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Dell’antidoto o del kalashnikov mentale

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don giovanni losey  di Andrea Inglese

 

Quando verrà il tipo a dirmelo in radio e in televisione, dopo averlo scritto in rete e sui giornali, quando verrà lui, insieme a tutti gli altri, a dirmi:

“Il mondo è complesso, c’è la globalizzazione, alcuni problemi climatici non li possiamo ignorare, inoltre c’è un sacco di gente nel mondo che vive ancora scalza e senza mettersi dei deodoranti, quindi a questo punto, viste le non poche difficoltà cui noi dobbiamo far fronte, qui in Occidente, chiariamo una cosa: chi parla di uguaglianza è un semplice invidioso; chi spreca tempo a fare cose che non si possono vendere alla massa non è solo un perdente, ma un vero malato.

Una storia violenta

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di Antonio Soler

(Si terrà a Perugia dal 4 al 6 aprile 2014 la prima edizione di Encuentro. Festa delle letterature in lingua spagnola, una manifestazione dedicata alle letterature di lingua spagnola in Italia, promossa dal Circolo dei Lettori di Perugia e dal Comune di Perugia, con l’Associazione Banana Republic, in collaborazione con Regione Umbria e con il patrocinio dell’Università degli Studi di Perugia e dell’Università per Stranieri di Perugia. Encuentro ospiterà autori rappresentativi della letteratura ispano-americana – Luis Sépulveda, Daniel Mordzinski, Paco Ignacio Taibo II, Leonardo Padura Fuentes, Bruno Arpaia, Santiago Gamboa e ancora Fernando Iwasaki, Marcos Giralt Torrente, Guadalupe Nettel, Antonio Soler, autore dello stralcio che segue – tradotto in italiano e nella versione originale – tratto da Una historia violenta, romanzo del 2013 inedito in Italia).

Soler
Io vigilavo. Mi piaceva vigilare.

Sapere da dove veniva la gente. Le ore. I rumori che si portavano dietro. Le loro voci. Come si comportavano quando pensavano che nessuno li osservasse. Vigilavo per strada e vigilavo in casa. Vigilando, stando attento, mi si ripulivano i pensieri. Il cielo azzurro mi entrava in testa e scacciava tutte le ombre. Le trame delle mie idee luccicavano come tubi di nichel. Come quando a scuola la professoressa mi metteva davanti quella lista di numeri e io dovevo sommarli. Li assemblavo, ci facevo delle catene. Sapevo cosa significavano. Vigilavo.

Mio padre diceva di avere un amico poliziotto. Un uomo triste, dalla pelle giallastra. E anche molle, e anche con le unghie troppo lunghe. Come le zampe dei polli. Portava una giacca adatta a un uomo grosso, ma lui era magro e piuttosto piccolo. Io pensavo che si trattasse di un poliziotto finto. E pensavo che i veri poliziotti un giorno si sarebbero portati via mio padre e quel suo amico. Per la questione dei sacchi, per le parole che sentivo. E si sarebbero portati via anche quell’altro amico che mia madre lasciava sempre aspettare sulla porta e che a volte appariva all’angolo della strada in sella a una moto grande e rumorosa sulla quale non c’era bisogno di vigilare perché essa stessa si annunciava da molto tempo prima di sbucare. Aveva un giacchetto di cuoio e quando parlava con mio padre rideva sempre fragorosamente.

Mio padre non aveva amici che lavoravano in ufficio né amici che portavano la cravatta o che dicevano troppo spesso buongiorno. Alzavano le sopracciglia, strizzavano l’occhio, muovevano la bocca e ridevano a voce alta. Ecco quello che facevano. Pareva il loro vero lavoro.

Anziché amici mio padre sembrava avere dei complici.

Io giocavo con gli indiani e i cowboy. Li sotterravo nei vasi dei fiori, fingevo che sparassero e morissero tra i gerani, ma in realtà stavo vigilando.

Il mio indiano con la mano sulla fronte, quello che guardava l’orizzonte, non moriva mai. Non cadeva mai tra i grumi di terra né precipitava dal bordo di un vaso. Io e lui stavamo attenti a ciò che accadeva intorno a noi, a quello che dicevano mia madre e la madre di Mauri, ai movimenti di mia sorella e dei suoi amici, alla strana gente che si affacciava all’imbocco della strada e capendo di essersi persa tornava indietro.

Mi sarebbe piaciuto seguire quelle persone, sapere chi erano e dove volevano andare.

Io vigilavo e fingevo di essere buono. Sempre. Adesso penso che fingere fosse un modo di vigilare.

Persino quando dormivo fingevo di essere buono. Sapevo qual era la postura in cui mia madre riconosceva la bontà.

Sapevo che la mattina seguente l’avrebbe raccontato alla madre di Mauri e la madre di Mauri a un’altra madre. Quella era la mia salvezza. Vigilare e fingere.

Io non nascondevo i miei nervi, nascondevo semplicemente la mia cattiveria.

In principio, nei primi mesi o nelle prime settimane che passai con la signorina Elvira a scuola, seduto al primo banco a guardare le sue ginocchia larghe, pensai che lei sapesse che io fingevo tutto il tempo. Come se tenesse la radiografia del mio cervello in uno di quei cassetti in cui riponeva le gomme, le matite nuove, i quaderni che tagliava minuziosamente in due con delle forbici enormi, sibilanti, proprio nel mezzo, per venderli. Per venderli a noi, i bambini che scrivevano su quei mezzi quaderni.

A me piacevano le metà superiori, quelle che avevano i margini larghi, bianchi, nella parte di sopra, un piccolo cielo bianco che fluttuava sulle righe.

La signorina Elvira tagliava quaderni e io pensavo che tagliasse in due anche la mia testa, e sapesse cosa c’era dentro. Pensai che lei stesse vigilando su di me. Ma poi seppi che stava vigilando solo sui miei occhi, per il tempo che rimanevano fissi sulla vastità marmorea – potente e pallida – delle sue ginocchia o sulle righe del mezzo quaderno che mi aveva venduto quella settimana.

Stava attenta anche ai miei vestiti, ai maglioni che mi faceva mia madre, alla qualità della lana. Solo questo.

In queste faccende mio padre non si intrometteva nemmeno. A volte mi chiedevo se mio padre sarebbe stato capace di riconoscermi in mezzo a un nugolo di bambini. All’uscita di scuola, per esempio. Se avrebbe saputo distinguere a prima vista, con precisione, come fanno i padri, suo figlio, tra tutti quei bambini in movimento.

Mai, proprio mai, non una sola volta e per nessuno motivo, mio padre ha messo piede nella mia scuola, nella scuola della signorina Elvira. Non ha mai saputo che esisteva una signorina Elvira, un edificio con quella facciata verde e un cortile pieno di voci nel quale correvano disperati duecento o forse trecento bambini durante la mezz’ora di ricreazione.

Mio padre non sapeva niente. Guidava il camion e basta, per strada o forse solo fino al porto, e lì rubava dei sacchi o li comprava a un prezzo più basso di quello che avevano, e poi li portava da un’altra parte, in un posto per me tanto remoto quanto la mia scuola poteva esserlo per lui.

Mio padre se ne andava in giro e ogni tanto si fermava a raccogliere quei ramoscelli con cui mi stava costruendo il forte, la casetta dentro alla polveriera – ancora senza tetto -, le palizzate che non finivano mai, la presunta casa del capitano del forte, sul cui suolo, tuttavia, dormiva il mio indiano, con la sua lancia in una mano e l’altra mano sulla fronte.

Rametti, delle specie di matite rugose e senza mina che mio padre tirava fuori dalla tasca del giacchetto e lanciava malamente in un grande barattolo di Cola-Cao che teneva in lavanderia. Rami di alberi strani, rossicci, scuri.

“Queste sono le dita degli alberi”, mi disse un giorno mio padre mentre io vigilavo da lontano su come trafficava con quei bastoncini.

Forse lo disse per spaventarmi, per farmi credere che lui era capace di andare in giro a tagliare dita, o forse lo fece solo perché gli venne in mente lì per lì e per quello si rattristò e lasciò lì i ramoscelli, svogliatamente, come se stesse davvero abbandonando le dita di qualcuno. Di un amico che era morto, per esempio.

Nel barattolo, oltre ai rami, c’erano le corde, gli spaghi, il piccolo girabacchino che adoperavano anche per aprire le bottiglie, un po’ di fil di ferro e qualche chiodo. Il materiale e gli attrezzi che mio padre usava per costruire il mio forte.

Nessuno avrebbe mai potuto immaginare don Guillermo alle prese con un barattolo come quello e ancor meno mentre entrava nella lavanderia di casa sua in cerca di un girabacchino ogni volta che volesse stappare una bottiglia. No. Nemmeno il padre di Mauri aveva un barattolo simile, acciaccato e macchiato di ossido, messo da parte.

Niente di tutto ciò.

Mio padre aveva quel barattolo. Io un forte ancora a metà. Io avevo un padre che aveva un barattolo come quello.

Quello poteva essere l’indicatore della mia esistenza, il punto che più tardi avrei incontrato in certe mappe di città: “Voi siete qui”.

Mauri aveva un meccano di metallo con una moltitudine di pezzi verdi e rossi, con bulloni di tutte le dimensioni, perfettamente nichelati, talmente ben nichelati che secondo lui erano d’argento. E poi tronchesi e un cacciavite in miniatura. Tutto conservato in una solida cassa di legno, scolorita ma con compartimenti per ogni genere di pezzo.

Ernestito, oltre ai suoi racconti e alla sua collezione di macchinine, aveva il suo castello di plastica, con una torre merlata dalla quale gli arcieri potevano scoccare comodamente le loro frecce. Un castello assemblato con delle costruzioni che sulla superficie esterna delle mura riproducevano le pietre e anche la muffa delle antiche fortezze, e che era circondato da un fosso d’acqua, dipinto di un azzurro uguale a quello del cielo in quei giorni. Aveva indiani, soldati con mitragliette e balestrieri colorati. Tartari con sciabole ricurve, gladiatori. Il mio indiano era verde. Tutto verde, verde la carne e verdi i pantaloni, le piume, la lancia, tutto di un colore verde velenoso.

Ernestito, e anche Mauri, usavano la colla Imedia per incollare le figurine. I loro album di animali sprigionavano da lontano una specie di odore metallico, da profumeria.

Il mio album frusciava. Frusciava come se le fiere, i leoni, la iena e persino gli stambecchi delle figurine ruggissero quando qualcuno gli si avvicinava.

Io attaccavo le figurine con un impasto di farina e acqua che mia madre mi fabbricava in un portauovo, un impasto che io, sconfortato, strusciavo sopra i riquadri dell’album con uno spazzolino da denti e che inevitabilmente produceva dei grumi, bolle di diverso spessore sotto le immagini, deformandole.

Il mio giaguaro, proprio il giaguaro, sembrava come sfigurato per il dislivello che quell’impasto aveva formato sotto la sua mandibola.

