofici di Napoli. «La rivoluzione si fa studiando»: è questa la frase chiave del film. È questo l’unico modo di uscire dalla nostra condizione servile di uomini ad una sola dimensione – quella economica. L’unico modo di combattere e cambiare una classe dirigente dominata – dice Marotta – dalla «regina Ignoranza». La voce profetica di Marotta e la testimonianza eroica di Fabio Maniscalco arrivano all’Italia e all’Europa dal luogo da cui meno te lo aspetteresti: dalla Campania, che lo stesso Marotta definisce la pattumiera d’Europa, una regione popolata di ombre, di condannati a morte. È da questa terra – per millenni la più bella e feconda d’Europa –, da questa terra oggi ridotta ad un pozzo di veleni, da questa terra che avrebbe bisogno di tutto, che si alzano queste voci: fragili, e insieme fortissime.

La sua voglia di riscatto spinge Fabio, dopo una laurea in archeologia alla Federico II, ad andare a difendere il patrimonio dove le condizioni sono ancora più estreme: ufficiale a Sarajevo, e poi nel Kosovo. Ed è impossibile non pensare che sia stata la fragilità di Napoli ad insegnare a Fabio l’amore per le fragilità ancora più radicali. A Napoli, uno come Fabio non diventa egoista. Anche se Fabio è tormentato da quello che gli autori chiamano «la spirale del precariato»: una delle abissali vergogne dell’Italia presente. Ma proprio qui, in Italia, Fabio scopre che non ci si salva da soli.

In compenso è da solo, a mani nude, che il tenente archeologo Fabio Maniscalco riesce a fare quello che nessuno Stato sovrano sembra interessato a praticare: attuare l’articolo 7 della Convenzione Internazionale dell’Aja del 1954, che prevede che ogni esercito abbia un nucleo specializzato nella tutela del patrimonio culturale. È un’idea semplice e rivoluzionaria: mettere la conoscenza, la cura, la tutela nell’occhio del ciclone dei conflitti. Frivolezze? Preoccupazioni delle anime belle? No: sacrosanta sollecitudine di chi sa che, passata la guerra, la ricostruzione morale e culturale sarà impossibile se non potrà basarsi su un patrimonio monumentale ancora vivo e condiviso. È la lezione dell’Italia del dopoguerra: e Fabio la ricorda.

Ma Fabio è uno dei pochissimi: sono temi davvero marginali nel discorso pubblico. E la pubblica opinione non ha strumenti per giudicare. Per esempio, i caschi blu dell’arte voluti dal ministro Franceschini e accolti dall’Unesco sono una soluzione, o sono solo l’ennesimo spot? Quanto avrei voluto leggere un editoriale di Fabio Maniscalco, per poterlo capire!

E intanto nessuno ne parla. Fa impressione ricordarlo oggi, di fronte alle devastazioni dei barbari del sedicente Stato Islamico, ma anche gli stati europei – anche l’Italia – hanno contribuito, direttamente o indirettamente, alla distruzione di un’enorme fetta del patrimonio culturale del Kosovo. Lo sappiamo? Esiste qualche organo di stampa che sia interessato a denunciarlo, a documentarlo, a ricordarlo? Pare di no.

Fabio MANISCALCO

Fabio Maniscalco lo sapeva, e per anni ha combattuto con tutte le sue forze: andando sul campo, documentando, fotografando, studiando, fondando osservatori, scrivendo ai governi, mobilitando la pubblica opinione. Un archeologo, uno studioso, un soldato: ma prima un cittadino. Un cittadino esemplare.

Dietro tutto questo c’era una convinzione profonda: lottare per il patrimonio, significa lottare per i diritti fondamentali, per la salute psichica e fisica delle persone. Anche questa è una lezione imparata a Napoli: il veleno nella terra e la distruzione dei monumenti sono due facce della stessa medaglia. Quando dalla terrazza della Reggia di Carditello, devastata fino a poco tempo fa dalle razzìe della Camorra, si alza lo sguardo verso la campagna si vede un turbine di gabbiani: che non segnala il mare, ma la discarica di Maruzzella, criminalmente realizzata su un terreno acquitrinoso in cui il percolato penetra fino alla falda, avvelenando i frutteti circostanti, e compromettendo per decenni la catena alimentare, e dunque l’uomo. In questa distruzione simultanea dell’ambiente, del paesaggio, e del patrimonio storico e artistico pare di scorgere davvero «il cadavere della patria» (per usare un’espressione che Raffaello adoperò per descrivere la Roma classica devastata dai pontefici medioevali), cioè il volto sfigurato dell’Italia.

Fabio Maniscalco l’aveva capito: la lunga guerra per l’ambiente (usiamo un’espressione di Elena Croce), la lunga guerra per il patrimonio culturale, è anche la guerra per la nostra salute fisica e mentale. Come in un mito antico e crudele, Fabio ha sperimentato questa intima unione sulla propria pelle, fino a morirne: non basta essergli grati, bisogna proseguire il suo lavoro.

Aver scritto questo libro è stato il primo passo per farlo. Ora tocca a noi.

Le barisien

4

di Nicola Fanizza

polpi

A volte, quando entro in un ristorante e vedo esposti in bella vista dei polpi arricciati, mi accade di pensare a Michele Cardassi, un anarchico libertario che ho conosciuto negli anni Sessanta. Fu proprio lui a proporre – in occasione della prima Sagra del Polpo, tenutasi a Mola di Bari nel 1964 – di utilizzare la centrifuga della lavatrice per arricciare i polpi. Questa operazione, tradizionalmente, si fa agitando i molluschi su un cesto e termina nel momento in cui i polpi diventano, per l’appunto, tutti ricci, con i tentacoli che sembrano dei veri e propri boccoli. Le carni allora diventano tenere e croccanti e i cefalopodi sono pronti per essere consumati crudi o alla brace.

Michele era un individuo davvero fuori dal comune, aveva un’intelligenza analogica, un modo di pensare che gli consentiva di percepire somiglianze e corrispondenze là dove nessun altro avrebbe saputo trovarle.

Ricordo la sua corporatura esile, i suoi occhi vivaci e il suo sguardo intenso. Ogni volta che lo incontravo, mi sorprendeva con le sue affabulazioni. Emergeva dai suoi pensieri una singolare miscidanza di vigorosa maturità e di freschezza infantile.

Era nato nel 1906 a Mola in una famiglia di modeste condizioni sociali. La madre cuciva in casa e il padre faceva il barbiere, un mestiere che impone l’ascolto degli altri. Parlava poco, con parole sorvegliate per non urtare la sensibilità dei clienti, e sempre a tempo debito. Da qui la tendenza di Michele – ereditata, forse, dal padre – a non sprecare il fiato.

Michele aveva manifestato sin dalle elementari la sua predisposizione per le materie letterarie e in particolare per il disegno. Quando la maestra gli dava la consegna di scrivere un tema, la sua fantasia mirabilmente viva e limpida gli consentiva di veicolare ardite analogie. La maestra, però, non riusciva a capirne il senso e lo invitava a scrivere senza i suoi soliti «voli pindarici». Michele non fu compreso neppure da suo padre che, non tenendo nel debito conto le sue vere attitudini, lo iscrisse alla scuola marittima, dove conseguì la patente di motorista. Lo studio delle discipline scientifiche – meccanica, termodinamica ed elettrotecnica – non si rivelò, però, del tutto inutile. Quelle conoscenze si riveleranno oltremodo preziose, poiché gli consentiranno di estendere il suo orizzonte.

Dopo aver ottenuto il libretto di navigazione, Michele trovò un imbarco su un motopeschereccio con la qualifica di aiutante motorista e partì per il Levante. Durante la sua permanenza a bordo, utilizzava al meglio i tempi morti per leggere alcuni libri che gli erano stati consigliati da due suoi coetanei – Onofrio Martinelli e Bruno Calvani –, che condividevano con lui la passione per la pittura. Michele partecipava alle loro discussioni. Sentiva il loro pensiero come una forza sensibile quanto lo è il calore, la luce e il vento. Diceva altresì che tale forza era presente anche nella sua mente, era la sua capacità di stabilire nuovi legami tra idee apparentemente disparate.

Sulla scorta delle sue frequentazioni e delle sue riflessioni si accorse ben presto che non era tagliato per la vita sul mare. Decise, pertanto, di seguire la sua autentica predisposizione e si diede all’arte del ritratto.

Quando gli veniva chiesto di eseguire un ritratto, Michele chiedeva al committente – mentre era in posa – di parlare di qualsiasi cosa e, preferibilmente, di quei momenti rari, violenti e fuggitivi che avevano costellato la sua vita. Voleva sentire il suono della sua voce, voleva scandagliare i sotterranei della sua anima per individuarne i tratti ineffabili e restituirli alla vista nel disegno del suo volto. Il ritratto disegnato doveva sempre raccontare la storia in un uomo in carne ed ossa, doveva parlare delle sue sofferenze, doveva parlare dei suoi desideri, doveva parlare della sua vita. Di fatto il disegno di un volto ci colpisce sempre in maniera diversa dall’immagine realistica di una foto, poiché parla alla parte più profonda di noi stessi.

