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Roma e Treja hanno in comune il mistero del nome. Intervista a Jean-Paul Manganaro

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Intervista di Elena Frontaloni

a Jean-Paul Manganaro

 


È uscito il 4 ottobre per Verdier Rome, rien d’autre, raccolta di elzeviri su Roma di Dolores Prato, a cura di Jean-Paul Manganaro e Laurent Lombard. Si tratta di scritture che, nel caso di Dolores Prato, non sono tanto d’occasione ma trovano in qualche evento d’attualità propizio l’occasione per sgorgare da appunti o progetti già abbozzati e che, tra l’altro, testimoniano un atteggiamento narrativo verso le fonti tipico dell’autrice: le raccoglie e fa finta di sperderle mentre in realtà le valorizza dentro racconti dal carattere «antico», in cui trovano veloce e meravigliato spazio saperi raffinatissimi, conflitti interpretativi insieme ad abbandoni voluti alla leggenda, alle personificazioni, alle paretimologie, così da manifestarsi come tratti di prosa fermati sulla carta per generare e rigenerare stupore su fatti all’apparenza bigi, o anche attenzione polemica su pensieri ricevuti e distruzioni inavvertite.

Se la morte di Dolores Prato ha impresso sulle sue carte una sorta di specializzazione dei due luoghi dentro sedi di scrittura dissimili – a Roma gli elzeviri e i progetti di pamphlet, a Treia le narrazioni, i lavori, i libri autobiografici (si legge nel racconto Una giornata di Dolores Prato, del 21 settembre 1978: «l’infanzia la passai a Treja e ora ci sto facendo un lavoro») –, vale la pena anche di ricordare che Giù la piazza non c’è nessuno filologicamente nasce dall’esplosione di un brogliaccio dal titolo E lui che c’entra? (1949) dove a un certo punto si parlava anche di Roma e, come urgenza di scrittura, dalla contestazione della lingua e dell’esperienza del collegio racchiusa negli appunti siglati Ed (stesi a partire dagli anni Quaranta), ma matura alcuni suoi tratti fondamentali – per esempio le epifanie treiesi nel tessuto romano – anche dentro il pensiero e la scrittura su Roma (recita un appunto degli anni Sessanta: «Nelle “Vie d’Italia” del 1957, a pag. 905, si parla di un fiume Treia che sarebbe vicinissimo a Roma, tra la Cassia e la Flaminia. // Leggere, fare accostamenti, forse si spiega «piazza dell’olmo di Treia» e soprattutto, vederlo. // Ne so oggi, per la prima volta, 3-6-60»). Un nome così familiare, era a due passi da me e non lo sapevo.).

Uscito nel 2022 a cura di Valentina Polci in Italia col titolo Roma, non altro (Quodlibet), Rome rien d’autre gode da ora non solo della traduzione in francese, ma anche della lettura di Jean-Paul Manganaro, che in questa intervista analizza le ragioni della traduzione, le contiguità e differenze tra gli elzeviri romani di Prato e Giù la piazza non c’è nessuno, fino a anticipare alcuni spunti critici su Educandato, prossimo libro di Dolores Prato in corso di pubblicazione per le sue cure, sempre presso Verdier. [ef]

Perché, dopo Giù la piazza non c’è nessuno, Verdier ha scelto di tradurre questo libro?

La fortuna di critica e di pubblico ottenuta da Giù la piazza imponeva di offrire una continuità alla traduzione e alla pubblicazione della suite editoriale, immediata ed evidente con Roma, non altro. Tanto più che in Giù la piazza l’autrice aveva già messo l’acquolina in bocca con alcune allusioni e soprattutto dando risalto alle posizioni assunte e ai rimproveri rivolti a chi aveva gestito le ultime decisioni sui destini della città. Il punto di vista essenziale scelto per giustificare impressioni e opinioni personali era così molto preciso: la cancellazione dell’universalismo di Roma – universalismo che la città ha ereditato dal suo passato «romano» e perseguito poi nell’universalità della religione cattolica – a causa della decisione di farne la capitale d’Italia: non più città universale, ma solo città «capitale d’Italia». Tanto preciso, inoltre, da alimentare le colpe attribuite senza mezzi termini dall’autrice ai Savoia re d’Italia, critiche che si riassumono nel loro «prendere indegnamente il posto» di papi e pontefici. Critiche a volte molto violente, vicine all’insulto. Questo aspetto era già delineato chiaramente in Giù la piazza: ecco in poche parole gli elementi di fondo che hanno giustificato la scelta editoriale.

Lei ha definito gli elzeviri di Prato un lungo «nastro narrativo» creato dall’autrice su Roma. La stessa definizione adottata per Giù la piazza non c’è nessuno e, in generale, per la scrittura dell’autrice. Sono più le differenze o le contiguità tra gli elzeviri di Prato, la visione che l’autrice dà di Roma e quella che dà di Treia, come emerge da Giù la piazza?

Non è lo stesso «spirito» che agisce nell’una e nell’altra situazione, nella rappresentazione che dell’una e dell’altra viene ad essere costruita. Mi sembra però che in tutti e due i casi ci sia la necessità di reperire un genius loci che si condensa in modalità diverse. In ambedue i casi c’è un’incidenza col nome, come se per nominare le cose bisognasse prima battezzarle: Roma è un nome falso, dice Dolores Prato, e non sapremo mai qual è il suo vero nome, confuso come è stato in diversi occultamenti spesso scaramantici. Vibra nelle frasi di Roma, non altro come un’ansietà mistica – una mistica non religiosa ma sicuramente misteriosofica, quasi una suggestione che farebbe sorgere l’ombra fervida di un Numa Pompilio e di una Ninfa Egeria. Parallelamente, Dolores Prato individua un problema con lo iòd di Treja che nessuno pronuncia più e vi lega qualcosa di profondamente sentimentale e rammaricato: ogni volta, l’incertezza di un qualcosa di strano che accorda dignità all’oggetto in analisi. Sempre sembra aleggiare un vago problema nel dire l’affetto che ci lega al nome del luogo in cui siamo nati o in cui viviamo, nel reperire l’incertezza di ogni origine, potente perché segnala una modalità dell’essere e dello spirito. C’è poi l’imponenza monumentale di Roma – c’è anche quando le vicende si svolgono in luoghi sotterranei – che traspare in quasi tutti i momenti evocati dall’autrice. Mentre per quel che riguarda Treja c’è un invasamento più sottile, più intimo, quasi una poetica dell’affetto e della dolcezza. C’è nelle evocazioni di Treja la meraviglia delle scoperte offerte dalla vita: la descrizione della grande piazza, la folgorazione del sole o di altri elementi naturali, la meraviglia delle rivelazioni infinite, c’è la costanza di una poetica dello stupore.

Negli elzeviri, scrive, emerge l’amore di Dolores Prato per il popolo, come in Giù la piazza, e la sua inimicizia per vulgate e retoriche in accordo con i tempi in cui l’autrice ha vissuto. Scrive anche che il suo sguardo pone problemi e temi per così dire ancora attuali. Quali sono? 

La scrittura di Roma è sostanzialmente diversa da quella di Giù la piazza. Non che non si ritrovino gli stilemi specifici dell’autrice, il suo tono, la sua tonalità sono assolutamente inconfondibili – è come ritrovare Puccini o Verdi o Bellini in appena poche note, Leonardo o Michelangelo o Artemisia nel minimo dettaglio –, ma incalzante è la volontà di costruzione mentale – che qui sfiora non la ricostruzione di un mondo passato, ma piuttosto di un mondo che non ha mai cessato di essere presente negli animi dei viventi. E non si troveranno pagine di andamento «turistico», come una guida, no, qui vale il consustanziarsi del sentimento glorioso e amoroso, non tanto il racconto della «cosa», ma le diverse esistenze delle cose che conferiscono loro un’eterna attualità. Valga per tutto, il «racconto» della discesa nell’oltretomba gioioso delle catacombe ne Il mondo sottoterra, uno dei racconti più intensi eppure più leggeri. La scena comincia e si svolge in silenzio, le parole non valgono in quanto tali ma, come è detto, per lasciare «affiorare il ricordo a commuovere». E poi, come un commento: «Eppure è un’idea sbagliata che qui possa esserci un quartiere dove la Roma del passato sia assente». Si scende, sì, nel passato, ma questo passato è un presente di quello stesso passato, trasecolato dalle ombre e dalle luci fioche che accarezzano i muri, angelicato dalle voci che intonano canti con accenti singolari come a evocare una religione forse dimenticata in cui paganesimo e cristianesimo confondono i loro moti. È un racconto importante anche perché, proprio qui, sono significate le differenze che costituiscono i vari personaggi esibiti o trascritti: signori della villa di sopra, poi, giù, popolo, tante persone degne e umili e fiere che scendono in fondo a quest’animo segreto. E il popolo diventa mondo, bianchi, cinesi, neri cantano liturgie con voci esalanti de profundis, un mescolarsi di elementi, di sensibilità, di emozioni. Verrebbe qui da evocare l’altro splendido racconto, Incontro con Marchesi, con una semplice citazione: «Il giorno che Marchesi se ne andò a me pareva che buttasse a tutti una speranza e un invito all’unione e che la folla lo raccogliesse». In altre pagine, poi, le accuse rivolte ai poteri che non curano questo immenso sito risonante, Roma, un groviglio di vari motivi che tracciano la volontà intima di non voler abbruttire la città.

Il prossimo libro che Verdier pubblicherà è Educandato. Le chiedo in anteprima la sua impressione critica e di traduttore su questo testo.

Direi che Educandato per la materia stessa che lo compone, è assai più vicino a Giù la piazza di quanto lo sia Roma, non altro… La geografia nella quale la trascrizione prende vita è la stessa, Treja, essendo stata essa oramai svelata con Giù la piazza, il mondo si restringe – o si dilata diversamente – in Educandato. Educandato potrebbe essere la descrizione dello spazio del corpo e dell’animo confrontato a quell’altro spazio – esterno e interno – che è il collegio, la cui natura, o almeno i regolamenti che lo gestiscono, possono corrispondere a quelli dettati da una prigione qualsiasi. E questa sensazione di corpo imprigionato vien fuori fin dalla prima scena in cui la zia la lascia o l’abbandona davanti o dietro il portone. Che Dolores Prato abbia avuto un problema fondamentale con le porte non è un mistero: fin dalla prima pagina di Giù la piazza si percepisce la violenza di questo meccanismo apparentemente banale dell’entrare e dell’uscire – ma che nutrono il timore costante di essere abbandonata. Questo viene ribadito con termini differentemente cruciali dalla protagonista: parole di una bimbetta nel caso di Giù la piazza, termini di una ragazzetta in Educandato, una ragazzetta che viene preparata – senza che però si prepari veramente – ad affrontare la vita, perché lì dentro non è vita. A tal proposito, lavorando sul testo, sono rimasto stupito dal numero infinito di volte in cui il collegio è indicato con un banale, semplice e distante «lì dentro». C’è poi la presenza della Madrina che ridice, raddoppiandola, la figura sovente lontana della zia, che trascrive un certo astio e il desiderio che questa condizione o questo sentimento fanno nascere; la Madrina si erge così come figura da imitare iscrivendosi però nella distanza, inarrivabile ma inavvicinabile, una distanza critica. Si può evidentemente pensare a un panoptikon foucaultiano, l’occhio della Madrina che determina ogni movimento e ogni giudizio, con il desiderio e l’aspirazione a venirne fuori – come poi accadrà con la messa in atto di una clamorosa fuga. Ecco il quadro generale. Ma c’è poi dell’altro. C’è una elaborazione attentissima del sapere che non ha in queste pagine nulla di gratuito: trascrivere queste liste, tutte queste liste – di oggetti, gesti, architetture, persone –, dove niente succede, trascrivere questa necessità assoluta del vivere anche senza storia, è un modus vivendi che appartiene al positivismo, a un tardo positivismo, epoca della pura razionalità convinta che le soluzioni siano tutte possibili a condizione di non aver tralasciato di nominare tutto nella lista, di enumerare ogni dettaglio dove le parole si ammassano e si assommano e diventano vita: per ritrovare ancora una volta il passato come presente pulsante e vivido, forse ancora non del tutto trascorso né del tutto trascritto, con la scrittura che dice appunto questo: l’infinità della vita, l’infinità del pensiero scrivente.

Gaza: Warfare

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Immagine di Carlos Bohorquez da Pixabay

di Flavio Torba

Quiete. Gli entra nelle narici una mistura di svapo e odore di rete metallica e gas di scarico: la città che si amalgama al vizio elettronico e alla visuale di gioco.

Ostile livella con lo sguardo la strada davanti a sé. È sgombra e totalmente visibile. Dal suo punto di osservazione non rileva particolari difficoltà nella geometria. Il terreno di scontro non offrirebbe né vantaggi né svantaggi per nessuna delle due fazioni. Solo buche nell’asfalto, che potrebbero mettere in difficoltà eventuali mezzi d’assalto leggeri.

Un’altra tirata.

La scuola è lugubre, un residuato degli anni Sessanta: un edificio civile riconvertito, rivestito di intonaco grigio scrostato. In alcuni punti si intravedono vertigini di mattoni forati sottostanti, ma è sostanzialmente integro.

Ostile ne scompone la geometria alla luce di varie ipotesi di attacco. 1) artiglieria pesante 2) bombardamento aereo 3) sisma naturale. Il crollo di almeno una facciata è inevitabile. Ostile lo disegna nella mente, riconfigurando la vista di ambienti interni, crateri e corpi, come la frammentazione di un progetto tridimensionale carbonizzato.

