di Davide Orecchio
La mia specialità sono i gospel iposonici. Sono tristissimi, bellissimi. Ma nessuno se ne accorge; sono gospel iposonici.
*
di Davide Orecchio
La mia specialità sono i gospel iposonici. Sono tristissimi, bellissimi. Ma nessuno se ne accorge; sono gospel iposonici.
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In occasione della presentazione “torinese” del bel libro di Francesco Trento La guerra non era finita, I partigiani della Volante Rossa (Editori Laterza) ho chiesto all’autore di darci un’anticipazione per Nazione Indiana. Pubblichiamo qui di seguito le pagine dedicate ai convulsi giorni che seguirono l’attentato a Togliatti del 14 luglio 1948. effeffe
dal capitolo La rivoluzione mancata
di
Francesco Trento
“Tornate a casa”
La notte del 15 luglio la Volante Rossa è all’Innocenti, assieme a duecento operai. Lì giungono notizie su quanto sta accadendo a Torino, a Genova e nelle altre città: “Allora”, ricorda ancora C., “ci siamo riuniti per decidere cosa dovevamo fare. Se attendere o iniziare immediatamente il movimento di trasformazione della lotta in lotta armata”
Secondo il piano predisposto il giorno precedente, il 16 luglio la Volante Rossa decide di attaccare la più importante caserma dei carabinieri della città, quella dove sono tutti i mezzi corazzati.
La Volante Rossa era quel giorno al completo, una cinquantina di uomini. Coi panzerfaust chi ci fermava? Distruggevamo mezza caserma. […] Chi poteva tenere in una lotta a Milano erano i mezzi corazzati e noi ci eravamo attrezzati per batterli. Partiti noi, sarebbero poi partiti tutti gli altri. Comunicato che partivamo, erano già partite le staffette in direzione dei diversi centri della città
L’ora X sembra dunque arrivata: un camion carico di partigiani si dirige verso la caserma dei carabinieri. Le staffette avvisano la Federazione milanese del partito: minuti di caos puro. Che fare?
Dalla Federazione parte immediatamente una macchina, ma intanto i partigiani sono in marcia. L’auto del Pci corre, mentre il Dodge, lasciata la Casa del Popolo, supera Lambrate e arriva al Campo Giuriati. Proprio lì la vettura della Federazione riesce finalmente a intercettare l’autocarro. A bordo, secondo la testimonianza di Finardi, c’è proprio Alberganti. Dice agli uomini di Paggio che non è il momento: gli americani interverrebbero, si finirebbe come in Grecia Lo sciopero è finito, bisogna rientrare. Il dirigente comunista è inamovibile. Guarda il camion carico di armi e scuote la testa: “Ma siete pazzi a girare con tutti questi esplosivi? Potreste saltare in aria da un momento all’altro. Tornate a casa”
La Volante Rossa obbedisce, non senza rimpianti: “Se arrivava cinque minuti dopo”, ricorda C., “Milano era un fuoco solo” Certo, l’assalto alla caserma non coinvolge solo gli uomini di Paggio, ed è anzi assai plausibile ipotizzare un piano comune, concordato con altre forze armate collegate al partito, con altre “organizzazioni paramilitari”.
Anche perché, nonostante il ricordo dell’anonimo testimone di Bermani, sul camion quel giorno la Volante non è assolutamente al completo. Walter Fasoli ad esempio, non ricorda l’intenzione di attaccare i carabinieri , e nemmeno Leonardo Banfi:
No, no. Assolutamente. I carabinieri si erano rinserrati nella caserma, ma non abbiamo mai pensato di… la preoccupazione principale è stata quella di occupare le fabbriche a Lambrate. Di piazzare sulla pensilina dell’Innocenti la mitraglia, questo è vero. Infatti c’era la camionetta della polizia che girava per Lambrate per verificare cosa succedeva: fu accolta da una raffica di mitra, rientrarono in caserma e si chiusero dentro. Ma noi restammo lì. Restammo lì.
Banfi e Fasoli non sono i soli della Volante a rimanere dentro l’Innocenti occupata, quella mattina del 16 luglio. Tuttavia anche Sante Marchesi ricorda l’intervento della staffetta:
eravamo in 30 sul camion… ma eran più le armi che noi… poi è arrivato il compagno Alberganti: “basta, lo sciopero è finito, tornate a casa”…
Le parole di C. sembrano abbastanza chiare: “partiti noi, sarebbero poi partiti tutti gli altri” (le “non meno di trecento persone” e i “molti armati” di cui C. parlava in un altro passaggio). Paolo Finardi (“Pastecca”) ricorda ad esempio che quel giorno con la Volante ci sono “molti gruppi. Il più grosso era quello della Breda di San Giovanni” .
La testimonianza di Arnaldo Cambiaghi, responsabile della Commissione dei Giovani comunisti alla Pirelli, conferma le parole di Finardi:
Guarda che la miriade di gruppi ce n’erano tanti. […] Io per esempio ero armato lì alla Pirelli, durante l’attentato a Togliatti, e siamo riusciti a tenere la maggioranza dei lavoratori dentro. […] E noi abbiamo detto al partito: “assaltiamo le caserme della polizia!”. C’è stata questa proposta: andiamo là, occupiamo, prendiamo le armi e prepariamoci per, non dico l’insurrezione, ma la resistenza. Ma i dirigenti massimi han detto: no… Alla Pirelli va poi Giancarlo Pajetta, per convincere gli operai a smettere l’occupazione e tornare al lavoro
Dal 15 luglio, in effetti, il Pci è all’opera per sedare la rivolta. Al di là delle motivazioni di facciata, legate alla fedeltà del partito alle istituzioni repubblicane e all’“impegno democratico assunto con l’approvazione della Costituzione” , la molla principale di tale scelta è rintracciabile in un sano realismo. Pietro Secchia, poco dopo l’attentato, aveva già espresso i suoi dubbi sulla riuscita di un’eventuale azione di forza: “L’America certamente interverrebbe: primo perché ha da noi le sue basi, secondo perché non le mancherebbe una giustificazione politica. Non dimenticate compagni che siamo a soli due mesi e mezzo dalle elezioni che hanno dato una maggioranza assoluta al governo” Il pomeriggio del 15, tra l’altro, ci si rende conto che lo sciopero generale sta fallendo. Dai telegrammi dei prefetti, scrive Walter Tobagi, emerge, oltre all’“Italia che sciopera”, una “seconda Italia”:
è “l’Italia che non sciopera”, vuoi per indifferenza, vuoi per convinzione politica; e sono milioni di persone, quasi intere regioni […] che non scendono in piazza, però costituiscono quel potenziale di riserva, che ha garantito alla Dc il trionfo del 18 aprile.
E questa “seconda Italia” […] è strettamente collegata ad una “terza Italia”, l’“Italia dell’ordine pubblico”, dai prefetti fino al carabiniere del più sperduto paesino di campagna. Anche questa Italia fa sentire il suo peso sociale e politico: […] è convinta di battersi per una causa che sente giusta; e perciò interviene con la stessa, durissima decisione per rimuovere un blocco stradale come per garantire la libertà di lavoro.
L’ala sindacale democristiana, inoltre, di fronte al protrarsi dello sciopero, minaccia la scissione . Non c’è più scelta: nemmeno l’obiettivo delle dimissioni del governo è più raggiungibile senza arrivare a uno scontro frontale. Secchia, nel Comitato centrale del 15 luglio, mette in guardia i compagni meno convinti: l’Italia del Sud non si è mossa, in alcune città non si è riusciti a fare nemmeno un comizio, e anche al Nord un’insurrezione avrebbe delle chance di riuscita solo nelle grandi città, mentre le campagne non sono affatto sicure: “i compagni riflettano: per ora né la polizia né l’esercito sono intervenuti, se lo faranno disporranno di cannoni e carri armati contro cui non si potrà resistere”.
Non bisogna fare grandi sforzi di immaginazione per prevedere un simile scenario: nella vicina Grecia, i partigiani sono tornati sui monti nel 1946, ma la Gran Bretagna e gli Stati Uniti hanno appoggiato la monarchia, sostenendola in una feroce guerra civile. Inoltre, se anche vi fossero mai stati piani d’appoggio a una rivoluzione italiana da parte dell’Urss, ora, consumatosi nel giugno lo scisma nel blocco sovietico con l’espulsione della Jugoslavia dal Cominform, tali piani non sono neanche lontanamente ipotizzabili.
A fugare ogni possibile dubbio, una telefonata dell’ambasciata sovietica proibisce agli italiani ogni tentativo rivoluzionario.
Tutti i maggiori esponenti del Pci si trovano infine d’accordo sulla necessità di evitare la “prospettiva greca”. Inoltre Togliatti sta meglio: l’operazione è andata bene e il leader del Pci si sta rimettendo. La Cgil, sostenuta dal Partito comunista e da quello socialista, dichiara la fine dello sciopero per mezzogiorno del 16 luglio.
Presa la decisione, tutti i dirigenti sono mobilitati per portare la linea del partito nelle fabbriche occupate, nelle piazze incandescenti. I membri della direzione ancora a Roma vengono spediti d’urgenza nelle loro rispettive sedi nei capoluoghi di provincia. Spano corre a Genova. Negarville vola a Torino su un aereo messo a disposizione dalla Fiat, per trattare il rilascio di Valletta. È un compito non facile, quello che aspetta i dirigenti: bisogna convincere i militanti a smantellare le barricate, togliere i blocchi stradali, liberare gli ostaggi e tornare ordinatamente al lavoro. Ed è un compito ingrato: a Milano, piazza particolarmente calda, è quasi impossibile farsi ascoltare dai militanti. Ricorda Luciano Gruppi:
Dovevamo dire: “attenti, compagni, questo è uno sciopero politico, che ha come obiettivo le dimissioni del governo. Questo e niente più di questo. Attenti! Non siamo alla vigilia dell’insurrezione”. Andai nella mia sezione, quella di Porta Volta. I compagni accolsero le mie parole piuttosto freddamente.
Raffaele De Grada, di fronte agli operai infuriati che gli impediscono di portare le direttive del partito, è costretto a mettere sul tavolo la pistola e a ricorrere alla sua autorità di ex comandante partigiano. Infine, però, anche i compagni più riottosi vengono convinti: lo sciopero termina senza aver raggiunto alcun obiettivo.
Tuttavia, nota Bocca, “privato del capo a cui si rivolge per le grandi decisioni, il partito ha perso per qualche ora l’orientamento, si è mosso in modo sentimentale, ha lasciato andare, se non allo sbaraglio, allo scoperto, la sua organizzazione paramilitare, ha dimostrato agli italiani che essa non è una invenzione propagandistica di Scelba, ma una realtà”. Anche Leo Valiani si dice certo che “l’apparato armato” del Pci “agì dopo l’attentato a Togliatti del ’48: ma evidentemente allora ricevette un contrordine e tutto rientrò”.
In quest’ottica, probabilmente l’assalto alla caserma dei carabinieri (uno dei punti strategici della città) risponde a un piano preordinato che il Pci o il suo apparato di sicurezza tengono pronto “in caso di bisogno”, e a cui infatti il partito rinuncia non appena diviene chiaro che l’attentato al suo leader non corrisponde a un tentativo di colpo di Stato.
Finita l’agitazione, in ogni caso, cominciano le speculazioni della Dc e dei suoi alleati. La stampa “indipendente”, i settimanali illustrati, la “Settimana Incom” (il cinegiornale dell’epoca) si impegnano subito a fondo nel descrivere con dovizia di particolari il “piano K” dei comunisti, la ferocia degli insorti, l’eroismo delle forze dell’ordine. Nel pomeriggio del 16 luglio, la polizia sbarca in forze ad Abbadia San Salvatore, munita di autoblindo, artiglieria e addirittura di un aereo. A coadiuvare le forze dell’ordine c’è anche un intero reggimento di fanteria, il 78° Lupi di Toscana. Avviene un vero e proprio rastrellamento, casa per casa: la popolazione è selvaggiamente picchiata, mentre la “Settimana Incom” monta un clamoroso falso documentario che mette in cattiva luce i “ribelli del Monte Amiata”.
È solo l’inizio: nei giorni seguenti una campagna serrata da parte dei mezzi di informazione crea terreno fertile per il durissimo intervento del governo. Settemila lavoratori vengono arrestati o denunciati. A Milano finisce in carcere anche il padre di Ferdinando Clerici, l’ex partigiano Edoardo (“Nan”) La repressione antioperaia degli anni a seguire è durissima: tra il luglio 1948 e la prima metà del 1950 si registrano 62 lavoratori uccisi, di cui 48 comunisti; 3.216 feriti, tra cui 2.367 comunisti; 92.169 arrestati, di cui 73.870 comunisti. Pallante, l’attentatore di Togliatti, resterà in carcere meno di sei anni: condannato a 13 anni e 3 mesi in primo grado, a 7 anni in appello, a meno di 6 anni in cassazione.