Era un album accidentato e frusciante. Il rumore delle pagine, sfogliandole, era uguale a quello che fa una vecchia porta o una persiana rotta. Il mio album aveva le pagine ondulate. Sarebbe stato meglio non avere niente. Non importava quante figurine avessi né quante pagine fossi riuscito a completare. Quando Mauri o Ernestito entravano a casa mia io lo nascondevo sotto il letto.

Le cose stavano così.

Don Guillermo Galiana sapeva di colonia, e mio padre sapeva di strada e di altri uomini. Di uomini che parlavano a voce alta e ridevano a voce ancora più alta. Sapeva di tabacco, di fumo, di posti con poca luce, di covo di Ali Babà.

Forse per questo mi conveniva vigilare. Stare attento a ciò che accadeva fuori da me.

Anche se alla fine non contò, né quanto tempo né con quanta attenzione vigilassi. Un bel giorno, Ernestito si sarebbe avvicinato discretamente alle mie spalle e avrebbe provato sulla mia nuca la durezza della grafite. Di quella pietra nera e brillante che lui, o forse sua zia Tusa, chiamò carbone.
(Traduzione dallo spagnolo di Giovanni Dozzini).

***

Yo vigilaba. Me gustaba vigilar.

Saber por dónde venía la gente. Las horas. Los ruidos que traían. Sus voces. Cómo se comportaban cuando pensaban que nadie los observaba. Vigilaba en la calle y vigilaba dentro de mi casa.

Se me limpiaban los pensamientos vigilando, estando atento. El cielo azul entraba en mi cabeza y se llevaba todas las sombras. Los entramados de mis ideas quedaban como relucientes tubos de níquel. Igual que cuando en el colegio la profesora me ponía delante aquella lista de números y yo debía sumarlos. Los engarzaba, hacía cadenas con ellos. Sabía lo que significaban. Vigilaba.

Mi padre decía que tenía un amigo policía. Un hombre triste y con color amarillento. Hervido también, y también con las uñas demasiado largas. Como las patas de los pollos. Su chaqueta era de un hombre grande, pero él era flaco y más bien pequeño. Yo pensaba que se trataba de un policía falso. Y pensaba que los verdaderos policías un día se iban a llevar a mi padre y a aquel amigo suyo. Por el asunto de los sacos, por palabras que oía. Y también se iban a llevar a aquel otro amigo que mi madre siempre dejaba esperando en la puerta de la calle y que a veces aparecía por la esquina subido en una moto grande y ruidosa a la que no hacía falta vigilar porque ella misma se anunciaba desde mucho tiempo antes de doblar la esquina. Ese llevaba una pelliza de cuero y siempre le hablaba a mi padre entre carcajadas.

Mi padre no tenía amigos que trabajasen en oficinas ni amigos que usaran corbata ni dijeran demasiadas veces buenos días. Alzaban las cejas, guiñaban, movían la boca y se reían en voz alta. Eso es lo que hacían. Ese parecía su verdadero trabajo.

En vez de amigos mi padre parecía que tenía cómplices.

Yo jugaba con los indios y los cow-boys. Los enterraba en las macetas, fingía que disparaban y que se morían entre los geranios, pero en realidad estaba vigilando.

Mi indio de la mano en la frente, el que miraba el horizonte, nunca moría. Nunca caía entre los grumos de tierra ni se despeñaba desde lo alto de una maceta. Él y yo estábamos atentos a lo que ocurría a nuestro alrededor, a lo que decían mi madre y la madre de Mauri, a los movimientos de mi hermana y sus amigos, a la gente extraña que asomaba por el comienzo de la calle y al notarse perdida se daba la vuelta.

Me habría gustado seguirlos, saber quiénes eran y adónde querían ir en verdad.

Yo vigilaba y fingía ser bueno. Siempre. Pienso ahora que fingir era un modo de vigilar.

Hasta cuando dormía fingía ser bueno. Sabía cuál era la postura en la que mi madre reconocía la bondad. Sabía cómo a la mañana siguiente ella se lo transmitiría a la madre de Mauri y la madre de Mauri a otra madre. Esa era mi salvación.

Vigilar y fingir.

Yo no disimulaba mis nervios, simplemente disimulaba mi maldad.

En un principio, en los primeros meses o semanas que pasé con la señorita Elvira en el colegio, sentado en el primer pupitre mirando sus rodillas anchas, pensé que ella sabía que yo estaba fingiendo todo el tiempo. Como si tuviera la radiografía de mi cerebro en uno de aquellos cajones donde guardaba las gomas, los lápices nuevos, las libretas que ella cortaba cuidadosamente en dos con unas tijeras enormes, silbantes, justo por la mitad, para venderlas. Para vendérnosla a nosotros, los niños que escribíamos en aquellas medias libretas.

A mí me gustaban las mitades superiores, las que tenían los márgenes anchos, blancos, en la parte de arriba, un pequeño cielo blanco flotando sobre los renglones.

La señorita Elvira cortaba libretas y yo pensaba que también cortaba mi cabeza en dos y sabía lo que había dentro. Pensé que ella me vigilaba a mí. Pero luego supe que solo vigilaba mis ojos, el tiempo que estaban detenidos en la anchura marmórea -poderosa y pálida- de sus rodillas o en los renglones de la media libreta que me había vendido esa semana.

También estaba atenta a mi ropa, a los jerséis que me tejía mi madre, a la calidad de la lana. Solo eso.

Mi padre ni siquiera reparaba en esas cuestiones. A veces me preguntaba a mí mismo si mi padre habría sido capaz de reconocerme entre un montón de niños. En la salida del colegio por ejemplo. Si habría sabido distinguir a la primera, con precisión, como hacen los padres, a su hijo, a mí, entre todos aquellos niños en movimiento.

Nunca, jamás, ni una sola vez y por ningún motivo, mi padre fue a mi colegio, al colegio de la señorita Elvira. Nunca supo que existía una señorita Elvira, un edificio con esa fachada verde y un patio lleno de voces por el que corríamos desesperados doscientos o quizá trescientos niños durante la media hora del recreo.

Mi padre no sabía nada. Solo conducía el camión, lo llevaba por carreteras o quizá solo al puerto y allí robaba sacos o los compraba a un precio más bajo del que tenían y los llevaba a otra parte, a un lugar para mí tan remoto como mi colegio podía serlo para él.

Mi padre iba de un lado a otro y de paso cogía aquellos palos con los que me iba construyendo el fuerte, la caseta interior del polvorín -todavía sin techo-, las empalizadas que nunca se acababan, la supuesta casa del capitán del fuerte, en cuyo suelo, sin embargo, dormía mi indio, con su lanza en una mano y la otra mano en la frente.

Palitos, una especie de lápices rugosos y sin mina que mi padre sacaba del bolsillo de la chaqueta y echaba descuidadamente en una lata grande de Cola-Cao que guardaba en el lavadero. Palos de árboles extraños, rojizos, oscuros.

“Estos son los dedos de los árboles”, me dijo un día mi padre mientras yo vigilaba desde lejos cómo guardaba los palos.

Tal vez lo dijera para asustarme, para hacerme creer que él era capaz de ir por ahí cortando dedos, o quizá lo hiciera solo porque se le ocurrió en ese momento y por eso se puso triste y dejó allí los palos con desgana, como si de verdad dejara los dedos de alguien. De un amigo que se hubiera muerto, por ejemplo.

En la lata, además de los palos, estaban las cuerdas, los hilos gruesos, el pequeño berbiquí que también usaban para abrir botellas, unos alambres y unos cuantos clavos. Las herramientas que mi padre utilizaba para construir mi fuerte.

Nadie habría podido imaginar nunca a don Guillermo guardando nada en una lata como aquella y menos aún yendo al lavadero de su casa en busca de un berbiquí cada vez que quería sacar el tapón de corcho a una botella. No. Ni siquiera el padre de Mauri tenía una lata parecida guardada en ninguna parte, abollada y con manchas de óxido.
Nada de eso.

Mi padre tenía esa lata. Yo un fuerte a medio construir. Yo tenía un padre que tenía una lata como aquella.
Ese podía ser el indicador de mi existencia, el punto que después he visto en algunos planos de ciudades. “Usted se encuentra aquí”.

Mauri tenía un mecano de metal con multitud de piezas de color verde y rojo, con tornillos de todos los tamaños, perfectamente niquelados, tan bien niquelados que según él eran de plata. Alicates en miniatura y un destornillador igualmente diminuto. Todo eso guardado en una sólida caja de madera, despintada pero con compartimentos para las distintas piezas.

Erenestito, además de sus cuentos y su colección de coches metálicos, tenía su castillo de plástico endurecido, con un torreón con almenas desde las que podían disparar cómodamente los arqueros. Un castillo con paredes ensambladas que reproducían en su superficie exterior las piedras e incluso el moho de las fortalezas antiguas y que estaba rodeado por un foso de agua, pintado de un azul igual al del cielo en aquellos días. Tenía indios, soldados con metralletas y ballesteros de colores. Tártaros con sables curvados, gladiadores. Mi indio era de color verde. Verde entero, la carne verde y el pantalón verde, las plumas, la lanza, todo de un color verde venenoso.

Ernestito, y también Mauri, usaban pegamento Imedio para pegar sus estampas. Sus álbumes de animales desprendían desde lejos una especie de olor metálico, a perfumería.

Mi álbum crujía. Crujía como si las fieras, los leones, la hiena y hasta las cabras montesas de los cromos rugiesen cuando uno se acercaba al álbum.

Yo pegaba las estampas con una masa de harina y agua que mi madre me fabricaba en una huevera, una masa que yo, desanimado, restregaba sobre los recuadros del álbum con un palillo de dientes y que inevitablemente dejaba grumos, bultos de distinto grosor bajo los cromos, deformándolos.

Mi jaguar, precisamente el jaguar, parecía mellado por el desnivel que aquella masa había formado bajo su mandíbula.
Era un álbum escarpado y crujiente. El ruido de las páginas al pasarlas era igual al que hace una puerta vieja o una persiana rota. Mi álbum tenía las hojas onduladas. Habría sido mejor no tener nada. No importaba cuántos cromos ni cuántas páginas hubiera conseguido completar. Cuando Mauri o Ernestito entraban en mi casa yo escondía el álbum debajo de la cama.

Así eran las cosas.

Don Guillermo Galiana olía a colonia y mi padre olía a calle y a otros hombres. A hombres que hablaban en voz alta y reían en voz todavía más alta. Olía a tabaco, a humo, a sitios con poca luz, a cueva de Alí Babá.

Quizá por todo eso más me valía vigilar. Estar atento a lo que ocurría fuera de mí.

Aunque finalmente no importó cuánto tiempo ni con cuánta atención vigilase. Un buen día, Ernestito se colocaría sigilosamente a mi espalda y comprobaría en mi nuca la dureza del carbón cristalizado. De esa piedra negra y brillante que él, o quizá su tía Tusa, llamó carbón mineral.

© Antonio Soler, Una historia violenta, 2013, Galaxia Gutenberg.

Quella vita dove sono io, cioè La Casa in Via Palestro di Franco Buffoni

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di Marco Corsi
Cas Pal Joaquim Ringelnatz
Una dislocazione autobiografica della realtà: forse coniando qualche nuova formula risulta più accessibile questo ultimo lavoro in prosa di Franco Buffoni. Una dislocazione, agli effetti, che passa attraverso fatti, personaggi, eventi, documenti, e compone in filigrana il Bildungsroman dell’uomo e del poeta, rendicontando il tempo della storia e il tempo della scrittura.