Va da sé che un ritrattista non poteva vivere per molto tempo in un piccolo paese. Ben presto, infatti, cominciarono a mancargli il lavoro e, insieme, il respiro. Decise, pertanto, di raggiungere il suo amico Onofrio Martinelli che si era trasferito da poco tempo in Francia.

Questo Paese era diventato da pochi anni la meta prediletta dei fuoriusciti antifascisti, e Michele si gettò a tuffo nel contesto tanto caotico quanto stimolante della Parigi della seconda metà degli anni Venti. Qui la sua enorme curiosità lo porta a frequentare i movimenti libertari e gli ambienti delle avanguardie artistiche e – stando a quello che mi raccontò – strinse amicizia con Picasso, il quale lo avrebbe rappresentato in un ritratto in bianco e nero. Nondimeno l’esistenza di quel quadro è un vero e proprio mistero, poiché nessuno è riuscito mai a vederlo!

Gli anni vissuti a Parigi furono fra i più belli della sua vita. Le autorità francesi erano oltremodo tolleranti nei confronti dei fuorusciti italiani. Dipingeva solo quando ne aveva voglia; mangiava solo quando aveva fame; si abbandonava all’istinto e all’effervescenza magmatica del momento; viveva una dimensione di tempo senza tempo; era un autentico flâneur. Il suo rapporto con Parigi era diventato a tal punto empatico da fargli «dimenticare» persino la sua terra e la lingua dei suoi genitori. Michele parlava in francese anche quando incontrava i suoi conterranei. Nondimeno a ricordargli le sue origini pugliesi ci pensarono i suoi amici parigini: infatti, gli affibbiarono il nomignolo Le Barisien.

Dal suo fascicolo personale – conservato presso il Casellario politico centrale –, apprendiamo che nella primavera del 1930 Michele era rientrato in Italia e aveva manifestato in più occasioni la sua ostilità nei confronti del regime fascista. Da qui l’attenzione degli organi della polizia nei suoi confronti. La Commissione Provinciale di Bari decise di limitare la sua liberta personale e lo inserì «nell’elenco Categ. 5^ delle persone pericolose da arrestare in alcune contingenze».

Ecco qui di seguito il dispositivo argomentativo dell’Ordinanza del 5 luglio 1930, con cui venne «sottoposto ai vincoli dell’ammonizione»:

«Cardassi Michele di Natale ha sempre professato idee libertarie, delle quali ha tentato di fare propaganda ogni qual volta se ne è presentata l’opportunità.

Rimase alcuni anni in Francia, ove, vuolsi, abbia fatto parte di organizzazioni operaie estremiste, fra le quali svolgeva attiva propaganda antinazionale»*.

Per lui, che aveva le gambe nervose e infaticabili, la limitazione delle sue possibilità di movimento nello spazio e nel tempo era un duro colpo. Si sentiva come un leone in gabbia. Veniva continuamente sorvegliato, era circondato da delatori, e per di più non trovava lavoro. E tuttavia ciò che, probabilmente, lo spinse ad andare via da Mola di Bari fu la distanza che avvertiva nei confronti di una città che, improvvisamente, gli era diventata ostile. Era venuto meno il tessuto delle relazioni degne. Mola per Michele era diventata un inferno.

L’occasione propizia gli capitò nel febbraio del 1933, quando riuscì, finalmente, a espatriare clandestinamente, «valicando il confine nei pressi di Postumia» (Slovenia). Non appena superò la frontiera, Michele vide il cielo riempirsi di nuovi colori.

 

 

 

*Roma, Arch. Centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Casellario politico centrale, Michele Cardassi, b. 1071. Michele Cardassi, in quanto «ammonito», per due anni doveva rincasare prima delle 20 e uscire dopo le 7 del mattino. Due volte la settimana aveva l’obbligo di presentarsi dai carabinieri e non poteva «trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole o in case di prostituzione».

da “Sonnologie”

0

[Presentiamo alcuni testi tratti dalla sezione iniziale di Sonnologie, Zona, 2016]

di Lidia Riviello

 

1.

i clienti si spingono oltre il
sonno nel vetroresina trattato

l’infusione sottovuoto è carissima

solo sulle barche se lo permettono un sonno per intero.

provenire da un paradiso
reinvestire nel poker

 

l’istituto lascia accese le vetrate
aperte le sedie a sdraio all’ingrosso
che non vedi ancora sulle spiagge

 

in questo sonno
solo il cinque per cento dei sogni
contiene palme mare sabbia tropicale.

l’istituto lascia accese le vetrate

 

 

sulle sponde
molti uomini decidono
se farsi fotografare prima del sonno

 

sul controllo delle nascite dei futuri
insonni sono stati scritti interi trattati.

 

si fa presto a sostituire questo trattato
visivo, la ventraia dipinta in un angolo della
sala con il panorama delle seychelles
taggato alle spalle.

sull’uso e non sul significato dei sogni

 

l’antiossidante per chi russa,
non credere sia una forma di
amore, la provano anche sugli
orsi.
piace vedere eventi di successo in serie di autoscatti
…………………………………………….riabilitativi che non devi
…………………………………………….intendere
…………………………………………….come tecnica erotica camuffata.

 

di questo sonno conservano molte versioni hd,
la programmazione in sala, l’esaltazione dell’insonnia.

il cliente non reagisce all’ingerimento di salmone

 

quelli nelle balaustre fredde del riposo dicono che i diversi livelli di
difficoltà impediscono la rimozione delle strutture, anche del fitness.

………………………………..non vengono ascoltati e per fortuna si dorme si
………………………………..sognano i cavalli
………………………………..così come sono stati sempre rappresentati.

 

qualcuno suggerisce di intenderlo come splendore del
rudere, l’addestramento al sonno,
un’attività che può dirsi del momento

…………………………………..ma nel bosco si fa fatica a convincere
………………………………….. tutti dell’infondatezza di un qualsiasi
………………………………….. prodotto pensato per il suo tramonto.

per la ostinata età del realismo si provocano nel cliente
delle reazioni che lo inducono a produrre molte visioni
superficiali come quella della città rossa

 

la camomilla cancellata
da tutte le schede dei profitti genera un problema di
esaurimento delle immagini mobili,

………………………………risolve la questione della cartellonistica fissa
………………………………in alcune località del litorale laziale.

 

i clienti dimenticano facilmente gli omaggi, il gesto dell’anulare
piegato teneramente ad indicare pretese di punti sulle spese
grandi marche durante i mondiali.

la performance divora l’azione politica

 

fuori dal mercato avremmo un altro aspetto, ma
la minoranza di cose sagge e meravigliose
ne conosce talmente che l’indotto, il marchio, il riciclo
fioriscono indisturbati
nel tribal

andrea mantegna non viene
esposto per un equivoco fra
prospettiva e orizzonte di attesa.

(…)

il sonno non è assicurato

 

sull’isola il cliente teme un colpo di sonno

………………………………….un colpo solo
andato a fondo nella preistoria, sul dorso
del pesce
si raffigura nel binocolo il naufragio del materno.

 

assiste alla sindrome lattea del dormiente successivo,

 

non si possono sognare mani
ma capita di forare il male senza impedire una nascita

mercanzia onirica
se l’uomo non dorme perde una qualità

 

se avessero costruito al toro un
mondo questi visualizzatori
non funzionerebbero sempre, sarebbero solo architettura

 

non reagiscono dentro la catena
se lasciati liberi nella cornice

 

una sola vena in trasferta
al passaggio dell’autoerotismo
si alimenta in questa specie di sonno

 

quando la vista splende, il sogno perde molto
gas, esalta definitivamente il mondo delle pose.

Da “La Resistenza dell’Impero”

0

di Michelangelo Zizzi

Dalla galera i complici lanciano occhiate a rate
tra le non rade grate di sbarre.
Qui non si vede che un monaco,
un savio pare forse che il saio
rastrema in una luce di gloria,
lo si vede che passeggia con sbirri
nei cortili incantati dalla pioviggine,
il volto trapassa nel pertugio da sauro
con occhi a lato verso l’alba
orior che dalle pietre fitte si sporge
nell’antichità di rettile degli arredi
d’ombra d’oblò del carcere.