Il tramonto del “doppio binario”
Con il no del Pci all’insurrezione, si chiudono i sogni di molti militanti. E tramonta per sempre l’idea, assai diffusa, che il partito si stia muovendo su un “doppio binario”. Il rifiuto di trasformare in rivolta armata lo spontaneo sollevamento della base rivela “alle masse e agli avversari politici la patente contraddizione tra il linguaggio massimalista usato per tenere viva la combattività delle masse e la reale volontà d’azione rivoluzionaria”
La sconfitta elettorale da una parte, e il rifiuto del metodo rivoluzionario dall’altra, precludono al Pci nel breve periodo ogni prospettiva di conquista del potere. Nella base la delusione è cocente: in molti abbandonano il partito o, senza rompere apertamente, si ritirano ai margini della vita politica. Chi ha ancora delle armi nascoste si affretta a sbarazzarsene, per amarezza, o perché vista la nuova ondata repressiva diventa troppo rischioso tenerle. Fucili, mitra, bombe a mano vengono abbandonati in aperta campagna, gettati nei fiumi o nel mare. Per evitare conseguenze giudiziarie, interi depositi sono segnalati alla polizia. Anche la Volante Rossa nasconde le armi: Paggio si reca a casa di Luigi Colnago, in campagna, e vi sotterra una cassa di fucili. Non è difficile immaginare il disappunto degli uomini di “Alvaro” di fronte alla mancata insurrezione. Il ricordo più amaro è senz’altro quello di Sante Marchesi:
“Tornate a casa”, ci ha detto la staffetta della federazione, proprio come il proclama di Alexander ai partigiani in montagna. Per me è stato un errore, però… siamo sempre dentro a ’sta politica del cavolo […]. O non si doveva uscire, allora si stava tutti calmi, oppure quando una volta uno è uscito, armato soprattutto, o vai o spacchi, eh.
Secondo “Santino”, nella Volante il disappunto è tale che qualcuno vorrebbe andare avanti ugualmente, fare la rivoluzione nonostante il divieto di Alberganti. “Ma noi cosa facciamo se tutti gli altri si tirano indietro, se dopo c’abbiamo addosso anche il partito, o tutto?” Anche il tono divertito della rievocazione di Fasoli non riesce a celare una certa amarezza:
È stato bello dopo, a venir via quando è finito tutto… venir via dall’Innocenti a piedi, alla spicciolata, con le armi dentro ai pantaloni. Sembra una stupidata, ma infilati un mitra o un fucile dentro, nei pantaloni. Ohé, mica potevi venir via con le armi in spalla. Eravamo in luglio, faceva caldo. Avevamo su i pantaloni da sci, coi giubbotti, e il fucile infilato dentro. Una mano in tasca per trattenerlo… eh, insomma… c’è stata una certa delusione. Dopo praticamente siamo tornati alla normalità, come se non fosse successo niente.
Secondo C., invece, tornare alla normalità è impossibile, perché il 16 luglio segna il crollo di tutti i sogni della Volante Rossa: “Ci siamo resi conto che la rivoluzione non era possibile, mentre noi si era pensato di essere alla vigilia della presa del potere da parte della classe operaia”
È una vera e propria “mazzata”, che “chiude un ciclo” e apre un periodo di grande crisi all’interno della formazione di Lambrate. C., deluso dalla politica del partito, giunge addirittura a chiedersi se abbia un senso continuare C’è anche chi paga duramente i due giorni di lotta: la sera del 16 luglio, Paolo Finardi torna a casa per cena e ha un litigio furibondo con i genitori: “Dove sei stato fino a adesso?”. “Eh, han sparato a Togliatti, son stato alla Casa del Popolo…”. “Bravo, allora adesso vai a mangiare là”. La discussione degenera, e “Pastecca” torna a via Conte Rosso, dove rimarrà a dormire per vari mesi. Intanto, all’Innocenti, le direttive del Pci vengono lungamente discusse da un’infuocata assemblea di tre-quattromila operai. Mario Muneghina, in questo caso portavoce della direzione del partito, sostiene che occorre rientrare e utilizzare la grande forza di cui si è data prova nelle battaglie sindacali a venire. Lo stesso Banfi, pur facendo parte del nucleo dirigente della Volante Rossa, spalleggia l’ex comandante partigiano
Alla fine, prevale la tesi di Muneghina: le armi vengono nuovamente nascoste nei cunicoli e il lavoro riprende. La lotta politica e sindacale all’interno della fabbrica riceve un nuovo slancio.
Quel giorno, tra gli operai che assistono al comizio, c’è anche il comandante della Volante Rossa, Giulio Paggio, che non si schiera. Tanto che Banfi non ricorda se fosse o meno d’accordo con la decisione di rientrare nella legalità: “Non gliel’ho mai chiesto… in realtà non si pronunciò mai”. Secondo Banfi, però, quella del Pci è una valutazione politica: non essendoci le condizioni per una rivoluzione, occorre operare una ritirata strategica, e “continuare con un’azione di massa ancora più vasta fino al momento della messianica ora X” Del resto, la Volante Rossa ha sin qui vissuto sull’equivoco del “doppio binario”, e quando scopre che il Pci ha scelto un’altra strada non tenta di portare avanti la sua attività rivoluzionaria in opposizione ad esso, né tantomeno di pungolarlo dal basso. La linea del partito è quella giusta o, comunque, quella accettata. […]
di Giorgio Mascitelli
Spesso mi capita di chiedermi, e lo so bene che è una domanda oziosa perché non ha senso chiedersi come mai non sia successa una determinata cosa, ma spesso mi capita di chiedermi come mai la nostra epoca e la nostra società non abbiano prodotto una grande e gagliarda letteratura satirica. Se penso all’assessore che ha deciso di istituzionalizzare i propri rapporti d’alcova con la segretaria con una regolare scrittura privata, se penso a certe carriere politiche che hanno comportato più cambi di casacca di quelli di certi calciatori che cambiano squadra ogni stagione ( i pedatori di ventura li chiamava Gianni Brera); se penso a certi esperti con domicilio nei paradisi fiscali che vengono a spiegare cosa l’Italia deve o non deve fare; se penso agli economisti e ai loro sicumerosi algoritmi che hanno previsto tutto tranne la crisi; mi dico che la realtà ci presenta già grandi personaggi e grandi situazioni pronte per essere semplicemente trascritti. Infondo Čičiskov, il protagonista delle gogoliane Anime morte, è un dilettante con la sua modesta truffa, che consiste nel ricomprare dai loro signori feudali elenchi di contadini morti, a fronte di un qualsiasi esperto di aiuti umanitari e ricostruzioni post terremoto.
Il fatto è che la letteratura satirica, più di ogni altro genere, abbisogna di un pubblico solidale con le ragioni che muovono la penna o la tastiera dell’autore. E la nostra, dico la nostra di noi lettori, indignazione è sterile, non produce versi. Non è un problema di intensità o di ipocrisia, siamo autenticamente indignati ma ci mancano i parametri culturali in cui incanalare l’indignazione.
La colpa è naturalmente tutta della società: essa si comporta con noi così come Čičiskov con i suoi clienti. Egli, a differenza dei truffatori della tradizione classica italiana, non gigioneggia, non fa il mattatore, ma è rispettoso, quasi silenzioso, quasi timido e come en passant propone la transazione. La nostra società dissimula con pari timidezza le proprie gerarchie e non ci costringe a fare nulla, se non a essere liberi, quindi di fronte a lei siamo disarmati come i proprietari terrieri davanti a Čičiskov. A causa di questo effetto, che si potrebbe chiamare effetto Čičiskov, la nostra indignazione gira a vuoto perché al di là della ripulsa per i singoli colpevoli non sappiamo nemmeno intuitivamente perché le cose vanno male e dunque non può sorgere nessuno scrittore satirico a esplicitarci le ragioni di ciò.
Insomma la nostra indignazione, al pari della nostra vita sociale, è frammentata, precaria e solipsistica; essa è priva di fondamenta solide e senza di queste non può esserci nessuna solidarietà con nessuno scrittore.
Nel mondo romano il poeta satirico stabilisce un patto con il proprio pubblico attraverso l’ethos tradizionalistico del mos maiorum, la legge morale che si basa sui costumi degli antenati, in nome del quale egli castiga i vizi del presente visto come decadenza causata dal distacco dagli aurei usi dei padri. Nel mondo moderno lo scrittore satirico e il pubblico trovano il loro terreno d’intesa nell’idea di emancipazione e cambiamento della società: i comportamenti oggetto di satira sono innanzi tutto dei crimini contro le leggi del progresso sociale. Oggi, invece, il massimo che si può trovare come terreno unificatore è l’auspicio che amministratori corretti e competenti si sostituiscano a quelli corrotti e incompetenti ossia un’ovvietà retorica e vaga, simile per precisione semantica agli auguri per l’anno nuovo.
Nella Critica della ragion cinica scrive Peter Sloterdijk che “la critica filosofica all’ideologia ci appare l’erede di una grande tradizione satirica, della quale sono armi da sempre: lo smascheramento, il pubblico ludibrio e il denudamento”. Questa considerazione, che fa parte della polemica antilluminista in nome di valori vitalistici dell’autore tedesco, è fortemente critica nei confronti della critica filosofica all’ideologia, che rappresenterebbe un tentativo di dare una veste filosofica, e perciò imborghesita e poco vitale, a quella critica dei costumi che nella satira più autentica è condotta in nome della vita stessa. Eppure possiamo leggere questa osservazione da un’altra angolatura, partendo dall’evidenza che oggi tanto la critica dell’ideologia quanto la satira latitano e versano in uno stato di crisi.
Questa circostanza ci insegna che lo smascheramento è un’azione che presuppone un sistema di valori comuni nella comunità in cui avviene. Questo è sempre possibile nell’antichità in cui è garantito da un riferimento mitico a un passato, quello degli antenati migliori, se non perfetti; mentre nel mondo moderno esso dipende dalla storia ossia dalla possibilità che la storia offre a una società di una speranza di miglioramento o di emancipazione. Oggi che manca anche un semplice spiraglio di speranza non è possibile o meglio non è condivisibile nessuno smascheramento.
Il mondo di oggi ha sostituito a una modernità che si offriva come un ventaglio di linee e di possibilità, magari in forma conflittuale, sia di emancipazione sia di oppressione un orizzonte unidimensionale di realizzazione completa di una società di mercato. E’ in questo senso che Guy Debord scrive che il celebre verso di Rimbaud “ bisogna essere assolutamente moderni”, emblema dell’arte modernista, è diventato lo slogan del tiranno. Oggi essere assolutamente moderni significa essere assolutamente omologati a questo stato di cose e chi non lo è allora è assolutamente disadattato ( lo dico con rimpianto, senza iattanza da purista, al contrario, finchè è stato possibile, nelle faccende di arte e letteratura la posizione più feconda è sempre stata quella di avere un piede in due scarpe).
Queste ultime considerazioni, tuttavia, aprono un problema più ampio che non è possibile trattare qui. Per tornare alla questione della satira, infondo, tutto quanto ho scritto può essere riassunto così: per godere del riso satirico sia come lettori sia come scrittori dovremmo essere uomini più liberi di quello che siamo realmente adesso.
di Daniele Ventre
Νῦν ῥα μὴν παρερχομέναν μετ’ὤραν,
ἤματος παροιχομένω, σύ γ’αὖθι
τήλοθέν μ’ἀπ’αἰγιάλω κε φωνή-
σαισαν ἀκούοις.
di Gianluca Garrapa
da Poevisioni [Io, l’amore e altre superstizioni], inedito.
3
crismi e tele angolari, sì. linee e triangoli babelici, sì. babilonie di generi diversi e caos, sì. purezza di spirito senza il pandemonio, sì. cerchi e perfezione, no. cenacoli di diffrazioni acustiche, sì. foglie poche e curve obnubilanti da un vento finto_proletario senza armi, forse. sottofondo adiabatico non_reciproco, sì. gatti e gufi intrecciati di canti e santi, sì. proiezioni ancastiche precisione d’immagine apparenze sguaiate, no. falsi compromessi giochetti di strada cormorani mormoranti e stagni di lapislazzuli decisamente azzurri, sì. menefreghismo indifferenza fascismo omologazione maschilismo santa liturgia omofobia pedofilia e stato di polizia, no. godimento desiderio gioia_e_rievoluzione, forse.
589
avviene che. che in un attimo l’essere scivoli a vuoto. questo è successo. amor che a nulla servì l’averti amato. avviene che. che nell’eterno sbilanciarsi per affinare neo_simmetrie posturali. che nel passo ubriaco di stelle&fuoco indomito. che nel collasso di quelle stelle immense che eravamo. che nel conflitto erotico. avviene che. che il mondo si scrolli di dosso la polvere dei nostri sguardi ormai morti. rotolati e evaporati. fino alla quiete del riposo. cinetica azzerata. cinematica di affetti in bianco_e_nero. frusciante vino in. avviene che. e la sospensione coglie il respiro e lo precipita in alto. vino in svolazzanti scaglie di labbra. avviene che. che i nostri baci sboccino spine e rose appassite_immense. che. le rose catturino il volo ed eccoci. in solide ciminiere di metallo sfolgorante. il ricordo. oddio. di un amore, il ricordo più vivido e chiaro di un amore. quello che non è mai stato, che mai è finito, che mai più è tornato.
quello_che_continua ( 4/5 gennaio 2011)
78. lì che c’era? e poi da lì scrutavano le danze ininterrotte.