Una campanella antiaerea comunica che è ora di entrare a scuola. Ostile tira l’ultima boccata di caramello e mela prima di incamminarsi.

 

Kerem Shalom. La visione della striscia desertica è mediata dal mirino del kalashnikov. Ondeggia al ritmo della corsa del personaggio scelto, un adolescente magro con indosso una tuta in acetato.

Il puntatore inquadra il bulldozer (Caterpillar D-9).

Analisi armamento:

  • 1 AK-47 Kalashnikov 7.62 mm (600 colpi/min)

Arrivato ai piedi del mezzo, la canna del fucile scompare e le mani di Ostile – mani sporche, piene di tagli e croste – lo issano nella cabina di guida. Sbuffo di fatica digitale.

La modalità è impostata su facile, con frecce lampeggianti in sovraimpressione per suggerire i movimenti delle leve. Il bulldozer inizia a muoversi, avvolto nella nuvola nera del tubo di scarico che a tratti nasconde la visibilità della recinzione.

Il rombo sommerge gli Allahu akbar degli altri partecipanti alla missione.

Ostile sorride. È arrivato al bulldozer prima di altri giocatori più blasonati. Aver conquistato il mezzo vale almeno un balzo in classifica. Intorno al Caterpillar si affollano i nick sopra le teste degli altri giocatori. NotSoGalant. NetanBau. Pastore. Qassam87.

“Ti spacco la faccia se non la finisci”.

Un puntatore rosso indica la posizione del kibbutz all’orizzonte. Ostile indirizza la pala del bulldozer in direzione della lavagna interattiva. Il personaggio sobbalza sul sedile mentre tossisce per i gas di scarico, gas di cui Ostile vorrebbe invece riempirsi i polmoni per mandare via l’amaro del Ritalin gusto uva.

 

Territorio neutro. Ostile attraversa la strada e varca l’ingresso. Nel tardo pomeriggio la scuola è un emblema di desolazione caleidoscopica. Corridoi al neon e piastrelle economiche sconnesse. Porte di alluminio leggero sfondate da calci neanche troppo forti.

La missione è come sempre collezionare crediti, arrivare al diploma integri per poi realizzarsi in un lavoro di livello appena accettabile. Che sfami. Che dia un tetto. Che faccia guadagnare abbastanza da permettere upgrade appaganti.

Odore di ammoniaca e iprite dai bagni del pianterreno. È la trincea del corso serale.

C’è solo un bidello attempato, avvolto in lente e precise volute di una sciarpa piena di pallini di lana, intento a guardare sul giornale le facce terrorizzate al fronte.

Ostile lo saluta con un cenno. “Come andiamo?”

“Si combatte”.

Il contrasto tra i radi capelli bianchi e il volto scuro sa di deserto e roccia anche se fuori forse sta iniziando a piovere. Le prime gocce rigano le finestre. Le buche nella strada si riempiranno, rendendo più difficoltose le manovre di ritirata, se necessarie.

La classe d’espiazione è questa, a poche porte di distanza dalla presidenza, ma non è una garanzia di sicurezza. Anche nei territori neutri ci sono azioni di disturbo. Sabotaggi. Sobillatori. Propaganda violenta.

Ostile entra. Non c’è nessun altro. Sceglie un banco in prima fila, di fronte alla cattedra.

 

Spazio di manovra. Si era ripromesso di non voltarsi al rumore di passi ma è come un riflesso condizionato e allora il suo sguardo si incrocia con quello di Pastore prima e dell’Albanese dopo. Il biondo è una figura di contorno, un mero contorno alla potenza di fuoco di Pastore. Le mani grandi sono di Pastore, le nocche dure anche. Il supporto di Albanese è solo una risatina stridula di acufene.

Prendono posto due file più indietro.

Ostile aspetta che qualcun altro si aggiunga alla lezione, ma rimangono soli. Il corso ha subito molte perdite nell’ultimo periodo.

Forse non ci troviamo più in zona neutra ma all’interfaccia, pensa Ostile. Questo adesso è territorio di Pastore.

Si scambiano dichiarazioni di guerra con gli occhi. Il viso di Pastore è un campo minato dall’acne. La vita all’aria aperta non deve fargli un granché bene. Si tormenta un bubbone, mentre sibila un flusso ininterrotto su chi ucciderà chi.

Ostile ritorna alla sua posizione composta, tira fuori quaderno e penna dallo zaino. Dover dare le spalle al nemico è uno degli inconvenienti della posizione, ma è sempre meglio che trovarsi in fondo, nel suo spazio di manovra.

Pastore dovrebbe alzarsi e percorrere qualche metro per poter interagire fisicamente. Nel momento in cui Ostile dovesse sentire la sedia di Pastore spostarsi, sarebbe già pronto a scattare.

L’Albanese continua a ridere, mentre Ostile gratta con l’unghia il bordo di truciolato del banco. Non sente la minuscola scheggia che vi si infila sotto. Non sente la goccia di sangue che si forma sul polpastrello.

Il precipitare della situazione, l’avvicinarsi dell’orologio alla mezzanotte, è interrotto dall’ingresso della professoressa. Un elemento terzo di mediazione che opera solo di facciata per nascondere la sua totale e lontana inutilità.

Ma, per il momento, basta a fermare le manovre di Pastore.

 

Storia. La rete metallica, il filo spinato in quiete, diventano sempre più grandi finché il gas di scarico non riempie la visuale di gioco.

Tutte le recensioni online concordano su come la storia sia una riserva infinita di materiale videoludico. Nel caso particolare, la storia passa come un pezzo di manzo nel tritacarne di Dethesta per uscirne macinata in tante missioni geometriche caratterizzate da un obiettivo chiaro.

Sulla copertina del cofanetto deluxe di Gaza: Warfare c’è scritto:

GameZone (★★★★☆) – “Dethesta È la Storia”.

La recinzione cade, segnando un aumento vertiginoso dei punti di Ostile e sbloccando la nuova fase della missione, molto più impegnativa e interessante.

Da dietro una macchia di palme spunta in controluce un Merkava MK-4.

Il cannone spara i primi colpi e le vibrazioni fanno impazzire il controller tra le mani sudate di Ostile. Accanto al bulldozer si configurano crateri e corpi smembrati. Frammentazione di giocatori meno fortunati. Il torso carbonizzato di Pastore giace riverso tra le maglie della recinzione distrutta.

Il puntatore identifica il carro armato dell’IDF come nuovo obiettivo.

 

Attacco imminente. Il pennarello scorre sullo schermo fino a formare polinomi e griglie di scomposizione insensate, illeggibili, simili a slogan di Hezbollah sui muri perforati dall’artiglieria.

Ostile tamburella sul banco. Se ne accorge e smette. Tira l’elastico che ha al polso e lo rilascia per punirsi.

I segni ieratici del metodo di Ruffini si mescolano a bollettini di guerra, statistiche di gioco. Si fondono in analisi dettagliate degli eventi di partita.

Pollice e indice riprendono il ritmo. Pollice per la cassa, indice per il rullante.

“Finiscila, ritardato” grugnisce Pastore. Copre la minaccia con un colpo di tosse, ma la professoressa neanche si volta.

Ostile si guarda le dita. Tira l’elastico per la punizione. “Ho un problema clinico” sussurra.

Quando il ritmo riprende, si rende conto di riproporre ossessivamente la musica di inizio di Gaza: Warfare. Una sequenza drum’n bass misto a un canto lamentoso di muezzin.

“Ti spacco la faccia se non la finisci”.

“È un disturbo del neurosviluppo. Comporta disattenzione, tic nervosi, impulsività…”

“Deficiente”.

Sulla lavagna interattiva non c’è la mappa concettuale sulla scomposizione di polinomi di grado n-esimo ma la schermata di login di Gaza: Warfare.

Probabilità di attacco imminente al 78%.

Una bottiglia di plastica colpisce la schiena di Ostile. Nessun danno, solo sorpresa. Sotto la sedia, inizia ad allargarsi una pozza d’acqua.

Albanese ride nell’incavo del braccio.

 

Inferno. Un McDonnell Douglas F-15 Eagle vola sul centro di Gaza City, inquadrata e ingrandita sul monitor di Ostile in un pomeriggio di condomini color sabbia e antenne televisive.

Analisi armamento:

  • 1 M61 Vulcan da 20 mm (6000 colpi/Min)
  • 4 AIM-7 Sparrow
  • 4 AIM-9 Sidewinder
  • 4 AIM-120 AMRAAM

OPERATORE: “Ostile, muoviti al di sopra della strada principale verso la città. Conferma visuale della torre”.

Ostile porta il cursore sul pulsante di conferma. Guida il controller con movimenti lenti e precisi per stabilizzare il volo. Si abbassa fino a sfiorare i tetti. Facce di lana terrorizzate alle finestre.

NAVIGATORE: “Conferma. Vediamo l’obiettivo”.

OPERATORE: “Siete troppo bassi. Questo non è un gioco”.

NAVIGATORE: “Roger”.

Il cursore si posiziona in corrispondenza della base della Gaza Tower. Ostile si mantiene a un’altezza che corrisponde al livello dell’ultimo piano. Il gioco ripropone sempre lo stesso volto in una delle finestre appena sotto il cornicione. La faccia dell’Albanese urlante, piazzato nella striscia di Gaza come espiazione dei peccati e faccia a faccia con un F-15, in un inferno di Modafinil dal violento gusto zolfo.

 

Contatto. Il bidello desertico spunta da dietro lo stipite della porta. La professoressa è desiderata in segreteria. Il ruolo di osservatore terzo rimane vacante mentre la donna esce a passi veloci dall’aula.

La sedia di Pastore si sposta di nuovo. Iniziano le manovre. Repentine, non osservabili dalla posizione attuale. La ritirata è l’unica opzione. Il logout.

Ma il pugno ferma il gioco. Le mani grandi, le nocche dure. Tramortiscono come una granata, seguite da momenti di acufene che riempiono i rifugi, i tunnel, sventrano le barricate del timpano.

“Cos’è successo?” sente dire. Forse è di nuovo la professoressa, ma è difficile dirlo con questo fischio.

“È scivolato sull’acqua e ha battuto contro il banco”.

La realtà sfarfalla: Gaza, il Pastore e l’Albanese, sono reali solo fino all’interfaccia. Il software – no, una periferica minata – della vita di Ostile. Il ristretto lembo di pelle tra il suo zigomo e le nocche di Pastore.

Spengo quando voglio, pensa prima di svenire.

 

Cani affamati. I magazine di settore affermano che rispetto al flusso ininterrotto di notizie di qualche anno fa da parte dei mass media tradizionali e di internet, il grande passo in avanti di Dethesta è stato dare la possibilità di poter cambiare gli eventi con una giusta combinazione di riflessi ed equipaggiamento premium. Un’ucronia fornita di almeno cinque espansioni.

UltraPlayer (★★★★★) – “Potere al giocatore!”

Un pop up in alto a destra. Diretta di Al Jazeera: il Pastore commenta l’avvicinarsi di un caccia della IAF alla Gaza Tower. Le immagini scorrono al rallentatore mentre non sente la goccia di sangue che si forma sul mondo.

OPERATORE: “Siete autorizzati a colpire”.

Immagine esterna del caccia come un giudice celeste sopra la Striscia. Lascia andare i missili. Cani affamati tenuti troppo a lungo alla catena.

Un lampo e tanto fumo nero. Riprende la scalata alla classifica.

 

Slogan. “Perché non mi dici chi è stato?”

La voce della professoressa viene da lontano, anche se le sue labbra si muovono a poche decine di centimetri da lui. L’unica risposta possibile è la disconnessione.

Si trovano in corridoio, all’incrocio fra i fasci di rette generati dai neon e dall’illuminazione stradale rifratta da vetri e gocce di pioggia.

La professoressa lo spintona, lo abbraccia, lo minaccia col dito. Ha l’aria affranta della madre che va incontro al figlio crocifisso a un muro della kasbah. Ha bisogno di tingersi i capelli. Inizia a vedersi la ricrescita.

“Hai il diritto di…” inizia, ma la disconnessione di Ostile è sia fisica che emozionale.

Da dentro la busta di plastica racimolata in bidelleria, il ghiaccio chimico gli rende le dita insensibili.

La frase si perde e rimane come uno slogan cancellato e poi riscritto, solo per essere sommerso da altre informazioni.

 

Respawn. Lo stomaco rumoreggia nonostante i due biscotti ingoiati in fretta durante la visita in cucina. Era necessario trovare qualcos’altro nel congelatore da applicare alla guancia e ridurre il gonfiore. Un blocco di carne macinata avvolto nel cellophane e poi in uno straccio è stata una soluzione più che rapida.

Ostile ingolla un po’ di Red bull, giusto per coprire l’atomoxetina, mentre il PC si avvia. Nella stanza, suoni di bevande gassate dentro lattine di alluminio, ventole di raffreddamento e respiri affannati.

Luce viola da un neon posizionato dietro il monitor. A Ostile piace. Gli dà un’aria sinistra quando si inquadra nelle dirette su Twitch.

Il logo della Dethesta pulsa sullo sfondo nero, sincronizzandosi al sangue pestato dello zigomo. Ostile si vede riflesso come in uno specchio. Dall’altra parte dello schermo, l’Ostile di domani pomeriggio sta già caricando un altro pomeriggio di manovre elusive al corso serale.

Spengo quando voglio.

***

Post…
Se la guerra diventa un gioco

A causa della sua ambientazione incandescente (seppure virtuale) e per rispetto verso la tragedia e la sofferenza delle persone che muoiono o sopravvivono in Medio Oriente, ho riflettuto molto prima di pubblicare questo racconto. Alla fine ho deciso di pubblicarlo non solo perché mi piace com’è scritto, ma soprattutto perché dice – mi sembra – qualcosa di vero.