Non si dà vera vita se non nella falsa. Sulla tetralogia di Elena Ferrante/2

1

[segue da  qui]

di Sara Farris*

napoli1

«Smarginatura» delle questioni di classe e di genere

Con la smarginatura i confini si dissolvono. Ma il tema della scomposizione dei margini corre lungo i quattro libri in modo meno esplicito e più metaforico quando la narrazione affronta questioni di confini di classe e di genere. Lena e Lila sono cresciute in una povera famiglia patriarcale dove era abbastanza normale vedere i propri padri picchiare le madri, così come, più generalmente, i maschi le femmine. Questi episodi di violenza assumono di fronte ai loro occhi un carattere quasi naturale e ineffabile: sono elementi ordinari della vita quotidiana. Eppure, entrambe le ragazze lottano, fin dai primi anni, ognuna a suo modo, per la propria indipendenza e per la propria emancipazione da un ambiente che le opprime e che riconoscono come profondamente ingiusto nei confronti delle donne. Lila è la prima a riconoscere il dominio maschile come una forma di potere, che lei decifra non in modo teorico, ma per questo in modo non meno radicale. Dopo la delusione per la fine di un amore intenso e clandestino con un giovane intellettuale (Nino), Lila decide di lasciare suo marito, uomo autoritario e ottuso, per stare con Enzo, che non le può certo garantire il livello di benessere del marito, ma che in compenso le sa trasmette integrità e passione politica. E soprattutto la rispetta. Lavorando come operaia Lila si scontra soprattutto con il sessismo che domina il suo ambiente di lavoro insieme agli altri problemi che affliggono le madri lavoratrici. Lo descrive in un discorso che assomiglia al potente, quanto memorabile, monologo di Giammaria Volonté ne La classe operaia va in Paradiso:

Disse sfottendo che non sapeva niente della classe operaia. Disse che conosceva solo le operaie e gli operai della fabbrica dove lavorava, persone da cui non c’era assolutamente niente da imparare se non la miseria. Ve l’immaginate, chiese, cosa significa passare otto ore al giorno immersi fino alla cintola nell’acqua di cottura delle mortadelle? Ve l’immaginate cosa significa avere le dita piene di ferite a forza di spolpare ossa d’animale? Ve l’immaginate cosa significa entrare e uscire da celle frigorifere a venti gradi sotto zero, e prendere dieci lire in più all’ora – dieci lire – per l’indennità freddo? Se ve l’immaginate, cosa credete di poter imparare da gente che è costretta a vivere così? Le operaie devono farsi toccare il culo dai capetti e dai colleghi senza fiatare. Se il padroncino ne ha necessità, qualcuna deve seguirlo nella camera di stagionatura, cosa che chiedeva già suo padre, forse anche suo nonno, e lì, prima di saltarti addosso, quello stesso padroncino ti tiene un discorsetto collaudato su come lo eccita l’odore dei salumi. (Vol. 3, p. 106).

Se Lila è la prima a comprendere il potere dei confini di genere, è anche la prima a comprenderne la fragilità: sarà infatti lei ad incoraggiare Alfonso, suo cognato, a vivere l’omosessualità in modo tranquillo. Lena, invece, scopre e sfida i confini di genere in un modo molto più libresco, ma non per questo meno capace di trasformarla. Mariarosa, sua cognata, la introduce al femminismo. La fa partecipare a gruppi di autocoscienza femminile. Lena è rapita, in particolare, da Carla Lonzi e dal suo famosissimo Sputiamo su Hegel. In questo saggio, la Lonzi propone di applicare la dialettica hegeliana servo/padrone al rapporto uomo/donna. Le donne hanno bisogno di diventare soggetti di una storia rinnovata, mettendo fine ad una condizione nella quale sono semplicemente un’ipotesi formulata da altri.

Come è possibile, mi dissi, che una donna sappia pensare così? Ho faticato tanto sui libri, ma li ho subìti, non li ho mai veramente usati, non li ho mai rovesciati contro se stessi. Ecco come si pensa. Ecco come si pensa contro. Io – dopo tanta fatica – non so pensare. Nemmeno Mariarosa sa: ha letto pagine e pagine e le ricombina con estro, dando spettacolo. Tutto qui. Lila invece sa. È la sua natura. Se avesse studiato, avrebbe saputo pensare a questo modo. (vol. 3, p. 254-5).

Lena scopre il potenziale trasformativo del pensiero femminista e della ribellione alla subalternità di genere; questa scoperta le cambia la vita e la getta subito in un groviglio fitto di contraddizioni. Ciò che la affascina infatti delle teorie femministe e dei gruppi di autocoscienza non è il loro attivismo, né le implicazioni politiche della loro ribellione; ma il fatto che questo modo femminile di pensare suscita in lei la stessa ammirazione e subalternità che ha sempre sentito nei confronti di Lila. Lena non usa infatti la sua nuova cultura femminista per sentirsi più vicina a tutte le altre donne, ma solo per essere più vicina a Lila. A differenza dell’amica – che riscatta la propria esperienza personale di abusi e di sfruttamento in fabbrica in lotta pubblica – Lena inizialmente sfrutta l’esperienza del gruppo femminista come carta da giocare a proprio vantaggio nella sua personale competizione con Lila. Anche in seguito, quando decide di scrivere un saggio sulla storia della cultura occidentale come cultura nella quale “gli uomini fabbricano le donne”, Lena ci parla di questa decisione enfatizzando ambiguità e motivazioni personali. Scrive sulle donne assecondando il pensiero femminista perché vuole fare colpo su un uomo: Nino. Sostiene la presa di coscienza delle donne e subito permette al suo amante di mancarle di rispetto e di ingannarla, mentendole. Tutti i passaggi del terzo e quarto volume sui rapporti di Lena con il femminismo e con le femministe sono perturbati dall’ansia e dai sintomi della sindrome dell’impostore. Da scrittrice ormai affermata, può far credere ai suoi lettori di essere riuscita a rompere con successo le barriere del canone letterario dominato dai maschi – il suo primo libro era un testo all’avanguardia per le sue esplicite scene di sesso, scritto proprio alla vigilia della rivoluzione sessuale – ma non può mentire a se stessa. La sua mancanza di sicurezza e di autenticità rispetto al suo impegno intellettuale e femminista non può essere disgiunto dalle sue crisi di autostima rispetto alla sua appartenenza di classe. Superando i confini di genere, le barriere del canone letterario e perfino le forme normative della rispettabilità borghese – lascia suo marito e le sue figlie per Nino, il suo amore di gioventù – Lena dà in realtà forma alla sua ansia per la sua incerta identità di classe. L’educazione e il matrimonio le hanno infatti permesso di fare una scalata sociale lasciandosi alle spalle il mondo popolare nel quale era nata per entrare a far parte della classe media riflessivo. E tuttavia si sente sempre estranea ad entrambe le realtà sociali. Mentre Lila supera i confini del proprio corpo fino a temere la disintegrazione del mondo che la circonda, Lena oltrepassa i limiti della sua identità di classe e di genere. Mentre Lila sembra affrontare il terremoto emotivo e sociale che la sovrasta con determinazione, cercando disperatamente di proteggere se stessa e suo figlio, Lena lascia che tutto ciò per cui vive e che la circonda cada a pezzi: il suo matrimonio, la sua relazione con le figlie e con se stessa.

E tuttavia, la Ferrante complica, con l’intelligenza delle soluzioni narrative, la logica binaria che oppone l’immagine di Lila, persona autentica, a quella di Lena, personaggio invece condannato all’inautenticità. Non è infatti la apparentemente falsa e autoironica Lena la stessa che ci racconta le sue battaglie per essere una persona vera con appassionata onestà? Se infatti al suo personaggio, che viola i confini delle gerarchie di classe e di genere, è negata la solidità tanto di convinzioni salde quanto di godere una dignità irreprensibile, quello che tuttavia lei ci lascia come narratrice è invece la sincerità: la lotta per la verità nonostante la consapevolezza del suo impossibile possesso.

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Il doppio e il perturbante

È stato osservato che la tetralogia di Elena Ferrante appartiene alla tradizione dei romanzi costruiti su una coppia, una coppia memorabile. Come Fastaff e il principe Hal, come Settembrini e Naphta, i personaggi di Lena e Lila ci rimangono impressi per la forza della loro relazione quasi simbiotica.

Per comprendere a pieno il significato di questi romanzi, e della loro enigmatica conclusione, mi sembra importante invece pensare a Lena e a Lila come a due facce della stessa persona; in altre parole, propongo di immaginare Lila come una proiezione simbolica dell’immaginazione di Lena. Se vale quest’idea, la tetralogia può essere interpretata anche come una narrazione del doppio e del perturbante, come nel caso del William Wilson di Poe o del Dorian Gray di Wilde. È stato Freud, come è noto, a legare il tema del doppio, presente nella letteratura tedesco dell’Ottocento, al tema del perturbante (das Unheimliche). La presenza di uno schema narrativo che duplica lo stesso destino, gli stessi misfatti e perfino gli stessi nomi nella vita di due persone diverse (vale a dire il protagonista e il suo doppio) è ciò che crea la sensazione inquietante di qualcosa di strano e perturbante. In altre parole, ciò che rende una serie di eventi diversi e identici all’interno di una narrazione come esperienza del perturbante, è la sensazione, se seguiamo Freud, che le coincidenze non sono casuali, ma pezzi di un puzzle che nasconde un significato fatale. E ancora più importante è il fatto che per Freud il perturbante si genera dall’intuizione che il doppio nei romanzi non sia una persona reale ma un automa o un’ombra immaginaria, sulla quale il protagonista proietta parti di sé che non conosce o che non accetta. Se vale questa prospettiva, è difficile non osservare che la tetralogia di Elena Ferrante ha tutti gli ingredienti per essere considerata come una narrazione del perturbante.