79. le plafoniere gobbe. le caruncole d’ascidie verdi.
80. l’imitazione limita l’originalità di un parto criogenico.
80. partorire un pro(dotto)_(con)gelato attraverso un condotto.
79. il neon scarificato. gli occhi hanno forme di luce.
78. ma cosa c’era lì? le danze interrotte che da lì ci scrutavano.
[21.00]
03. perché la fisica quantistica non può opporsi alla fisica qualistica.
05. due ragni tessono trame e drammaturghi in porticati scrivono.
07. epistassi da un braccio in libreria, sistemata in cataloghi di ferro.
09. lo specchio rivolto alla maschera nasconde un dialogo giornalistico.
da cui consegue che
06. qualistica e quantistica non possono imporsi l’una all’altra. Perché?
10. perché i ragni nel palco scalpicciano mossi dai drammaturghi.
14. dissanguato per scrivere ‘Marat’ sulla copertina di un libro.
18. le maschere le costruivamo alle scuole medie con fogli_di_giornali&colla.
[01.00]
04. cromatofori annichiliti contorcono sferoidi marcescenti.
06. placche sostituiscono tettoniche probabilistiche.
08. asfodeli a forma di netturbini adiabatici gemono.
se e solo se
08. asfodeli a forma di netturbini adiabatici gemono.
12. i vulcani pruriginano altre atmosfere di sodio.
08. asfodeli a forma di netturbini adiabatici gemono.
allora
gli occhi ravvicinati e stretti trattengono il sole.
le caviglie sibilano come crotali lisergici.
pedisseque palme gongolano al deserto di lune incipienti.
[07.45]
a. lampi di afa contro le luccicanze di parassiti innocui.
b. tramortiti gliòmmeri stesi a prendere il gelo notturno.
c. cinestesi di gatti morti in mezzo alla via, come si dice.
d. colazione.
d1) banane,
d2) kiwi,
d3) spremuta d’arancia,
d4) caffè.
e. posizioni irraggiungibili da comuni immortali.
a+b+c+d+d1+d2+d3+d4+e = effemeridi tentacolari come rami, per l’appunto, di alberi affascinanti.
[09.41]
sembrava.
02, ed era proprio un sembiante.
03, mutevole l’anca del ponte sorseggiava rispecchiamenti e lucori.
05, ho lancinato l’orbita di Marte acuendo il fosforo di un cerino al mattino.
07, la ragnatela del mare sopporta gli aggravi edonistici di yacht.
11, l’ecumenico senso del decoro ha portato semi indeiscenti a partorire vipere.
13, il religioso controsenso riposto nelle cose che violentano i nomi.
17, eleganza di gruppalità abeliana in consonante vocalismo di vapore dalla bocca.
19, salmodiare.
23, dirimere. unire. liberare. coartare.
29, spedire.
31, ripetere.
37, svuotare macigni dalla gravità di Sisifo.
41, i ricami delle nuvole tessevano cuscini di turbolenze.
43, il pilota, bell’uomo, aveva occhiali a forma di girasole.
47, [10.41]
53, vedere una città dall’alto è come osservare intense ramificazione logiche di un cervello.
59, odore di frenesia sulle infiorescenze dai nasi aquilini e all’insù.
61, cerimonie.
67, querimonie.
71, monadi.
73, affitto troppo poco caro.
79, maschera dell’ossigeno.
83, tubi lunghi sottoepidermici e sotterranei.
89, omofobia.
97, diritti civili incatramati dentro bolle ipocrite e naziste come pulci invetriate di plexiglass.
101, [11.00]
103, paracetamolo o acetaminofene o N-acetil-para-amminofenolo
107, secondo la seguente equazione: 2 HO-C6H4-NO2 + 2 CH3COOH + 3 Sn → 2 C8H9NO2 + 3 SnO2.
109, acido L-ascorbico o vitamina C o (R)-3,4-diidrossi-5-((S)- 1,2-diidrossietil)furan-2(5H)-one o C6H8O6.
113, Fenilefrina o neo-sinefrina o C9H13NO2.
127, [12.37]
131, meschino e violento.
137, soldatini psicotici.
139, massa di gentaglia che vegeta.
149, marionette di stagno.
151, locuzione allibita.
157, induzione all’omologazione.
163, feticci parabolici.
167, amore. sesso. corpo_cuore. sistole_diastole.
173, intercessione di alberghi.
179, scatole piene di nulla.
181, [14.21]
191, siffatta panoplia di significanti multipli riferiti a un significato zero.
193, blandizia glottologica e parossistica nell’intorno delle 14e30.
199, succulenta porzione di cielo fraseggiata da effeminate nuvole.
211, terreni sottratti alla mafia.
223, punizioni esemplari da ripetere ogni volta che il caso necessita.
227, occorrono forbici e spago e ripieghi di gelatina gialla.
229, leggere le incrinature dell’umidità sulle lastre di metallo.
233, non fa freddo. la tanica di benzina.
239, un racconto smozzicato lascia resti interdentali.
241, la raccomandazione dei soliti geniali residui di intelligenza apatica.
251, l’arresto della profanazione tombale al casello degli immortali.
257, rumori fanno tremare i vetri di finestre interiori.
263, la televisione viaggia a velocità costantemente ignorata.
269, quindi, è l’ultimo numero primo della serie di numeri primi e
A B C D
A) rotto il vetro degli occhi.
sguardo tenuto colmo febbricitante
e lo sconosciuto sfiora il vapore
epidermico clona il buio interiore
– qui non si parla – corpo stupendo – ornamento essenziale
– l’animale segue curve cardio_sintetiche:
scimmie chimiche tamburellano sistole&diastole
creano protesi di finti battiti in gola. e poi
un elenco di passi non è amore
un indifferente prassi non è amore
un trittico di monadi non è amore
un tatuaggio di lucidi respiri non è amore
B) il peso del corpo perfetto. goduto. pensiero inetto. pagamento rateale di frasi.
rosario di ambra. di resina fossile. pentimento prematuro prima dell’accadimento attuale.
succede e accadrà spesso. compulsioni solitarie affollate di gente smorta. in certi ghetti moderni.
dove nascono e si struggono gemiti
clamore. questa nuova forma di amore è
sublime crudeltà deteriore dell’essere aff_amato
dell’essere affamato d’amore.
ma io ho predetto il futuro
e adesso sono capovolto in questo oscuro passato.
C) sul bordo d’ogni cosa senza limite s’affaccia l’aria di.
ed è semplificato adesso il gioco e la navigazione segue stelle
-marine, non lo sapevo.-
dalle scalette di un’improvvisata aria di festa scende l’abito del tuo corpo sessuale.
è in fine il piacere pornografico che inizia col moralismo d’abito che sai.
così alla fine del resto dei corpi sudati e che hanno goduto
così alla fine di ogni godimento non resta che il desiderio ultimo
quel tuo amore.
D) è bene il turgido del pene mentre vibra
l’animale recondito che detta un immorale desiderio
senza aver goduto.
lo sai? non devi far la spesa quando hai fame
e non devi parlar d’amore se il corpo non è già esploso
dilapidato sprecato e stanco
se prima non hai ammalato l’anima di bestia che sei
per voler l’angelico sentimento senza corpo che sai
non esiste. lo scandalo il sottofondo soffocato dell’ansimante contraccolpo
e poi stanchi esausti sfiniti dal porcile di sudore e liquidi
allora soltanto allora
inizieremo a darci un nome
inizieremo a spiegarci quel po’ d’amore
senza altro scopo che non sia speculare l’anima
che solo allora può darsi un dove.
credimi
è dopo aver massacrato il corpo che puoi sfiorare l’infinito.
(Foto: Cam Archer, Places.)
Una lettera aperta e un articolo di Jurij Andruchovych
Kiev, 24 gennaio 2014
Cari amici e soprattutto giornalisti e cronisti stranieri,

Negli ultimi giorni molti di voi mi hanno chiesto di descrivere la situazione attuale a Kiev e nell’Ucraina più in generale, fornire una valutazione di quello che sta accadendo e presentare la mia visione sui prossimi sviluppi. Non avendo la possibilità di rispondervi singolarmente o per ciascuna delle vostre testate, ho deciso di preparare questo breve appello affinché ognuno di voi possa utilizzarlo a seconda delle proprie necessità.
Le cose più importanti che voglio dirvi sono le seguenti:
Meno di 4 anni dopo aver assunto l’incarico, il signor Yanukovich ha portato il paese e la popolazione ai limiti della sopportazione. Quel che è peggio, ha portato a una situazione senza via d’uscita, nella quale deve mantenere il potere a tutti i costi. Nel caso contrario lo attende una dura condanna. L’ampiezza delle frodi e delle usurpazioni supera qualunque immaginazione sull’avidità umana.
di Gianni Biondillo
A non volerci far troppa filosofia è che non ho la patente. Quindi o mi arrangio o me la faccio a piedi. Come al solito però quello che può apparire un limite può svelarsi una opportunità. Quella di scoprire – quasi con una perseveranza tignosa, dal vago sapore antimoderno, di chi vive in un mondo governato dalla velocità -, anzi, di riscoprire il ritmo, il passo umano. Siamo animali strani noi. Non veloci, non potenti. Ma costanti. Possiamo camminare, fin dalla notte dei tempi, per giorni. Quattro, cinque chilometri l’ora. Più o meno tutti. L’abbiamo dimenticato, ma è così, dall’alba dei tempi, che abbiamo colonizzato il mondo. A piedi. E quindi, sì, facciamola pure un po’ di filosofia: non ho la patente non perché bocciato all’esame di guida, ma per scelta. Di vita, potrei dire vagamente tronfio. Scelta che negli anni ha assunto sempre più connotati etici, politici. Abbiamo dimenticato il paesaggio che ci circonda, l’abbiamo lasciato sullo sfondo, come una cartolina, come un album di fotografie stereotipate e nel frattempo abbiamo permesso lo sciupio del territorio. Ma in un viaggio, ogni autentico viandante lo sa, quello che conta non è mai la meta, quella magari immortalata dalle Polaroid (o Instagram che sia). È il percorso. Da farsi a piedi. È solo così che si scoprono tesori inattesi.
Tutto questo, se da ragazzo lo sapevo quasi inconsapevolmente, è diventato un campo del pensiero che ho attraversato di volta in volta con vari compagni (di strada, come è ovvio). Con Gianluca Migliavacca, accompagnatore di media montagna e coordinatore di Trekking Italia, che mi ha insegnato a riscoprire i sentieri nella loro complessità, col collega scrittore Michele Monina, col quale abbiamo ragionato a lungo sul camminare come esperienza estetica. Psicogeografia, così si chiama la disciplina nata con le avanguardie francesi del secolo scorso che tratta di tutto ciò. Anche se, come è ovvio, l’uomo cammina da sempre e da sempre ragiona su questa facoltà. Questa “storia del camminare” (citando il bel libro di Rebecca Solnit), questo interpretare i paesaggi attraverso il passo dell’uomo, restituendolo attraverso varie forme di narrazione (fotografiche, filmiche, artistiche, letterarie, etc.) è diventata la mia passione. Magari fatta di esperienze “al limite”, come quando nel 2009 con Michele abbiamo fatto il giro delle tangenziali di Milano a piedi, cercando paesaggi estremi, quelli che nessuno racconta, per restituire loro dignità.
Le passioni, quando sono autentiche, si possono anche trasmettere. Ed è quello che m’è accaduto quest’anno, grazie all’Accademia di architettura di Mendrisio, dove ho potuto tenere un corso semestrale di “Elementi di psicogeografia e narrazione del territorio”. Lezioni teoriche, come un corso accademico prevede. Certo, il mio saltabeccare durante le lezioni di disciplina in disciplina, citando antropologi, filosofi, artisti, architetti, scrittori, paesaggisti all’inizio può aver terrorizzato i miei studenti. Ma questo dove vuole arrivare?, sembrava chiedessero i lori sguardi muti. Poi tutto s’è fatto chiaro quando dalla teoria s’è passati alla pratica. Quando, aiutato dal mio “braccio destro” Francesco Rizzi, ci siamo messi in cammino. In un freddo sabato novembrino, da Riva San Vitale, sul lago di Lugano, a piedi fino a Cernobbio, sul lago di Como. Neppure un quarto d’ora in macchina, probabilmente. Un’intera giornata, fra campi, strade poco battute, affiancando ferrovie o autostrade, costeggiando canali, perdendoci nei borghi o nei centri commerciali. In una sorta di terra di nessuno, avendo come partenza e arrivo due luoghi consolidati dell’immaginario, per svelare, in questa deriva, quanto di esotico, cioè proprio di estraneo, sconosciuto e lontano dal nostro sguardo, possa esistere “sottocasa”. Si è trattato, in pratica, di imparare a guardare con occhi diversi, senza pregiudizi, territori continuamente modificati, manipolati, spesso violentati dall’uomo. Battisteri paleocristiani accostati a complessi scolastici anni Settanta, campi coltivati e superstrade, edilizia residenziale e capannoni, persistenze storiche e postmodernità. Tutto nel volgere di una giornata.