Ave Bernhard: cantus responsorius

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black cat bone - www.behance.net

di Martial Pyrrhus e Lucretius Porphirogenitus

1 Ave Bernhard

… morte le gore, morte le campagne,
morta la morte e morta la rimorte
(un sole nero in pieno giorno guarda
sul golgota due morti ed un rimorto),
rimorti i morti e i non ancora nati,
morti i sepolti, morti gli esumati,
gli agnelli divorati, con le cagne
morte già prima di averli sbranati …

I fatti di Roland Barthes (prima parte)

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« Structure du fait divers », Roland Barthes, in Essais critiques (1964)

 qui la versione originale

In Italia questo testo è già stato tradotto e pubblicato in una versione differente.

 “Struttura del fatto di cronaca”

di Roland Barthes 

traduzione di Francesco Forlani

Siamo davanti a un omicidio : se è politico, è una notizia, se non lo è, si tratta di un fatto di cronaca. Perché? Si è portati a credere che la differenza sia qui tra il particolare e il generale, o, per essere più precisi,  quella tra nominato e innominato: il fatto di cronaca (il termine  faits divers pare quanto meno indicarlo) sembrerebbe procedere da una classificazione dell’inclassificabile, un materiale di scarto disorganizzato di notizie informi; la sua essenza sembrerebbe privativa, ovvero inizierebbe ad esistere laddove il mondo cesserebbe di essere nominato, oggetto di un catalogo noto (politica, economia, guerre, spettacoli, scienze, ecc.); in una sola parola, sarebbe una notizia mostruosa, analoga a tutti i fatti eccezionali o banali , in breve, anomici, che vengono classificati di solito discretamente alla voce Varia, come l’ornitorinco che tanta pena diede allo sfortunato Linneo. Questa definizione tassonomica non è ovviamente soddisfacente : non tiene conto della promozione straordinaria dei fatti di cronaca sulla stampa odierna (e già si cominciano a chiamare i faits divers con il termine più nobile di information générale ); quindi meglio porre sullo stesso piano i fatti di cronaca e altri tipi di informazione, e tentare così di cogliere negli uni e negli altri una differenza strutturale e non più la sola differenza di catalogazione.

Questa differenza ci appare da subito evidente allorché si confrontino i nostri due delitti; nel primo (l’assassinio politico), l’evento (l’omicidio ) rimanda  necessariamente ad una situazione estensiva che esiste al di fuori di esso, in un prima e intorno ad esso: la “politica”; l’ informazione qui può essere compresa immediatamente, può essere definita soltanto  in proporzione alla conoscenza esterna all’evento, che è la conoscenza politica, per quanto confusa; insomma l’assassinio sfugge al fatto di cronaca quando esogeno, proveniente da un mondo già noto; possiamo allora dire che non esiste una struttura adeguata, sufficiente, perché non sarà mai altro che il termine manifesto una struttura implicita ad esso preesistente:  nessuna informazione politica è senza durata, perché la politica è una categoria trans-temporale; allo stesso modo, d’altronde, per tutte le notizie giunte da un ​​orizzonte  nominato, da un tempo anteriore: queste non possono mai assurgere a fatti di cronaca. ; letterariamente sono frammenti di romanzi, nella misura in cui ogni romanzo è di per sé un vasto sapere i cui fatti che vi succedono non ne sono che una semplice variabile.

 L’assassinio politico è dunque sempre, per definizione, un’informazione parziale; il fatto di cronaca, al contrario, è una informazione totale, o più precisamente, immanente; contiene in sé tutto il suo sapere : non c’è bisogno di sapere nulla del mondo per consumare un fatto di cronaca; non rimanda formalmente a nient’altro che a se stesso; naturalmente, il suo contenuto non è estraneo al mondo: disastri, omicidi, rapimenti, aggressioni, incidenti, furti, stranezze, tutto rimanda  all’uomo, alla sua storia, alla sua alienazione, alle sue fantasie, ai suoi sogni , alle sue paure: un’ ideologia e una psicoanalisi dei fatti di cronaca sono possibili, ma qui si tratta di  un mondo  la cui conoscenza non può essere che intellettuale, analitica, elaborata a un grado secondo da colui che parla del fatto di cronaca, non per  quello che lo consuma; a livello della lettura, tutto è dato in una notizia; le circostanze, le cause, il passato, l’esito; senza durata e senza contesto, costituisce un essere immediato, totale, che non rimanda, almeno formalmente, a nulla d’ implicito; è in questo  che si apparenta al racconto o alla favola, piuttosto che al romanzo. È la sua immanenza che definisce il fatto di cronaca.

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 Eccoci dunque davanti a una struttura chiusa. Cosa succede all’interno di tale struttura? Un esempio, per quanto piccolo esso sia, potrà forse dircelo. Il palazzo di Giustizia è stato appena ripulito. Questo è insignificante . Era da un secolo che non lo si faceva. Questo diventa un fatto di cronaca. Perché? Poco importa l’aneddoto (potremmo trovarne di ben più miseri); due termini sono stabiliti, che inevitabilmente richiamano a una certa relazione e sarà la problematica legata a  questa relazione a costituire il fatto di cronaca; la pulizia del Palazzo di Giustizia da un lato,  dall’altro la rarità della cosa, sono come i due termini di una funzione: è tale funzione ad essere viva, regolare e dunque intelligibile; possiamo supporre che non esista alcun fatto di cronaca semplice, costituito da una sola annotazione: il semplice non è significativo; quali che siano la densità del contenuto, la sorpresa, l’orrore o la sua esiguità, il fatto di cronaca inizia laddove l’informazione si sdoppi fino a comportare così la certezza di una relazione; la brevità della dichiarazione o l’importanza della notizia, altrove garanzia d’unità, non potranno mai cancellare la natura articolata del fatto di cronaca: Cinquemila morti in Perù ? L’orrore è globale , la frase è semplice;  eppure, l’importante qui è già il rapporto della morte  e di un numero. Indubbiamente una struttura è sempre articolata; tuttavia, qui, l’articolazione è interna al racconto immediato, mentre nell’informazione politica, per esempio, la stessa la troviamo al di fuori dell’enunciato, in un contesto implicito.

 Quindi, ogni fatto di cronaca comporta almeno due termini diversi, o, se si preferisce, due annotazioni. E si può eseguire una prima analisi del fatto di cronaca, senza alcun riferimento alla forma e al contenuto di questi due termini: alla loro forma, perché la fraseologia del racconto è estranea alla struttura del fatto segnalato, o, più precisamente, perché questa struttura non coincide inevitabilmente con la struttura del linguaggio, per quanto non si possa raggiungere che attraverso il linguaggio del giornale; al loro contenuto, perché l’importante, non sono i termini in se stessi, il modo contingente di cui sono saturi (per un omicidio, un incendio, un  furto, ecc.), ma la relazione che li unisce.

 È  su questo rapporto che dobbiamo innanzitutto  interrogarci, se vogliamo cogliere la struttura del fatto di cronaca, vale a dire il suo significato umano. Sembra che tutte le relazioni immanenti al fatto di cronaca possano essere ricondotti a due tipi. Il primo è la relazione causale. Si tratta di una relazione  estremamente frequente : un delitto e il suo movente , un incidente e le sue circostanze , e ci sono beninteso, da questo punto di vista, degli stereotipi potenti:  dramma passionale , delitto per denaro ecc. Ma in tutti i casi in cui causalità è in un certo qual modo normale, aspettata , l’accento non è posto sulla relazione in se stessa , per quanto continui a formare la struttura del racconto; essa si muove verso ciò  che potremmo definire  dramatis personae (bambino , vecchio , madre , ecc. ) modelli di essenza emotiva , caricati per dare vita allo stereotipo .

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 Così ogni volta che si voglia mettere a nudo la causalità del fatto di cronaca, sarà una causalità alquanto aberrante quella che si incontra. In altre parole, i casi puri (ed esemplari) sono affetti da disturbi di causalità, come se lo spettacolo (“il degno di nota”, dovremmo dire), iniziasse laddove la causalità, senza cessare di essere affermata, contenesse già un germe di degradazione, come se  la causalità non potesse che consumarsi solo quando inizia a marcire, a disfarsi. Non ci sono notizie senza stupore (scrivere, è stupirsi); ecco che, riferito a una causa, lo stupore implica sempre un disturbo, dal momento che  nella nostra civiltà, tutto l’altrove della causa sembra posizionarsi  più o meno dichiaratamente  ai margini della natura , o quanto meno del  naturale. Quali sono questi disturbi di causalità, su cui si articola il fatto di cronaca ?

 Si tratta innanzitutto, ovviamente, del fatto di cui non si può dire immediatamente la causa. Bisognerebbe un giorno tracciare una cartina dell’inspiegabile contemporaneo, così come se lo rappresenta non tanto la scienza, quanto il senso comune; sembra che nel fatto di cronaca, l’inspiegabile sia ridotto a due categorie di fatti: i prodigi e i crimini. Quello che un tempo era chiamato prodigio, e che indubbiamente avrebbe occupato la maggior parte dello spazio a disposizione dei fatti di cronaca, se la stampa popolare fosse allora esistita , ha per spazio il cielo, ma negli ultimi anni , si direbbe che non esista ormai che un solo  tipo di prodigio : i dischi volanti; nonostante  un recente rapporto delle US Army abbia classificato sotto forma di  oggetti naturali (aerei, palloni , uccelli) tutti i dischi volanti identificati, l’ oggetto continua ad avere una sua vita mitica: viene equiparato ad un veicolo globale, inviato di solito da marziani : la causalità è così rinviata nello spazio, non è abolita; inoltre,  il tema marziani è stato significativamente messo a tacere dai voli reali nel cosmo: non c’è più bisogno dei marziani  per entrare nella stratosfera visto che Gagarin, Titov e Glenn ne sono appena usciti : tutta la realtà soprannaturale sparisce.

 Per quanto riguarda il  delitto misterioso, ne conosciamo la sua fortuna nel romanzo popolare; la relazione fondamentale è formata da una causalità differita; il lavoro della polizia consiste nel colmare a ritroso il tempo affascinante e insopportabile che separa l’evento dalla sua causa; il poliziotto , emanazione dell’intera società nella sua forma burocratica  diventa allora la figura moderna dell’antico risolutore  di enigmi ( Edipo ), che fa cessare il terribile perché delle cose; la sua attività, paziente e testarda, è il simbolo di un desiderio profondo: l’uomo intasa febbrilmente la breccia causale, si adopera a porre fine alla frustrazione e all’ansia. Nella stampa, indubbiamente, i delitti misteriosi sono rari, il poliziotto è poco personalizzato, l’enigma logico annegato nel lato patetico  degli attori; del resto, la vera ignoranza della causa in questo caso costringe il fatto di cronaca  a estendersi su diversi giorni, a perdere quel carattere effimero, così conforme alla sua natura immanente; ecco perché, in tanto che fatti di cronaca a differenza del romanzo, un delitto senza motivo è più inspiegato  che inspiegabile : il “ritardo” causale non vi esaspera il delitto, lo disfa: un delitto senza causa è un delitto che si dimentica: il fatto di cronaca scompare allora , proprio perché nella realtà la sua relazione si estingue.