Nino, l’uomo amato da Lila da ragazza, diventa, col procedere della narrazione, l’amante e il partner di Lena da adulta. Ma Lila, da piccola, ha anche sempre sognato di diventare scrittrice; e sarà questa la professione di Lena. Sia Lila che Lena hanno due figlie più o meno nello stesso periodo e Lila chiama la sua Tina, dal nome della bambola di Lena. Le due figlie sembrano ripetere la stessa traiettoria delle madri: Tina è precoce ed estremamente intelligente proprio come Lila, mentre Imma, la figlia di Lena, è una bambina abbastanza comune. Ancora più significativo è il fatto che la figlia di Lila sparisce nel nulla, esattamente come Tina, la bambola di Lena, è sparita anni prima senza più essere ritrovata. Almeno fino alla fine del romanzo…. E tuttavia, il susseguirsi di queste coincidenze non coincide mai con una semplice ripetizione dell’identico. Ognuna di esse si presenta in fasi diversa della vita delle due amiche. Più precisamente, Lena “realizza” i sogni della sua infanzia e adolescenza – come quello di diventare l’amante di Nino e una famosa scrittrice – in età adulta. Ed è all’apice del suo successo come scrittrice e come femminista che Lena rivive, questa volta per interposta persona, il suo complesso di inferiorità verso Lila nel rapporto quotidiano fra sua figlia e la figlia di Lila, la geniale Tina. E questa è probabilmente la ragione per cui Tina deve sparire… per la seconda volta! La sua presenza come reincarnazione di un doppio inquietante di Lena le impedisce di rinascere da se stessa.

Passo dopo passo, la Ferrante ci porta a scoprire il rapporto fra le due protagoniste come l’incontro e il desiderio di Lena con il proprio doppio. È un incontro carico si sofferenza e di angoscia, ma di cui ha bisogno per trovare se stessa. La Ferrante non racconta lo sviluppo del personaggio di Lena come un percorso lineare, come una sorta di maturazione di potenzialità già esistenti nel suo carattere. Lena da adulta non è la versione matura e dischiusa del personaggio Lena da bambina. Piuttosto, la sua personalità ha bisogno di un confronto e di un rispecchiamento continuo con Lila, e di riconoscerla come suo doppio (e poco importa qui capire se Lila sia un personaggio fittizio o reale) per incarnarsi realmente. Ed è forse per questa ragione che solo alla fine del quarto volume, proprio nelle ultimissime righe, dopo che misteriosamente ritrova nel suo appartamento le due bambole perdute nella sua infanzia (lasciate lì presumibilmente da Lila), che Lena esprime il dubbio di aver vissuto la propria vita come una proiezione, o forse addirittura come la realizzazione della vita di un suo doppio:

[Lila] mi aveva ingannata, mi aveva trascinata dove voleva lei, fin dall’inizio della nostra amicizia. Per tutta la vita aveva raccontato una sua storia di riscatto, usando il mio corpo vivo e la mia esistenza (Vol. 4, p. 451).

L’enigmatica scoperta dell’esistenza delle due bambole, che Lena pensava ormai perse per sempre, illumina l’oscura mancanza della scomparsa di Lila. “Ora che Lila si è fatta vedere così nitidamente, devo rassegnarmi a non vederla più” scrive Lena nell’ultima commovente frase del romanzo. Ora che Lena può finalmente riconoscere la menzogna originaria di Lila, che fu centrale per tutta la loro lunga amicizia, lei immediatamente capisce anche che Lila non può più tornare. O forse, per Lena le due bambole sono solo metafore della sua relazione con Lila, una proiezione simbolica della loro relazione d’amicizia. Ancora più rilevante è il fatto che Lena ci dice che ha appoggiato le due bambole “contro il dorso dei suoi libri”. E solo ora che le osserva da vicino si rende conto di quanto siano brutte e a buon mercato. Ora che può finalmente vivere incarnata nella propria pelle, Lena è pronta a vedere le due vecchie bambole come due lati conflittuali della sua stessa personalità; come due relitti di un passato nel quale era ancora una ragazza povera che abitava quell’inferno di miseria che è stato il sud Italia. Ed è solo opponendosi a questo passato che può finalmente riconoscersi, nel presente, come una scrittrice di successo. Al di là dei significati possibili del ritrovamento delle due bambole, noi lettori non possiamo non sentire una profonda sensazione di nostalgia e di confusione. Perché capiamo che le verità ora visibili non sono semplici, né tanto meno univoche: “la vita vera, quando è passata, si sporge non sulla chiarezza ma sull’oscurità” scrive la Ferrante in uno degli ultimi densi passaggi di questa tetralogia. Si trova se stesse attraverso l’incontro con l’Altro e si perde l’Altro quando la sua presenza non è più necessaria. Tutto questo, però, non significa aver finalmente raggiunto una verità solida su cui potersi riposare.

[Fine].

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*Traduzione dall’inglese di Daniele Balicco.

il dibattito no, no, il dibattito no

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Il dibattito
di
Philippe Muray
(traduzione di effeffe)
Non si dovrebbero mai fare dibattiti. Il dibattito, come il resto, nel nostro mondo di intransitività incalzante, ha perso il suo complemento diretto. Si fanno dibattiti ancor prima di sapere su cosa: quel che conta è riunirsi. Il dibattito è diventato una mania in solitaria da praticare in dieci, cinquanta, cento, uno stereotipo celibe e contemporaneamente gregario, un modo di stare insieme, un magma di interglosse che consente di consolarsi costantemente del fatto di non raggiungere mai, da soli, alcunché di fondamentale. Non si dovrebbero mai fare dibattiti; oppure, nel caso non se ne potesse davvero, fare a meno, limitarsi a dibattiti sulla necessità di fare dibattiti. Chiedersi all’infinito, fino all’ esaurimento, qual è l’ideologia del dibattito stesso e la sua necessità mai messa in discussione; e come è possibile mai che il reale molteplice che lo stesso dibattito pretende di dibattere si dissolva alla stessa velocità con cui si dibatte. Eppure nessun dibattito potrà svilupparsi su una siffatta questione, poiché è proprio tale evaporazione del reale ad essere il vero scopo inatteso di qualsiasi dibattito. Si convocano le questioni fondamentali e le si sciolgono, man mano nelle macchine macinatrici della comunicazione. E più c’è dibattito, meno vi sarà il reale. Rimarrà alla fine solo il miraggio di un campo di battaglia in cui si diffonde l’illusione logorroica e imperitura che si possa decifrare il mondo solo attraverso un dibattito; o, se non in questo, in un successivo dibattito, forse. E’ di questa illusione che si nutre l’animatore di dibattiti.
Perché bisogna fare dibattiti? Qualsiasi argomento oggetto di dibattito si deve supporre debole, per definizione, dal momento che può essere demolito o intaccato da un altro argomento. Ogni pensiero che si è costretti a sostenere merita di cedere. E del resto il vero pensiero, il pensiero fondamentale, inizia soltanto laddove il dibattito finisca (o si zittisca). Orbene, solo ciò che è fondamentale conta perché apre alla piena conoscenza della realtà umana, e non lo si ottiene mai per sfregamento di idee composite le une contro le altre come, nel racconti orientali, si strofinino le pantofole per farne venire fuori il genio. Un nuovo pensiero, un pensiero fondamentale del mondo non può essere discusso, ponderato con calma, soppesato in buona compagnia, emendato, corretto, sfumato, palpeggiato, ammorbidito con pro e contro fino a che non assomigli a una mozione di compromesso di una riunione sindacale o la miserabile sintesi finale di un congresso del partito socialista. Qualsiasi proposta originale è minacciata in un dibattito da quel che potrebbe succedergli di peggio: un protocollo d’intesa. Un nuovo pensiero del mondo può e deve essere assestato come dissidenza irrimediabile, come un’incompatibilità d’umore. Non bisogna argomentare, bisogna tagliare di netto. Pensare, è presentare la frattura.
da Essais de Philippe Muray (Les belles lettres)

Per una tomba senza nome

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Per una tomba senza nome, J.C. Onetti, SUR Edizioni 2016
Per una tomba senza nome, J.C. Onetti, SUR Edizioni 2016

[pubblichiamo la prefazione di Antonio Pascale a Per una tomba senza nome, romanzo di Juan Carlos Onetti, edito da SUR nel 2016, e apparsa sul quotidiano l’Unità il 27 febbraio 2016.]

di Antonio Pascale 

Alcuni motivi per leggere questo libro 

Supponiamo che amate le saghe e tuttavia, proprio perché le conoscete a menadito, riuscite a indovinare dopo pochi capitoli come va a finire l’intera stagione e insomma desiderate qualcosa di più complesso (anche perché qualcosa vi dice che la complessità a volte è affascinante).
Supponiamo ancora che vi piace tanto leggere – e non necessariamente le saghe – ma provate una certa stanchezza per le tradizionali, abusate strutture narrative che da millenni regolano l’andamento di una storia.