Ed ecco che i ragazzi, dapprima riottosi, hanno iniziato a capire il senso delle lezioni teoriche. A prenderci gusto. Hanno fotografato, registrato, filmato, intervistato. Ora sarebbe troppo lungo raccontare tutti i nostri incontri inaspettati. La scoperta di architetture del Novecento di grande valore (dalla villa studio a Riva San Vitale di Durisch fino alla casa Cattaneo a Cernobbio), di pievi romaniche (e la relativa sagra di San Martino a Mendrisio), di “superluoghi mondialisti” come il FoxTown, di terrazzamenti coltivati a vite o ponti dei suicidi sulle gole della Breggia. Storie. Che parlano di economia, politica, umanità, di un territorio di confine.
Confine che abbiamo attraversato in un passaggio pedonale incustodito a Maslianico, dove una delegazione di ex alpini ci ha accolto rifocillandoci con pane, salame, vino e tanta allegria. E dove ci hanno mostrato il lavoro complesso che, da volontari, stanno facendo sui percorsi di ronda dei finanzieri ormai abbandonati da decenni. Camminamenti e scalinate radenti la “ramina”, oggi ricoperti di rovi che gli alpini stanno ripristinando, per rendere onore a storie di uomini e donne, di passatori e contrabbandieri, di povertà e di emancipazione. Percorsi che sono monumenti itineranti del territorio che consiglio a chiunque di ripercorrere, anche per tenere viva la memoria della nostra storia recente.
Quello che abbiamo fatto quella mattina oggi è diventato un luogo virtuale che può essere visitato da chiunque. Assieme ai ragazzi del corso abbiamo deciso di creare con i materiali raccolti un sito web dove ogni studente, con le sue peculiarità e la propria sensibilità, ha concentrato il suo lavoro su vari punti del percorso, realizzando video, fotografie, disegni, audio. Il sito (www.psicogeografia.com) è stato messo on line dal nostro web master, Francesco Mussi, il 25 gennaio. Adesso ognuno può idealmente ripercorrere l’esperienza fatta quel sabato novembrino. Sentire lo scorrere del fiume, le campane del mezzodì, vedere i campi coltivati, le panchine, le pavimentazioni, incontrare persone e osservare i paesaggi con occhi nuovi. Come abbiamo fatto noi. E come i ragazzi hanno compreso a fine del viaggio, quando – sul battello che ci portava a Como da Cernobbio, stappata una bottiglia di spumate (regalo degli alpini) per brindare alla fine del viaggio – qualcuno m’ha detto, con una semplicità disarmante: “grazie prof, è stato bellissimo”. Il regalo più inatteso per me.
(pubblicato su L’ordine inserto della Provincia di Como, il 16 febbraio 2014)
di Francesca Fiorletta

Siamo a pagina 22 e Gianni Celati c’ha già detto più o meno tutto quello che si può realisticamente dire sul sentimento amoroso.
Non solo è già entrato nel fulcro della vicenda, ma l’ha fatto squisitamente alla sua tipica maniera: con descrizioni brevi, fulminanti, particolareggiate e sensibili.
Descrizioni che attingono lustro e vigore dal registro più confidente della vita quotidiana, e che, con un linguaggio (apparentemente) semplice e immediato, riescono a dipingere in pochi secondi uno scenario domestico dalle tinte più cangianti, sempre in perfetto equilibrio fra il lato fosco e quello limpido dell’animo umano.
Siamo a pagina 22, dicevamo, dell’ultima raccolta di racconti di Gianni Celati, Selve d’amore, pubblicato nel 2013 da Quodlibet, Compagnia Extra.
Quattro racconti compongono il libro, ciascuno particolarmente bruciante e allegorico nella sua stringente finitezza, per ragioni che andremo ad analizzare.
Innanzi tutto, le tematiche: nel primo, da cui prende il titolo l’intero testo, si racconta la passione adolescenziale del giovane protagonista per un’amica della madre; nel secondo, Il caso Muccinelli, seguiamo le indagini misteriose di un presunto investigatore, palesemente inadeguato al suo ruolo; nel terzo, Matrimonio Bellavista, ritroviamo i drammi della famiglia Marcocesa, ancora impigliata fra tradimenti e insoddisfazioni economiche e personali; nell’ultimo, La notte, protagonista è Pucci, il povero ragazzotto chiuso in manicomio, la cui passione è guardare gli alberi e sognare il ripetersi ciclico e concentrico del volo degli uccelli.
Fulcro dell’attenzione, dunque, sono i rapporti familiari, la loro delicata costruzione, il loro precario rimodellamento. Più di tutto, emerge una debordante e ossimorica sincerità di relazione, che si scontra con la pretesa messa in scena di uno spaccato di quotidianità della famiglia borghese media, tipicamente rappresa nel circolo vizioso degli infingimenti del quieto vivere d’occasione.
Esemplare, oltretutto, la sistematica differenza evidenziata tra le figure femminili e quelle maschili: nonni e padri si esprimono con un lessico appuntito e senza particolare clemenza, («Aurelio, noi ci capiamo anche se sei un idiota, vero?», dice il nonno di Pucci, nell’ultimo racconto) arrugginiti e disarticolati sulla pagina quanto nel ruolo che dovrebbero ricoprire in famiglia e negli affetti; madri e mogli, par contre, blandiscono e ammaliano il lettore, con scarti gnomici di pura maestria, che ondeggiano fra il rigore aulico e il dispetto grottesco. (Riprendo, da Matrimonio Bellavista: Detto questo, la madre si è levata il fazzoletto che le avvolgeva il capo e Cesa ha visto che aveva capelli grigi, volto di donna attempata, guance incavate, occhi un po’ miopi, e l’aria stanca di chi dorme pochissimo. È andata via con una battuta nel suo dialetto, che diceva così: «Non si può dare un pugno in cielo».)
La dicotomia dei tratti, comunque, si rovescia nello sviluppo ultimo delle vicende, dacché le donne, pure misteriosamente e sadicamente affascinanti, spadroneggiano sì nelle Selve della scrittura di Celati, ma secondo un criterio tutt’altro che disincantato: tutte oltremodo smaniose di seduzione e di auspicabili riconoscimenti sociali, ammiccano, perniciose e sospettose, persino ai loro stessi figli, si frustrano con relazioni extraconiugali banali e prive di pathos, rigettano e s’acquietano, enfin, solo nei rapporti più sbilenchi con l’altro sesso, pure continuamente mortificato.
Gli uomini, dunque, inquadrati fin dall’inizio come macchiette apotropaiche di una vita infausta, condotta continuamente sull’orlo del fallimento, sembrano paradossalmente riscattarsi, seguendo il corso delle narrazioni, proprio nella loro pretesa intangibilità; riescono quasi a salvarsi, potremmo dire, dalla bruttura del mondo, grazie all’atavica inettitudine che li rende tanto sterili e arrendevoli, al cospetto dello spietato e perturbante corso degli eventi. (Così li troviamo, ne Il caso Muccinelli: I tre sono sagome che buttano avanti i piedi con indolenza, ma sempre più scure là in fondo, in controluce, mentre scende il crepuscolo e loro vanno verso il loro destino.)
Tra le chiavi di lettura essenziali per la comprensione di questo testo, un ruolo dominante gioca lo sviluppo diacronico della giornata: la notte, fulcro esiziale di ricordi e disvelamenti insegue in un perenne contraltare il giorno, descritto come sotto una sorta di nube oscura, un limbo ibrido che tutto camuffa e che poco o niente lascia intravedere allo spettatore disattento.
Teatrali quanto plausibilmente oggettivabili, i racconti di Gianni Celati sanno indagare benissimo le strategie più recondite del pensiero analitico che alberga fecondo nella mente di ogni autore che si rispetti; ed è proprio l’autore stesso che alla fine, seppure vestendo i panni di uno dei suoi personaggi (a questo punto non a caso, direi, quelli scomodi di una donna!) esprime e materializza quello che mi sembra il senso estremo di tutta la sua scrittura.
O forse, invece, mente con orgoglio e si contraddice ancora.
(dal molto interessante e istruttivo libro di Frans de Waal, Naturalmente buoni ― il bene e il male nell’uomo e in altri animali, Garzanti, Milano 2001, pp. 230-232, traggo questo passo che riguarda due diverse specie del genere Macaca, famiglia Cercopithecidae, i loro comportamenti sociali e il loro modo di adattsrsi. a.s.)
«Poiché il mio scopo non era quello di curare scimmie anormali ma di vedere se avrei potuto far cambiare scimmie normali, parlerò di «precettori» invece che di «terapeuti». E così demmo a un gruppo di macachi orsini [macaca arctoides] la possibilità di fare da precettori ai reso [macaca mulatta, detta anche Rhesus]. Gli orsini hanno un carattere facile e tollerante,
di Daniele Ventre
Χρή με φάναι μὲν ταῦτα, καὶ ἀτρεκέως καταλέξαι,
οὐ κεχρημένος ἦα θαλάσσης, εἶπερ ἔμοιγε
ἄλλο ἐπεκλώσαντο θεοὶ οἳ Ὄλυμπον ἔχουσι
θνητοί τ’ἄνθρωποι, καὶ ποντοπορεῖν μ’ἐκέλευσαν.
Ἀυτὰρ ἐγὼ νῆσον μὲν ὀρῶν κραναήν περ ἔουσαν
καί γουνοῖσ’ἐπὶ πᾶσιν ἐλαίας μῆλά τ’ἔχουσαν,
τὴν δὲ μάλιστα ἐγᾦδα φιλεῖν ἐν ἀγήνορι θυμῷ,
τὴν φρένεσιν δ’ἐν ἐμοῖς ἀγραύλων ἔργα φιλοῦσι,
νῆσον ἀρώτροισίν τ’αγαθήν γε καὶ ἄλφισι λευκοῖς,
-οὐ γὰρ ἔχουσ’ἀλιεῖς αὐτὴν οὐδ’ἴστια νηῶν-
τῇ μὴν ἀργυριᾶ τ’ἵδρως καὶ δῶρον ἀρουράς,
τῇ δ’ἐμοί ὧσπερ χρυσὸς ἔην οἶνος καὶ ἔλαιον.
Ἀλλ’ὅτε μὴν ἐς ὄρη ποτιδέρκεαι ἀντιόωντα,
δὴ τότε καὶ τόδε γ’οἶσθ’ὅτι ἔλκεαι οὖρος ἐς ἄλλο,
νήσου ἀπ’ἀμφιρυτῆς προυκλήθης νῆσον ἐπ’ἄλλην.
Εἰδώλοις μορφὴν τότ’ἐγὼ καὶ ὀνείρασι δῶκα,
καὶ νῆας ποίησα ἐυσσέλμους εὐπήκτους
εἰν ἁλὶ δ’αὖ κοιλῇς μέλαν’ἴστια νηυσὶ πέτασσα,
αὔτικ’ἀμειψάμενος βίοτον φίλον, αἶψά μ’ἔμαρψε
ἅλς ἀμελής, ᾔδειν δ’ὅτι εἰν ἁλὶ πότμον ἔνισπον,
ὡς τετελεσμένος ἔσται, ἀεὶ φρεσὶ μερμηρίζων
εἴ μοι ποντοποροῦντι ἅ ἔλπισα πάντα τελέσσει.
Αὐτὰρ δὴ πρὸ τ’ἔοισι καὶ ἐσσομένοισιν ἔοντα
συμμίχθη καὶ ὔδωρ τε καὶ ἅλμυρα θυμὸν ἔκαυσε
καὶ πάντεσσιν ὄδοισι νέα τοι ὔφανται ἀοίδα
καὶ μόρφαν ἐν ἀοίδᾳ ἀμείβετο πέρρατα γαίας
καὶ γεύσας τὰ μὴ εἶεν ἐοίκοτα ἆδύ γ’ὄλεθρος
Λευκοῖσιν δὲ πόρευσα ἐπ’ἤμασι μύδρῳ ὁμοίοις
ἡελίου, ἄνεμός τε χέρες τ’ἐρετῶν ἐκυβέρνων,
χεὶρ ἐπὶ πηδαλίου, αἰεὶ ἔχον ὄμμ’ἐπὶ πρώρην
νύκτα δι’ὀρφναίην ἐλθὼν καὶ ἐπ’ὄμμασι λεύσσων
ἄστρα τε λαμπετόωντ΄ἀργήν τε Λυκάονος Ἄρκτον,
ᾔειν ἐς πόλεμόν τε τύχην καὶ πότμον ἐπίσπον,
θυμὸν ἀτάρβητον μὲν ἔχων, ἴνα οἴκαδ’ἴκοιμι
οὐ κατὰ μαντοσύνας καὶ ἀθανάτων ἀέκητι.
Ἤλυθον ἠγαθέας τ’ἐπὶ νήσους ἠδ’ἐπ’ἔρωτας
ἄλλους θαυμασίους τε πόνους, ἐτάρους τ’ἀπέβαλλον,
νῆας ῥηγνυμένας τε -καὶ ἥματα πολλὰ μετῆλθεν
μηνῶν φθινόντων τε περιπλομένων τ’ἐνιαυτῶν.