 Naturalmente, poiché qui, degna di nota, è la causalità disturbata, il fatto di cronaca è ricco di deviazioni causali: in virtù di certi stereotipi, ci aspettavamo una causa, ed è un’altra quella che appare: donna pugnalata dall’amante: delitto passionale?  No, non andavano d’accordo in politica. Giovane cameriera rapisce il neonato dei suoi datori di lavoro: per ottenere un riscatto? No, perché amava il bambino. Un vagabondo aggredisce donne sole: sadico? No, semplice scippatore. In tutti questi esempi, si nota bene come la causa rivelata sia in qualche modo più povera di quella che ci si attendeva; il delitto passionale, il ricatto, l’aggressione  sadica hanno un lungo passato, sono fatti pregni d’emozione, rispetto ai quali la divergenza d’idee politiche, l’ affetto eccessivo o il semplice furto sono moventi ridicoli;  vi è in effetti in questo tipo di rapporto di causalità, lo spettacolo di una delusione, paradossalmente, la causalità è tanto più degna di nota giacché non viene soddisfatta .

(à suivre)

L’amore e Gödel

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Alcune considerazioni su Almanacco del Giorno Prima di Chiara Valerio

di Vanni Santoni

chiara valerioHo conosciuto Chiara Valerio dieci anni fa; eravamo due esordienti (anche se lei non lo sembrava, appartenendo a quella categoria di persone che sembrano sempre “nate imparate”) ed eravamo stati invitati a Roma, assieme ad altre due persone, nella sede di una casa editrice un tempo grande e prestigiosa e allora in fase di rilancio, in quanto vincitori, coi nostri romanzi, di un concorso per esordienti. Lì fummo ricevuti dal direttore della casa editrice un tempo grande e prestigiosa, il quale ci fece tanti complimenti, ci disse della fase di rilancio e ci fece parlare con la scrittrice famosa che presiedeva la giuria del concorso, la quale pure ci fece tanti complimenti, distribuì un po’ di consigli e ci rese al direttore, il quale ci fece un contratto (mi par di ricordare che fosse addirittura per tre libri) e ci rimandò a casa tutti contenti. Va da sé che il concorso si rivelò una fregatura, la casa editrice un tempo grande e prestigiosa smise di essere in fase di rilancio e anzi smise proprio di farsi sentire, ci piazzò in standby e poi, solo a fronte di nostre reiterate e via via sempre più rabbiose e disperate richieste di chiarimenti, ci fece capire che quei libri non li avrebbero stampati mai. Va da sé che le quote di iscrizione al concorso non vennero mai rese ai partecipanti, ma noi non pensavamo certo a quei dieci o venti euro: noi pensavamo ai nostri libri e infatti ricordo che con Chiara (gli altri due vincitori dopo un po’ sparirono dal radar) ci scambiavamo delle mail in cui sostanzialmente ci giravano le palle. Io, poi, ero stato così ingenuo da dire a chiunque, parenti, amici, fidanzata, che avevo vinto il concorso nazionale per esordienti della casa editrice un tempo grande e prestigiosa e in fase di rilancio – avevo, come si suol dire, “comprato il vestito buono” – e adesso l’evidenza che invece il libro non sarebbe mai uscito era esiziale (oltre che una bella figuraccia). Non so come andò per Chiara, ma per quanto mi riguarda quella bruciantissima fregatura fu decisiva per diventare uno scrittore. Non restava altro, del resto: se volevo dimostrare che davvero ero quella cosa là, l’unica era pubblicare un libro altrove. Magari con una casa editrice migliore di quella un tempo grande e prestigiosa.

Per questo, ogni volta che ne faccio arrivare uno in libreria, c’è sempre una (ormai minuscola eppure esistente) parte di me che gode anche perché è una ulteriore dimostrazione di quanto quelli furono grulli a non pubblicare il mio libro. E quella stessa parte di me gode ogni volta che Chiara Valerio pubblica un libro, poiché ciò rinforza tale dimostrazione. Avevate trovato gli scrittori e non li avete fatti, siete proprio grulli. Se poi, come nel caso di Almanacco del giorno prima, il libro è anche stupendo, allora il godimento diventa anche orgoglio per i risultati di una persona che un destino (inizialmente) avverso mi ha assorellato. Ai tempi in cui eravamo ragazzotti all’esordio, io non avevo molto da lasciarmi dietro per far spazio alla letteratura: avevo lavorato nella formazione e nel giornalismo, ero stato uno studente universitario solo discreto; dal mondo dei romanzi avevo insomma soltanto da prendere; lei invece era una matematica, una vera, di quelle col PhD, e ciò oggi – incluso, si intuisce, l’abbandono di quel percorso – si ritrova in questo romanzo, appena uscito per Einaudi. Nel leggere la sinossi in bandella, che recita, tra le altre cose, “Alessio Medrano è un broker geniale e sentimentale, scommette sui fallimenti come fossero successi: ‘i soldi sono un’idea vecchia, bisogna investire sul tempo’.”, si rischia di finire fuorviati. Lungi dall’essere solo romanzo sulla questione finanziaria postmoderna vista dagli occhi di un addetto ai lavori particolarmente dotato, in Almanacco del giorno prima la matematica, e con essa la finanza, sua figlia cinica, diventa un filtro attraverso cui guardare il mondo. Alessio Medrano siamo tutti noi, anzitutto perché, affidandosi egli a codici interiori che rimandano a un linguaggio che più o meno, a diversi gradi, conosciamo tutti, ci viene facile entrare dentro di lui: il suo codice matematico diventa riflesso chiarificato e metro dei nostri personali e più contorti codici.

Ma facciamo, per l’appunto, ordine: Almanacco del giorno prima è un romanzo in tre parti, di lunghezza decrescente. La prima ci racconta l’infanzia e la formazione di Alessio Medrano. La seconda, per frammenti, il periodo in cui il Medrano si innamora di una persona che non lo ricambia. La terza riagguanta la narrazione e la chiude.

A prima vista, la prima parte è la più potente, perché Chiara Valerio dà una dimostrazione di maestria letteraria pura, di quel tipo di raggiunta maturità della scrittura che non ha bisogno di “fare numeri” ma li tiene sotto la superficie, esprimendo una forza controllata; nel libro si evoca l’opera al rosso, ma Almanacco del giorno prima è una vera e propria opera al bianco, nella sua compiutezza stilistica e formale: le avventure di questo bambino dalla enorme intelligenza analitica (che si trasformerà, ahilui, in un adulto del tutto sprovvisto di intelligenza emotiva) conquistano perché egli, in quanto persona che riduce tutto, anche se stesso, a fattore numerico, è per forza anche noi, tutti conteniamo Medrano e ne siamo contenuti; inoltre, vederlo fare i puzzle al contrario o gabellare i compagni di scuola con trucchi grifagni, è uno spasso, così come è avvincente seguire le sue avventure nei derivati da polizze di fine vita, ovvero, insomma, la speculazione finanziaria sulla morte della gente – i cosiddetti death bond – e seguirlo quando si lancia dentro quegli abissi di senso che sono tutte le cose che mettono in comunicazione vite e numeri, tra cui le polizze ma anche i (solo apparentemente prosaici) elenchi del telefono.

Ho scritto “a prima vista” perché la seconda parte – in cui, per frammenti di vita, brani di discorsi, tic e idiosincrasie della dialettica affettiva, si racconta l’amore di Medrano per Elena, una donna che non lo ama (né però si libera di lui: una stronza, per farla breve) e lo scontrarsi, ineludibilmente tragico, di una visione del mondo che tutto vorrebbe categorizzare con una realtà, quella amorosa, che è per definizione categoria a sé – risulta apparentemente più fredda della prima, ma ciò avviene solo in fase di lettura (vi è del resto, al di là della forma meno narrativa, un ribaltamento: dall’immedesimazione col Medrano bambino si passa al nervoso per il Medrano adulto, alla voglia di urlargli “sveglia, maledizione!”), dato che successivamente, già quando si approda alla terza parte, che del Medrano ricostruisce l’educazione sentimentale e chiude la vicenda professionale e finanziaria, quei frammenti cominciano a comporsi nella memoria e riverberare: a legarsi tra loro andando a ricostruire un puzzle via via sempre più chiaro, che però, come quelli amati dal Medrano fanciullo, è ribaltato, senza immagini, tutto “color das secco”, perché è il puzzle di un amore che non esiste, e di fronte a tale spietata evidenza a poco valgono, a quel punto, i risultati delle speculazioni finanziarie di Medrano e del socio Janak, se non a confermare che, sì, oggi si può ridurre a numero chiunque, ma non colei o colui di cui si è innamorati, poiché l’amore non si misura, né tanto meno si ottiene, con gli strumenti del non-amore (da profano viene in mente Gödel e il suo teorema di incompletezza – mi perdoni Chiara se si tratta di uno sfondone matematico). Il romanzo, con ciò, pone tuttavia un’altra e più grande questione: davvero l’ultima soluzione, l’ultima salvezza che ci è rimasta è l’amor romantico? La coppia, addirittura? Morti gli idoli, finite le ideologie, collassata la famiglia, seppellito il lavoro come fonte dell’identità, superata nostro malgrado un’infanzia e un’adolescenza che abbiamo cercato di prolungare in ogni modo, divenuto tutto fluido (come un liquido, o una stringa di codice), giusto l’amore romantico è un sogno permesso? Se è così, guai allora a chi si innamora senza esser corrisposto. Questa visione del mondo riuscii a evitarla, o almeno a evitare che diventasse univoca e assoluta, buttandomi, grazie anche alla ferita infertami dal concorso farlocco, sulla letteratura. Mi par che Chiara abbia fatto lo stesso, e che la letteratura, prova ne è questo mirabile romanzo, la corrisponda in pieno.

Almanacco del giorno prima, Chiara Valerio, Einaudi 2014, pp.350 €20.

Pesci d’aprile – Una poesia di Rita Filomeni

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a.c.

Ci sono battaglie che nascono con la camicia, altre meno. Lo Stato, di questi tempi, ha la vista disgiunta del camaleonte, e se con un occhio punisce con l’altro assolve e la coerenza è un mestiere per eremiti. Il rimpallo e il rimando, allora, rappresentano il miglior modo per riassicurarsi la parte e o l’impunità per le azioni, omissioni.
Sorte vuole che oggi, 1 aprile, scada il termine per la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg), più comunemente noti come “manicomi criminali”. Neppure un miracolino, invece, per i “folli rei”. Già, perché – per dirla con Leo Longanesi -, “Alla manutenzione, l’Italia preferisce l’inaugurazione”, e non si poteva non dare e darsi un po’ di tempo (un altro anno, se va bene, prima erano tre) per bandire a riguardo una bella ed eccitante gara d’appalto, così da mettere in cantiere un regionalismo di piccole case con tetto di paglia a venti posti letto dove eseguire le misure di sicurezza, soluzioncina, questa nuova, certo meno contestabile, indigesta e nauseabonda rispetto alla colonia penale, e per di più ineccepibile sotto il profilo dei comfort. La vicenda, che si invita a seguire nelle sue pieghe più da vicino, è scandalosa quanto certamente complessa, ma esorta ugualmente tutti ad opporre alla minaccia dell’insensatezza sociale, un nucleo irriducibile di sopravvivenza dell’amore e dell’etica. R.F.