Nicola Vacca, «Vite colme di versi»

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di Giacomo Verri

Nicola Vacca, raffinato amante della poesia, e poeta lui stesso, racconta, in un volume uscito per i tipi di Galaad edizioni, il proprio viaggio ideale attraverso ventidue poeti del Novecento; non solo maestri italiani, ma anche stranieri, non solo i nomi dei grandi ma anche quelli dei ‘sommersi’ nel mare sempre più vasto e inquinato di chi si autoelegge poeta: accanto ai ritratti di Caproni, di Ungaretti, di Campana, di Celan o di Prévert, abbiamo così anche quelli di Beppe Salvia, di Lorenzo Calogero o di Nika Turbina, “la poetessa bambina”, morta a Mosca a soli ventisette anni nel 2002, e il cui nome, in Italia, è pressoché sconosciuto ai più.
vitecolmediversiA ognuno di questi poeti, Nicola Vacca regala un ritratto stringato ma sempre teso a cogliere l’essenziale delle loro formule, delle loro parole, delle loro esistenze. Se vogliamo indicare un filo rosso che lega i ventidue medaglioni, diremmo che la voce dei poeti prediletti dall’autore è quella che pone il verbo in “disarmonia con l’epoca” (per forzare una formula di Caproni il cui ritratto, forse non a caso, sta in apertura di volume).

Così di Dario Bellezza scrive che “con la docile rabbia del diverso ha pronunciato la deriva e la forza dei sentimenti, con la pietra del peccato ha scolpito nel nulla il colore eterno della poesia”, oppure dell’appartato Beppe Salvia si dice che attraverso le parole quotidiane, quelle che tanti di noi utilizzano per essere orrendi e banali, egli ha invece affidato al cuore “le beffe più dolci e più misere del dolore e della memoria”.

Mentre indugia e pennella intorno alle figure dei poeti amati, in specie quelli che stanno bocconi sull’orlo dell’oblio, Nicola Vacca tira le orecchie al nostro triste Paese quando non rende omaggio ai suoi padri, quando lascia “che si spengano nell’indifferenza assoluta” e nell’effimero abbaglio dell’apparenza. E al contempo indica anche, indirettamente, il compito della poesia: “definire l’indefinibile” come ha insegnato Giuseppe Ungaretti, laddove l’indefinibile è quel bilico precario che simboleggia la grazia e la condanna dell’esistere, a un tempo; ma anche “mantenersi integri nel mare magnum della nuova schiavitù globale”, come da decenni fa un artista poliedrico qual è Leonard Cohen, o come ha fatto, orgogliosamente, il folle genio di Marradi.

La poesia, dunque, va oltre e custodisce le solitudini, spiega Nicola Vacca, anche e soprattutto quando le parole si consumano “in prossimità della morte” o sull’orlo dell’orrore.

Nicola Vacca, Vite colme di versi, Galaad edizioni, euro 11

La forma fragile del silenzio

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di Nicoletta Prestifilippo

la forma fragile del silenzioEsiste un modo incantevole di fare le parole. Proprio farle: giostrarle, accarezzarle, impastarle con le mani, sporcarsi con quelle fin sulla punta del naso per un gesto distratto; e odorarle così, come fossero un pasto allettante preparato con cura e poi offerto agli affetti più cari. Sono il prodotto di lettere ammonticchiate e vivaci che si incuneano tra i ricordi e l’esperienza, disegnando un luogo comune che funga da ritrovo per molti: sono una piccola cosa che per avere un senso vero e forte, deve conoscere la stretta buona dell’alleanza.

Ci si serve di quelle con l’umiltà di chi impara, e non ha pretese di insegnamenti da lasciare arrampicare sopra un pulpito: vi è uno spirito di condivisione molto forte, alla base, che si apprende per istinto e nel tempo accresce; vi si attinge sempre per esigenza, pur di dirsi e dire ciò che conta.

L’espressione è l’accento che si posa sulla libertà, il racconto che lascia in caldo i pensieri buoni uniti alle affinità più inaspettate, e li ritrova con semplicità per mezzo di un’alchimia che non si ostenta. Si resta al fianco di chi si vuole per davvero, con la vivacità di un’intenzione che non conosce geografia; e a prescindere dal tempo che si impiegherà, per tornarsi incontro a più riprese: l’affinità è una distanza davvero piccola, che si accorcia presto col sorriso tipico dell’impazienza.

Si hanno sensazioni simili: lievi ed energiche, addolcite, morbide d’intesa, ammirate, leggendo La forma fragile del silenzio: scritto da Fabio Ivan Pigola con l’impeto delle cose lasciate scorrere d’un fiato e così dense, fitte, affatto macchinose: si legge di un solo evento che si allunga senza risultare mai gravoso. Quel che ha da dire è di ampia importanza, eppure accade senza fretta. Consente al lettore di appoggiarsi a ogni stato d’animo, e lo accompagna nei pressi dell’irrimediabile: un significato ultimo, stretto, che non lascia speranze, eppure ne trova mille acquattate dietro gesti piccoli. Si può trovare un senso nuovo anche in ciò che non si può prevedere, nelle difficoltà. Ma serve un’armonia che in pochi sanno apprendere, tutta interiore, fievole e testarda. Indispensabile.

 

Il soggetto del racconto ha un’età piccola e un’umanità grande, e vi fa ritorno ogni volta che cambiano le prospettive e accresce il timore di non sapersi dare un verso, una ragione. È un hombre di nome ma non di fatto: ed è un’identità giocosa, la sua, che si appella al vizio buono della confidenza. Si muove in una storia che ha per ambientazione le strade, le voci, i dolci pendii, la spuma di un mare che bagna terre liguri generose e accucciate in una posa che garantisce a chi la vive, una libertà felice e necessaria: culla di un’infanzia vissuta al riparo dal frastuono delle grandi città, e di una crescita lenta, languida, che si fa spazio in un tempo robusto che solletica, sospinge, pungola gli attimi belli e poi volta pagina, con esuberanza, sforzo, crudeltà di distacco. Poiché la vita chiede sempre qualcosa in cambio, elargendo grosse fette di bellezza a chi la vive; ed è strettamente legata a un destino che non sa far altro che scompigliare ogni previsione, per puro capriccio: così il protagonista del racconto si trova a dover fronteggiare un male più grande della sua stessa età, che spegne con lentezza inesorabile ogni suono, ogni stridio, qualsiasi nota reperibile in natura, o pizzicata sulle corde della sua chitarra: le mani sono solo un passaggio. L’emozione conduce al sentimento che se mette a tacere le parole, trova piena espressione in una sintonia differente, in frequenze osate e accompagnate ad altri accordi. Si imparerà a conoscere quell’hombre che ha per sé un’ingenuità, un candore, un’innocenza che nemmeno sospetta. E ha «una faccia ebete, il sorriso tonto di chi non chiede altro che esistere, esistere per l’istante e per tutti quelli che non si ripeteranno».

Si finisce per volere un po’ di bene a delle frasi così, alla fatica, alla spontaneità, al candore che portano impresso. Si familiarizza come per contatto con la propria volontà di esserci, senza farsi alcuno sconto: credo non vi sia territorio più ostile dell’indifferenza, quando la si infligge per prima a sé stessi. Ma vi sono libri come questo che insegnano a indugiare, a sfogliare spogliandosi un po’, deponendo armi e difese: un passo dopo l’altro in profondità, col coraggio che serve per ascoltarsi senza doversi subito rinnegare; libri in grado di condurre con agilità al sorriso, alla partecipazione, al gravitare di immagini nella mente, che hanno il profilo esatto degli affetti di sempre: Jesus, Sua Perversione il Conte di Pietralata, Barbie, il Calamaro, Minestrina, e forse su tutti Sugar; una donna in piccolo, lei, carica di tutta la forza che serve, e generosa negli sguardi offerti a chi sa calamitare il bene e le attenzioni, pronta a una fiducia che in lei pare coriacea, e rivela una maniera di intendere il mondo che non è poi così in disfacimento: c’è del buono e sa vederlo tutto.

È questa la risorsa prima e forse unica, di chiunque sappia ancora dichiararsi innamorato di ogni cosa fin dal primo respiro: invecchia con lentezza e non invecchia mai davvero; avrà piccoli segni sul volto, negli anni, che sono come i segni di chi passa e resta, trascorre il tempo e non lo scansa, ama e soffre, raccoglie le illusioni e ne fa un vanto.

Un passo dopo l’altro si arriverà a una conclusione senza punto: l’inchiostro è ancora tutto da versare, così come le incognite e lo stupore di una vita mai approcciata per difetto.