Μνημοσύνη μίχθη καὶ λησμοσύνην παρέδωκεν.
Ποῦ δὴ Ναυσικάα, ποῦ Σειρῆνες λιγύφωνοι,
Κίρκη, τὴν ἀπέλειψα, Καλυψώ τ’; Αὖ δέ μοι αἰὲν
οὔασι φώνεε Ὄσσα μεμιγμένη ἐκλελαθόντι.
Οὐδὲ γὰρ οὐδὲ ἔειδον ἅμα πρόσσω καὶ ὀπίσσω,
ἀλλά με ἔκλαθε πηδάλιον τ’ἴστον καὶ ἐρετμόν,
ποῦ τε βόα Πολύφημος ὃν ὀφθάλμου ἀλάωσα,
οὗ ἄπο ποντοπορῶν ὑπερέκφυγα κῆρ’ ἀλεείνων.
Οὐ δ’αὖ κῆρα μέλαιναν ὑπέκφυγα κῆρ’ἀλεείνων
ἀλλ’αἰ πάντα σίγᾳ πέλεται, θάνατον μὲν ἐσέρπει
ἐκ πόντω, καὶ ἄρα γε τύχα, οὔ πῃ ἔστι δὲ λῆξις
-οἴος γάρ τοι ἔγων, τὸ πρὶν οὔ γε δὲ χεὶρ τρομέοιτο
καί τοι ἶσα θέοισι θέλον, πτέρυγές μοι ἔρετμα.
Ψευδεῖς μέν τοι ὁδοί τε θαλάσσιοι ἠδὲ κέλευθοι,
ψεύδουσιν πόντου γε πορεύματα, αὐτὰρ ἀοιδαὶ
νύκτα δι’ἀμβροσίην ὑπερέκφυγον, ὅστις ἄειδε
ἆθλα ἐμοῦ ἔπεσιν, δῶκεν κλέος ἄφθιτον αἰεί
ῤυθμοῖσιν φωναῖς τε, ἀοιδαῖς κῦδος ἕδωκε
ἀγνωτούς ὀρμοὺς τε θιγεῖν κοὐ γνωτὰ ἰδέσθαι.
[Pseudotraduzione:
Questo bisogna lo dica e lo affermi in tutta chiarezza:
io non sentivo mancanza del mare, anche se per me poi
hanno filato ben altro gli dèi che posseggono Olimpo
come le genti mortali, e vollero che navigassi.
Ecco che io rimirando quell’isola che era petrosa
e che ne aveva di olivi e di greggi sopra ogni colle,
sì, più di tutte ero conscio di amarla in quest’animo fiero
dentro il mio cuore che è amante delle opere dei contadini,
l’isola buona agli aratri, nonché alla bianca farina
(non la posseggono, no, pescatori o vele di navi):
erano là come argento il sudore e il dono del campo,
erano simili all’oro per me tanto il vino che l’olio.
Quando però con lo sguardo ti volgi a una vetta che è avanti,
ecco che allora lo sai che a una nuova vetta ti spinge,
d’isola cinta dal mare chiamato ad un’isola nuova.
Ecco che allora io donai una forma a sogni e illusioni,
e costruii quelle navi dai solidi banchi, ben fatte,
quindi alle concave navi spiegai vele nere sul mare,
subito la trasformai la mia vita, a un tratto l’incuro
mare mi prese, e sapevo che in mare inseguivo il destino,
come doveva compirsi, ma in cuore ero sempre nel dubbio,
se compirà nel mio viaggio ogni cosa come speravo.
Ma il passato si mescola insieme al futuro e al presente
l’acqua e i flutti salati nell’anima m’hanno bruciato
e per tutti i cammini si tesse una nuova canzone,
e cambiavano forma nel canto i confini alla terra,
e gustando di cose non debite dolce è la morte.
E per giornate abbaglianti e pari alla vampa del sole
quindi viaggiai, vento e braccia dei miei rematori a guidare,
mano al timone, ma sempre tenevo i miei occhi alla prua,
lungo la notte nerigna passando, e con gli occhi miravo
gli astri che splendono e sacra a Licàone l’Orsa lucente,
verso la guerra e la sorte andavo e seguivo il destino:
animo senza paura forgiai per raggiungere casa,
contro malie di indovini, a dispetto degli immortali.
Si mescolò la memoria e ci ha tramandato l’oblio.
Isole chiare di dèi io raggiunsi allora ed amori
nuovi, e mirabili imprese, e quei miei compagni li persi
e le mie navi spezzate -fuggirono via molti giorni
e declinarono i mesi, si volsero gli anni correndo.
Dove Nausicaa, dove il bel canto delle Sirene,
Circe e Calipso che indietro ho lasciate? E intanto a me sempre
pur nell’oblio, ritornava alle orecchie incerta la Voce.
E non lo vidi non più quel che unisce il prima col poi,
ma mi sfuggirono allora il timone il remo e la vela,
come gridò Polifemo che io ho privato dell’occhio,
lui, da cui io navigando fuggii, per sfuggire alla chera.
Né la nera mia chera fugii, nel fuggire la chera,
se ormai tutto in silenzio riposa e la morte serpeggia
dal mare, è maleficio la sorte e non c’è mai respiro
-solo infatti io rimango -né prima tremava la mano:
gesta degne dei numi cercai, ebbi i remi per ali.
Sono menzogne le vie del mare e così le sue strade,
mentono certo i cammini dell’onda -e così le canzoni
lungo la notte immortale fuggirono, chiunque cantasse
opere mie coi suoi versi, mi offrì gloria eterna per sempre
con i suoi ritmi e le voci, e mi diede il trionfo nei canti
sì da concedermi approdi ignoti e un ignoto mirare.]
Testo originale
[Questo intervento è apparso sul sito Euronomade]
di Martina Tazzioli
Una Carta per rovesciare le geografie esistenziali e politiche inaccettabili inscritte dalle politiche migratorie, partendo dal presupposto che oggi le politiche di confinamento e di governo della mobilità giocano un ruolo fondamentale nella ridefinizione delle divisioni di classe e dei meccanismi di esclusione. Una Carta che tuttavia non è, solo, una carta: questo l’assunto condiviso da tutti coloro che si sono ritrovati a Lampedusa dal 31 gennaio al 2 febbraio per discutere, rielaborare e sottoscrivere la Carta di Lampedusa; e per iniziare a tracciare i percorsi futuri di lotte, pratiche e campagne di cui questo documento si propone di essere il motore propulsore e al contempo la cornice politica.
da “Edifici pericolanti”
#
1) Sell in, sell out
#
Poesia della forza vendita
Esiste il tempo degli uomini in affitto
ripiegati in due dentro il contratto
nell’atto di spalancare la bocca
per ingoiare la moneta: Complimenti
mi dice il manager, Lei è in progressione
tuttavia non sa gestire le persone
ci vuole la carota, e ci vuole il bastone
Esiste il tempo dei ruminanti
che sanno l’intimo piacere del bastone
il Suo obbiettivo è essere una molla
caricare il significato dei corpi: Lei
deve scavalcare la catasta dei giorni
sopra cui sta un obbiettivo, che ci segna
La responsabilità del fatturato
Di notte invio i dati di vendita del giorno
nel silenzio dei condomini appesi nel sonno
lo stormo di cifre che trapassa il corpo
in ginocchio sulla statistica, e la paura
che chiamino, a quest’ora, per avere spiegazioni
Dino sta sotto budget da almeno tre mesi
ti dicono di dirgli che è un coglione
non è un insulto, ti dicono
è questo il risveglio
La cessazione del rapporto di collaborazione
Gianluca, hai il sorriso ferito
dalla forbice fra obbiettivo e fatturato
sulla sedia blindata della riunione
carichi in canna il resoconto ultimo
e ti si sente
attorno un largo silenzio, e nel rumore
del tuo dissesto interiore ognuno sta
nella posizione da contratto
Dietro questi piccoli quadri
si muovono gli uomini abbaiati
dal cane del credo quotidiano
Lei ora appartiene, ti dicono
all’archivio dei nomi in disuso
Maurizio il caposettore e il Rackjobber
Tutto il giorno ho allineato
i prodotti sullo scaffale
come fossero versi
e ora sto con l’ordine in mano
fra i carrelli abbandonati
dove dormono i bambini
consumati, nel silenzio
e in questa devastazione, Maurizio
stiamo, fra i carrelli abbandonati
È questa la semina del bulbo
per le voglie del margine
il campo defunto, e il feto coltivato
che sboccia sul ripiano e si apre in sconto
Questa la trincea per il significato
l’obbiettivo, e poi il punto
che l’orario ci mette al nome
2) Iperghetto
#
Parla Sankara
Certo, si scrive per la purezza
per questa cosa bianca fra le due virgole
per questo toccare le grandi questioni
dell’origine e della morte: si deve
tentare di essere uomini e
rivestire di parole il fatto
di esseri bipedi
Decliniamo in segni cose e avvenimenti
ma quello che interessa è la sintassi
per l’esatta definizione del mondo
il mondo altrimenti domani scompare
Ma è anche una parentesi di carne
in questo defluire di cognomi
digressione di ossa in movimento
non altro: sono i molti
dove le grandi questioni coincidono
con la data della nascita
e con la data della morte
Il bambino di quindici mesi
si è guardato in giro e ha visto
la sua propria immediata estinzione:
è passato di qui, come un caso
poi è subito morto in diretta
perché non c’era molto da mangiare
Si scrive non per salvarlo, poiché è morto
ma per farlo vivere, nella sua morte
Allo svincolo per l’autostrada
Ti trovo la sera seduto sulle parole
inefficaci dell’uomo evacuato
fra gli scarti della giornata
ti porto del pane
Ma sono gli allarmi a rispondere
questo vento che scende nel tuo silenzio
dove attendi nel fondo della notte
un suono riemergere dal fondo della carne
Faccio una battuta e sopravvivo
ma prendo per amore l’elemosina
e sosto, senza amore, perché è semplice
condividere del prossimo
il meno e non il più a me prossimo
Dissonetto novenario del simposio
Ritornando a piedi da Fàliro
perché s’era scassata l’auto
nel traffico di Kifissoù
che una volta era stato un fiume
mica facevo Apollodòro
o parlavo di ragazzini
o pederasti innamorati
Il solo simposio concesso
contrattare col pakistano
per l’acquisto di tre accendini
sotto il ponte dell’autostrada
fra i bambini vuoti e avariati
un tossico quasi cariato
un morto che ingoiava asfalto
3) Essere e benessere
#
Jeff Buckley
Siamo qui per la bellezza, ma
come rifugiati fra due porte
in attesa di un fuoco qualunque
che commuova il calendario
In questo venire e andare di corpi
non hai nemmeno il tempo di dargli un nome
lanciano sul tavolo poche parole, si alzano
Siamo qui per la bellezza, ma
come pieni di linee scure
che potevano essere albero, nuvola: attendiamo?
nell’apnea delle disattese
sul fiume galleggia un ragazzo
la sua acqua nella voce
modula una fiamma
per chi, liquido, sta
Coito interrotto
Affacciato sopra un foglio o
alla campana del vetro
dove giacciono i frammenti io
sto
nella scarsa alternativa
fra maneggiare segni
e segnarmi le mani
Per questo la pagina
è un brandello, per questo
io sono interrotto, come il coito
di un amore incompleto
Reparto gastroenterologia
Questo uomo sul fondo del letto
che a fatica riemerge, a fatica
ruba un pugno d’aria
è il tuo ritratto, nei ritratti infiniti
di ogni uomo sul fondo di ogni letto
È un dolore cordiale, una mezza allegria
regalare due gocce d’acqua
alle labbra spaccate, che sono state tue
che sono state d’altri
sepolte da luci diplomatiche
che non separano le ombre dalle ombre
nello scambio di respiri dell’ultimo minuto
Adesso è molto tempo che tutto questo vuoto è tuo
questo luogo
disabitato da un morto, abbandonato da un vivo
4) Epiloghi e simulazioni
#
Il sig. Lieto Neri Pellegrini
Nessuno sa dove sia, pare
non dorma più, roso
dai rimorsi, il ponočnik, il pomočnik
il luogotenente nottambulo, forse
nelle gole del Montenegro, in Grecia
murato in un monastero, rifugiato
in grembo alla Russia, banalmente
nascosto nel bunker di Pale, in Bosnia
si aspettano di trovarlo morto: era
dicono di lui, si chiedono: chi era?