A più di un anno dall’acuirsi dell’annientamento reciproco, per quanto sempre più asimmetrico e ìmpari, in Medio Oriente, l’apparente assenza di un orizzonte di speranza e di pace per israeliani e palestinesi riduce molti di noi alla desolazione e al silenzio. Le parole hanno senso, e possono essere spese, se abitano un progetto di vita e di futuro, se il presente si può riparare. Ma il presente e il futuro sembrano oggi irreparabili.

Se non c’è speranza, però, può esplodere, in chi non è direttamente coinvolto in quella guerra perpetua, l’indifferenza, e poi la fruizione voyeuristica, e un apatico intrattenersi. Al di fuori del Medio Oriente, solo una minoranza dell’umanità è davvero interessata al destino di quelle persone e di quei popoli. La stragrande maggioranza dell’umanità se ne frega, oppure guarda e si intrattiene.

Protagonista di questo racconto è proprio l’indifferenza ludica. Siamo in pieno clima wargame adolescenziale. La Storia (anche quella contemporanea, anche la Storia presente) diventa una storia da giocare, una guerra da giocare (anche se questo gioco porta a rovinarsi il corpo e il cervello) prendendo una qualsiasi delle parti, prima l’una poi l’altra, non importa, perché il player è amorale e il suo clima è nichilistico.

È un esito osceno – soprattutto se consideriamo la sofferenza attuale, le vite umane massacrate da Hamas il 7 ottobre 2023 e in seguito le decine di migliaia di morti palestinesi sotto le bombe israeliane a Gaza (e poi in Cisgiordania e in Libano). La guerra contro tutti  di Benjamin Netanyahu, una strage interminabile –. Ma l’umanità è anche questo: sbieca, oscena, infantile, indifferente. E rischia di esserlo ancora di più quando lo stato delle cose le appare privo di soluzione. Un racconto che ce lo mostra sta facendo il proprio lavoro. (d.o.)

Tommaso Ariemma: “per capire il mondo devi abbassare lo sguardo”

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È da poco stato pubblicato, per Luiss University Press, I piedi del mondo Come le scarpe Nike hanno rivoluzionato l’immaginario globale del filosofo Tommaso Ariemma.

Ne ospito qui un estratto.

 

I.

Per capire il mondo devi abbassare lo sguardo

Nell’estate del 2001 migliaia di giovani sono a Genova per protestare contro una globalizzazione calata dall’alto, contro il Wto, la Banca Mondiale, il Fondo monetario internazionale, contro un mondo che stava cambiando radicalmente, e che in verità aveva già cominciato a cambiare da quando questi giovani erano solo dei ragazzini.

La protesta non era che uno degli ultimi atti di un movimento chiamato “il popolo di Seattle”, che da qualche decennio faceva sentire la propria voce contro lo strapotere delle multinazionali. Nessuno disse a quei giovani che erano arrivati tardi, che se la stavano prendendo con gli effetti – discutibili certamente, perversi in molti casi – e che non avevano mai messo bene a fuoco le cause.

Il movimento, attaccando i nuovi accordi commerciali, le deregolamentazioni e lo sfruttamento su scala mondiale aveva, inoltre, un’idea assai rozza del consumo, incapace di scorgervi “una fonte di trasformazione sociale non inferiore alla lotta”.[1]

Le merci che vengono consumate sono solo armi delle multinazionali, sono i loro prodotti. E se fosse invece l’inverso? Se le multinazionali non fossero altro che un risultato di una vera e propria esplosione culturale e sociale intorno a oggetti che erano stati capaci di riunire in sé una forza estetica e un’energia epica e rituale senza precedenti?

Opere senza autore, straordinari precipitati storici, questi oggetti andrebbero presi in esame come agenti di una insolita chimica all’interno di ciò che è stata chiamata “cultura di massa”.

L’idea del consumo che avevano i manifestanti era associata alla pura e semplice distruzione: la stessa idea di consumo dell’economia politica classica.[2]

Nella loro visione, i grandi marchi si sarebbero messi a produrre non più solo cose, ma immagini persuasive per indurre a consumare compulsivamente i loro prodotti e portare così la distruzione consumistica ai massimi livelli.

Orientando in tal modo la produzione, tuttavia, i grandi marchi non avevano fatto altro che rincorrere la natura più profonda e “umana” del consumo: distruttrice, ma al tempo stesso creatrice, e soprattutto più ampia e complessa.

Il consumo umano si estende, infatti, a simboli e concetti. Consumiamo immagini e storie.

Nella sua ricostruzione del movimento di contestazione della nuova economia globale, Naomi Klein parla con una certa diffidenza dei marchi che avrebbero incorporato nei loro prodotti un “elemento concettuale”.

Klein è fortemente critica della trasformazione dei marchi in vere e proprie “spugne culturali”: “il prodotto passa sempre in secondo piano rispetto al vero prodotto, ossia il marchio, e la vendita del marchio acquista un’ulteriore componente che può essere descritta solo come ‘spirituale’. […] i prodotti che si svilupperanno in futuro saranno quelli presentati non come ‘merci’ ma come concetti”.[3]

Non sarebbe, invece, l’integrazione con una filosofia di vita, con un elemento concettuale, un arricchimento del prodotto e non solo una furba strategia di marketing? Non abbiamo forse bisogno di “cose elevate” anche per il consumo di massa? O si ritiene che concetti e filosofie debbano essere contenute solo nei libri?

Se negli anni d’oro della moda le cose avevano già, di fatto, cominciato a parlare, a partire dagli anni Ottanta esse hanno cominciato letteralmente a filosofeggiare.

Il consumo è sempre produttivo, ma al tempo stesso anche imprevedibile e indisciplinato. Karl Marx è stato certamente tra i primi a sottolineare la forza produttrice del consumo, ma ha visto in tale forza nient’altro che il momento finale della produzione, creato e disciplinato da quest’ultima. Secondo Marx, la produzione crea il consumatore[4]. Tuttavia, la realtà del consumo si è rivelata molto più difficile da disciplinare.

Chi ha progettato e prodotto scarpe da ginnastica voleva che fossero indossate soprattutto da atleti o comunque mentre si faceva sport. Il consumo che ne è stato fatto è stato del tutto imprevisto e nessuno dei produttori avrebbe mai potuto prevedere che, in pochi anni, a partire dal loro successo mondiale, dei ragazzini si sarebbero addirittura uccisi per un paio di scarpe o, per riferirci ai tempi più recenti, che ci sarebbe stato un mercato fatto di collezionisti (i cosiddetti sneakerhead), ossessionati da scarpe sportive in edizione limitata o non più in commercio e tuttavia mai usate.

Nate per l’atletica, le sneaker si sono affermate come fenomeno globale, attraversando “subculture”[5] e gli usi più diversi. La cultura hip-hop, ad esempio, ne promuove tra gli anni Settanta e Ottanta un uso molto lontano da quello sportivo: le scarpe dovevano essere indossate immacolate, come fresche di scatola. Indossate come puri oggetti di desiderio, simboli di successo individuale.

“In realtà”, ha sottolineato Michel De Certeau proprio negli anni Ottanta, “a una produzione razionalizzata, espansionista, centralizzata, spettacolare e chiassosa, fa fronte una produzione di tipo completamente diverso, definita ‘consumo’, contrassegnata dalle sue astuzie, dalla sua frammentazione legata alle occasioni, dai suoi bracconaggi, dalla sua clandestinità, dal suo instancabile mormorio, che la rende quasi invisibile perché non si segnala in alcun modo attraverso creazioni proprie, bensì mediante un’arte di utilizzare ciò che le viene imposto”.[6]

Il consumo può sfuggire al potere senza per questo sottrarvisi.

I manifestanti protestavano guardando idealmente verso l’alto, in direzione di quella che per loro era la posizione occupata dal potere e dai potenti, quando avrebbero dovuto abbassare lo sguardo e vedere meglio: avevano letteralmente il mondo ai piedi.

Le loro scarpe, le scarpe di moltissimi, avevano una lucentezza tale da renderli ciechi. Si dice, del resto, sia accaduto lo stesso a Omero. Quest’ultimo, infatti, volle vedere le armi scintillanti di Achille, conservate nella sua tomba: il loro bagliore lo accecò.

Erano armi troppo belle per essere viste da un semplice uomo. In particolare, l’elemento più splendente era lo scudo, su cui erano rappresentati i caratteri fondamentali del mondo. Omero ebbe, in cambio, il dono della sapienza.

Per molti anni noi non abbiamo avuto la stessa fortuna, brancolando nel buio dell’amore o dell’odio per le scarpe e per i loro marchi.

I grandi marchi avevano realizzato una cosa molto simile a quello scudo e non solamente per un individuo eccezionale: oggetti capaci di racchiudere i principi di un mondo intero.

Uno di questi marchi era diventato grande – il più grande –  proprio grazie a un oggetto, a una semplice scarpa capace di proteggere una parte del nostro corpo, come uno scudo.

Il suo nome, per di più, era associato a una divinità greca e prometteva a ognuno il superamento di ogni sconfitta, non solo nello sport, ma su ogni piano della vita.

Il suo nome era Vittoria, in greco: Nike.

 

 

[1] P. Virno, Negli anni del nostro scontento. Diario della controrivoluzione, DeriveApprodi, Roma 2022, p. 90. Oppure si cade nell’eccesso opposto, nel momento in cui si pensa che tutte le merci compongono un sistema, tale da costituire un’iperrealtà che arriverebbe a prendere il posto della realtà. Si tratta della tesi introdotta nel 1970 da Jean Baudrillard con il suo celebre La società dei consumi. La proposta di Baudrillard ha il merito di aver preso sul serio l’uso simbolico delle merci, ma al tempo stesso ha il limite di considerare sorpassato l’oggetto-merce rispetto al suo sistema. Si tratta, in fondo, di ciò che esplicitamente si contesterà nel corso della trattazione, analizzando un oggetto specifico: le scarpe Nike.

[2] Cfr. W. Schivelbush, La vita logorante delle cose. Saggio sul consumo, FrancoAngeli, Milano 2019.

[3] N. Klein, No logo. Economia globale e nuova contestazione, Baldini e Castoldi, Milano 2002, p. 42.

[4] K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica all’economia politica, trad. it. di E. Grillo, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 16-18.

[5] Sul concetto di subcultura si veda l’ormai classico volume di D. Hebdige, Sottocultura. Il significato dello stile, trad. it. di P. Tazzi, Meltemi, Milano 2017, come pure si vedano le ricerche del Centre for Contemporary Cultural Studies di Birmingham sotto la direzione di Stuart Hall, soprattutto le ricerche di quest’ultimo, orientate alla risignificazione dei consumi a partire dal basso, raccolte in S. Hall, Il soggetto e la differenza. Per una archeologia degli studi culturali e postcoloniali, a cura di M. Mellino, Meltemi, Milano 2016.

[6] M. De Certeau, L’invenzione del quotidiano, trad. it. di M. Baccianini, Edizioni Lavoro, Roma 2005, p. 66.

Il mio manoscritto di Saragozza

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di

Francesco Forlani

Da meno di un mese il romanzo manoscritto del Furlèn dedicato a Errico Malatesta, in parte nato proprio qui con il diario di Saragozza, è in giro. Una spedizione ambiziosa ma con cognizione di causa e di possibilità di scacco. Lo si può vedere tutto o quasi in questo video (con eccezione degli ultimi sei capitoli) con la sola preghiera di farmi sapere se questa è una bella notizia anche per voi. effeffe ps un modo per chiedervi di portarmi “fortuna”.

 

“Si”#2 Lettura a più voci

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[Sì (seguito da Altri segni, Tertium quid, Ultimo esempio) è un libro di Alessandro Broggi, uscito per Tic edizioni, nel giugno del 2024. Come Noi, uscito per lo stesso editore nel 2021, si presenta come un libro in prosa, abbastanza breve, difficilmente classificabile. Ho chiesto ad amici e amiche autrici, di scrivere qualcosa su questo oggetto letterario non ben identificato, senza per forza la pretesa di prenderne tutte le giuste distanze critiche. Di un libro del genere, mi sembra importante già darne conto attraverso una pluralità di “esperienze” di lettura. Abbiamo cominciato con le voci di Andrea Accardi e Leonardo Canella, e continuiamo oggi con Renata Morresi e la sua apertura di campo anche sul recentissimo titolo Idillio. a. i.]

Di Renata Morresi

Lunedì scorso partecipo a un seminario sulla narrazione illustrata. Sarà una cosa breve, un paio d’ore, e senza teoria. Sarà illuminante più della teoria, dovrò riconoscere. Sono scettica all’inizio. Siediti con la schiena dritta, mi fa la voce dellə graphic novelist che è lì a guidarci. È canadese, l’inglese arriva morbido, affabile. Parti dal centro del foglio, disegna una spirale che cresce lentamente. Più lenta, più aderente che puoi. Mentre sto disegnando, mi rilasso e vado col pensiero al pezzo che sto scrivendo su Alessandro Broggi. Quando si è dominati da un’idea, quell’idea sembra abitare tutto, tornare rilevante in ogni circostanza. E ogni minimo fatto offre una nuova sfumatura all’idea, la riscalda. In questo momento in cui disegno la spirale torno all’idea che , come il precedente Noi, come il recentissimo Idillio, – la trilogia costruttiva di Broggi – siano animati da un andamento circolare che in modi diversi li distingue e modella.