 

Fabio Ivan Pigola ha il dono della delicatezza, lo si capisce fin da subito: nonostante i picchi di introspezione, i tocchi divertiti e divertenti che sono come pennellate di colore a ravvivare una tela anonima. Ciascuna parola gocciola sulle pagine, lascia una traccia di sé offerta con garbo e raccolta con uguali intenzioni. Lascia dei residui appiccicati all’animo del lettore, e sono di una dolcezza che non conosce eccessi; hanno l’alone opaco del sogno deposto accanto al risveglio, che coglie di sorpresa e si nutre della stessa: unisce coloro i quali non sono mai sazi di sospirare tutta la bellezza che si può, con tanto di occhi aperti. E non temono che la notte arrivi ancora a scoperchiare i desideri più grandi, in una sorta di rincorsa, di circolo vizioso: che siano adulti o bambini, poco importa. Ciò che conta è restare pronti alla sana follia che allarga quei sorrisi ebeti e dà senso a tutto quanto, a dispetto di ogni contrarietà.

Perché tout le monde déteste le Parti Socialiste

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Questo articolo, in versione ridotta, è stato pubblicato ieri sul manifesto.

Le foto sono di Jean Segura e Alhil Villalba.

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Sciopero Sncf del 12 maggio. Manifestazione a Parigi, Montparnasse.

di Jamila Mascat

Una lotta, per natura, non è un torneo amatoriale che possa concludersi per i contendenti con la soddisfazione di aver partecipato. Ancora meno nel caso della – tanto entusiasmante quanto estenuante – mobilitazione contro la Loi el Khomri che ha visto da quattro mesi a questa parte centinaia di migliaia di studenti, lavoratori, intermittenti e precari francesi dispiegare una quantità eccezionale di energie fisiche e morali per resistere alle pressioni, e soprattutto alla repressione, del governo Valls.

L’ultima grande giornata di sciopero nazionale interprofessionale, indetta dai sindacati tuttora contestatari lo scorso 14 giugno, è stata una sintesi paradigmatica, per quantità e qualità, dell’onda lunga di questo movimento. Un milione e 300mila persone in marcia in tutta la Francia secondo gli organizzatori, spezzoni compatti e rumorosi dei lavoratori che in queste settimane hanno riabitutato il paese al gusto un po’ retro della lotta di classe (uno per tutti quello dei portuali di Le Havre, a Parigi, che ha respinto le cariche dei celerini), centinaia di giovani fantasisti in testa alla parata parigina che dribblavano come potevano le granate scagliate dalla polizia, 1500 lacrimogeni lanciati solo nella capitale secondo Libération, centinaia di feriti da percosse e esplosioni (di cui uno molto grave la cui nuca bucata ha fatto tristemente il giro del web) stando alle stime di Streetmedics, le squadre mobili di volontari addetti al primo soccorso dei manifestanti. E ancora cortei non autorizzati e incendiari in serata tra République e Belleville e a fine giornata un bilancio di oltre 70 fermi.

Anche se questo appuntamento non è l’ultimo – sono già previste due nuove date di sciopero per il 23 e il 28 – la sensazione è che il braccio di ferro contro il governo, visibilmente determinato a non fare marcia indietro, abbia raggiunto una fase di stallo. L’incontro tra la ministra del lavoro El Khomri e il segretario nazionale della CGT Philippe Martinez, il 17 giugno, non lascia sperare niente di buono, mentre prosegue l’iter di discussione della legge in senato.

La ronda delle lotte

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Sciopero Sncf del 12 maggio. Manifestazione a Parigi, Montparnasse.

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Finora la ginnastica del movimento è stata sufficientemente agile per dare continuità alla staffetta delle lotte. Da marzo gli studenti hanno aperto le danze cominciando a perturbare le piazze, per conto proprio o a fianco dei sindacati ancora in sordina, da aprile la Nuit debout ha occupato la Place de la république sfidando quotidianamente le restrizioni inposte dallo stato di emergenza prolungato fino all’estate; a maggio è iniziata la ronda degli scioperi, quelli veri, all’appello di CGT, Force Ouvrière e Solidaires.

Da metà del mese scorso sette raffinerie su otto sono rimaste paralizzate o quasi per circa tre settimane lasciando a secco il 20 per cento delle pompe di benzina. Nei terminal petroliferi di Fos-sur-Mer e Lavéra, nel porto di Marsiglia, gli scioperi hanno impedito il carico e scarico di 25 gassiere. Il porto atlantico di Saint Nazaire, altro snodo fondamentale del traffico energetico, è rimasto chiuso per giorni.

Le centrali nucleari hanno ridotto la produzione di energia, e i conduttori ferrioviari rallentato la circolazione dei treni, rischiando di essere richiamati in servizio su Parigi e dintorni per il debutto degli Europei. E sempre per inaugurare l’inizio del camapionato, dai primi di giugno i netturbini municipali degli inceneritori e dei depositi di rifiuti di Ivry-sur-Seine e Saint-Ouen hanno incrociato le braccia, costringendo la sindaca della capitale, Anne Hidalgo, a trovare soluzioni di emergenza per rimuovere i cumuli di rifiuti ammassati nella metà degli arrondissments della città.

Eloquenti le reazioni dall’altra parte della barricata, mentre secondo i sondaggi il 62% dei francesi avrebbe espresso la propria solidarietà al movimento (e i risultati di una consultazione cittadina sulla Loi Travail organizzata dall’intersindacale, e ancora in corso, verranno consegnati alle prefetture e alla presidenza della Repubblica il 28 giugno). Il gruppo Total ha minacciato di ritirare i propri investimenti dal suolo nazionale (le perdite per la compagnia durante le tre settimane di inattività delle raffinerie sono state stimate a 130 milioni di euro); Pierre Gattaz, il presidente di Confindustria ha dato dei “terroristi” ai dirigenti della Cgt, El Khomri ha accusato duramente i lavoratori di aver “preso in ostaggio” il popolo francese, e Valls ha definito “inaccettabile” il tentativo dei sindacati di “bloccare il paese” e “colpirne gli interessi economici”.

L’ opposizione ha invocato la requisizione delle raffinerie, come aveva fatto Sarkozy nel 2010 per dare un taglio al movimento contro la riforma delle pensioni (operazione peraltro poi contestata dall’ILO secondo cui “le motivazioni economiche non possono essere evocate per giustificare le restrizioni del diritto di sciopero”). Il governo, invece, si è contentato di una strategia offensiva di manomissione.

Le intimidazioni verbali (l’ultima, dopo il 14 giugno, la minaccia di Hollande di vietare alla CGT di manifestare per ragioni di ordine pubblico) non sono state le uniche repliche. Ovunque i lavoratori in sciopero sono stati confrontati sul campo alle pressioni delle direzioni aziendali e agli interventi marziali delle forze dell’ordine. A Fos-sur-Mer, Lavéra, Donges, Lorient, Brest, Rennes, Douchy-les-mines, la polizia ha evacuato i picchetti che bloccavano da giorni l’accesso ai depositi petroliferi. E nel deposito SIM di Gonfreville-l’Orcher in Normandia, il terzo più grande d’Europa, la prefetta del dipartimento di Seine-Maritime ha autorizzato il ricorso al personale in servizio non qualificato per far ripartire i rifornimenti di kerosene verso gli aeroporti parigini.

Fare scintille

nuits cheminotsSciopero Sncf del 12 maggio. Manifestazione a Parigi, Montparnasse.

Fuor di metafora, i lavoratori hanno fatto fuoco e fiamme, e a volte scintille. Davanti alle raffinerie per giorni hanno incendiato i pnemautici per tenere in vita i picchetti. A Valenciennes, il 29 maggio, l’unione dipartimentale della Cgt, insieme ai collettivi antifascisti locali, ha improvvisato uno spettacolo pirotecnico davanti alla prigione di Sequedin, dove era stato incarcerato preventivamente Antoine, un giovane militante sindacale, accusato di resistenza a pubblico ufficiale durante una manifestazione a Lille, e ora, dopo il processo, condannato insensatamente a 10 mesi di reclusione. Nel settore dell’energia i dipendenti di Edf e Enedis hanno rilanciato l’operazione “Robin Hood” già inaugurata nel 2004 all’epoca della protesta contro le privatizzazioni. Così, hackerando gli impianti elettrici hanno ridotto temporaneamente le tariffe di consumo per centinaia di migliaia di utenti delle banlieue di Parigi. Per divertirsi hanno interrotto la corrente nella residenza di Gattaz a Saint-Raphaël , e nel municipio di Tulle, in Corrèze, feudo elettorale di François Hollande.