*
Kara significa nero
Hadzi pellegrino
Radovan esser lieti
Sig. Radovan Karadzić
Lieto Neri Pellegrini:
settantacinquemila vittime civili
quattrocentodiciassette massacri
trecentosettantotto lager
novantatré fosse comuni
*
Pellegrini ragazzino rumina
la sua povertà, pascola capre
nei lunghi inverni, suona
la guzla, Lieto, immigrato sedicenne
scende dai monti, entra smarrito
a Sarajevo, apprendista poeta, ma
ha una pancetta borghese
la salute cagionevole
ama la vita comoda
è un codardo, ha paura
anche della moglie, soffre
di crisi umorali, ipocondria
la gente ricorda di lui
la vanagloria, il barare al poker, insomma
un piccolo innocuo cacciaballe, tipico
prodotto di un’allegra baracca
che si chiama Jugoslavia
*
Nel mille novecento ottanta quattro, non per le poesie ma per i soldi, è arrestato
per aver messo le mani sui fondi di edilizia allo scopo di costruirsi una villa
si fa undici mesi di carcere, viene assolto, è il segno
è già legato mani e piedi al sottobosco jugoslavo
*
Torna
completamente cambiato, si dà
al gioco d’azzardo, tira l’alba
nelle bische, in carcere
ha imparato a bluffare
ha sposato Liljana, così tetra
da noleggiare ai funerali
Lieto la decanta a gran voce
millanta di sapere l’inglese
ma entra in un negozio londinese
per acquistare dolci, ne esce
con scatole di carne per cani
*
Quando Belgrado lo mette a capo del partito democratico serbo
i bosniaci, serbi compresi dicono: questo chi è?
dopo, qualcuno dirà che fu una scelta mirata, che si cercava uno psichiatra
per costruire la guerra prima di tutto nei cervelli
ma
*
tutto è più banale, è una nullità
ambiziosa, ubbidiente, talmente
poco serio, nessuno
potrà credere che con lui
i serbi si preparino alla guerra
tanto più che in quel momento
nulla annuncia il mattatoio
Lieto non sente l’odore del sangue
Lieto sente il profumo dei soldi
coglie l’occasione per ambizione
o forse è costretto a coglierla
non sembra un manipolatore
ma un manipolato
*
Si arricchisce, e lo ostenta
gira in auto blindata
ascolta Bach, smette
di fumare, di vedere
film porno, di bere
whisky, si sottopone
a un corso intensivo
d’inglese, va in chiesa
per la prima volta
in vita sua, si dice
discendente di Vuk
Karadzić, padre
della lingua serba
falso, ovviamente
La moglie colleziona
centinaia di scarpe
usa l’elicottero
per portare il cane
dal veterinario
La figlia, direttrice
del centro stampa
accoglie i giornalisti
dipingendosi le unghie
*
Le radici, sempre negate
diventano un vanto
Sono un figlio del monte Durmitor
la galera per malversazione
diventa persecuzione
ingrassa, mente
sistematicamente:
facile con i contadini, tra cui diffonde un elenco di donne serbe
destinate agli harem dei musulmani
meno facile con i giornalisti, che convoca anche di notte
nella sua stanza all’Holiday Inn
*
Lo incontro, gli dico
attorno a Sarajevo
ci sono posizioni di mortai serbi
lui ride, ribatte non è vero
allora gliele elenco, una per una
farò controllare
gli parlo di serbi, mobilitati
con la forza da altri serbi armati
gli indico nomi e indirizzi
scuote la chioma
farò controllare
*
Ma appena comincia la guerra
scopre che il mondo se le beve
tutte
Altro materiale
I cadaveri sono molti
impossibile conversare
con un uomo e la sua tasca
dove si nasconde
quando incontra un altro uomo
che lo spia dal portafogli
Esiste il tempo degli uomini nascosti
nel fondo del corpo stanno
gonfie di istinti le cose incerte
Esiste il tempo in cui bisogna stare
complementari come accessori
oggetti che non sanno la sommossa
come un abbonamento
*
Molta la decomposizione, l’estinzione
in corso d’opera
in fondo all’acqua acida
perdiamo la sintassi
Insistiamo a camminare
come sintomo di esistenza
non vivere, ma qualcosa
È superflua la sintassi
al monosillabo di corpi in forma di dolore
confusi nell’urlo gutturale delle cose
frutti preoccupati del verme anticipato
che ancora tentano una rima
da accoppiare al corpo e alla sua durata
Alcune note
(Maurizio il caporeparto e il Rackjobber) Per un certo periodo, ho lavorato come venditore in una multinazionale che opera nella grande distribuzione organizzata. Durante un meeting (e non riunione) scoprii di essere diventato un rackjobber (e cioè lavoratore dello scaffale o meglio scaffalista). Questa figura è l’involuzione del venditore e del rappresentante. Il suo scopo è di presidiare lo spazio espositivo al fine di ottimizzare la vendita del prodotto.
(Dissonetto novenario del Simposio) Fàliro è esattamente la stessa Faléro citata da Platone nel Simposio. Durante il tragitto da Fàliro ad Atene, Apollodòro narra a un amico di quanto avvenuto al Simposio e dei ragionamenti sull’amore di Socrate e Diotima. Kifissoù, detta anche Potàmi (fiume), è chiamata l’autostrada che congiunge Atene con Lamìa e che, nel tratto urbano ateniese, scorre sopra il fiume Kifissòs (ital. Cefiso), che sfocia presso Fàliro.
(Il sig. Lieto Neri Pellegrini) Poesia estratta dall’articolo “Karadzić, il prescelto”, di Paolo Rumiz, Il Diario, 1996. Questo è uno dei pochi testi sopravvissuti a un trasloco, e ritrovati per caso. Scritti fra il 1998 e il 2000, formavano un lavoro chiamato “Storie”. Si tratta di poesie composte partendo da un articolo di giornale da cui prelevavo le cose necessarie che potessero combinarsi fra loro secondo un senso ritmico, evocativo, o giocoso, ironico. Non utilizzavo le frasi che più m’interessavano per poi rimontarle a mio piacimento, seguendo un mio senso estetico e dando loro un significato diverso rispetto a quello del testo originale in cui erano contenute, ma l’esatto contrario: mi attenevo all’originale utilizzando quanto ritenuto essenziale e ridisponendolo poi nell’ordine esatto in cui si trovava. La differenza con lavori simili, cioè di poesia estratta dalla cronaca, sta in questo. La mia non era un’interpretazione di ciò che leggevo, ma un’elisione del superfluo per giungere a una poesia popolare, per sottolinearne il carattere narrativo, come le ballate dei cantastorie di un tempo. Ho ultimamente ripreso questo lavoro concentrandomi sulla pubblicità. Mi sembra che la pubblicità, nella sua pseudo poeticità, sia in realtà la forma evocativa che meglio racconta il nostro periodo storico.
(esce domani una sorta di “piccola enciclopedia del pensiero contemporaneo”: L’età dell’estremismo, di Marco Belpoliti. Ho chiesto all’editore e all’autore un capitolo che qui riproduco, ringraziandoli. G.B.)
di Marco Belpoliti
Tra il 2008 e il 2010 il fotografo ceco Josef Koudelka si è recato più volte in Israele e in Palestina. Invitato dal progetto «This Place: Making Images, Breaking Images – Israel and the West Bank», avviato dal fotografo Frédéric Brenner, ha ritratto il muro che separa lo stato ebraico dai Territori abitati dai palestinesi. Utilizzando una macchina di grande formato, Fujifilm 6 x 17 cm, Koudelka ha realizzato una serie di scatti delle zone dove sorge la barriera divisoria voluta da Ariel Sharon e dai militari israeliani. Si tratta d’immagini in bianco e nero di grande impatto visivo. Stampate in un libro oblungo intitolato Wall, ogni scatto ha le dimensioni di 72×24 e abbraccia un’ampia porzione di territorio: da un lato all’altro di una valle, oppure un’intera collina nella sua estensione da est a ovest; e ancora: una porzione di muro e le fortificazioni intorno; fino allo snodarsi, altro esempio paradigmatico, di un’autostrada che fende l’intero paesaggio.
Lo sguardo ampio sembrerebbe il solo che permette di capire il modo con cui la distesa di cemento, blocchi, plinti, cancelli, filo spinato, torrette interviene nello spazio per delimitare, circondare, difendere, escludere. In alcune istantanee, più simili a quadri che non a fotografie, appaiono in primo piano olivi secolari e dietro di loro un paesaggio brullo. Ci sono pochissime figure umane. C’è solo un uomo, nei pressi dell’insediamento di Qedar, in abito tradizionale arabo, in piedi sulle macerie di una casa, probabilmente la sua: blocchi di cemento divelti, macerie di ferro, armature, tubi accatastati; dietro, il cielo è una superficie grigiastra, mentre un filo taglia a metà la fotografia, stabilendo una divisione tra il sopra e il sotto. C’è qualcosa di claustrofobico in queste immagini, di aperto ma anche di chiuso: la chiusura dell’aperto e l’apertura del chiuso, un chiasmo. Ad Al-Khader, nell’area di Betlemme, la città più fotografata insieme a Gerusalemme Est, Koudelka ha ritratto una sorta di vallo, la terra di nessuno tra la cinta di cemento e un alto muro dalla forma arrotondata: una trincea inabitabile, sicuramente un dissuasore spaziale tra due territori. Chi e dentro e chi e fuori? Le foto lo dicono molto bene, e se qualcuno non lo capisse al primo sguardo non ha che da leggere le secche didascalie che descrivono la separazione tra i due popoli, e quella, anche peggiore, tra palestinesi e palestinesi.
Koudelka viene da antichi studi d’ingegneria, negli anni Cinquanta a Praga, e il suo sguardo mantiene qualcosa di quell’origine tecnica. Possiede infatti un talento nell’individuare alla perfezione i punti di vista, i luoghi e gli spazi da catturare dentro l’obiettivo. Di sicuro, nelle sue fotografie, in queste in particolare, emerge anche un aspetto teatrale che gli è proprio, come ha scritto la critica: una capacità di guardare l’interno come una scena, e insieme introdurre un aspetto introspettivo, scandaglio del teatro interiore. Per quanto si tratti di luoghi desolati, dove l’antica armonia è stata devastata dall’intervento bellico dell’uomo, c’è sempre qualcosa d’intimo in ogni luogo raffigurato da Koudelka. Anche negli spazi più angusti, chiusi, privi di qualsiasi piacevolezza, si coglie un momento, un attimo, di riflessione del fotografo: la crudezza delle immagini appare mitigata dal suo sguardo, e proprio per questo il contrasto tra l’ordine e il disordine risulta ancora più forte.
Se Koudelka avesse fotografato il punto dirompente, la rottura del paesaggio apportata dall’intervento militare, dal segno prepotente del Muro, la sua lezione di metodo, la sua riflessione, ne sarebbe stata indebolita. Guardando il caos della separazione all’interno dell’armonia dell’antico paesaggio mediorientale, mediterraneo, Koudelka ci fa apparire ogni cosa più lancinante, mobilitando la nostra capacita di cogliere quello che c’era, e che forse potrebbe ancora esserci: oggi, domani. Non c’è quindi in questi scatti un giudizio politico, bensì estetico, un’estetica che è politica, proprio attraverso la capacità che queste lunghe fotografie possiedono di suscitare i nostri sentimenti. I contrasti del bianco e del nero, mitigati da una vasta gamma di grigi, ci mostrano un luogo disperato che sembra dar voce alla propria disperazione, non a squarciagola, bensì in modo sommesso, come in una nenia mediorientale, senza fine, un suono reiterato che ti penetra nel cervello poco a poco, e non ti lascia più.
Dopo lo scoppio della seconda Intifada (termine arabo che vuol dire: «scuotersi di dosso»), nel settembre del 2000, i militanti palestinesi della Cisgiordania hanno cominciato a compiere una serie di attacchi suicidi uccidendo centinaia di civili in Israele. Una carneficina che è continuata per oltre due anni. L’Intifada era stata scatenata dalla visita di Ariel Sharon, allora leader dell’opposizione politica, al Monte del Tempio, Haram al-Sharif, a Gerusalemme Est, considerata dai palestinesi un affronto terribile, tentativo di sancire il controllo assoluto di Israele sul territorio. Israele ha reagito costruendo il Muro, per impedire ai kamikaze l’accesso alle città e ai villaggi ebraici. Eyal Weizman ha raccontato, in Architettura dell’occupazione, e nel successivo Il minore dei mali possibili, la storia complessa di questa costruzione, di come il Muro sia diventato il modo con cui lo Stato d’Israele ha condotto la sua guerra spaziale contro i palestinesi: molto più di un semplice sistema di difesa, almeno cosi come appare nella pratica e nella teoria di Sharon, diventato in seguito primo ministro di Israele, e ispiratore della costruzione della cinta difensiva.

Nel capitolo Il migliore dei muri possibili Weizman racconta le vicende delle lotte legali intorno alla costruzione del Muro da parte di alcuni avvocati palestinesi, come Beit Surik, condotta attraverso la realizzazione di modelli e plastici esibiti davanti alla Corte Suprema di Gerusalemme in un duello giuridico con i rappresentanti delle forze armate israeliane. Questa disputa legale, come altre di quel periodo, ha prodotto innumerevoli cambiamenti del tracciato del vallo difensivo.
Weizman legge il muro come una vera e propria strategia di guerra. Scrive: «Il muro non può essere ridotto alla sua struttura fisica e al suo tracciato. Esso costituisce un insieme eterogeneo e interdipendente di sistemi di fortificazione interconnessi, costruzioni architettoniche (i ‘terminali’), tecnologie di rilevamento, armi automatiche, sistemi militari aerei e (nel caso di Gaza) marini, manovrati da una molteplicità di istituzioni, secondo procedure, calcoli, tattiche, etiche, scopi legali e umanitari variabili», che somigliano a ciò cui Foucault faceva riferimento quando parlava di «dispositivo».