 

. pesci d’aprile

    al concorso a premi sabbie immobili,

ognuno sa che il gioco e suo è già fatto
come tra amici e niente ostacola niente,
squalifica, a chi l’assale, ‘l pentimento

e monetina a cemento, tutti accontenta
e sì pure ‘l taglio del nastro inaugurale
con il sindaco, la banda e i chierichetti

emoziona ‘l tour le stanze ‘n ipercubo
a otto facce, e per ciascuna a detenuto
che lì spera rinvio a altro non rimandi,

la morte abbia pietà di un pesce muto

Nel bosco degli Apus apus

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di Mariasole Ariot

 

Apus apus: “Una sua peculiarità è quella di avere il femore direttamente collegato alla zampa, tanto che il nome scientifico deriva dalla locuzione greca “senza piedi”. Questa sua caratteristica fa sì che non tocchi mai il suolo in tutta la sua vita; infatti se disgraziatamente si posasse a terra, la ridotta funzionalità delle zampe non gli consentirebbe di riprendere il volo”. Quindi dorme in volo.

Il corpo urta sugli spigoli non per eccesso di ossa ma per un compendio di niente. Mi accorgo della grande solitudine del cielo, di questo filo tirato tra un muro e l’altro per appendere gli impiccati.

Ce ne stiamo lì a guardare, ogni mattina, come fossimo un pubblico in fila al concerto, o alle poste, ci spintoniamo per guardare il massacro.

Io vivo, lui non vive, io non vivo. Lui si ritrae nella cantina. Io mi affaccio. Lui vede il bulbo, io vedo il fiore. Lui mi pettina i capelli con il rastrello, io preparo la camomilla.

Quanto manca al primordiale? Amare ha un nome proprio. Io ho perduto il mio.

Amarcord Poétique : Italo Testa

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la_divisione_della_gioia

Nota

di

Alida Airaghi

Questi versi di Italo Testa interrogano il lettore -emozionandolo, anche- già dal titolo, che (al di là del riferimento al gruppo punk inglese Joy Division) non allude come ci si aspetterebbe a una “condivisione” della gioia (tra l’autore e chi legge, tra protagonista recitante e deuteragonista che ascolta), bensì a una sua “divisione”: quindi a una frammentazione, a una non totalità e non completezza, ribadita in tutti e tre i capitoli che compongono il libro. La cui nota dominante è senz’altro una rassegnata malinconia, attualissima però, disincantata in un soliloquio che tenta vanamente il dialogo, con alle spalle uno scenario grigio, silenzioso, di smobilitazione post-industriale. E opportunamente il poeta cita, in esergo alla seconda, splendida sezione, una frase di Edward Hopper: perché proprio agli interni disadorni e ai desolati esterni del pittore americano sembra rifarsi l’ambientazione dei suoi versi (“I was more interested in the sunlight on the buildings and on the figures than any symbolism”).

Eccoli, dunque, gli interni raccontati da Testa nelle quattro parti in cui si suddivide la sezione che dà il titolo al volume: “un interno spoglio e taciuto…a telefono spento…nello specchio marmoreo di un tavolo…le grate che spartivano il vetro…i gradini lucidi…di sbieco su una sedia…in una stanza anonima, spoglia…in una stanza vuota”: un crescendo di non appartenenza, in cui si muove la coppia di amanti. Il poemetto (che è poi una lunga lettera d’amore, sfiduciata eppure tenera, delusa dalla propria non-passione, rivolta a una lei sempre lontana anche quando viene descritta nella sua fisicità più intima), ha un ritmo lento e avvolgente, assolutamente musicale, nella pacatezza delle sue rime e di una metrica tradizionale però mai scontata, priva di qualsiasi brusco scarto formale. Una bassa marea di sonorità, che accompagna queste immagini dal sapore cinematografico (campi lunghi, sfondi dai colori tenui, una natura indifferente se non ostile alla presenza umana): i luoghi sono quelli, padani, pianeggianti, del delta del Po. E gli echi letterari (una presenza costante del primo Montale: come non ricordare Dora Markus?) rimandano forse alla narrativa di Bassani (le bellissime pagine de “L’Airone” trovano un’empatica rispondenza in questi versi); ma anche a Celati, a Tonino Guerra, e ad altri visionari della pianura tra Veneto ed Emilia.testa

Gli esterni non sono più partecipi dell’avventura umana di quanto lo siano gli interni: “spazio deserto…sotto un lampione astioso…la fissità del cielo…statue mute…i tetti opachi e le lamiere arroventate…la distesa dei campi d’acqua…case abbandonate…fabbriche addormentate…l’armatura dei pilastri…erbe matte sul terreno…mattoni e lamiere ondulate…”). E la nebbia, il silenzio, in cui si muovono i due protagonisti, sospesi, incapaci di vera comunicazione. Italo Testa recita le sue parole in prima persona, si rivolge a un tu che stenta a raggiungere, a toccare concretamente: i due amanti sono descritti spesso in piedi, “appoggiati”, “affacciati”, zitti e in attesa, quasi a chiedere conforto e sicurezza alla realtà dei muri, dei balconi, degli oggetti. E non trovano certezza nei loro gesti, nei pensieri, nei reciproci abbandoni: “così aspettiamo giorno per giorno,/ un foglio in mano, lo sguardo perso”, “la fragilità ci insidia dall’interno”, “stiamo lì, col capo arrovesciato/ un po’ assonnati sopra il letto,/ le gambe appena reclinate/ contiamo le pieghe sul lenzuolo”, “il braccio nascosto tra le gambe, la luce sulle mie cosce nude,/ la mano a coprirti il pube”. In un’estraneità sofferta, immodificabile: “saremo corpi in attesa, tronchi/ riversi, distesi tra le cose”.

La stessa incomunicabilità che ricorda i film di Antonioni, e, come già detto, l’angosciante desolazione dei quadri di Hopper, la ritroviamo nelle altre due sezioni del volume: “Cantieri” e “Delta”.  Quest’ultima ancora centrata sui temi sentimentali della precedente, espressi in versi più veloci e orecchiabili, al limite del cantato, con qualche concessione alla retorica di più facile presa. Il paesaggio è sempre segnato da pioppi e argini, nebbia e neve, rami-confluenze-strade come si conviene in un delta, entro i cui confini i due protagonisti si cercano e si sfuggono, trincerandosi in rapporti sessuali veloci e talvolta colpevoli, chiedendosi e negandosi aiuto reciproco. I colori non transigono, severamente sfumando dal bianco al grigio, “nel polverio/ di una geografia remota” che non sembra conoscere l’indulgente abbandono al sole, al calore, alla luce.

Decisamente più originali sono invece le poesie della prima parte, ambientate nelle periferie industriali di Marghera, tra pale meccaniche, cisterne, torri e silos, container, gru, pilastri di cemento, cavi dell’alta tensione, tralicci, rimorchi; tra fabbriche disumane dai nomi inclementi (Fincantieri,  Saipem, Crion), in orari albeggianti di “luce polverosa” e proletaria. Eppure in questi versi privi di rabbia e semplicemente descrittivi, che si limitano a constatare una realtà perdente e umiliata, aleggia uno stupefatto e accorato sentimento di solidale comprensione, e pietà, per le persone, la loro vita e la loro storia, che avvicina il lettore alla verità disadorna della poesia più autentica.

 

Italo Testa, La divisione della gioia – Transeuropa Ed-Massa 2010 – Euro  9,50 – Pagine 75

 

Juan Pablo Villalobos. “Se vivessimo in un paese normale”

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(L’incipit del romanzo di Juan Pablo Villalobos, Se vivessimo in un paese normale, Gran Vía, 2014. – Lagos de Moreno, Messico, fine anni Ottanta: in una catapecchia alla periferia del paese vivono il tredicenne Oreste e la sua scombinata famiglia…)

VillalobosProfessionisti dell’insulto

«Va’ a farti quella gran puttana di tua madre, bastardo! Vaffanculo!»

Sì, lo so che non è il modo migliore per iniziare, ma la mia storia e quella della mia famiglia sono piene di insulti. Se devo raccontare le cose per come sono successe veramente, dovrò scrivere un sacco di parolacce. Giuro che non c’è altro modo, perché la storia si svolge nel luogo in cui sono nato e cresciuto, a Lagos de Moreno, Altos de Jalisco, regione che per sua maggior disgrazia si trova in Messico.

Astronomi di costellazioni linguistiche- Gaetano Delli Santi

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“Astronomi di costellazioni linguistiche”: serie di incontri con scrittori sperimentali che proseguono da anni una ricerca sulla lingua e sulle forme letterarie. Dialogando con loro, che leggeranno brani editi o inediti, indagheremo il come e il perché delle scelte adottate, in molti casi tese a evadere dai limiti di convenzioni sentite come assurde, restrittive o molto povere rispetto alle potenzialità del linguaggio e del narrare.

Terzo appuntamento: 30 marzo, H. 18.00, con Gaetano delli Santi, scrittore.

“L’udito ci indica la strada per vedere, così come la vista ci indica la strada per udire. L’udito aguzza la vista quando la vista aguzza l’udito.  Difatti noi siamo quell’udito di vista ascoltata di cui la vista dispone e dispone la vista che gli occhi non possano vedere senza aver udito l’orecchio che vede.”

Gaetano delli Santi. Nato a Vieste nel 1959, vive a Milano. Negli anni novanta ha fatto parte della Terza Ondata dell’avanguardia. Con il testo “defungi scelere” ha vinto l’anti-premio Feronia per la prosa (1993). Ha inoltre pubblicato poesie (tra cui “Il resto ve lo dirò dal mànfano”), prose (tra cui “Mottetti e monologhi di uno schizoide”) e saggi, in particolare sul rapporto fra Barocco e avanguardie. E’ in corso di pubblicazione un suo lungo romanzo che reinterpreta la figura del Faust.