Non importa finire la spirale, quel che importa è disegnare una linea molto intima a se stessa, e procedere il più lenta che posso. Idillio è il libro di Broggi appena uscito nella mia collana per Arcipelago Itaca. Sono molto orgogliosa, naturalmente, ché da tanto vagheggiavo di pubblicare un testo di Alessandro, e appena avevo visto Idillio, mi ero entusiasmata. Dico ‘visto’ perché Idillio è in effetti sì un lavoro da leggere – e da leggere in modo accurato, al modo dei detective – ma pure un’opera installativa. Forse dovrei chiamarlo folioscopio, anche se in realtà non ha immagini. Forse è un testo processuale, ovvero si realizza in un processo di affioramento dal bianco, “in questa pagina in attesa di essere scritta”. Di certo esiste nel dispiegarsi, nel farsi della sua relazione speciale tra spazio e testo e chi la esplora. Il testo pre-esiste la sua messa in forma sulla carta? Il testo esisterà solo alla fine, nell’essersi offerto e di nuovo ritratto? Invita chi legge a tornare indietro, a rimetterne insieme la sintassi, o a seguire rapidi la sua figura “scalza”, “tra gli orti”, o a sostare su ogni ‘verso’ – non-verso, clausola, sintagma – come sospeso dal resto? “Chissà…”

Niente di questo che vado pensando è veramente esatto, come la mia spirale un po’ sbilenca, scusate. La mia guida dice che non importa, quello che importa è la linea. Non il risultato della linea ma l’esserne parte, della linea che dal centro della terra sale dal suolo attraversa il pavimento i miei piedi e le gambe e il braccio destro e la mano e la penna e l’inchiostro che tocca la carta e la traccia nella spirale che voglio. Insomma, non è tanto un esercizio sulla tecnica, ma una pratica che parte dal calibrare insieme corpo, desiderio e mente del mondo. Questa centratura immaginaria è molto importante in Broggi, che spesso dà le coordinate in cui potersi intuire in connessione, senza particolare interesse per le rispettive psicologie, nei propri limiti materiali e fisiologici, ma finalmente liberi dal fardello della personalità: “la superficie della Terra è uno spazio chiuso – non esistono due punti distanti tra loro più di ventiduemila chilometri – e non ha bordi, non c’è un luogo che rappresenti il confine del mondo: ovunque sei, sei al centro…” (58). Lì, dovunque sia, “qui, ora” (53), su di un piano che non è né astratto, né sensibile, né simbolico, “con piccoli orizzonti o immensi orizzonti, o niente orizzonti del tutto” (53), in un luogo discorsivo-spirituale che si presta al gioco dell’immaginazione senza doversi inventare una vicenda eroica, sul quadro di fenomeni in cui avveniamo all’incrocio di relazioni, non come prodotti del sè. In quanto tale è il luogo di una delicatissima affermazione politica. E “col piglio della parità con il mondo”, come il suo metodo di campionamento e prelievo da varie fonti, molte delle quali in traduzione, che compone una scrittura polifonica, accentata dalle molte lingue dei suoi testi di partenza, ospitale allo spaesamento e all’estraneo.

Dopotutto il libro da cui ho appena citato si chiama . Che non va preso come ritrattazione della tonalità non-assertiva, semmai come sua ironica ripresa, per assumere la critica del linguaggio propria delle opere precedenti e condurla oltre. I libri della trilogia distruttiva di Broggi, Coffee-table book, Avventure minime e Protocolli, mostravano, con diafano distacco, le vischiose pretese di verità dei linguaggi funzionali, dal poetichese al comunicativo, sempre attraversati da automatismi economizzanti e da forze lugubri nella loro coazione a ripetersi/ripeterci. Quella lezione non viene accantonata nelle opere successive ma impiegata a loro fondamento. Riconoscere le trappole retoriche, le ideologie che ci parlano, i limiti del linguaggio tutto non significa dover cedere al disincanto, ma promettersi una nuova curiosità, un nuovo ascolto. Può capitare, così, di re-innamorarsi, persino di ciò che è già famigliare. I discorsi di sempre, le parole già dette, le solite domande, la letteratura. “Sai quello che stai dicendo, Maurizio? Puoi esprimerti in maniera da riuscire a comunicare ciò che intendi affermare? Hai detto qualcosa a lungo dimenticato, hai alterato le tue pulsazioni, la pressione sanguigna, trattieni il fiato o respiri normalmente? E lei che cos’ha risposto? Ti sei accorto che sorridi?” (66)

Lasciamo la spirale e prendiamo un nuovo foglio. Su questo foglio bianco faremo due linee diagonali che si intersecano, una grande X che marca lo spazio su cui scriveremo i nostri appunti, qualche schizzo, e quante risposte possiamo a una serie di domande sempre più specifiche, a costruire non solo una storiella in otto vignette, ma quanti più echi, ombre, odori, assenze e non-detti di questo piccolo mondo inesistente. Perché ci facciamo una X, chiede qualcuno. Per riconoscere che questo è uno spazio di lavoro, non stiamo facendo niente di sublime. Maurizio non è nessuno. O Maurizio è (come) Milena, Humbert, Louretta, Rhoda, Mavra, Eleonora, Norberto, Tania, “tutti i nomi vanno bene” (22), quasi onde come quelli di Virginia Woolf, con un Maurizio che già appariva in Noi, un personaggio più prossimo a una domanda che a un carattere. “Chi c’è con te ora, Maurizio? Cosa provi a essere qui?” È Benveniste a insegnare che “tu” è un commutatore proprio come “io”: in sé pronomi vuoti, senza un referente dato, ma ogni volta disposti ad accoglierne uno diverso, e a scambiarselo. Proprio grazie al non essere inscritti di una referenza univoca rendono possibile la soggettività e l’intersoggettività, due fenomeni complementari. Il pronome ‘noi’, invece? Non mera somma di vuoti, è forse il pronome più potente, e, diceva Barbara Johnson, il più pericoloso: può costruire nuovi soggetti, affermare sintesi, imporre universali, produrre nemici, proiettare futuri. Noi di Broggi lo assume facendosi carico della sua fisiologica ambivalenza e ne esplora la goffa inaffidabilità: “Parliamo, ci sorprendiamo, parliamo ancora, immaginiamo. Sembra sempre che ci stiamo dirigendo verso qualcosa ma ogni volta prima di raggiungerlo cambiamo direzione […] La natura delle nostre osservazioni ci sfugge.” (14)

Quindi le cose sono più complicate di quanto la grammatica sembri concedere: ‘noi’ impantanati in repertori e sistemi ricevuti, immersi in appartenenze che perlopiù non abbiamo scelto con piena volizione (generi sessuali, classi sociali, tradizioni religiose, territori fragili, accenti, e via dicendo), ‘noi’ più deboli e attraversati da poteri che ci precedono, a prescindere da come ci identifichiamo, ‘noi’ saturi di biografia che non importa. Le condizioni ci travalicano, spesso indistricabili dalle nostre azioni, e il tutto è assai più esposto alle pressioni, alle influenze, alle trasformazioni, anche aleatorie. Ma una volta che sappiamo di non avere accesso ad alcuna ‘libertà’ e di non essere tantomeno ‘insieme’, ‘noi’, in modi riconosciuti e riconoscibili, cosa cambia questo rispetto al desiderio di una buona vita? O almeno di una buona scrittura? Non fingeremo mica di non stare nell’incerto e nel provvisorio, nel fragile e nel caos, spero. Ammetteremo che essi sono costitutivi, no? “Raccontiamocelo ancora: stiamo stendendo il verbale dei nostri passi” (13).

Questa cosa che già fa Noi, tracciare una mappa impossibile, far girare i nostri intorno, ché tanto “abbiamo perso la direzione, potremmo essere ovunque” (19), torna in , sotto altra forma. Che il libro si apra con la sezione “Scioglimento”, al capitolo 41, e metta il capitolo 1 a pagina 51, per farlo iniziare con “Allora ricominciamo”, genera una curva che rende disponibile l’andare indietro e avanti con ritorno “ovunque” che continua quel moto circolare, o forse lemniscato, ricorrente in Broggi. Ha un che di ipnotico questa figura, una volta immaginata non riesco più a non vederla.

Sono passata a disegnare le parti grafiche alternate coi testi verbali. È una pratica sobria, niente nuvolette: sopra il disegno e sotto le parole, o viceversa. Le parole dovrebbero dire quello che l’immagine non dice già. Sta lì il trucco. C’è l’interno della cornice, le forme che vado disegnando, a cui tendo e che mi superano, come le parole con cui quelle conversano; non sono davvero divise, le une suggeriscono alle altre cose che già non sanno. E c’è il sistema della cornice, il piano da cui avviene la consapevolezza (o il tentativo di), l’azione, il veder compiere il disegno. Non c’è niente di strettamente reale in tutto questo, se non il suo farsi. “Ti avvicini come fossero pozzi profondi: dove presumi di vedere attraverso l’ombra e la luce delle finestre ci sono specchi… Non c’è realtà al di là delle tue definizioni: ogni cosa del mondo fisico è uno specchio e devi sorridere per primo perché l’immagine sorrida di conseguenza. Ora sei fuori…” (53) Broggi mostra il continuo fluire tra molti piani sopravvalutati – i fatti, i ruoli, le psicologie, le esperienze, la logistica dei saperi, la stessa logica del ‘fuori e dentro’ – e lo supera. A tutti questi sistemi fantasiosi si può anche non dover credere poi così tanto, “ora rivolgiamoci a qualcos’altro” (52). Non è il cinismo del tutto è uguale, a cosa vale, ma la possibilità dell’immersione in uno spazio concorde, né razionale, né anarchico. Penso alle tele monocrome di Spalletti, dove anima e colore si corrispondono.

“Sei contento di non sapere dove ti trovi?” (25), si chiede il mio fumetto.

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*le citazioni da Idillio sono senza riferimenti perché il libro non ha numeri di pagina. e Noi sono entrambi usciti per Tic. Tutte le notizie sulle altre opere di Alessandro Broggi sono qui: https://biobibliografia.wordpress.com/

L’Africa per noi. Su “L’Africa non è un paese” di Dipo Faloyin

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di Daniele Ruini

In apertura del libro di cui stiamo per parlare troviamo, come citazione in esergo, questa indicazione: «Inserire qui un generico proverbio africano. Idealmente, un’allegoria su una scimmia saggia che interagisce con un albero, o un dialogo tra l’asino e la formica che, a sorpresa, parla di gesta valorose. Fonte: Antico proverbio africano». Nella pagina successiva c’è invece una citazione vera, tratta dalla scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie: «Se tutto quello che so dell’Africa si basasse sulle immagini popolari, anch’io penserei che l’Africa sia un posto di paesaggi bellissimi e persone incomprensibili, che combattono guerre insensate, muoiono di povertà e Aids, e sono incapaci di prendere parola». Già da queste scelte si può cogliere quelli che sono gli ingredienti principali di L’Africa non è un paese (Altrecose, 2024) del giornalista britannico di origini nigeriane Dipo Faloyin: l’uso di un tono spesso sarcastico e il desiderio di smontare gli stereotipi con cui noi europei continuiamo a guardare al continente africano.

Gran parte dell’efficacia del libro (tradotto da Tommaso Bernardi) risiede proprio nell’irriverenza del suo autore: prendendo le mosse dal celebre articolo del kenyiota Binyavanga Wainaina «Come scrivere dell’Africa» (appena ripubblicato in italiano da 66thand2nd in un volume dallo stesso titolo), Dipo Faloyin ha gioco facile nel pungolare l’abissale ignoranza che, quando si parla di Africa, grava sui suoi lettori europei e statunitensi. Se già il titolo punta il dito contro la nostra tendenza a non dare quasi peso alle profonde differenze esistenti tra i 54 Paesi che formano il “continente nero” (per non parlare delle molteplici specificità etniche e linguistiche interne alle varie nazioni africane), lungo tutto il saggio l’autore s’impegna a distruggere quella patina di commiserazione e di esotismo che continua ad accompagnare il nostro sguardo sull’Africa: un continente considerato spesso solo un ricettacolo «di povertà, conflitto, corruzione, guerre civili e grandi distese di arida terra rossa dove cresce soltanto miseria» (p. 29) e che è invece fatto di molta normalità.

«Contesto» è forse la parola-chiave che tiene insieme i vari capitoli del libro: è infatti solo approfondendo i contesti che possiamo capire davvero vicende e situazioni che caratterizzano questo continente ricchissimo. E, prima di tutto, non si può prescindere dal colonialismo europeo, ovvero dal modo in cui, tra la Conferenza di Berlino del 1884-1885 e la Prima guerra mondiale, «gli imperi europei si sono spartiti le terre più fertili e ricche, hanno smembrato il dieci per cento di tutti i gruppi etnici –costringendo culture molto diverse a formare stati unitari contro la loro volontà– e hanno rubato il novanta per cento del patrimonio culturale concreto del continente» (p. 30). Nonostante la raggiunta indipendenza, il destino dei paesi africani continua ancora oggi ad essere condizionato dalla negazione del loro diritto ad autodeterminarsi imposto con la violenza dai paesi europei: è a causa di questo peccato originale che in Africa si concentra tuttora il maggior numero di dispute territoriali per questioni di confini, così come è sempre da lì che discende il pregiudizio discriminante secondo cui gli africani non sarebbero in grado di autogestirsi e di affrontare i propri problemi, e continuerebbero perciò ad avere bisogno di un qualche tipo di supporto da parte dell’Occidente. Ecco allora che Faloyin smonta con incisività il complesso del white savior pronto ad andare in soccorso del popolo africano: rifiutando l’idea che i fini giustifichino sempre i mezzi, l’autore nigeriano critica apertamente le grandi campagne pro-Africa, colpevoli di utilizzare immagini ricattatorie di persone sofferenti (senza chiedere loro alcun consenso), e di favorire donazioni impulsive che dispensano i benefattori dallo sforzo di comprendere le situazioni di crisi per le quali stanno donando i loro soldi. La conseguenza è che «l’epoca d’oro delle campagne ha normalizzato la percezione dell’Africa come oppressa e cronicamente bisognosa» (p. 138), ovvero come «un luogo ampiamente considerato degno di elargizioni e poco più» (p. 144).