Le fotografi e di Koudelka colgono proprio questo aspetto dell’apparato, il suo dispiegarsi sul territorio e la sua capacità di piegarlo alla propria logica. Il dispositivo, come lo aveva pensato Foucault, possiede una funzione strategica concreta e sviluppa in ogni caso una precisa relazione di potere. Negli scatti del fotografo praghese si coglie proprio la stratificazione del dispositivo, la sua capacità produttiva, la sua costituzione nel tempo, a partire da una urgenza di tipo militare. Nei bianchi e neri degli scatti si percepisce lo sforzo di orientare lo spazio, di organizzarlo. Le colline, le piane, le strade, i campi raffigurati da Koudelka, rendono conto di una battaglia che è avvenuta in quel luogo. Una guerra che ha fatto morti e feriti, ora invisibili, ma che ha lasciato nel terreno il segno vistoso del proprio passaggio: sbraghi, lacerazioni, cicatrici, suture, vuoti, troppo pieni.
Ci sono due immagini che descrivono questo spazio, il suo dispositivo, in modo perfetto. Nella prima appare un campo con l’erba alta; in mezzo si scorgono le sagome dei soldati, profili sottili, probabilmente di metallo o altro materiale duro. I militari, disseminati su una ampia superficie erbosa, rammentano che in quel luogo nel 1948, presso il kibbutz Yad Mordechai, a Gaza, e avvenuto uno scontro a fuoco decisivo. Nell’altra il paesaggio è dato dal sovrapporsi, in primo piano, di un intrico di fili spinati: rotoli e rotoli, fitti fitti, gli uni sopra gli altri; cosi fitti da rendere lo spazio retrostante simile a un rotolo di metallo: rocce, strade, vegetazione, diventano un secondo intrico, che si associa al primo rendendo tutto invisibile, e al tempo stesso perfettamente visibile: il muro di metallo aderisce ovunque, e niente ora ne resta escluso.
«Una volta completato, il muro misurerà circa 700 chilometri, il doppio dei 320 chilometri del perimetro della Linea d’Armistizio del 1949, detta Green Line, che separa Israele dalla Cisgiordania», cosi è scritto laconicamente sotto la prima immagine che apre Wall, dove è raffigurato il campo profughi di Shu’fat, con vista su Al-Issawiya: sulla sinistra si scorge il muro composto di pannelli di cemento che avanza sino a quasi la metà dell’immagine, dal piccolo al grande; sulla destra si apre, dietro al muro, in lontananza, l’agglomerato delle case; in mezzo una strada di terra battuta. Sembrano due foto accostate una all’altra, invece è il medesimo paesaggio visto all’altezza del muro. Sono due paesaggi diversi, il muro e le case, costretti a convivere, segnando due spazi e due tempi differenti, eppure terribilmente complementari.
di Giorgio Nicolai
Il Metrò di Parigi era una grande città sotterranea con negozi di ogni tipo: alimentari, vestiti, souvenir. Ogni giorno i corridoi erano affollati dai parigini dalla mattina alla sera: andare al lavoro, tornare a casa. I volti dei viaggiatori erano molto simili: aggrottati, preoccupati, stanchi. C’erano anche dei turisti perlopiù impauriti e disorientati dalla rete dei corridoi.
C’erano molte persone che vivevano alle fermate del Metrò: disoccupati, stranieri, tutti alla ricerca di qualche moneta per mangiare.
Il Metrò era a tutti gli effetti la città di questo piccolo popolo dimenticato e la vita degli abitanti di questa città dipendeva dal buon cuore di tutti i passanti indifferenti e affrettati.
di Maria Grazia Calandrone
da Serie fossile, inedito.
(°) – seme
hai una debolezza di spiga,
muscoli di cavalla, un’arsura
di sabbia calpestata
nella spina dorsale
e un solco di aratura,
la solitudine di una bestia santa all’angolo
destro della bocca, dove un’intelligenza
appena nata ti sfiora
quasi senza svegliarti
metti il dito nel solco del tuo cuore, indicami
scopri la crepa tua da dove stilla
il mio sangue sulla foresta dei simboli e nel sonno che specie di amore
trabocchi
sugli oggetti intorno
(quanto eccede
la misura del corpo finisce
per agire tra i legamenti elettrici del mondo
come la bruciatura
del neutro – l’inizio
dell’anonimo – poggia con tutto il peso
sulla Terra Straniera del tuo corpo – per favore
non dirlo, chiudi la bocca)
perché il tuo occhio destro sfiora le acque
di un mare sepolto
– seme,
profondamente
rovo e corona
di specie
sconosciuta –
apertamente tace come bronzo, cammina
nel presente
come in un tempio, come nella memoria –
fin che dal fondo
dal teatro del mare
una creatura adulta disarmata
si alza in piedi, crede al tuo perdono
23.5.13
-
© – fossile
metti una mano qui come una benda bianca, chiudimi gli occhi,
colma la soglia di benedizioni, dopo che
sei passata attraverso
l’oro verde dell’iride
come un’ape regale
e – pagliuzza
su pagliuzza,
d’oro e grano trebbiato –
hai fatto di me
il tuo favo di luce
una costellazione di api ruota sul tiglio
con saggezza inumana, un vorticare di intelligenze non si stacca
dall’albero del miele
– sarebbe riduttivo dire amore
questa necessità della natura –
mentre un vuoto anteriore rimargina
tra fiore e fiore senza lasciare traccia:
usa la bocca, sfilami dal cuore
il pungiglione d’oro,
la memoria di un lampo che ha bruciato la mia forma umana
in una qualche preistoria
dove i pazzi accarezzano le pietre come fossero teste di bambini:
avvicinati, come la prima
tra le cose perdute
e quel volto si leva dalla pietra per sorridere ancora
24.5.13
-
breve disamina del fenomeno amoroso in un soggetto umano non esemplare
la terra perdonata
espone i corpi come su un altare al magnifico niente
perché c’è dentro così tanto di vivo
che basta al cielo
per essere cielo
io benedico
questo tuo corpo buono come pane
nel fuoco verde dell’erba e benedetta l’aria che respiri, beato il pane
dentro la tua bocca,
benedetto lo smalto dei tuoi denti
e beata la crema, che chiara all’angolo della tua bocca
chiede luce alla luce. quando ti appoggi
alla corteccia nuova del tiglio
come un sintomo della dolcezza terrena
la pasta calda e morbida della tua bocca
prende luce diretta
dagli apparati radicali
poi quel corpo di cardo e catena
che dice all’altro fermati
data l’immersione del corpo incandescente Alfa nel liquido freddo dello sguardo di Omega e data la scrupolosa osservazione alla quale esso è stato sottoposto durante i ripetuti tentativi di affondamento, si evidenziano i primi risultati provvisori:
1. proiezione di schizzi in forma di corona irregolare, accompagnati da
2. sfrigolii e seguiti da
3. una produzione decrescente di fumo sottile di colore azzurrino.
si sottolinea che, per tutta la durata dell’esperimento, il corpo Alfa non ha collaborato: dimenandosi in maniera irragionevole, esso ha prodotto un costante fenomeno di autocombustione, che ha impedito l’ottenimento del risultato sperato, ovvero il silenzio e l’immobilità finale del corpo stesso.
si conclude che: il corpo umano Alfa è ostinato e tende a recuperare il suo stato di primitivo calore.
tende inoltre a esprimersi in modo incomprensibile nei confronti di Omega:
ricordo sempre
il contatto
fra il tuo viso e la terra e il tuo viso
diventare l’autunno, la primavera e il sole
sopra i campi del grano
indotti dunque, nostro malgrado, a una prima ispezione empatica dell’osservatore Alfa si rileva che:
per tutta la durata dell’incontro un impulso elettrico primordiale
stacca il cuore dal petto di Alfa come una foglia
e lo inoltra nel petto di Omega, nel suo corpo obbediente
come una residenza imperiale, che Alfa osserva ininterrottamente
mentre registra i continui lapsus del corpo di Omega, Alfa sorride internamente e dice: “tra poco avremo la fioritura dei mandorli, sarà bello”. poi abbassa gli occhi, non aggiunge:
io ricordo la mandorla del seno e la figura
che sporgeva una mano dal fondo
del tempo e della natura. io ricordo l’invito e la fusione
di minerali primari
e ricordo che tutto rideva
dal tuo sorriso-arco
baleno
e brillavi all’interno come una cosa che non ha paura e sta vicina
* conclusioni
a conclusione della presente disamina si nota che, da qualche tempo, l’osservatore Alfa non rivolge più all’osservato Omega espressioni quali: “ti prego”. si immagina che Alfa non preghi più.
pare altresì opportuno segnalare che, dal medesimo intervallo di tempo, l’osservatore Alfa si alza dal letto e cammina, nel sonno, in direzione della casa di Omega, obbedendo a un segnale di natura apparentemente magnetica. si può dunque ritenere l’omissione oratoria di Alfa quale semplice effetto di un’autoregolamentazione, operata al fine di non turbare l’osservato Omega con estrinsecazioni inopportune.
compiuti pochi passi, l’osservatore Alfa, tuttora addormentato, comincia a produrre un’abbondante misura di lacrime davanti alla porta per raggiungere Omega. si suppone che ciò avvenga perché la porta per raggiungere Omega è stata chiusa dall’osservatore stesso, in stato di veglia.
risvegliandosi nel cuore della notte invernale nelle condizioni descritte, l’osservatore Alfa si siede e aspetta. se richiesto di cosa stia aspettando, risponde: che infine sia l’alba
27.1.14
(Foto: Philip Perham)
di
Azra Nuhefendić
Articolo pubblicato sull‘Osservatorio Balcani e Caucaso
Un metro di neve e 20 gradi sotto lo zero! Nessuno ci fece caso in Bosnia. La gente puliva le strade e scava trincee nella neve per collegare la casa o il portone alla via principale.
Talvolta cadeva già a inizio ottobre. Andavamo a cena al ristorante e, all’uscita, ci aspettava la prima neve. Tap-tap. Con scarpe leggere ed eleganti ai piedi, cercavamo di attraversare il tappeto bianco senza scivolare o cadere. La neve resisteva fino ad aprile, qualche volta oltre. Capitava che sulle montagne intorno a Sarajevo nevicasse anche in piena estate. I giornali locali ne davano notizia, ma nessuno si stupiva.
Succedeva che in primavera uno andasse per i boschi sul monte Bjelascnica, a sud-ovest di Sarajevo. Erano giornate di sole, ma in 10 minuti rischiava di trovarsi nel mezzo di una tempesta bianca. Anche quelli che conoscevano la montagna, talvolta correvano il pericolo di perdersi o rimanere intrappolati sotto la neve, come successe negli anni Sessanta a 11 giovani e bravi sciatori che persero la vita in una tempesta improvvisa sul Bjelasnica.
Nevicava sempre moltissimo, ma, a inizio febbraio 1984, l’assenza inspiegabile dei fiocchi ci tormentò per giorni. Circa quattro milioni di bosniaci ed erzegovesi scrutavano il cielo aspettandola, si svegliavano di notte per controllare se fosse caduta e la prima domanda al risveglio era: “Nevica?“. Accusammo i meteorologi di aver sbagliato i calcoli. Quelli religiosi pregarono che nevicasse, ma invano. Nei 100 anni che precedettero la quattordicesima Olimpiade nevicò sempre a Sarajevo e dintorni.
Un giorno prima dell’ inizio dei Giochi, era il 7 febbraio 1984, sembrava di essere in primavera. Non era caduto un solo fiocco. Mi venne di piangere.
Tutto era pronto un anno prima che cominciassero i Giochi: venne costruito un villaggio olimpico, vennero aperti nuovi alberghi e ristrutturati i vecchi. Venne salvata e ricostruita l’antica parte ottomana della città, la Bascarsija, che era in rovina e rischiava di scomparire per fare posto a una <più bella>, dicevano. Le strade principali di Sarajevo vennero ristrutturate e allargate, le facciate dei palazzi vennero ridipinte, le rotaie dei tram elettrici vennero cambiate e la stazione centrale dei treni venne restaurata. Sui monti intorno a Sarajevo – lo Jahorina, il Bjelasnica, l’Igman, e il Trebevic – vennero costruite le strutture necessarie.
Alcune migliaia di giovani di tutta la nazione si esercitavano ogni giorno per imparare la coreografia dei cerimoniali di apertura e chiusura delle Olimpiadi. A proposito, il principale quotidiano giapponese, “Yomiuri Shimbun”, domandava con un titolo in prima pagina: “Dove hanno trovato quelle ragazze bellissime e quei ragazzi così alti?”. Il sottotitolo ribatteva: “A Sarajevo sono tutti cosi”. Per evitare il rischio che qualcuno mancasse a causa dell’influenza, tutti si immunizzarono con vaccini forti, “quelli per i cavalli”, mi dice oggi scherzando Vanja. Lei e Svjetlana, due bosniache – triestine adottive – vi parteciparono. Trent’anni dopo, ancora belle e alte, rievocano con nostalgia quelle Olimpiadi.