Il ritardo all’asilo

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bambi II  di Andrea Inglese

Quando è venuto il momento di portare la bambina all’asilo, è stato un momento solenne, è banale ovviamente portare il proprio bambino all’asilo, dal momento che tutti i bambini vanno all’asilo, salvo quelli che vengono piazzati dalle balie, o negli asili privati, l’asilo comunale, in fondo, è meno banale di quanto si pensi, infatti la madre aveva dei timori, e oltre i timori, probabilmente, delle angosce, non dico enormi, ma era più allertata di me, più pensierosa, quando preparava il biberon della bimba aveva uno sguardo cupo, come se ci fosse il rischio di avvelenarla con una dose sbagliata, come se il latte invece di un normale nutrimento fosse una medicina, di quelle con possibili effetti indesiderati se non viene dosata,

Trafficare con i piedi

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trafficdi Gianni Biondillo

La storia della medicina ha visto nascere quasi contemporaneamente, nell’Ottocento, le pratiche anestetiche e quelle di sterilizzazione degli ospedali. La chirurgia cambiò radicalmente, oggi non riusciremmo a concepirla altrimenti. Se dapprima i dottori dovevano operare in tutta fretta, ed anzi la loro velocità era un merito perché evitava atroci sofferenze ai pazienti, oggi, in camere asettiche, possono con tutta calma lavorare di fino sul corpo malato. Ebbene, la cosa curiosa è che questi due capisaldi della chirurgia moderna, che oggi diamo per assodati, ebbero a suo tempo fortune ben differenti. L’anestesia ebbe un successo immediato nella comunità scientifica. Era il 1846 quando a Boston il dottor Morton utilizzò l’etere per addormentare un paziente, permettendo così al dottor Warren di poter operare all’asportazione di un tumore al collo. Neppure un anno appresso, nel 1847, ci fu la prima applicazione di etere come anestetico in Italia, all’Ospedale Maggiore di Milano. Ben altra storia ebbe l’idea che i medici dovessero lavarsi abbondantemente le mani, che i pazienti dovessero essere ricoverati in ambienti sterili, che le operazioni venissero fatte in ambienti protetti. Per decenni la medicina ha guardato con sospetto tali teorie. Spesso i chirurghi si mostravano in corsia, come beccai, coi camici insanguinati, a prova del loro alacre lavoro coi ferri. È che mentre l’anestesia aveva una sua evidenza immediata – il paziente dormiva, il medico operava, il risultato era alla portata intuitiva di tutti – accettare invece che microrganismi invisibili potessero agire sulle ferite aperte sembrava un po’ fantasioso anche agli uomini di scienza dell’epoca. L’aspetto meccanico della chirurgia sembrava prevalere come cornice di riferimento, al punto di non trovare contraddittorio il fatto che molte operazioni fossero perfettamente riuscite ma il paziente morisse ugualmente. Per infezione, ovvio. Ovvio per noi oggi, molto meno all’epoca.

Ebbene ogni volta che sento parlare di mobilità privata, di inquinamento, di chiusura dei centri storici, di ZTL (Zona a Traffico Limitato), ripenso sempre a questo aneddoto. Ciò che per noi è ovvio e di buon senso spesso non ha ancora raggiunto la sua evidenza per tutti. Esiste una sorta di resistenza al cambio di modalità, la paura di perdere un privilegio è più potente della speranza di un guadagno ben più fruttuoso, anche se non così immediatamente evidente.

armanÈ una questione di narrazione. Ci siamo lasciati ammaliare dal mito della libertà assoluta che un’automobile porta con sé. Liberi di muoverci ovunque, dove ci pare, quando ci pare. Guardate le pubblicità dei produttori di autovetture: macchine che sfrecciano libere immerse in paesaggi incontaminati, nessun vincolo, tutto può essere raggiunto dalla nostra volontà. L’esaltazione del solipsismo, l’individualismo fatto lamiera e gomma. Potenza della propaganda, capace di farci vedere quello che non c’è. L’arte, rispetto alla propaganda, si comporta in modo differente. Qualcuno forse ricorda quando Ico Parisi, nel 1991, realizzò un’installazione in Piazza Cavour a Como: un’automobile imprigionata in un cubo di cemento. Opera che dialogava con altre esperienze europee, come quella di Arman che, nel 1982, aveva realizzato una scultura fatta dalla sovrapposizione di 59 automobili affogate in 1600 tonnellate di calcestruzzo, o con César che decenni prima comprimeva come uno sfasciacarrozze le automobili fino a ridurle a cubi, liberando lo spazio che occupavano e dimostrando la loro intrinseca essenza di scarto.

Comp17 1aaSiamo tutti amanti della natura e tutti ci lamentiamo del tasso d’inquinamento delle città, però appena una amministrazione comunale cerca di agire concretamente, limitando il traffico privato, aumentando la pedonabilità, etc., si scatenano le critiche più radicali. Va bene tutto, ma nessuno può impedire la libertà di muoverci in macchina! Libertà che ovviamente non esiste. Basta girare per una qualsiasi strada a grande scorrimento, e non solo nelle ore di punta, per capire che siamo tutti imprigionati in un cemento invisibile ben più consistente di quello delle provocazioni artistiche. La libertà di fare quello che ci pare e piace non esiste, è un mito pubblicitario. Spesso ci vuole davvero poco per prendere una pessima abitudine poi difficile da scrollarci di dosso. Sembra che siamo sempre stati animali meccanizzati, sembra che camminare sia cosa che non ci sia mai appartenuta. Qualche mese fa ero ospite di una manifestazione in Sardegna. Accoglienti come sempre, gli organizzatori pretendevano di portarmi in macchina tutti i giorni dall’albergo alla fiera del libro. “È dall’altra parte del paese” mi dicevano preoccupati. Cioè a soli dieci minuti a piedi. Dieci, andando con calma. Loro, nipoti di pastori transumanti. E così in tutto lo Stivale. L’automobile è stata la concreta rappresentazione dell’emancipazione dalla povertà. Camminare è da poveracci. Ci fregiamo di possedere il più alto numero di bellezze storiche e artistiche, ma vogliamo raggiungerle in macchina. E trovare parcheggio proprio di fronte alla cattedrale che andiamo a visitare. Dalla costiera amalfitana ai Sacri Monti sembra che l’unico modo di valorizzare il nostro patrimonio artistico sia costruirci affianco uno smisurato parcheggio. Per meglio usufruire del bello.

È chiaro che questa narrazione tossica deve cambiare. I nostri nipoti non riusciranno a capire come sia stato possibile aver accettato per decenni – non ostante gli allarmi lanciati da tutti gli scienziati del globo terracqueo – di ingerire veleni e deturpare il paesaggio nel nome di una falsa libertà individuale. Perché che esista un legame assodato fra polveri sottili e salute pubblica è cosa ormai innegabile. Si potrebbe quasi citare alla Corte dell’Aja la politica nazionale per tentato disastro sanitario e crimini contro l’umanità. L’esposizione acuta all’inquinamento atmosferico danneggia le vie respiratorie, il sistema cardiovascolare, peggiora la meccanica respiratoria, altera i meccanismi di regolazione del cuore. Non c’è pneumatologo che non ci dica quanto gli effetti sulla saluta dei Pm10 e Pm2,5 siano gravi e molto spesso cronici. Molti studi, fatti soprattutto all’estero, associano i livelli d’inquinamento col numero di ricoveri e morti quotidiani per cause respiratorie e cardiovascolari.

Il problema è che tutto questo “non si vede”. Proprio come nell’Ottocento, che non c’era l’evidenza immediata dei benefici della sterilizzazione. Il mito dell’automobile come simbolo di emancipazione è potente. Nessuno dice che non serva, persino io che non ho la patente. In una nazione che ha un sistema di mobilità pubblica deprimente come il nostro si crea una sorta di circolo vizioso: un italiano su dieci si muove coi mezzi pubblici perché, come ci viene detto, chi abita lontano non può muoversi mancando una rete pubblica degna. Però è anche vero che praticamente nessun pendolare condivide il tragitto casa-lavoro con i colleghi (risparmiando, tra l’altro, soldi e spazio occupato) e, peggio, quasi la metà di chi si sposta in macchina abita a neppure mezz’ora dal posto di lavoro. In bicicletta ci metterebbe meno!

600_multipla_pfCi sono alcune famose fotografie degli anni del boom economico dove si vedono graziose famiglie sedute in un parco a fare un picnic con la loro 500, o 600 cabrio, che li guarda, gomme sul prato, protettiva. Queste immagini sembrano quasi dirci che noi italiani siamo sempre stati così, menefreghisti del bene pubblico, incapaci di fare due passi a piedi o di prendere una bicicletta quando il semplice buon senso ce lo consiglierebbe. Insomma, nel conto della modernità lo scotto del caos automobilistico urbano dobbiamo pagarlo, non siamo mica olandesi, loro sono sempre stati così! Bugia. Negli anni del boom economico anche Amsterdam era nella morsa dell’inquinamento del traffico privato, e i pochi che si muovevano in bicicletta venivano investiti tanto quanto a Milano, Roma o Palermo. Poi la politica, cioè la gestione del bene comune – questo dovrebbe essere la politica! – valutati o pro e i contro, decise di cambiare le pratiche della mobilità, anche contro l’opinione dei molti, moltissimi automobilisti. Gli olandesi non sono naturalmente ciclisti, lo sono diventati. Così come il numero più alto procapite di biciclette in Europa non ce l’ha Amsterdam ma Ferrara. A dimostrazione che anche noi italiani possiamo, volendolo, cambiare le abitudini quotidiane e migliorare la qualità globale della vita di tutti.

auto parcoLa questione classica che viene posta, quando si propone una ZTL, è sempre la stessa: ma così, chiudendo alle macchine votiamo a morte sicura il commercio minuto. Nessuno vorrà più comprare se dovrà farsela a piedi, andranno tutti nei centri commerciali. Anche questa è una narrazione tossica, un sillogismo falso. Non voglio neppure entrare nel merito su quanto sia devastante il consumo di suolo e di energia di un centro commerciale. Non voglio parlare di quanto sia opaca la gestione del flusso di denaro che ha fatto sorgere dal nulla sull’intera nazione questi centri, spesso vere e proprie lavatrici di soldi sporchi accumulati dalla criminalità organizzata. Neppure voglio dire di come sia un modello insediativo nato in un paese che ha dimensioni e tradizioni completamente differenti, imposto d’imperio qui, come prototipo unico della modernità. Lasciamo stare, tutto questo potrebbe sembrare un discorso “ideologico”. Arriviamo alle cose concrete, evidenti. Cosa facciamo quando andiamo in un centro commerciale?

SITE parkPrendiamo la macchina, ovvio. Ci allontaniamo dal centro storico, ci incuneiamo in quale tangenziale ingorgata, troviamo finalmente l’uscita, posteggiamo in un parcheggio grande come due campi di calcio (mi viene in mente il “Ghost Parking Lot” dei SITE, dove le macchine, calcificate, ormai sembrano reperti archeologici), quasi sempre lontanissimo dall’ingresso, camminiamo in mezzo a tonnellate di lamiere per raggiungere finalmente l’entrata e poi finalmente dentro… camminiamo. Per ore. Camminiamo come fossimo per strada in un finto centro storico, kitsch fino all’inverosimile. Camminiamo per false piazzette, ci fermiamo a prendere un caffè in finti dehors, acquistiamo cose in pseudo negozi arredati come fossero finto-antichi. Bella contraddizione. Poiché non si può andare in macchina nel vero centro storico a comprare cose nei veri negozietti e prendere un caffè negli autentici bar delle vere piazze antiche, preferiamo prendere la macchina per andare in un luogo falso dove non facciamo altro che camminare come fosse autentico. Puro surrealismo.