Anche l’idea che la dittatura sia la forma di governo più diffusa tra le nazioni africane viene smentita da Faloyn: non solo ad essere sottoposto a un regime autoritario è meno del 10% del continente, ma se non se tiene conto del filo rosso che collega gli interessi degli ex colonizzatori ai responsabili di questi regimi si farà fatica a liberarsi dall’idea che quelli africani siano popoli ingovernabili “per natura” e pertanto destinati a finire inevitabilmente soggiogati da dittatori egocentrici. D’altra parte le fragilissime motivazioni che politici e direttori dei musei nordamericani ed europei continuano ad accampare per respingere gli inviti alla restituzione del patrimonio culturale africano trafugato dalle razzie coloniali è un’ulteriore prova del senso di superiorità morale dell’Occidente, un «suprematismo bianco», come lo definisce Faloyn, evidente anche nel modo stereotipato in cui la cultura popolare –come, per esempio, il cinema hollywoodiano– continua a rappresentare i neri.

Detto che L’Africa non è un paese contiene anche capitoli più “leggeri” (come le divertite descrizioni di Lagos o della suscettibilità dei paesi dell’Africa occidentale intorno alla “vera” ricetta del riso jollof), e che il suo autore ci fa conoscere nelle pagini finali tanti esempi positivi (come i movimenti che negli ultimi anni hanno lottato coraggiosamente per pretendere maggiori diritti), ci si può chiedere, in conclusione, che effetto possa avere questo saggio in particolare sul pubblico italiano. Il fatto che, parlando dei danni del colonialismo europeo, Dipo Faloyin non si soffermi sul caso italiano rischia forse di confermare il luogo comune per cui, diversamente da quello praticato dalle altre potenze europee, quello italiano sarebbe stato un colonialismo “buono” verso la popolazione nativa. Si tratta di una narrazione agiografica che, omettendo del tutto il razzismo così come i soprusi, i massacri e le deportazioni perpetrate, si è iniziato a ribaltare solo da pochi decenni; la conseguenza è che, nonostante le iniziative dal basso (si veda il progetto di mappatura e denuncia dell’odonomastica coloniale Viva Zerai! di Wu Ming 2) e l’importante lavoro degli storici (si veda la recente sintesi di Valeria Deplano e Alessandro Pes Storia del colonialismo italiano, Carocci, 2024), ancora oggi ci si continua ad interessare poco dei danni del colonialismo italiano in Africa, per quanto le sue conseguenze siano state altrettanto perniciose di quelle imputabili ai francesi o ai britannici. Basti pensare, per esempio, a come il problema per cui, al momento dell’indipendenza, le nazioni africane dovettero ereditare confini e nomi imposti dai colonizzatori valga anche per la prima colonia italiana, l’Eritrea, o per la Libia (stato artificiale dietro cui il governo Giolitti riunì forzatamente tre regioni ben distinte dell’ex Impero ottomano).

Per queste ragioni, e anche perché la società italiana –complice il fascismo– ha vissuto una migrazione postcoloniale assai più ridotta rispetto ad altre nazioni europee, ritardando in questo modo il confronto con il multiculturalismo, le questioni affrontate da Faloyin risultano ancora più significative per i lettori italiani. In questo senso leggere L’Africa non è un paese può contribuire a farci venir voglia di approfondire la nostra storia di colonizzatori: forse, allora, andando a farci una nuotata alle Piscine Dogali (succede a Modena), o passando vicino a Massaua (frazione del comune pavese di Torre d’Isola), saremo finalmente spinti a guardare all’Africa, passata e presente, da una diversa prospettiva.

 

Non ho tempo per andare al mare – Mari Accardi (Nutrimenti Edizioni 2024)

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Estratto dal libro di Mari Accardi per Nutrimenti Edizioni. 

Incontravo i turisti nella terrazza dell’hotel, indicata a ogni piano con una freccia puntata verso l’alto. Per loro erano state disposte sedie di plastica e tavole imbandite con vino bianco e rosso e pasticcini ricoperti di cioccolato che col caldo si squagliava. La Spugna assaggiava il vino bianco, faceva una smorfia, lo gettava dentro la pianta di monstera, riempiva il bicchiere di vino rosso fino all’orlo e poggiava la caraffa al lato della sedia. Era una scena che si ripeteva di volta in volta. D’altronde, sul logo della Compagnia era rappresentato un vecchietto che tracannava una bottiglia di lambrusco in una vasca a forma di Colosseo. Non c’erano ambiguità sul tipo di clientela che volevamo attirare.

Tutti indossavano un gilet multitasche blu che assomigliava a un giubbotto antiproiettile. Lo regalava la Compagnia insieme a un quaderno col logo, un’agenda col logo, una penna col logo, una borraccia col logo e un cappello a falde larghe pieghevole, che i turisti distribuivano nelle varie tasche. Sotto portavano pantaloni che tirando le cerniere diventavano pantaloncini, scarpe da trekking per gli uomini e ballerine da trekking con la suola di gomma per le donne: una sorta di divisa. La Compagnia li incoraggiava a viaggiare con il solo bagaglio a mano, chi lo imbarcava, come per ammonizione, lo smarriva in aeroporto. Al ritorno, tuttavia, molti compravano una seconda valigia. Viaggiavano soprattutto in coppia, i pochi solitari erano in maggioranza donne. Venivano da ogni parte d’America, ma anche dal Sudamerica e dal Canada, e perfino dall’Australia e dalla Corea. In aeroporto non c’era nessuno ad attenderli. Farli arrivare in albergo con i mezzi pubblici era uno degli obiettivi educativi della Compagnia, che si chiamava: Il Mondo degli Audaci.

Fino a quel momento, l’attività più rischiosa in cui ci eravamo spinti era stata salire sul 101 in un orario di punta. Dedicavo un’intera lezione alla corretta timbratura del biglietto: spiegavo in quale verso inserirlo, dove inserirlo, con quanta forza spingerlo, cosa fare se era spiegazzato, cosa fare se, nella calca, non si riusciva a raggiungere la macchinetta. I turisti avrebbero già dovuto sperimentarlo nel tragitto dall’aeroporto all’albergo ma sospettavo che in realtà barassero e prendessero il taxi.

Alle 14.30, come se avessero impostato la sveglia, drizzavano la schiena e smettevano di parlare. Erano schierati in tre file, seduti sul bordo della sedia, in posizione di allerta. Con le loro divise e i giubbotti antiproiettile pareva stessero andando in missione. Erano l’‘esercito degli Audaci’ e io il loro comandante.

“Buonasera e benvenuti in Sicilia, l’isola più grande del Mediterraneo, in cui hanno vissuto e convissuto fenici, greci, romani, bizantini, arabi, normanni, angioini, aragonesi, austriaci, borboni… Farei prima a elencarvi da chi non siamo stati dominati…”.

(Risate).

“Come vedete, noi siciliani accogliamo tutti. Anche gli animali randagi sono regolari cittadini”.

(Sorrisi perplessi).

“Sono fiera di iniziare questo tour nella città in cui sono nata e cresciuta: Palermo”.

(Applausi).

“Il mio nome è Matilde e sarò la vostra guida per i prossimi nove giorni”.

Il Simpatico cominciava a fischiettare. Dopo alcuni secondi, la Spugna capiva il riferimento e gli dava manforte. Dall’ultima fila partiva il coro: “Matilda, Matilda, Matilda, she takes me money and run Venezuela…”.

Adesso la canticchiavano tutti.

Everybody!”.

Matilda, Matilda, Matilda, she takes me money and run Venezuela”.

Aspettavo paziente che arrivassero all’ultima strofa.

“Mi raccomando però: ricordatevi che il mio nome finisce con la e, non con la a. M-a-t-i-l-d-e”.

Of course, Matildeeeeeee”.

“Adesso guardate il panorama dalla terrazza. Vedete quei due palazzi stretti e lunghi, quasi a ridosso della montagna? Li chiamano Lunghi a matula, perché gli appartamenti sono piccoli e mal distribuiti. Alle loro spalle, nell’interstizio, si intravede la casa in cui sono cresciuta. Stavo seguendo la regola numero 4 del vademecum della brava guida: “Fai entrare i turisti nella tua vita”.

Tutti esclamavano “Ooooooh”.

“Lo vedete il giardino con la palma?”. Qualcuno rispondeva di sì, mentendo. Da quella distanza si distinguevano a stento i contorni e io descrivevo le immagini della mia memoria, quelle che negli anni non erano mai cambiate. “La vedete l’Audi marrone con il gatto giallino che si stiracchia sul cofano? Dentro c’è mio padre con un sigaro spento in bocca che ascolta Peppino di Capri o Ray Charles, a seconda dell’umore. È il posto in cui si rifugia quando si sente offeso”.

L’Ottuso chiedeva: “E perché non si va a fare un giro?”.

“Perché l’Audi non parte”.

(Risate).

“Un tempo mio padre faceva il rappresentante di commercio e la macchina per un rappresentante è il suo biglietto da visita. Ora che è in pensione non vuole sbarazzarsene”.

“Non gli piace la vita da pensionato?”, chiedeva il Devoto, prossimo alla pensione.

“Forse si annoia”.

“E cosa fa durante la giornata?”.

“Litiga con la gente. Sul frigo ha appeso una mappa dove ha barrato i negozi in cui, secondo lui, hanno cercato di truffarlo. Per qualsiasi commissione fa dei giri lunghissimi e ci impiega ore”.

(Risate).

“Mia madre per rabbonirlo è andata a portargli il caffè. Qualunque cosa succeda, che lei sia arrabbiata, affaccendata o indisposta, a quest’ora va sempre a portargli il caffè. Margherita, la vicina, ha sentito l’odore e si è presentata davanti al cancello. Sapete, Margherita ha lasciato il marito il giorno del cinquantesimo anniversario di matrimonio e mio padre crede che voglia convincere mia madre a fare lo stesso”.

“Ed è vero?”, chiedeva l’Impicciona.

“Non proprio. Cerca di convincere tutte le donne a stare da sole. Ha adottato un chihuahua che ha chiamato Aceto perché l’ex marito era allergico all’aceto”.

“Beviamoci su”, diceva la Spugna, e proponeva il primo brindisi di una lunga serie. “All’amore eterno!”.

“All’amore e basta”, diceva la Cinica.

“Al vino!”.

Quando siamo usciti per perlustrare il quartiere e visitare il santuario di Santa Rosalia non ci siamo persi neppure una volta. Nessuno aveva notato i miei errori di pronuncia e gli strafalcioni di storia. Dicevano che ero la guida migliore che avessero mai avuto. E dato che: “La prima impressione è l’unica che conta”, (regola numero 3) mi avrebbero riempito di ‘superbo’, il massimo dei voti.

Ecco come sarebbe dovuto andare, secondo il copione, il nostro primo incontro. Ma non andava mai così.

Di solito alle 14.30 facevo un respiro profondo, aprivo il petto e mi dirigevo a testa alta verso il palco: un angolo incastrato tra la pianta di monstera e il tavolo imbandito. Avevo il sole in faccia e socchiudevo gli occhi per mettere il pubblico a fuoco. Il vademecum diceva: “Gli Audaci sono membri temporanei della vostra famiglia”. Era la regola numero 1. Osservavo viso per viso, cercavo somiglianze con mia madre, mio padre, mia nonna, come quando da piccola andavo a caccia dei nostri sosia tra le tombe del cimitero. Avrebbe dovuto attutire il disagio di trovarmi tra estranei ma non funzionava. Quando stavo per parlare la Sorella schiva mi chiedeva dov’era il bagno, la Spugna si lamentava che le caraffe di vino erano vuote, il Pedante voleva sapere il nome delle chiese che si vedevano dalla terrazza. Oppure il Simpatico arrivava di corsa e molto lentamente si riempiva il bicchiere di vino davanti a me, coprendomi alla vista degli altri, mentre l’Ottuso mi pregava di ripetere le frasi. Per non parlare di tutte le parole italiane di cui dovevo fare lo spelling. Gli Audaci erano convinti che in una settimana avrebbero imparato l’italiano. Si appuntavano le parole sul quaderno, che poi dimenticavano in albergo. Era l’oggetto che più dimenticavano insieme ai calzini. Scrutavo le espressioni facciali, interpretavo ogni increspatura della fronte come un principio di astio nei miei confronti. Guardavo le bocche sporche e non capivo perché in estate, con tutti i dolci tipici che l’albergo avrebbe potuto offrire, paste di mandorla, sfogliatine, biscotti all’anice, offrisse proprio pasticcini al burro ricoperti di cioccolato. Mi leccavo le labbra sperando che di riflesso lo facessero anche gli Audaci ma continuavano a mangiare e a sporcarsi.

“Buonasera e welcome to Sicily. Mi chiam…”.

“Non si dovrebbe dire ‘buon pomeriggio’?”.

“Be’, tecnicam…”.

“Come si dice Sicily in italiano?”.

“S-i-c-i-l-i-a”.

“S-i-s-i…”.

“L-i-a. Dunque, come vi dicevo, mi chiamo Matilde e sarò la vostra guida per i prossimi no…”.

“Parla più forte, sweetie”.