Nella fase preparativa dei Giochi, piuttosto che la neve, ci preoccupava la nebbia. Anche quella è onnipresente a Sarajevo. Per far funzionare l’aeroporto locale, i nostri ingegneri prepararono delle sostanze chimiche, che, all’occorrenza, potevano – proprio come dice una canzona bosniaca antica (“duni vjetre, malo sa Neretve, pa rastjeraj maglu po Mostaru”) – far sparire la nebbia. Tutto era pronto e perfetto: migliaia di sportivi, innumerevoli giornalisti e decine di migliaia di ospiti erano già in città. Mancava solo lei. La neve.
Volevo essere parte di quell’evento, sarei stata contenta di fare un lavoretto: pulire la neve, indicare i servizi. Insomma, qualsiasi cosa. Mandai una richiesta per essere assunta come volontaria, ma nulla. Ci lavoravano già 30mila persone, di cui la metà era composta da volontari. Nella costruzioni delle strutture olimpiche sui monti, partecipavano giovani volontari, organizzati nelle “brigate lavorative”, le radne brigade. Nei giorni delle Olimpiadi, 400 camerieri provenienti da tutta la Jugoslavia erano al servizio degli ospiti.
La sera prima dell’inizio dei Giochi non volevo stare a casa: nella mia città si stava scrivendo la storia. Sarajevo splendeva, le strade erano affollate, i negozi, i ristoranti e i bar restarono aperti l’intera notte, stracolmi di gente. Migliaia di persone giravano su e giù, parlavano a gran voce, quelli che non riuscivano a comunicare in lingue straniere facevano amicizia a gesti. Si scattavano foto e si rideva così, senza un motivo. Ci pareva di essere al centro del mondo.
Poi cominciò a nevicare. Mi trovavo in via Vase Miskina (oggi Ferhadija) là dove inizia la parte antica della città, la Bascarsija. Alcuni saltavano di gioia, altri si tenevano per mano e ballavano, qualcuno urlava. Io ridevo, girando su me stessa. Volevo sentire i fiocchi gelidi sul viso.
Credo che quella volta molti comunisti, che da noi dovevano essere per forza atei, ringraziarono l’Altissimo.
Fu una notte dipinta di bianco. La neve cadeva bellissima, secca, quella che non si scioglie subito. I fiocchi erano grandi ed eleganti come farfalle. All’inizio, scese piano e poi sempre di più e più in fretta. Pareva che qualcuno, lassù, avesse aperto un sacco e che non riuscisse più a controllare la velocità con cui esso si svuotava.
Prima eravamo preoccupati, perché la neve non c’era. Poi, la situazione si invertì: in poche ore si raggruppò più di un metro di cotone gelido. Il problema fu livellare le piste sciistiche. Il presidente della Federazione internazionale per lo sci, Marc Hodler, preoccupato, domandò al presiedente del Comitato olimpico bosniaco, Branko Mikulic, come pensava di risolvere il problema. <Ci vogliono mille persone per spianare le piste, dove le troverete a quest’ora?>, chiese Holder. Secondo i testimoni Branko Mikulic rispose: “Secondo lei, potrebbero bastarne cinquemila?”.
I cittadini vennero chiamati ad aiutare e risposero in migliaia, lavorando l’intera notte. Soldati dell’Jna compresi. La mattina dopo, le piste erano perfette e la città pulitissima. “Fummo così entusiasti da acchiappare i fiocchi ancora prima che toccassero terra”, ricorda Meho S., tassista di Sarajevo.
Erano momenti magici, sembrava di vivere una fiaba. Infatti, la quattordicesima edizione dei Giochi olimpici invernali di Sarajevo poté, per molti aspetti, considerarsi un miracolo.
Nessuno ci credeva. Una volta, i Giochi venivano organizzati dai ricchi Paesi occidentali. La manifestazione che si tenne da noi fu di gran prestigio e costosa, una sorta di vetrina dove l’organizzatore fece vedere al mondo il meglio di sé. Proprio come accade ancora. Sarajevo, per vincere, dovette prima convincere prima gli scettici di casa. La candidatura doveva essere approvata dal Partito comunista, dal Governo della Bosnia-Erzegovina e, infine, da quello federale (SIV).
Le altre Repubbliche della Jugoslavia consideravano la Bosnia un “tamni vilajet” (un mondo tenebroso, retrogrado) una sorta di cugino povero che meritava simpatia e aiuto, ma non altro. Di conseguenza, la prima reazione delle altre Repubbliche fu di incredulità, ma Sarajevo ce la fece. La capitale della Bosnia dovette competere con la giapponese Sapporo e la congiunta candidatura di due città svedesi: Falun e Göteborg.
Dopo aver fatto un’ultima visita a Sarajevo, Marc Hodler, riferì queste parole al Comitato olimpico: <La Bosnia-Erzegovina si sta sviluppando a vista d’occhio, la gente ci vive libera e felice>.
Prima della votazione, la giornalista inglese Pet Bedford scrisse: “Se sceglierete Saporo, i giapponesi vi organizzeranno un aereo per visitare Tokio; se opterete per Falun e Göteborg, gli svedesi vi faranno di vedere i fiordi e gli iceberg. Se, invece, la vostra scelta cadrà sulla Jugoslavia e Sarajevo, ci troverete gente amichevole, con grande cuore e montagne”.
I Giochi olimpici invernali a Sarajevo si tennero dal 8 al 19 febbraio 1984. Fu la prima Olimpiade invernale ad andare in scena in un Paese comunista. Arrivarono partecipanti da 49 Paesi, 1272 atleti (274 donne, 998 uomini) che gareggiarono in 39 discipline, seguiti da 7393 giornalisti e visti da due miliardi di telespettatori. Gli organizzatori vendettero 250mila biglietti, guadagnando 47 milioni dollari e, grazie ai Giochi, vennero assegnati 9500 nuovi posti di lavoro.
Per la prima volta, alle Olimpiadi invernali i disabili gareggiarono nello slalom gigante e, per la prima volta nella storia delle Olimpiadi, la coppia inglese di ballerini su ghiaccio, Jayne Torvill e Christopher Dean, ricevette il punteggio più alto fra quelli disponibili.
I Giochi invernali di Sarajevo lanciarono una delle icone sportive più grandi degli ultimi due decenni del ventesimo secolo, la pattinatrice della Germania dell’Est – che all’epoca era un Paese indipendente – Katarina Witt, la quale conquistò una medaglia d’oro.
Fu un trionfo anche per la stessa Jugoslavia che vinse una medaglia nelle Olimpiadi invernali. Era la prima. Lo sciatore sloveno Jure Franko, si aggiudicò un argento nello slalom gigante, portando l’intera nazione in “trans”. Durante la premiazione, di fronte al centro sportivo-culturale “Skenderija”, decine di migliaia urlarono: “Volimo Jureka, vise non bureka”, amiamo più Jure che il burek, ovvero il piatto preferito nazionale.
“Erano tempi diversi, con valori diversi – racconta oggi Jure Franko. In caso di vincita – narra l’ex campione – promisero di regalarci un videoregistratore. Fra me e me pensavo di dover fare di tutto per portarlo a casa“.
Juan Antonio Samaranch arrivò alle Olimpiadi di Sarajevo per la prima volta in veste di presidente del Comitato internazionale olimpico (IOC). Nel suo discorso in occasione della chiusura dei Giochi, Samaranch disse: “Il movimento olimpico è stato arricchito. Per la prima volta i Giochi olimpici sono stati organizzati da un popolo”. Fra la città e il presidente si strinse un’amicizia che durò 20 anni, fino alla morte dello stesso Samarnch.
Nel corso della guerra – nei primi mesi del 1992 – molti edifici olimpici vennero rasi al suolo, bersagliati di proposito, come tutto ciò che documentava la storia e la vita comune dei bosniaci ed erzegovesi. Il centro sportivo “Zetra”, con la magnifica sala di ghiaccio che fece da palcoscenico ai pattinatori e alla cerimonia di chiusura delle Olimpiadi, fu bombardata e incendiata. Rimasero integre solo le fondamenta. Il centro “Skenderia”, il Museo olimpico e gli alberghi sulle montagne vennero demoliti.
Già nell’aprile 1992, sul monte Jahorina, serbi armati di kalashnikov si fecero pagare con minacce il biglietto per lo ski lift. Il monte Trebevic – così vicino che la consideravamo essere un monte nel cortile di casa – una volta era più caro ai sarajevesi. Dopo il conflitto, molti non ci tornarono più. Là venne costruita pista di bob, minata durante l’assedio. Oggi è abbandonata, ci vagano coraggiosi che raccolgono pallottole vuote da vendere agli artigiani, i quali ne fanno souvenir da vendere a loro volta ai turisti.
I villaggi olimpici Mojmilo e Dobrinja, vennero progettati per diventare nuovi quartieri della città. Sono due zone belle, grandi, contigue all’aeroporto, dove, dopo i Giochi, vennero distribuiti 2750 appartamenti a coloro che non ne avevano.
All’inizio della guerra che lacerò la Bosnia, il quartiere di Dobrinja venne bombardato e i serbi cercarono di occuparlo, ma invano. Dobrinja rimase assediata per tutto il conflitto e tagliata dal resto della città, subendo un assedio nell’assedio. Gli abitanti, gente mista di tutte le etnie e religioni, lottarono sempre e la loro è una storia di coraggio e resistenza esemplare. Oggi per Dobrinja passa la linea invisibile della Sarajevo divisa.
Nel 1994, a Lillehammer, in Norvegia, si tenne la diciassettesima edizione dei Giochi invernali. Samaranch abbandonò Lillehammer per raggiungere Sarajevo ed esprimerle la propria solidarietà, mostrando un coraggio e un grinta che mancarono a moltissimi politici dell’epoca.
“Con aria di sfida – narra il direttore del Museo Olimpico di Sarajevo, Edo Numankadic – come se non vi fosse alcun pericolo dalle colline, Samaranch stette fermo sulle rovine del centro sportivo “Zetra”, dove, 10 anni prima, dichiarò chiuse le Olimpiadi invernali. Fu un segnale che non ci avrebbero dimenticati, né abbandonati. Gli fummo molto grati – chiosa Numankadic – e la gente venne a salutarlo e a toccarlo con mano”.
In quella occasione, Samaranch promise che avrebbe fatto di tutto per riportare in vita il centro olimpico. Nel 1999, la sua promessa venne mantenuta e il centro “Zetra” venne ricostruito e riaperto.
In questi giorni, a Sarajevo stanno preparando i celebrativi per il trentennale dell’Olimpiade invernale del 1984. I festeggiamenti si organizzano anche nel mondo, dove, dopo la guerra, si sparse circa un milione di bosniaci. A Melbourne, in Australia, gli organizzatori invitano i connazionali a rivivere i giochi invernali, per stare insieme e accendere, per un attimo, la fiamma dentro di essi.
A Sarajevo, 20 anni dopo, i simboli dell’Olimpiade sono ancora vivi. La mascotte Vucko, Lupetto, oggi è il souvenir più venduto ai turisti e la sua immagine, ormai scolorita, si vede ancora sulle facciate di alcuni edifici. I segnali stradali indicano “la montagna olimpica”, la gente ne parla volentieri e con il sospiro, rievocando i tempi in cui eravamo felici e uniti.
Adesso, però, sul monte Jahorina sciano i serbi, mentre sul Bjelasnica i bosniaci.
“Nel corso della guerra, appostati sulle colline, i serbi decidevano della nostra vita e della nostra morte: non riesco più a guardarne una senza pensare al conflitto”, commenta la signora Suada K., esprimendo un sentimento diffusissimo.
traduzioni isometre di Raffaele Di Stasio
Me llamo barro aunque Miguel me llame
Me llamo barro aunque Miguel me llame.
Barro es mi profesión y mi destino
que mancha con su lengua cuanto lame.
Navigando con Calvino, Google e la NSA
di Domenico Talia
«La nostra organizzazione garantisce che questa quantità di informazione non si disperda, indipendentemente dal fatto che essa venga ricevuta o no da altri. Sarà scrupolo del direttore far sì che non resti fuori niente, perché quel che resta fuori e come se non ci fosse mai stato. E nello stesso tempo sarà suo scrupolo fare come se non ci fosse mai stato tutto ciò che finirebbe per impasticciare o mettere in ombra altre cose più essenziali, cioè tutto quello che anziché aumentare l’informazione creerebbe disordine e frastuono. L’importante è il modello generale costituito dall’insieme delle informazioni, dal quale potranno essere ricavate altre informazioni che noi non diamo e che magari non abbiamo.» Al contrario di quello che si potrebbe pensare, questo brano non è tratto da un discorso del generale Alexander, direttore della National Security Agency americana, ma da un breve racconto che Italo Calvino ha scritto nella metà degli anni ’60 e al quale lo scrittore delle cosmicomiche ha dato un titolo che sicuramente piacerebbe al capo della NSA: La memoria del mondo.