I negozianti dei centri storici o sono miopi o forse fingono di non vedere che se la gente va nei centri commerciali è per colpa della politica della grande distribuzione che abbatte i prezzi e fa concorrenza sleale, mica perché la gente non ha voglia di camminare. Se esistessero politiche commerciali differenti, capaci di proteggere la vendita al dettaglio, se si riuscissero a ideare tecniche innovative e concorrenziali da parte delle associazioni di commercianti, l’intera categoria potrebbe vivere di rendita di posizione. La pedonalizzazione dei centri storici, là dove abbiamo depositato la nostra identità comunitaria, dovrebbe essere ovvia. Dovrebbe diventare un plus, non un disvalore. Certo occorre cambiare le pratiche quotidiane, inoculare nella testa di tutti che girare in macchina è da sfigati, che è molto più intelligente, per l’equilibrio psicofisico di ognuno e per la salute di tutti in generale, potenziare i mezzi pubblici, sviluppare la mobilità dolce. È proprio questo salto di paradigma la cosa più difficile da fare in un popolo in fondo pigro al cambiamento quale il nostro. Eppure questo salto è ormai improcrastinabile, se non vogliamo essere ricordati con stupore e imbarazzo (per non dire di peggio) dalle prossime generazioni.

 

(Pubblicato su L’Ordine, inserto de La Provincia di Como, il 23–03–2014, in una versione assai più breve.)

 

Trivio a Milano

0

Milano, venerdì 28 marzo 2014, alle ore 21.00

presso la Libreria Popolare

via Tadino 18 (MM Porta Venezia)

 presentazione della rivista

[trivio] poesia, prosa, critica

unoduemilatredici

trivio

Introduzione critica di

Paolo Giovannetti e Antonio Loreto

Letture poetiche di

 Daniele Bellomi, Alessandro Broggi, Chiara Daino,

Laboratorio Defunto Bib(h)icante, Domenico Lombardini Manuel Micaletto

***

 Indice del numero:

Editoriale

Antonio Pietropaoli

Presentazione
Marco Berisso e Antonio Loreto ( a c. di)

Antologia di poeti liguri e lombardi

Federico Alberto * Laboratorio Defunto Bib(h)icante *
Chiara Daino * Domenico Lombardini * Luciano Neri * Luca Villani *
Daniele Bellomi * Alessandro Broggi * Dome Bulfaro * Carlo Matteo
Dentali * Manuel Micaletto

Giorgio De Marchis, Tabucchi-Pessoa

Tommaso Ottonieri, Partirsi

Gabriele Belletti, La cosa oltre il caos: il Trovarsi Altrove di L. Erba

11!

10

eleven

 

 

 

 

Già undici anni? Come passa il tempo quando si sta bene assieme…

 

 

 

Un poeta russo del sottosuolo

1

Aizenberg di Michail Ajzenberg

traduzione e nota* di Elisa Baglioni

.

Per irrompere con un folle discorso diretto.
Per liberarsi d’un fiato.
Non filtrare parole.
Non fasciare d’ovatta.
E non ardere come il fuoco fatuo della pratica intellettuale.
No, non sono di grande valore culturale.
Non sono un uomo di cultura.
Sono un uomo di nostalgia.

Bentornato Uwe Johnson. La parola ai traduttori: Delia Angiolini e Nicola Pasqualetti

13

(Da pochi giorni è in libreria il terzo volume de I giorni e gli anni – Jahrestage – romanzo monumentale dello scrittore tedesco Uwe Johnson, che lo pubblicò in quattro parti tra il 1970 e il 1983. Di recente (o forse no) i primi due volumi erano usciti nelle Comete di Feltrinelli: nel 2002 e 2005. Adesso il testimone passa a L’Orma Editore, che lo raccoglie completando la tetralogia. Il quarto e ultimo volume sarà pubblicato entro un anno circa. I primi due torneranno, sotto il “segno” dell’Orma, entro l’estate di quest’anno. Tutto sembra cambiare, ma resta la continuità della traduzione, affidata ancora a Delia Angiolini e Nicola Pasqualetti. Ho inviato loro qualche domanda. Hanno risposto regalandoci il testo che segue. D.O.)

Drink Me

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paura di Francesca Matteoni

schiudi:

sangue
latte
saliva
lacrime che si allargano
riflettono sagome e volti

devi avanzare a rapide bracciate
finché si secca il mare
sui tuoi bordi.
Vedi fluire
al vetro del fondale
i liquidi
che ti escono dal corpo.
Si fermano.

Reader’s digest: Filippo Deodato

5


The_Brothers_Karamazov_by_LordShadowblade

Un incontro inatteso

di

Filippo Deodato

Aveva terminato la sua lezione su I Fratelli Karamazov quel pomeriggio. Aveva chiarito a se stesso e forse anche ai ragazzi presenti ad ascoltarlo, che le figure del Cristo e del Grande Inquisitore, convivono nel fondo dell’anima di ciascun uomo. Il giorno che si stava consumando volgeva rapido verso quella fase, che prende, nel tepore delle case, la forma dell’agognato riposo; niente aveva più da chiedere a quella mente stanca, che lenta, stemperava la sua estenuante tensione. Eppure, scritto segretamente nell’immediato futuro, c’era ancora qualcosa che lo attendeva e che avrebbe risvegliato nuovamente, di lì a poco, la sua attenzione; qualcosa che del resto aveva spesso vagheggiato nelle sue innumerevoli e malinconiche fantasticherie.

– Ciao Nathan, ci sentiamo presto. Oggi devo correre a fare la spesa e poi passare a ordinare il Dvd che ci servirà per il prossimo incontro – aveva detto prima di congedarsi da lui la sua amica e collega con la quale aveva ideato il progetto che una volta alla settimana li teneva impegnati di fronte trenta studenti di un liceo di periferia. – Ma no Carla, potrei prenderlo io il film. Di recente l’ho visto esposto nella libreria del centro commerciale che sta proprio lungo la strada che faccio per tornare a casa – rispose con naturale cortesia. – Oh caro, te ne sarei grato davvero se lo prendessi tu. Allora buona serata e … A martedì! –. Nathan si diresse verso il negozio ad effettuare l’acquisto come aveva promesso.

La libreria era semivuota, pervasa dagli umori eterogenei dei clienti che nell’arco dell’intera giornata l’avevano popolata. Una volta rimanere davanti a tutti quei libri senza sceglierne uno da portare via con sé, sarebbe stato impensabile; che la lettura compulsiva degli anni passati avesse molto spesso frenato i suoi slanci creativi più che alimentare un autentico desiderio di conoscenza, oggi rientrava tra le sue consapevolezze. La scrittura che aveva per anni mormorato dentro di lui come una vocazione silenziosa e immanifesta era ormai diventata una sorta di guardiano, e al contempo, un prezioso strumento che poteva dar voce all’impellente necessità presente nei recessi più profondi del suo essere; lo aiutava a perforare quel muro  che blindava la sua frustrata sensibilità.

Passò con una rapida occhiata le novità impilate e ben in vista, sdraiate come seducenti sirene sugli scogli; lambì con lo spirito il suo reparto prediletto costellato di antiche e nuove costruzioni narrative. Sogguardò sprezzante la saggistica solida e velleitaria, tutta tesa a spiegare le tortuosità dell’attualità politica, prima che un rifiuto animalesco lo spingesse oltre, verso i quadri e i disegni che raccontavano la storia dell’arte. Una spossatezza sempre più grande respinse persino la bellezza dell’arte figurativa. Come dimentico del motivo che lo aveva portato fin lì, cercò allora i ripiani che ospitavano la fotografia, per documentarsi su uno degli autori contemplati nel suo progetto scolastico. Provò ad immergersi nel mondo colorato di McCurry; lesse, rimanendo impermeabile al loro significato, i commenti che raccontavano la complessità di quei luoghi tanto distanti, che il fotografo aveva percorso con coraggio, quando la sua distrazione, fu scossa dal calore di un’altra presenza. Un uomo sulla sessantina, ben vestito, sfogliava con garbo uno dei volumi sulla storia fotografica di Roma. Nathan gettò un rapido sguardo sulle pagine aperte del catalogo. Una foto che ritraeva Roma ai primi del ‘900 con al centro un calesse sopra una strada interamente allagata, fu il luogo cui conversero i rispettivi bisogni di manifestare un recondito, quanto umano, desiderio di comunicare.

– Non sembra cambiata molto da allora; gli stessi problemi avviliscono gli splendori della capitale – proruppe l’uomo iniziando la conversazione. – Forse sono cambiati solamente i mezzi di trasporto – rispose scherzosamente Nathan. I due avevano deposto dal suo trono la regina che spesso decide le nostre solitudini; il regno della diffidenza si era arreso alla loro volontà di aprirsi l’uno all’altro. All’uomo sembrò opportuno continuare il discorso che aveva audacemente cominciato. Sfruttò a pieno l’argomento per distillare con disillusione i torti subiti negli ultimi anni; dalla sua amarezza zampillavano ininterrotte condanne all’economia del suo paese e all’intera classe dirigente. Nathan reagì stizzito ma dissimulò il suo stato sforzandosi di non interrompere il flusso di parole e di non chiudersi come molte altre volte aveva fatto. Gli fu più chiaro adesso, il motivo per cui la politica finisce per imporsi su qualsiasi altro tema. – Lo sa lei che la Telecom era una delle aziende più ricche del mondo con i suoi 240.000 impiegati, oggi ridotti ai soli 50.000? Siamo stati gli inventori della carta prepagata e del Gsm; ma stiamo diventando un popolo di individualisti. Stiamo perdendo irreversibilmente l’idea di comunità. Le dico ancora una cosa: molti anni fa una delle case automobilistiche tedesche era sull’orlo del fallimento; molti operai rischiarono di essere licenziati.

Decisero allora per il bene di tutti con un encomiabile atto di civiltà di abbassarsi lo stipendio. Oggi la Volkswagen è uno tra i tanti vanti dell’industria della Germania. – Nathan annuiva passivamente, temendo di ascoltare l’ennesimo sollecito che lo invitava a trasferirsi in uno stato più sano, più prospero. Invece, quell’uomo che era vissuto in molte parti del mondo, smentì la sua tacita previsione, chiedendogli improvvisamente se aveva mai veduto il monumento dell’olocausto eretto a Berlino; esaltò il genio dell’architetto che lo aveva progettato e poi recitò alcuni versi in tedesco che il fascino di quell’opera gli avevano ispirato. Lo fece con voce fioca biascicando le parole. I suoi occhi presero ad inumidirsi; divennero una sorta di acquario dove smarrita nuotava la sua commovente fragilità. Proseguì esponendo le ragioni che avevano destato in lui tanta ammirazione: – Il memoriale della Shoah mi ha dato la possibilità di vedere il confine dove convivono l’amore e la morte. – disse sommessamente l’uomo – Lei la conosce la sua struttura? – Nathan fece si con il capo. – Poter vedere tra le fessure che dividono le stele commemorative, bambini saltellanti o lo sfilare ansimante dei turisti è uno spettacolo incredibilmente suggestivo! –. Nathan ascoltò con trasporto, senza afferrare  fino in fondo il senso di quella singolare descrizione. Ripresero a parlare di politica, o meglio di tutti quegli attori politici che con ineguagliabile impudicizia e inverecondia, negli ultimi anni, avevano contribuito a gettare nel disincanto milioni di cittadini.