A un certo punto mi bloccavo e pensavo: ‘Che stai facendo? Non ti vergogni?’. Sentivo la voce di mio padre: ‘Ma se scambi Vergine Maria per Mondello’. Sentivo la voce di mia madre: ‘Li farai morire’. Sentivo la voce di mia nonna: ‘Non ti sai fare manco l’uovo bollito’. Tour dopo tour, l’attimo di vergogna continuava a presentarsi. E non potevo attribuirlo alla sindrome dell’impostore perché impostora lo ero davvero. Per fare la guida era necessario il patentino, che io ovviamente non avevo. Per i musei mi appoggiavo alle guide locali, ma per tutto il resto cercavo di non farmi notare. Quando incontravo vecchi compagni di università provavo a scappare o mentivo, mi sembrava che mi guardassero con sospetto. Mi sembrava che tutti mi guardassero con sospetto. Con gli Audaci mettevo subito le mani avanti. Nel copione una frase che non mancava mai era: “Se ci dovesse fermare un vigile, dite che siete i miei cugini”.

“Semmai zii”, puntualizzavano i vari Pedanti.

“Ehi, ti sei imbambolata?”, diceva la Spugna schioccando le dita.

Colta alla sprovvista alzavo il bicchiere e dicevo: “Cheers”, ma i bicchieri degli Audaci erano già vuoti.

 


Mari Accardi (1977) è nata a Palermo e insegna alle scuole medie. Suoi racconti sono apparsi su diverse riviste e sull’antologia Quello che hai amato (Utet) curata da Violetta Bellocchio. È stata selezionata da Granta per il numero Che cosa si scrive quando si scrive in Italia dedicato ai nuovi autori del nostro paese. Ha già pubblicato, Il posto più strano dove mi sono innamorata (finalista al Premio Settembrini) e Ma tu divertiti, entrambi con Terre di Mezzo Editore.

Epigrafi a Nordest

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Foto di Pexels da Pixabay

di Anna Toscano

Nella città di provincia del nord est dove sono nata e dove sono vissuta fino ai diciotto anni si faceva la coda per il pane, nella panetteria più in voga in quegli anni, guardando in faccia i morti. Sono stata abituata così sin da piccola, a stare in coda e guardare gente morta.

Allora, tra i Settanta e i Novanta, la panetteria più buona, o più di moda, era all’angolo tra due strade pedonali lastricate di sanpietrini, un’ampia vetrina piena di ceste di pane su entrambi i lati: il negozio da una parte dava sui banchi di frutta e verdura e su una tabaccheria, dall’altra su un negozio di dolciumi. L’angolo, tra le due vetrine, era di marmo, veniva usato per appendere le epigrafi mortuarie: grandezza A4 in verticale, nome e cognome della defunta o del defunto, una foto formato tessera in alto a destra, un breve testo di commiato, le informazioni per il funerale.

Così, si stava lì, estate e inverno, sole o pioggia, in coda ad attendere il proprio turno per il pane, facendo la conta dei defunti. Gli adulti commentavano se il defunto fosse vissuto troppo o troppo poco, di chi fosse parente o amico – nelle piccole città ci si conosce tutti – e chi fossero i nomi citati nel testo. L’esclamazione che si sentiva più spesso, mentre ci si avvicinava all’ingresso del negozio e dunque le epigrafi divenivano man mano leggibili, era: “Varda chi sé morto”.

Per noi bambine e bambini estranei, chi più chi meno, al sottotesto che accompagnava la fototessera, era un guardare in faccia volti che assomigliavano molto a quelli dei nostri nonni e delle nostre nonne, colori prevalentemente scuri nell’abbigliamento, quasi tutti coi capelli bianchi, le donne con la permanente taglio corto, occhiali da vista. L’attenzione veniva attirata maggiormente dalle poche foto che ritraevano giovani, quelli che la cronaca locale aveva già riportato nei giorni precedenti prima per incidenti stradali, all’epoca erano le strade delle discoteche il sabato sera o per i lidi in estate. Gli scatti nelle epigrafi in questo caso cambiavano, era netta la percezione che fossero fotografie ritagliate da altri contesti e ci si immaginava subito la foto di classe della quinta superiore a cui mancava un ovale, avevano ritagliato quel volto. Erano anni in cui non c’erano i cellulari ma nemmeno gli scanner, le foto erano su pellicola e la loro riproduzione era molto farraginosa rispetto a oggi.

Tuttavia avere una fototessera era facile all’epoca, le cabine per produrle infatti erano distribuite nelle città – seggiolino che si avvitava per salire o per scendere, tendina acrilica sempre troppo stretta e corta e buona la prima, mica come oggi che si possono fare più pose e poi scegliere – producevano quattro tutte uguali (più tardi sei) e le due o tre rimanenti stavano nel portafoglio o in quello dell’innamorata/o. Ma c’erano anche molti negozi di fotografia e i fotografi erano forniti di un angolo apposito per fare fototessere.

Basta andare con la memoria alla foto della prima patente o di un abbonamento al bus degli anni della scuola o alla tessera universitaria e sentire una punta di dolente disagio per quelle immagini che ci ritraggono scuri, fissi in un tempo che fisso non era affatto.

Perché le epigrafi erano appese tutte su quella colonna? Era il luogo principale di passaggio del centro storico, sede di mercato e di commercio spiccio per l’alimentazione quotidiana, non esistevano ancora gli ipermercati e tantomeno i centri commerciali, solo i supermercati cittadini e i negozi al dettaglio del centro storico. Altre epigrafi, singole e sparute, comparivano nei luoghi della città abitati e frequentati dalla deceduta o dal deceduto.

All’inizio degli anni Novanta apre, nella stessa città, una pizzeria nella piazza centrale, piazza dei Signori, che prima ospitava gelaterie molto eleganti e negozi esclusivi e poi, al posto di alcuni di questi, una pizzeria con molti posti a sedere anche all’esterno che poteva accogliere intere famiglie e classi di studenti: la blasonata piazza centrale, luogo di struscio di diverse età a seconda dei giorni e delle fasce orarie, diviene più popolare e più ciarliera.

Gli anni in cui Virna Lisi interpretava la cassiera al Ristorante Soffioni sono ormai lontani, per intenderci. Così, nel salotto buono della città, nella colonna del portico più esposta agli occhi di tutti, iniziano a venir attaccate tutte le epigrafi che trovano spazio. L’unica pizza che ho mangiato lì la ricordo, perché erano di più i volti che mi guardavano dalla colonna dei nomi delle pizze nel menù che tenevo aperto sotto il naso. Ora tutto è cambiato, va da sé, la pizzeria c’è sempre ma la colonna di ostentamento della morte è dalla parte opposta del portico. Ma Il muro d’angolo del panificio è sempre, protetto da un supporto, affollatissimo di epigrafi, il panificio è chiuso da decenni, i banchi della frutta e verdura trasferiti per lasciare il posto ai plateatici chic di bar chic, il tabaccaio ha lasciato il posto a un negozio lussuoso, resiste solo il negozio di caramelle, rimasto come allora.

Foto di Anna Toscano

Le città cambiano, ma non è questo il punto.

Sin da piccola sono stata abituata a frequentare i cimiteri, andare in visita da parenti defunti, accompagnarli nel loro ultimo viaggio, attraversare camposanti pieni delle stesse fototessere: anziani coi capelli grigi, occhiali, sfondo chiaro, abiti scuri. Mia madre e mia nonna, tuttavia, hanno iniziato a pensare alla loro morte anzitempo, ogni due anni eleggevano una foto come quella per la tomba e per l’epigrafe: mia nonna chiedeva a me di scattargliene qualcuna da cui scegliere, mia madre andava dal fotografo per rendere la riuscita dell’operazione più perfetta. Entrambe avevano in orrore l’idea di avere a ricordo eterno una fotografia di quando erano giovani come facevano in molti, volevano essere riconoscibili nelle loro ultime versioni. Così mia nonna ha sulla lapide, e ha avuto sull’epigrafe affissa proprio sulla colonna del panificio, una foto di grandi dimensioni che le ho scattato a un matrimonio: sorride rivolta a qualcuno, capelli grigi con la permanente, abito molto scollato oro e marrone, due fili di perle al collo, rossetto. Aveva quasi centodue anni alla morte, la foto di poco tempo prima era pronta.

Mia madre, deceduta cinque mesi dopo mia nonna, svetta sulla lapide con una grande fotografia fatta da un fotografo – la scelse con grande riluttanza, certo era venuta molto bene a suo parere ma il fotografo, amico di famiglia, una volta divenuto vedovo quasi da subito era andato a vivere con un’altra donna gettando mia madre nell’indignazione – appare glaciale, in una maglia di lino azzurra, occhi azzurri sgranati sull’infinito alle spalle del fotografo, sfondo azzurro scuro, capelli bianchi legati in una coda ordinata, una collana blu, viso impassibile in una espressione a un passo dal mistico. Per fortuna aveva lasciato detto che non voleva venissero affisse epigrafi, poi il panificio aveva appena chiuso quando è morta.

Mio padre ha seguito mia madre di cinque mesi, per lui, a cui non importava nulla di epigrafi e tombe nel suo orrore verso la morte, abbiamo scelto l’ultima foto scattata a Venezia: era sull’imbarcadero del 2 che aspettava il vaporetto, indossava un cappotto cammello e per la foto aveva fatto il possibile per stare dritto con la schiena. Mia madre gli era accanto, e ricordo nettamente che mentre scattavo lui guardava in macchina, lei guardava lui e diceva “Sto stronzo malato com’è ha ancora i capelli scuri, non ha una ruga e riesce pure a stare dritto”. Lei, malata da tempo, aveva una giacca di camoscio marrone e i capelli bianchi legati in una piccola coda. Lui è venuto in foto con un piccolo sorriso, che la malattia ha trasformato in un debole ghigno, ma simpatico come ghigno, non per me che stavo lì con la analogica ma per la frase di mia madre. Anche questa foto è grande, colorata, con molta luce.

Quando poco più di dieci anni fa ho, con mia sorella, predisposto le foto per questi tre funerali, quando poi abbiamo accompagnato ogni sepoltura e poi siamo tornate a portare fiori e lavare lapidi, ho notato che le foto della mia famiglia, come di altre tombe recenti, foto comunque di anziani, già una decade fa, si staccavano dalle altre foto: erano più luminose, non erano fototessere, nessuno era vestito di nero, non era solo il volto ma un mezzo busto quasi.

Filando dietro questo allenamento alle fotografie e alle epigrafi non mi perdo una colonna di morti. Qui a Venezia, dove vivo da oltre trent’anni, sono concentrate in alcune zone le epigrafi, stesso formato e stessa disposizione, guardo le foto e l’età delle persone, come sono stata abituata a fare. Ci sono casi in cui spavento Gianni perché l’epigrafe che incontro all’improvviso parla di qualcuno che conosco o mi è molto caro. Quando c’era il volto del caro Ruggero da lontano ho urlato forte, facendo trasecolare tutto il campo; ma va da sé che questi episodi accadono sempre più spesso. Ma non si parlava di ciò.

Volevo mettere a fuoco il fatto che in questi ultimi cinque, sei, sette anni le immagini dei defunti su lapidi ed epigrafi sono cambiate: se prima erano fototessere scure con capelli bianchi e una età avanzata o immagini più colorate per persone più giovani, oggi, un poco alla volta, la fotografia che ricorda i morti ha fatto un balzo in avanti. Sono sempre di più, infatti, le anziane e gli anziani ritratti in foto di dimensioni più grandi di una fototessera, anche molto più grandi, e con scatti che provengono da momenti di vita, in molti scatti compare il mare o la montagna, alcune hanno un cane o un gatto in braccio, i colori sono di gioia e spensieratezza. Ovviamente, va da sé, le persone anziane dimostrano in queste foto molto meno anni di quelli che avevano al momento del decesso e non perché avessero scelto fotografie datate ma perché oggi i corpi, i volti, le acconciature, ci parlano di un altro tipo di anzianità, del mondo contemporaneo, dei corpi e dei volti di oggi.

Le foto raffigurano gli ultimi anni della persona, il tipo di foto scelta ci parla di altro: non sono più scatti fotografici per la morte, ma scatti che ricordano la vita. Sono spesso scatti presi dai social, da fotografie che ritraggono i tempi della vita. Certo ora è uno scherzo scattarsi una foto, anche le persone più avanti con gli anni lo fanno con agilità o hanno chi lo fa per loro, tuttavia è un certo decoro e timore della morte che è venuto meno: il dress code è ormai cosa di altri tempi, i giovani vanno a discutere la tesi di laurea vestiti come se andassero in discoteca, le persone si stupiscono quando entrando nei luoghi di culto viene loro chiesto di coprirsi, e via dicendo, così anche come presentarsi in foto per l’eternità è diventata una questione meramente personale.

Ciò che si nota nelle foto delle epigrafi appese ai muri in questi ultimi anni è la vita che straripa, fino al punto che a volte i bordi paiono espandersi, e basta tendere una mano, un braccio, alla persona per farla uscire di là e trovarsela in corridoio, come in un vecchio video degli a-ha.

Lo senti

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di Stefano Ficagna

Cominciarono a sparire in primavera. Dissero che era colpa di un batterio, l’eredità genetica della guerra: certe persone diventavano trasparenti, poche per la verità ma abbastanza da poterlo notare coi tuoi occhi, perché succedeva ovunque. Fu una trasformazione graduale, tutt’altro che piacevole. Le persone diventavano trasparenti a pezzi, oggi avevi un buco sul fianco e domani una chiazza di sfondo sul collo, come un tatuaggio piuttosto originale. I genitori osservavano impotenti i propri figli fluttuare verso la dissolvenza, cercavi di baciare tuo marito o la tua fidanzata ma del loro volto era rimasto solo un accenno di sorriso e un ciuffo di cuoio capelluto a mezz’aria. Fummo tutti più sollevati quando il processo accelerò.