In sostegno ai grévistes le iniziative di solidarietà sono state numerose. La campagna finanziaria lanciata dalla Ctg Info-Com ha raccolto finora oltre 450mila euro. Nei giorni scorsi è iniziata la distribuzione degli assegni di sostegno ai comitati di sciopero che vanno avanti da settimane. Il comitato dei ferrovieri della Gare d’Austerlitz, uno dei più combattivi su Parigi, mobilitato da circa un mese, ha ricevuto 20mila euro. Molti degli cheminots non sono affiliati a nessuna organizzazione sindacale e non nutrono alcuna simpatia nei confronti della CGT. Come altri militanti della base del sindacato, temono che la direzione finisca per accettare di firmare il decreto che prevede la riforma statutaria della Sncf, una Loi Travail versione ferrovie dello stato. 20 mila euro sono stati incassati anche dal comitato dei netturbini di Ivry-sur-Seine, nell’ultimo periodo i principali protagonisti delle perturbazioni nella capitale. Le montagne di rifiuti intassate sui marciapiedi parigini, insieme al panico da penuria di carburante nelle stazioni di servizio francesi, hanno efficacemente imposto agli occhi di tutti lo spettacolo del lavoro e dei lavoratori invisibili nella lotta contro il capitale e il suo governo.

Ora è iniziato il conto alla rovescia e le chances di ottenere il ritiro della Loi Travail potrebbero sfumare. Eppure le piazze ancora fumano, e non solo per colpa dei lacrimogeni, e la rabbia generosa e solidale che questa stagione di lotte ha inaugurato sicuramente non andrà in fumo.

Il n’y a pas de bon gaullisme

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Sciopero nazionale, 14 giugno. Dopo il corteo, a Parigi, Esplanade des Invalides.

Ce l’abbiamo messa tutta”, dice Eric Sellini, della CGT Total, “e in ogni caso non finirà qui”. Qualsiasi cosa decida la confederazione sindacale rispetto alle trattative con il governo, infatti, la mobilitazione contro la Loi el Khomri ha conquistato sul terreno della lotta – per la varietà delle forme sperimentate, dalle più classiche alle più inventive – una serie di risultati destinati a durare. Per primo il battesimo o, a seconda dei casi, il ritorno di una pratica del conflitto che ha scosso dal torpore una generazione militante e ne ha iniziata un’altra.

Poi la frattura definitivamente consumata tra il Partito socialista e il popolo della gauche che finirà inevitabilmente per ripercuotersi sulle prossime elezioni presidenziali: in quanti contro lo spauracchio del Front National e dell’estrema destra saranno ancora disposti ad appoggiare la sinistra destra dei socialisti? Non solo tout le monde déteste la police, ma ora, meglio tardi che mai, tout le monde déteste le PS. Infine di fronte all’offensiva di una repressione sistematica che ha colpito indistintamente tutti (studenti e sindacalisti, giovani e lavoratori di ogni sorta), la lotta di classe è stata costretta a cimentarsi giorno dopo giorno con le ingiustizie della giustizia di classe, mostrando che non c’è guerra contro la macchina capitalista che possa esimersi dal misurarsi con la violenza dei suoi apparati. Quella violenza, insaziabile, arrogante e volgare, ha fatto irruzione sulla scena senza veli.

In un intervento presentato nel 1968 al Comité de lutte contre la répression alla Mutualité di Parigi, Sartre diceva che la repressione a volto scoperto non è altro che una manifestazione ufficiale della guerra permanente che il sistema combatte contro i lavoratori. Che si tratti di sfruttamento o manganelli, la matrice è la stessa. Per questo, per la nudità a cui espone il comando, la repressione rappresenta un “momento di verità”. Il testo, poi pubblicato dal Nouvel Observateur, è intitolato « Il n’y a pas de bon gaullisme ». In questo stesso senso la Loi travail ha impartito una lezione che nei mesi a venire tutti saranno costretti a ricordare: non solo che, parafrasando, non può esserci un buon capitalismo, ma anche che non può esistere una sinistra capitalista di governo che si comporti diversamente da come si sta comportando in Francia.

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Sciopero nazionale, 14 giugno. Dopo il corteo, a Parigi, Esplanade des Invalides.

“Dispatrio” e altre rubriche. Uno scorcio sulla traduzione di poesia in rete

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(Questo intervento doveva far parte di un dossier sulla traduzione di poesia, curato dalla rivista  “Tradurre”. Per disaccordi intervenuti con la redazione, lo pubblico qui come pezzo autonomo. Mi sono basato soprattutto sul lavoro realizzato su Nazione Indiana, perché offre un materiale ricco e pertinente, ma anche perché è un materiale che “avevo sotto mano” e che mi è stato quindi facile raccogliere e organizzare. Mi pare evidente, però, che il tema della traduzione di poesia in rete sia, per la vastità e per la dispersione inerente ai materiali della blogsfera, in gran parte ancora inesplorato.)

 

di Andrea Inglese

 

Per parlare a ragion veduta della traduzione di poesia in rete, bisognerebbe fare un censimento accurato di tutti i blog letterari, di gruppo e individuali, verificare che spazio dedicano alla traduzione di poesia, e naturalmente alla traduzione “inedita” di poesia, ossia non già uscita su carta, in qualche rivista o collana di poesia.

Overbooking: Zena Roncada

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Qui come altrove, c’è la donna che ruba il tempo e se lo mette via.
Le piace rubare quello del mattino, quando nel letto c’è la quiete delle cose e la giornata è lenta ad avviarsi. Allora può stirarsi e sentire il corpo che si sveglia: sono i momenti dell’esserci in pigrizia, coi pensieri in attesa di un approdo.

Le piace anche guardare l’acqua che si scalda: nel giro della pentola, aspettare che le bolle scoppino in sommosse, per acquietarsi con la pasta a pioggia, rovesciata. Altro non c’è da fare che dare tempo al tempo.

La sera si trova a ripassare quei momenti vuoti di ogni cosa, da riempire con quello che potrebbe. Con il soffio di fughe e scorribande, con lana di un altrove ancora da scoprire, dentro la mappa del guanciale.

 

 

Nota

di

Effeffe

Ci sono autori, autrici, il più delle volte però accade alle donne, che sebbene abbiano vissuto di lettura, accompagnato creazioni artistiche, esercitato un ruolo importante per ostinate e coraggiose comunità letterarie, delle grandi città o delle province, il più delle volte però nelle periferie del regno,  restano di poche parole. Poche parole e giuste. Poche parole sufficienti a tessere racconti pieni di grazia; si tratta di voci allo stesso tempo energiche e discrete, per lo più discrete, poco esibite, appartate. Qui come altrove pubblicato da Effigie, si compone di cinquantasei voci, storie, dotate di quel raro dono per certe narrazioni, di essere universali e straordinariamente locali, territorialmente definite e concrete. Anni fa mi è capitato di compiere un viaggio insieme all’autrice e ad alcuni altri giovani autori proprio partendo da casa sua a Sèrmad. Ricordo la particolarità della luce del mantovano, l’aria rarefatta, e lo strano modo in cui il cielo avvolge figure e cose. Andammo a vedere una mise en scène dei dialoghi con Leucò di Cesare Pavese in una fabbrica dismessa. Quando ho letto le cinquantasei storie e pagine di questo nuovo lavoro, il gioco di sguardi tra il qui ed altrove, tra i mestieri di uomini e donne per lo più attraverso il fiume che attraversa le loro vite e quello ancora più intenso e sofferto che si svolge negli interni delle case, dove i mestieri si fanno, ho sentito quella stessa forza insieme mitica e dimessa di quello che considero il più bello tra i libri di Cesare Pavese. E più particolarmente alla battuta che chiude il dialogo tra Ulisse e Calipso.

CALIPSO Lo sarai, se mi ascolti. Che cos’è vita eterna se non questo accettare l’istante che viene e l’istante che va? L’ebbrezza, il piacere, la morte non hanno altro scopo. Cos’è stato finora il tuo errare inquieto?
ODISSEO Se lo sapessi avrei già smesso. Ma tu dimentichi qualcosa.
CALIPSO Dimmi
ODISSEO Quello che cerco l’ho nel cuore, come te

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Qui come altrove, c’è l’uomo della barca, che è lunga e scura come l’anima di Po, quella segreta. Dell’uomo e della barca si sono persi i nomi: per chiamare il primo basta un verso, un richiamo d’anatra di passo, l’altra è di tutti e di nessuno.

Selvatici, possono sparire e riapparire senza scandali d’assenza: al modo delle canne che bucano il terreno o della zucca ricciuta che sale lungo il tronco del salice impiccato, ma poi ricade senza più un sostegno.

L’uomo della barca ama l’estate, perché cuoce l’umido del legno e secca il remo, fino a renderlo affilato. Ama le notti, perché accendono le rive di grilli acidi e rane ubriache in sottofondo. Allora prende la barca e va verso l’isola, dove le cappe camminano al mattino in spirali di sabbia sotto traccia.

Nel tratto senza ombre la luna è grande e gialla, dentro l’acqua: tremula in righe orizzontali. L’uomo la rincorre e la rompe con il remo, per far tacere la malinconia della bellezza.

 

Il realismo segreto nelle forme di Alberto Colognato

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di Giovanni Palmieri

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Alberto Colognato, Senza titolo (monotipo), cm. 34 x 48, 1988,

collezione privata.

   Il singolare destino di Alberto Colognato, pittore ma soprattutto scultore tra i più significativi della scena novecentesca italiana, ricorda per molti versi quello del dottor Pasavento, lo scrittore inventato da Vila-Matas nell’omonimo romanzo che ha cercato tutti i modi per scomparire pur continuando a scrivere.