Nonostante i due si conoscessero da così poco tempo l’uomo confessò a Nathan un segreto che forse da qualche anno portava con sé: – Sa, lei è giovane ed ha ancora dentro di sé quella che si chiama speranza. Io non solo temo di averla perduta ma mi sento di dirle che mi spaventa l’idea di affrontare la mia vecchiaia in un paese che sembra non solo disconoscerne il valore ma che lascia i vecchi in balia delle loro debolezze. Nathan trasalì, sentendo che l’uomo che aveva di fronte non era l’ennesima noiosa incarnazione del malcontento generale; possedeva una sensibilità straordinaria ed era come avvolto da quella misteriosa tristezza di chi sopravvive ai suoi cari. Gli aveva inoltre narrato dello strano rapporto che possedeva con le proprie radici; si sentiva un specie di apolide pronto a radicarsi in tutti quei luoghi che il destino gli assegnava. I due condensarono nel favore di quella atmosfera le riflessioni che avevano maturato negli anni, fino a quando, qualcun altro non fu investito dall’emanazione contagiosa del loro desiderio di raccontarsi. Una terza persona insinuò con leggerezza il suo dissenso sulle ultime considerazioni critiche dell’uomo, che del resto, avevano lasciato perplesso anche lo stesso Nathan; lo fece non per affermare la propria ragione ma con la sola intenzione di partecipare ad una discussione dai toni pacati, aperta. I tre sconosciuti continuarono a dialogare e a scambiarsi in una totale armonia le loro idee; si ascoltavano con pazienza senza interrompersi l’un l’altro come se stesse loro più a cuore il legame magico che li teneva uniti rispetto a ciò che avevano realmente da dire.

Sembravano scoprire istante dopo istante il piacere di un umanità ritrovata. L’ultimo arrivato fu il primo ad abbandonare la discussione mentre gli altri due ne approfittarono per ritornare al loro prezioso confronto che prima di essere interrotto, aveva raggiunto una speciale intimità. Nathan si preoccupò che fosse tardi e invitò con dolcezza il suo interlocutore ad uscire dal negozio per lasciare che i commessi si preparassero per la chiusura. I due fecero qualche metro insieme fiancheggiati dai ristoranti brulicanti, interrompendo la loro marcia vicino una scala mobile. Nonostante il brusio la loro conversazione si fece ancora più confidenziale; Nathan si sentì compreso quando spiegò all’uomo i motivi che lo trattenevano nel suo paese e soprattutto gli parve di trovare un nuovo compagno lungo il suo faticoso percorso. Prima che i due si accomiatassero di nuovo qualcuno si permise di trovare un varco nella loro spontanea complicità: – Sono a quel tavolo laggiù insieme ad altri amici; se volete potete aggiungervi anche voi! Possiamo cenare insieme se vi va! –. Era lo stesso uomo che poc’anzi si era intrattenuto con loro. Declinarono entrambi con misurata gentilezza. Attraversati da un misto di stupore e gratitudine si salutarono con un inconsueto senso di pienezza generato -e di questo ne erano pienamente consapevoli – da un cibo che l’alienante modernità ha  reso sempre più introvabile.

Boum Boum Za zà

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10940_194855097070_495328_nLa domenica pomeriggio su Radio Tre, c’è un programma che mi piace assai e si chiama Zazà . A loro, in particolare all’indiano Piero Sorrrentino dedico questo divertissement. Seconda puntata effeffe

Second Act

(megafòn du shoperò)

Ke lu effeffe mo mo proprie steve ‘n miezze è ssirene de touti li type; que l’una ca pariva n’ambulance de Pompiers et l’era na machina da pulizia, n’artra qui pariva  du pronto secours  et l’era de la monnezza, alors qu’en miez à tute le sirine ce pariva da esse n’Ulysse quoi, n’Odissé du domil ma sans l’espacio quoi que l’era ocupat de tute le schole de la ciudad, de tute le fabrike, de kelle ke c’erano rimastute ça va sans dire, la plaza. E si li uni de l’action catholique parivano de sturbarse et ‘mbarazzarse nu poke dop l’ambaradan de li fimminielli ca cum tode chose musical et non, putipù et scetavajasse, stivene annanz et arète, nu groupo compacto de lo sindicat  tiniva arte et dirite le bannere rocie, arte et dirite  ca l’una nun s’era ‘n finita nei fili du Sturm und Tram facinni scintill et lampo ca pareva nu signo do deo cristiano, do deo musulmano, ‘nzom de tute l’aneme do puriatorie?

Et alors cum paso circunstanziat et la cocarda à lo bavero de la chemise effeffe circava a Zazà ‘n do trambuste general, et à quiconque lo dimandava, l’uno diziva que nu l’aviva viste pennient, n’artre qui nun sapiva manco qui l’etait sto Zazà, et nu vigili cor casco blanco e cor galiardeto de la ciudad de Turin, pariva de savoir et pure que ce stive indikàn la direziona, l’indicaziona, l’informaziona, quannno, cumm l’est cumm nun l’est, la radiotrasmittent ca ce aviva sur la spalet alarmata diciva que lo tafferuglie ‘n miez à lo cortege stava degenerann assaje.

Et c’est comme ça que lo effeffe vidiri mo c’aviva lo vigile courrir ‘n miez à les uns et les autres cor galiardeto en lanza pure gadagnari la posiziona. Et tout le cortege s’arrestette pè capiri et faciri quelque chose.

En fait, ‘n do lo miezo de la Via Po, nu cartiello No Tavor No Tavor de nu grupo ‘ntussecose assaje da sirinata des flicks et cops, s’agitava da na parte a chell’ata, que à lu effeffe pariva n’arbre magistro, nu cattivo magistro ça va sans dire, ‘n miez à la tempesta, et shake accà et shake allà, la capa de tuti li manifestant pariva de abbottari, cum consequencias facili à imaginarse.

Et cumm l’est cumm nun l’est, lo effeffe et d’autres si misiro à ir là ove se puede, pe racapizarce na chose, la chose.

Et la chose l’era simple en fait; le no Tavor nun cintravi na cipa in da lo nervosisme general car la  vira question l’era toda cuncentrata sur le philosophe ke le stava fora sur le balkon et qui diciva que la manifestaziona l’era tuta sbaliata, ke nun se potiva à l’epoque actuala de tolerarse la postaziona du cortege cum la derecha à droite ( les cathos, les liberò, les fasciò, les massons et li artri) et la gauche à gauche ( li demukrat, li comunist, li radikà)  comme effectivement se putiva notarse à regarder le cortege cum la Plaza Castelo areta et la Gran Madri devant. Et plus lo philosophe stiva a urlarse que nun c’erani plus sinistreddè, que l’era finisciuto lo temps de cerises, et kilo de druategosce, plus los autres lo stivene à auscucciar ‘mpettiti et stralunat pers. Ke  deja poki minuti auparavant l’era stat lo skandal entre deux groups de gauche que tous chacun pretenniva de starse à la senestra de l’otro, ke la instance de groupe l’era plus marxiste leniniste maoiste trotskjste de l’autre, et pareillement à l’ata parte, les uns se dicivani quel u brazio teso l’era prerogatif label markiu a difinnire de la forza nova, nova de fabrika ma antika de convincimient, et non de li furkunari ou pejo encor des centristes buttigari. Or, si le philosophe tiniva raggiuna, la chose se cumplicava encore de plus, et poke ce stava da faciri a li viggili, de tratenerse les deux skieramenti a sinistreddè, alors que nun se putiva mica spustare la question sur l’avant et andrè? Li progressist en fait se revelàn cunservatori et li reazionà prugressist, les futuristes passatistes et li campagnari metrupulità, li stracciun comme vestiti à la moda de la street fescion et la pasta et fasuli cunsiderata nu plat gurmé tout comme les molignane ambuttunà cunsiderati stela stela michelin mènemo mènemo comme n’ostrega fine claire de Charente Maritime!

Mo tuta sta question intellectuelle, à l’intellecto c’aveva fato surgiri nu male d’intelecto, nu male a la capa, in da nu mòment ‘n pilluli, et cumm’l’est cumm nun l’est lo effeffe lassiai lo cortege pè trasiri in da na librairie ke makari truvasse lo libro do philosophe fore comm’un balcùn. Et c’est ainsi ca dimandette lo titro do libbro à lo libbrario que se ciamava Pablo come los apostolos, mais l’era communard anarchique  de Masa,  oui, mais de Carara.

Et si truvarini à parlà des uns et des autres, de sta crisis infinì, de sta misère du coeur et de banka et quanne lo effeffe ce dimandette de Zazà nu lecteur d’un livre à l’anne interessàt, ciertament, incurioù encore plus de toute respuesta ce dimanditte: Zazà nun sapiri saccio onde sta, mais vous sapite si la Titina c’en sta?

Or cumm’l’est cumme nun l’est se truvarini que l’uno lo effeffe circava a Zazà et l’artro, scanosciù la Titina, Pablo lo libbraio les lecteurs, et kille d’afora, la senestra et la dè. Et que se putiva diciri sans doute, que qui stava meso pejo l’era killati ke steveno à fora, à fora pesstrad et sur balcòn, avec sto bourdel de geometries post euclidiè et post fordistes.

Et c’est comme ça que penzette lo effeffe avant de riprindiri à cercarse Zazà, mo, mo que lo vigili de toute à l’heure, l’aviva briffé que Zazà steva à la fabrica de Mirafiò.

Astronomi di costellazioni linguistiche- Carlo Cenini

1

“Astronomi di costellazioni linguistiche”: serie di incontri con scrittori sperimentali che proseguono da anni una ricerca sulla lingua e sulle forme letterarie. Dialogando con loro, che leggeranno brani editi o inediti, indagheremo il come e il perché delle scelte adottate, in molti casi tese a evadere dai limiti di convenzioni sentite come assurde, restrittive o molto povere rispetto alle potenzialità del linguaggio e del narrare.

Secondo appuntamento: 23 marzo, H. 18.00, con Carlo Cenini, scrittore.

“… e non sapevano (-mo) più cosa fare per arrestare l’evaporazione dell’immagine, come un dissanguamento, una polaroid che si sviluppa al contrario, ovvero prima c’è l’immagine e poi, mano a mano che la osserviamo e ne troviamo i dettagli cercando disperatamente di raccoglierli come chi durante una bufera ha troppe cose da salvare, tutti quei preziosissimi e interessantissimi e fondamentali dettagli vengono irreparabilmente risucchiati, sprofondando come gigantesche ossa deformi nell’abisso della loro stessa, diciamo, alchimia.”

Carlo Cenini, nato nel 1978, vive a Trento. La sua produzione è in parte pseudonima e desidera rimanga tale. A suo nome ha pubblicato alcuni racconti per Linus, Nuova prosa e Nazione Indiana. Ha scritto anche testi teatrali e un libretto per un’opera lirica in inglese, oltre ad articoli di filologia e critica letteraria. Uno di questi testi teatrali contiene alcuni video, marcata parodia di prodotti farmaceutici ed erotici, che verranno proiettati durante l’incontro con l’autore. (I video sono vietati ai minori di quattordici anni).