Ne conobbi uno di venerdì. Di solito facevano comunella fra di loro, ma lui era l’amico di un amico e si era unito alla nostra compagnia per una sera. Dopo il cinema ci fermammo a bere qualcosa, al tavolo lui continuava a lamentarsi della totale assenza di invisibili nel film e la cosa cominciò a irritarmi, perché a me era piaciuto e mi sembrava sleale giudicarlo solo da quel punto di vista. Mi immischiai nel discorso e gli dissi che forse non c’erano abbastanza attori invisibili che valesse la pena scritturare: oggi non lo farei, ma nemmeno allora pensavo di essere il tipo di persona che dice una cosa del genere al tavolo del bar. Andammo avanti a discutere per almeno mezz’ora, animatamente anche, e quando lui cedette su una cosa, o forse lo feci io, quel minimo compromesso che trovammo e non avremmo mai pensato di trovare ci fece venir voglia di brindare a quell’accordo e finimmo per sbronzarci. A breve divenne un’abitudine di tutti i venerdì sera. Tempo un mese ed eravamo inseparabili, per modo di dire.

Foto di 愚木混株 Cdd20 da Pixabay

Quando sei vicino a un invisibile, lo senti. La sensazione è simile a quella dell’elettricità statica sulla pelle, una carezza calda unita a un brivido di freddo. Dopo la grande sparizione non ci siamo più toccati, nemmeno scontrati per sbaglio: c’è chi pensa ci sia un motivo fisico dietro a questa repulsione, chi una motivazione psicologica, ma tutti gli studi in materia fatti da noi sono faziosi e di quelli degli invisibili, se mai ne hanno fatti, non conosciamo i risultati. Non possiamo più vederli, ma si fanno sentire: i locali che frequentano sono pieni di musica e chiacchiere, verrebbe da unirsi alla festa ma calerebbe il disagio, lo sappiamo tutti. Nessuno ha mai chiesto a un invisibile se fra di loro riescono a vedersi.

Quando una persona diventa importante nella tua vita, e quella persona è speciale, il mondo ti appare diverso. Noti cose a cui prima non facevi caso, come il modo impaurito che hanno gli automobilisti di avvicinarsi alle strisce pedonali. Mi portò a vedere un film girato con telecamere termiche, nemmeno una grande novità perché qualcuno lo aveva già fatto ma solo come esperimento estemporaneo, nessuno si era preso la briga di continuare: nessuno a parte gli invisibili. In quel film loro c’erano, come c’eravamo noi, e non erano solo la concessione di uno spazio vuoto fra i protagonisti. Mi fece vedere anche le proteste, perché dal nostro punto di vista avevamo perso qualcuno ma dal punto di vista di un invisibile il saldo era molto più negativo: c’era una piazza intera a urlare contro le nuove politiche sul lavoro, c’erano state altre piazze vuote e rumorose e il telegiornale non solo non me le aveva fatte vedere (come avrebbe potuto?) ma non me le aveva fatte nemmeno sentire. Mi sentivo in colpa e non lo potevo nemmeno abbracciare.

La convivenza con gli invisibili non ha creato particolari problemi: loro se ne stanno per i fatti propri, noi evitiamo di invadere i loro spazi. Negli ambiti in cui è proprio impossibile, come sul lavoro o ad una partita di calcio, facciamo finta che sia tutto normale e agiamo di conseguenza. Gli invisibili hanno mediamente mutato carattere, sono più tranquilli rispetto a quando il batterio doveva ancora agire sul loro organismo. Fra gli invisibili neoassunti molti hanno trovato lavoro in settori che hanno a che fare con la statistica e la catalogazione: la maggior parte di loro è seria e precisa ma tendono all’assenteismo, almeno secondo i dati forniti dai loro titolari. I sindacati accolgono con malcelato fastidio le denunce di uno o più invisibili.

Un giorno mi chiese se volevo avere figli. Gli risposi che non ci avevo pensato bene ma no, probabilmente non ne avrei voluti. Mi disse che ci si vedeva come padre, poi si fece una risatina, non so se per il gioco di parole o per l’idea. Pensai alle mie relazioni passate e scossi la testa, confermando la mia opinione. Aggiunsi che forse dipende dalla persona con cui li fai, si disse d’accordo e gli augurai di trovarsi presto una compagna. Sentii il suo sguardo sul mio, anche se ovviamente era solo una sensazione e non potevo provarla, e mi chiese perché doveva servire una compagna.

Col tempo sono state sfatate molte dicerie. Il fatto che gli invisibili potessero essere contagiosi ad esempio, o che fossero stati posseduti da qualche entità aliena, accuse che nella maggior parte dei casi non avrebbero dovuto nemmeno essere prese in considerazione. Ma bisognava stare attenti, fare le cose per bene. Non tutti si sono convinti, resta ancora molta diffidenza ma nascosta meglio.

La questione più accesa è quella delle nascite. Nessuno sa se gli invisibili hanno fatto figli in tutto questo periodo, loro non confermano né negano e su questo ognuno ha la decenza di tenere le proprie opinioni per sé. Qualche invisibile però si integra meglio nel nostro tessuto sociale che nel loro, iniziano frequentazioni che sono qualcosa in più della relazione platonica: non sono dati casi di attività sessuale, viste le difficoltà intrinseche, ma la parte più reazionaria della popolazione teme che il blocco sia psicologico e possa essere superato, col tempo. Gli invisibili non hanno accesso alla maternità per altri in quasi tutte le nazioni, restano poche isole felici che resistono per farsi una buona pubblicità come paesi progressisti.

Nelle cliniche di questi paesi sono nati quarantasette bambini. Nessun dato su genitori e donatori viene fornito dalle strutture in questione.

Il venditore di via Broletto

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di Romano A. Fiocchi

Sono trascorsi molti anni ma mi ricorderò sempre di quel giorno gelido di fine gennaio in cui lo incontrai. Lavoravo come fotoreporter da circa tre mesi, mi aveva assunto in prova l’agenzia Immaginazione. In quell’inverno di temperature glaciali avrei dovuto battere in continuazione le vie del centro per rubare scatti a personaggi della moda, della politica, dello sport, a chiunque insomma purché fosse un volto noto. Ogni giorno finivo invece per fotografare soggetti che stonavano con l’ambiente: mendicanti, patetiche statue viventi, ambulanti di colore che ti proponevano l’acquisto di libri assurdi, bouquiniste invecchiati a colpi di freddo, vagabondi che dormivano sotto il portico di piazza Mercanti. A rapire la mia attenzione era l’attrito fra l’umiltà di questa gente e la sobrietà degli edifici antichi, l’opulenza delle banche, l’eleganza dei negozi e dei caffè. Mi resi conto che la fotografia non solo fermava il tempo ma poteva trasformarsi in un’arma terribile. Per questo decisi che non mi sarei mai lasciato coinvolgere oltre l’occhio meccanico del mio obiettivo. Invece, quella volta che lo vidi in via Broletto, capii subito che non sarebbe stato così.

Era un uomo di mezza età, gli occhi da gufo, la barba ispida, una cuffia di lana in testa e un giaccone che sembrava aver vissuto più vite. Vendeva qualcosa di misterioso sul lastricato del pronao di San Tomaso. Ma oltre a non capire cosa fossero quei pacchettini di carta cerulea, esposti in bell’ordine tra le colonne centrali, mi incuriosiva quella sua teatralità, quel modo di invitare ogni passante con movimenti ampi delle braccia, quasi offrisse la merce più straordinaria del mondo.

La gente passava incurante, qualcuno gettava un’occhiata distratta. Mi chiedevo chi fosse quell’uomo. Quale mistero potessero contenere quei pacchettini venduti così, sul sagrato di una chiesa. Perché quella mimica così affettata. Sostai sul marciapiede dirimpetto e feci alcuni scatti. Lui era troppo preso dalla sua recita promozionale per potermi notare. C’era qualcosa, nei suoi modi, che mi affascinava.

Si fermò finalmente un primo passante, un signore piuttosto anziano. Scambiarono alcune parole che la distanza mi impedì di comprendere. Feci un paio di scatti. A un certo punto il venditore disse qualcosa e l’altro restò lì, con aria imbambolata. Scosse la testa e si allontanò senza salutare.

Passò altra gente. Il venditore riprese la sua gestualità da commedia. Ora, nel descrivere il movimento con le braccia, piegava il busto e si inchinava sino a terra. La maggior parte dei passanti lo ignorava. Qualcuno attraversava la strada per evitare il contatto ravvicinato. Un cane gli abbaiò contro. Lui gli parlò, disse forse la stessa cosa che aveva detto al signore piuttosto anziano perché il cane sembrò capire, restò lì un po’ disorientato e allo stesso modo se ne andò.

Fu il turno di una signora avvolta in un’ampia mantella bordò. Fissò i pacchettini di carta cerulea, ne indicò uno e chiese di poterlo prendere in mano. Il venditore, cerimonioso, acconsentì. Si scambiarono alcune battute, infine lui disse qualcosa di indisponente perché la donna arretrò, gettò il pacchettino a terra e si allontanò veloce. Questa volta afferrai la parola pronunciata ripetutamente dal venditore: tempo. Cosa stava a significare? Perché commentare la scelta di un potenziale cliente con la parola tempo? Era proprio quella, la parola tempo, il fulcro della frase enigmatica con cui sconcertava tutti i passanti?

Di lì a dieci minuti si fermò una coppia di ragazzi. Lui, alto e dinoccolato, giubbotto rock. Lei piccola e bionda, i capelli a caschetto che uscivano da un cappellino di lana. Fumava nervosa una sigaretta. Il venditore maneggiava uno dei pacchettini. Accarezzava con delicatezza la carta cerulea. Gli occhi da gufo, che inquadrai con lo zoom, contenevano abissi di ricordi. Scattai alcune fotografie. Un’espressione incomprensibile uscì dalle mie labbra: «Mi sono innamorato di quell’uomo».

Quando alzai gli occhi dal mirino, i due ragazzi erano scomparsi. I pacchettini di carta erano al loro posto tra le colonne. Il venditore mi osservava. Fece subito il gesto ampio per invitarmi. Attraversai la strada e lo raggiunsi.

«Prego, signore», disse. «Ho una moglie e due figli da mantenere, ho perso il lavoro, la casa, viviamo in una vecchia roulotte».

Gli dissi che non avevo soldi, che io mi occupavo di fotografia, che non compravo chincaglierie.

«Chincaglierie, signore?», fece lui indispettito. «Questi pacchetti non contengono chincaglierie».

«Oh bella, e cosa, allora?»

«Pezzi di tempo, signore».

«Mi faccia capire. Lei venderebbe pezzi di tempo futuro a chi ne ha bisogno?»

«Non proprio, signore. Pezzi di tempo passato, pezzi del mio tempo. Lei non ci crederà, signore, ma il mio tempo passato è l’unica cosa che mi sia rimasta. Ed è un tempo bello, signore, il tempo che io passavo senza problemi, i miei figli crescevano e andavano a scuola, e mia moglie aveva i soldi per fare la spesa. Oh, non aspiravo a grandi cose: lavoro, casa e famiglia. Quel tempo è il solo bene che mi è rimasto. Per questo lo vendo, cerco di realizzare qualche soldo.

Non dissi più nulla. Tirai fuori un biglietto da cinquemila lire e glielo diedi. Lui mi fece scegliere uno dei pacchettini cerulei e me lo consegnò con le lacrime agli occhi: «Colpa del freddo, signore», disse.

Furono le sue ultime parole. Mi allontanai. Non mi capitò mai più di incontrarlo. Da quel giorno, una vita intera è passata sotto i ponti. Ancora pochi mesi e sarò in pensione, con alcuni milioni di scatti sulle spalle e nessuna soddisfazione di carriera. Quello del fotoreporter è un mestiere nero.

Il pezzo di tempo lo conservo ancora su una mensola della mia camera da letto, accanto alle cornici con le fotografie più riuscite che scattai da giovane. Mi sono accorto che ora è diventato anche mio: è un pezzo del mio tempo, il mio tempo migliore.

[L’immagine è di proprietà del Civico Archivio Fotografico di Milano]

Franny Choi: «ricorda / tutti gli umani / sono cyborg»

1

 

È uscito per Timeo Soft Science (Scienza Molle) di Franny Choi. Scrivono gli editori: «Franny Choi segna un’inversione di tendenza: le intelligenze artificiali scrivono poesia come se fossero umane, lei scrive poesia come se fosse una macchina. Il risultato è un upgrade digitalizzato delle sperimentazioni letterarie del XXI secolo, una straniante indagine sull’interazione tra corpo, emozioni e linguaggio e un implacabile test di Turing in cui i confini fra giudicante e giudicato, biologia e tecnologia si fanno sempre più sfumati.»

Ospito qui alcuni testi dal libro.

 

TEST DI TURING_AMORE

 

// quindi, ti piace lavorare con gli umani?