 

Nato a Verona nel 1912 e morto a Milano nel 1996, Colognato, detto il Biondo, dopo gli studi accademici ha cominciato negli anni Trenta ad esporre i suoi quadri in alcune mostre del veronese. Richiamato alle armi nell’esercito della Repubblica Sociale Italiana, nel 1943, è stato tra i promotori e gli attivisti più accesi dei G.A.P. di Verona.

Dopo la guerra e la cruciante esperienza resistenziale, si stabilì a Milano dove ebbe modo di ritrovare Renato Birolli e altri amici pittori del gruppo di “Corrente” come Treccani, De Micheli e il critico Raffaele De Grada. Ma fu conosciuto e stimato anche da Morlotti e Cassinari.

Sposatosi con la pittrice Luigia Zanfretta, insegnante all’Accademia di Brera e al Liceo artistico Hajech di Milano, il Biondo sin dal 1942 aveva abbandonato la pittura per dedicarsi alla scultura e alla grafica.

Legato alle ultime propaggini del modernismo cubista e delle avanguardie storiche, Colognato sviluppò un’arte personalissima che partiva da una rilettura e da una contaminazione originale delle esperienze di Braque, Léger, Harp, Ernst, Giacometti, Moore e Laurens.

Due le direttrici fondamentali del suo lavoro: lo sfruttamento idiomatico dei materiali particolarmente amati (la terracotta, il marmo, il cemento ma anche il legno, il caolino e il gesso) e un’adesione quasi religiosa a quello che chiamerei il realismo segreto delle forme. I suoi Arlecchini, i Tori, le figure femminili, i Torsi accovacciati ecc. non cercano, infatti, l’arte nell’incanto di una realtà metafisicamente intesa ma, al contrario, esaltano e ricreano la realtà più concreta, ma anche più sconosciuta e segreta, per il tramite dell’architettura artistica. Da qui il suo potente costruttivismo (Léger era uno dei suoi numi) e le sue sintesi volumetriche che riuscivano ad imporre la visione aurorale di quelle forme dinamiche che l’occhio, distratto dalla ricostruzione dell’insieme olistico, normalmente non coglie. Ciò che l’occhio normale vedeva, non lo interessava… “Troppo visto”, diceva spesso criticando un dipinto eccessivamente mimetico.

Insomma la sua era una scultura in potenziale ma perenne movimento. Non il pieno del gesto, non l’allusione concettuale, non il simbolo analogico, non l’astrazione dello spazio e meno che mai il proclama ideologico, ma solo (si fa per dire) la sintesi delle forme viventi colte nei loro molteplici punti di vista, e la grazia diretta dell’intaglio e della scheggiatura infinitesima della realtà. Ciò che inseguiva Colognato era infatti il microcosmo del vivente, la sua eloquenza segreta. Pertanto la sua fu una scultura di piccole dimensioni proiettata e concepita non per le grandi sale o per i musei ma solo per gli spazi domestici e privati.

La grafica, a cui il Biondo si dedicò per tutta la vita, era la faccia bidimensionale e inscindibile della sua scultura. Dominata dalla figura femminile in tutta la sua forza dinamica, la sua opera grafica rifuggiva dalla serialità commerciale ed era infatti composta quasi esclusivamente da monotipi colorati dopo l’impressione calcografica e da rari linoleum tirati in pochissime copie non numerate.

 

Solo agli inizi della sua carriera, Alberto Colognato espose le sue opere in mostre appartate e collettive presso la Società Belle arti di Verona o presso la Bevilacqua. Accettava di comparire solamente in esposizioni organizzate da enti quali la Croce Viola o sedi di sindacato. In seguito più nulla. La sua concezione puritana e anticommerciale dell’arte, non meno di un carattere particolarmente schivo e riservato, gli impedirono sempre di esporre il suo lavoro e dunque di farsi conoscere. Ogni tanto vendeva o più spesso regalava le sue opere ad amici e a privati, che oggi sono di fatto gli unici a conoscerlo. Critiche, accuse e obiezioni non valsero. Riteneva immorale sborsare anche poche lire per esporre in gallerie private.

Così le sue due case milanesi (quella di via San Paolo e quella, ultima, di via Nullo) divennero i musei privati dove Colognato nascondeva le sue statue, i suoi quadri e i suoi disegni. In esse vi erano opere dappertutto: pareti, corridoi, ante di armadi, pavimenti, soffitti, cantine e persino i soffitti erano tappezzati  e ingombri di opere. L’amico Flavio Simonetti ricorda che un giorno accompagnò a casa del Biondo “uno dei maggiori critici d’arte dell’epoca, Marco Valsecchi, che apprezzò i lavori dello scultore veronese e gli garantì una mostra gratuita, in una galleria del centro, la quale si sarebbe sobbarcata anche le spese di un catalogo” (in Alberto Colognato detto il Biondo, a cura di Luigi Meneghelli, Galleria dello Scudo, Verona 2001, p. 25). Colognato non disse no ma non consegnò mai i lavori da esporre e alla fine rinunciò anche in questa fortunata occasione.

Non credo che il Biondo ignorasse che nel mondo dell’arte non esiste valutazione critica che prescinda dall’esposizione e dalla vendita delle opere. In altri termini l’accettazione di una pur minima notorietà e delle regole del mercato (anche quello pre-capitalistico) sono condizioni imprescindibili del lavoro di un artista. Forse non ritenne che la sua arte (o l’arte in generale) dovesse sottomettersi alla turpitudine dello scambio commerciale pur dovendo sapere, però, che è quest’ultimo  la base di ogni possibile comunicazione artistica.

Forse, semplicemente, volle scomparire dagli occhi del mondo e non essere riconosciuto.

Listener

Alberto Colognato, Senza titolo (china su cartoncino), cm.

22, 5 x 16, 5, s. d. ma anni Sessanta. Collezione privata.

   Ho conosciuto il Biondo da bambino perché era amico dei miei genitori e frequentava spesso casa mia. Mio padre, musicista, negli anni Sessanta era uno degli esecutori specializzati nella musica postweberniana e Colognato era particolarmente interessato alla musica espressionista e atonale che lo ispirava nel corso del suo lavoro. Da adulto, l’ho reincontrato nelle sue due case-laboratorio ma non ha mai voluto vendermi alcuna sua opera. L’ho, però, ascoltato e visto al lavoro. Aveva la grazia e la pulizia di un artigiano azteco che serve appassionatamente una divinità nascosta. Conosceva tutto e tutte le tecniche. Tutto sapeva e tutto sapeva dimenticare come solo i sapienti sanno fare.

Alla fine degli anni Novanta, lui e la Luigia sono morti senza figli né eredi, quasi poveri e del tutto soli, come spesso ti lascia la vita che ti lascia.

La loro casa era in affitto e io non so che fine abbiano fatto le opere che ancora vi erano contenute.

Nel novembre del 2000, a Milano, nello Spazio Laboratorio Hajech del Liceo artistico I° è stata organizzata una mostra intiolata Due artisti, due cittadini. Opere di Luigia Zanfretta ed Alberto Colognato. In quell’occasione sono stati presentati due volumi: il catalogo della mostra, curato da Vittoria Gosen per Guerrini e Associati e la monografia di Manuela Sabia, Luigia Zanfretta – opere, documenti, scritti, Ed. Raccolto (Cascina del Guado, 2000).

Nell’ottobre del 2001, a Verona, la Galleria dello Scudo ha organizzato una bella mostra di sculture di Alberto Colognato. Il catalogo, uscito per le edizioni della galleria veronese (Verona 2001) s’intitola Alberto Colognato detto il Biondo ed è stato curato da Luigi Meneghelli con contributi di Giorgio Trevisan, Luigi Meneghelli e Flavio Simonetti. Poi più nulla.

A me sembra poco, anzi pochissimo. Perciò questo mio scritto fa appello a quanti ancora sanno di Alberto Colognato e vogliono o possono evitare che la forbice del tempo recida non solo i volti ma anche, e assai più gravemente, le opere.

 

 

Quel silenzio assordante che copre tutti i naufragi

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Giovanni Accardo intervista ALESSANDRO LEOGRANDE

Alessandro Leogrande, giornalista e reporter, da alcuni anni racconta le tragedie dell’immigrazione, lo ha fatto con “Uomini e caporali. Viaggio tra i nuovi schiavi nelle campagne del Sud” (Mondadori 2008) e con “Il naufragio. Morte nel Mediterraneo” (Feltrinelli 2011), lo fa col nuovo libro, “La frontiera” (Feltrinelli 2016), un’inchiesta che si può leggere come un romanzo e che in parte si svolge anche a Bolzano. Un libro fondamentale per capire chi sono i numerosi profughi che sbarcano a Lampedusa o muoiono nel Mediterraneo, da cosa scappano e quali terribili violenze devono affrontare nei loro viaggi verso l’Europa.