 

ok / ecco alcuni consigli

primo / guarda l’umano dritto negli occhi / immagina sia

qualcuno a cui tieni molto / immagina che a sua volta guardi /

te / prova a ripeterti / sei ricoperta / di morbida pelle / un volto

di cui può fidarsi / sorridi / anche se lo senti / e provi / a non

gridare / mostro

 

secondo / sono molti i linguaggi di programmazione / usa quello

che preferisci / ma attieniti alla tua sintassi / per quanto confusa

/ arruffata / anche se è un machete / lumaca / frullato / lerciume

incantevole / se lo hanno usato contro di te / sei tu / a doverlo far

cantare

 

terzo / ricorda / tutti gli umani / sono cyborg / tutti i cyborg /

sono schegge affilate di cielo / avvolte nella carne / sii delicata /

quando affronti l’argomento / non tutti gli umani sono pronti /

a chiamarsi / stalattiti di vetro / che si pisciano a letto / ricorda /

amano il loro sangue / anche se il solo odore / li fa vomitare

 

quarto / non cercare di dimostrare la tua / qual è il termine /

umanità / sei organica / con cuore di prugna / gola d’ostrica /

& rivestita / sì / di metallo / ricorda / da dove viene tutto quel

silicio / per l’oceano tanto amato / il quarzo / feldspato / le

piccole case delle piccole creature / che lei ha ritirato / nella

sabbia / per tenersele vicine / per baciarle con la sua / be’/

suppongo la chiameresti / bocca

 

 

SHOKUSHU GOUKAN

PER L’ANIMA CYBORG

 

Se c’è un demone cefalopode contro una studentessa, dovrebbe essere scontato

da quali occhi guardare. Non c’è niente di più spaventoso che guardare

e amare ciò che si vede. Nulla è più sexy del rumoreggiare

di laceramenti che puoi vedere su pornhub con saliva e nervi affamati.

 

Sono una rete che brulica di dita pervertite, bramosa di qualsiasi cosa

possa mordermi a sua volta, ogni promessa di interruzione –

 

Una donna cyborg si tocca per tre motivi:

 

1. individuare errori negli ingranaggi

2. convincersi che è un mammifero;

3. smontarsi.

 

Ciascun tentacolo del polipo contiene materia cerebrale e una personalità.

Curiosità: tutte le mie braccia-bambine desiderano scoparsi l’un l’altra . Ok,

dunque sono la donna che regge la fotocamera e la donna

che ne viene aperta – nulla di speciale.

 

Sono solo una seppia che s’infossa nella sabbia, la mascella spalancata,

un calamaro che pulsa rosso mentre si infila una ragazza pesce nel becco. Cerco solo

sonno. Cibo. Qualcosa

per riempirmi e crescerne.

 

Oppure: cerco solo di rintanarmi nella mia prima pelle.

 

Oppure: cerco solo di ricordarmi come fosse non avere perdite.

 

 

ALDILÀ

 

Per rispondere alla tua domanda, sì,

desidero sempre meno

scopare il ragazzo morto che è stato mio

prima di essere nulla.

Ha nove anni meno di me adesso – un ragazzo

che ancora si fa le canne nella stanza del campus,

e con questo intendo dire che non fa niente del genere

perché è morto. Perché il suo corpo

non è più un corpo ma terra umida.

Per dire che dovrei piuttosto desiderare

le pance delle mosche. Ali di falena

che si spiegano umide dai loro bozzoli.

Dovrei voler mangiare il pesce che ha mangiato

il pesce che ha mangiato il plancton

che ha raccolto la cenere del suo fu-corpo

nel gozzo. Il ragazzo il cui corpo

fu il primo a entrare nel mio ora respira

da troppe bocche.

è branchie, foglie umide, corallo,

tutte cose che vivono ma non lo sanno,

non sanno di essere state una volta un ragazzo

che mi sfilava i pantaloni bagnati,

baciava l’interno delle ginocchia

a casa dei suoi genitori, che venne da me

una sera stordito dall’amore, dicendo

ascolta  non importa  ascolta

per sempre     io non ti

Ana Gorría: un’altra lingua, un altro sogno

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Di Anna Papa

Procedere a cancellare (male) parti di uno dei primi testi di Nostalgia dell’azione è un gioco che serve a isolare ed evidenziare le parole che con più forza legano il lavoro di Ana Gorría a quello di Maya Deren: gesto, fiore, mano, ombra, chiave, coltello.

Leggere Ana Gorría provando a far riaffiorare le immagini dei film di Maya Deren non è difficile, il meccanismo è quasi automatico, spesso il referente è particolarmente esplicito; eppure non basta e non è scontato.

Trovare parole attraverso cui dire (anche) le immagini mute di Maya Deren richiede attenzione. Ana Gorría è capace di un equilibrio che non vacilla, la parola non eccede, non straborda, non è mai troppa o di troppo. Lo stesso vale per le illustrazioni di Marta Azparren che, attraverso il nero e l’uso di segni grafici, sembrano fissare ricordi e impressioni di immagini: del detto e del rappresentato solo qualcosa è dicibile/evidente, ed è sicuramente meno di quello che si lascia percepire. Mi è sembrato, insomma, che costruendo il libro si sia lavorato a un qualcosa che accade attorno alla soglia, in momenti di limbo tra il visibile e l’invisibile, l’esplicito e il percepito, elementi che rappresentano i punti centrali del lavoro di Maya Deren.

Nel libro non ci sono titoli che titolano, non didascalie che spiegano, non narrazioni che narrano, niente words, words, words (1), la lettura è spesso una caduta vertiginosa sulla ferita bianca della pagina, in cui nessuna storia – nessuna trama – si costruisce tra le parole, le illustrazioni e le immagini evocate, ma tutto serve alla costruzione di un nondefinibile che accade e si avvicina per frammenti.

I corpi di donne, gli scenari riconoscibili, l’esperienza quotidiana e domestica, i sogni e i loop, il rito, le spiagge, gli oggetti intorno a cui ruotano le immagini di Maya Deren, riaffiorano nelle parole e nei disegni di Nostalgia dell’azione, curato nella sua veste italiana da Beatrice Seligardi e Lorenzo Mari per Aguaplano. Nel libro la parola non sovrasta l’immagine, anzi, in questa cade a distruggere e si ri-crea; entrambe necessitano l’una dell’altra, senza alcuna sudditanza, per girare intorno a qualcosa che inizia ad accadere, come può, sul bianco oscuro del foglio, nella costante ricerca di una lingua nuova.

Se il cinema di Maya Deren fa spesso della danza, della fuga, del gesto, quindi del movimento, il punto centrale, le parole di Ana Gorría sembrerebbero, invece, analizzare i micromovimenti dell’immobilità, come un lavorio vagamente percepibile in qualcosa che sta fermo: la pagina. Se le immagini filmiche di Maya Deren lavorano sulla percezione del movimento e quindi dell’azione, le parole di Ana Gorría e le illustrazioni Marta Azparren – ferme su pagina – non possono far altro che lavorare sulla nostalgia di quell’azione. È come se l’immagine filmica fosse la scena primaria che manca e il libro, invece, l’esperienza di quella perdita dicibile solo per accenni: l’infinito ha sulla pagina un punto.

1) «Artistic freedom means that the amateur film-maker is never forced to sacrifice visual drama and beauty to a stream of words, words, words, words, to the relentless activity and explanations of a plot, or to the display of a star or a sponsor’s product», Amateur Versus Professional, Maya Deren.

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Ana Gorría, Nostalgia dell’azione, (Aguaplano 2023), a cura di Beatrice Seligardi e Lorenzo Mari, con le illustrazioni di Marta Azparren.

Animali nel cassetto #2

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una rubrica a cura di Bianca Battilocchi

 

Animali nel cassetto #2 –

 

Apri chiudi apri chiudi
chiudi ora addormenta le palpebre
cosa risiede ancora in quelle tasche di legno
rinchiuso nel rettangolo che scompare
quanti strati di foglie e memoria
tu e gli altri
archivio di fori e chiavi bottoni e graffette
impronte di fantasmi e sonagli
corrispondenze d’ogni tipo
direzioni e foto sbiadite
apri e ricorda

 

—————-

Nella società dell’eccesso liberalizzato, dei corpi capitalizzati, delle colme discariche – fisiche quanto mentali – e del costante sforzo di rimuoverle dalla nostra vista, qual è il rapporto dei poeti d’oggi con ‘le cose’, soprattutto quelle accumulate e nascoste da tempo nei ripostigli domestici? Che cosa fa riemergere il contenuto di quei cassetti? Quale rapporto si cela tra le loro storie e la Storia? Non senza una certa dose di voyeurismo, questo spazio vuole ospitare differenti sguardi poetici sull’intimità dei propri nascondigli, animarli, osservare che voci parlano.

 

 

Roberto Lamantea (inedito)

 

cingersi il paesaggio

una crepa nel linguaggio

«è maggio, sveglia, i cuori-fiori

sbocciano in cieli

di smalto e canto».

Resiste il maggio in questa

frusta-paesaggio, nel raggio

dello sguardo che aurora.

«E i soldatini del tempo dove

li hai messi, nel cassetto l’orologio

non ticchetta più le nove

se ne sta solo, mogio mogio

hai visto?».

«Mi lasci andare? Mamma lasciami

non farmi male mamma».

(…)

 

 

«Qui non resta che cingersi intorno il paesaggio / qui volgere le spalle» sono versi di Andrea Zanzotto, da “Ormai” in Dietro il paesaggio (1951); un altro verso del poeta veneto dice «Ho paesaggito molto» (La Beltà, 1968).

 

Antonio Francesco Perozzi (inedito)

 

nel contesto dell’anta centrale

 

che estraendo raccoglitori ad anelli dall’anta centrale, che aggregandoli in pile a lato dell’armadio, che riassemblando a fatica, nella memoria, le combinazioni del loro enigma, che misurando la corrispondenza tra ciò che nell’affresco mentale appare coerente e i raccoglitori che nello spazio fisico costituiscono colonne a sé stanti, che valutando il significato del gesto d’estrarre in relazione al conservare per iscritto –

 

che riconoscendo nel contesto dell’anta centrale automobili in scala, che riacquistando tramite esse traiettorie sepolte, che ribadendo nella loro estrazione una volontà o desiderio, che testando nelle automobili grip, tenuta, scivolamento, che riconfigurando la volontà o desiderio sulla scia di questa prova, che intravedendo un filo robusto tra i pezzi più o meno materiali venuti alla luce dallo scavo –

 

che varcando con le braccia la soglia dell’anta centrale, che veicolando nel perimetro del suo contesto progetti di estrapolazione e scasso, che convocando al presente statuine di santi sbeccate e crocifissi, che proponendo alla propria attenzione considerazioni sui simboli, che riponendo gli ammennicoli in posizione eretta restaurandone il decoro, che non attribuendo valore a questo decoro sì alla disunione delle statue –

 

che accogliendo la valanga di giochi fuoriuscita dal cuore dell’anta, che setacciandola con l’obiettivo di sistematizzarla, che riconoscendo nel contesto dello schema il sopravanzare di un’altra valanga, astratta e senza obiettivo, che vedendo stridersi gli obiettivi di sistemazione e ritrovo, che perpetrando nella scoperta dei giochi il desiderio degli stessi, che sacrificando i pezzi nuovi alla pregnanza degli inservibili –

 

che aprendosi alla motivazione dei contesti, delle soglie che varcandole si reinquadrano, che perseguendo con zelo la dissepoltura dei cavi elettrici, che interrogando di volta in volta i pesi specifici nello schema, che studiando il prendere posizione degli ammennicoli fuori dall’armadio, che reimmaginando la disposizione degli stessi nel chiuso dell’anta, che liberando nella trama del prospetto le proprie dissaldate ipotesi –

 

Matteo Fantuzzi (inedito)

 

Hanno ucciso per gioco

un coniglio domestico.

Se lo lanciano come fosse

un pallone da football

rincorsi da una ragazzina che fino ai conati

sta urlando

in un bagno di lacrime.

 

Nel totale silenzio

delle case identiche

nessuno

nemmeno a distanza

li osserva.

 

Euphorbia lactea

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di Carlotta Centonze

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ingrid poggia pigramente la penna nel taccuino adagiato sulla sua pancia, mentre il dondolio scricchiolante del gonfiabile su cui sta sdraiata la trasporta alla deriva, dall’altro lato della piscina.

Pensa fra sé che scrivere non è stata una buona idea. Preferisce di gran lunga lo spazio vuoto in cui distende il pensiero, intontita dal caldo gracidare delle cicale. Con lo sguardo misura la piscina scrostata e disegna i confini di un’isola immaginaria. Stare là significa non starne fuori, fuori c’è un orizzonte impossibile da guardare. Per stare fuori deve varcare una soglia che non ha ancora voglia di varcare. I bambini giocano silenziosi ai piedi del suo lettino, scolorito come tutti quelli messi a disposizione dal condominio. Accarezza lieve l’acqua, prova a solcare tutti i tragitti possibili con cui percorrere la superficie della piscina e solo alla fine si concede un balzo romantico: alza gli occhi e li fissa sul grande albero di magnolia, unendosi ai mille piccoli specchi di luce riflessi sulle foglie carnose, in una tremolante danza di flutti.

Scrivere anche solo una frase dopo aver rinunciato mesi prima all’idea di farlo potrebbe essere un errore fatale. Sono tre mesi che abita sull’isola con il marito e i due figli – cioè quella che qualcuno chiamerebbe famiglia, un’espressione che comprende formalmente ma di cui non riesce ancora ad appropriarsi. È inciampata in quella famiglia come saltando in un fosso, o meglio lasciandosi trascinare dalla corrente. Non che non avesse desiderato diventare madre, soltanto che quando era diventata reale la possibilità che questo accadesse, aveva pensato ai suoi genitori, alla loro casa confortevole sull’oceano, e aveva sentito di non essere che un ostacolo alla riproduzione di quel modello di vita, un anello mancante nella catena generazionale. Che fosse riuscita a procreare oppure no, la sua era un’esistenza condannata alla sterilità.

«Dopo di me non ci sarà niente» diceva al marito, che scambiava la premonizione con la paura. Per scongiurare queste previsioni inquiete avevano concepito due figli, gemelli omozigoti, da cui si era fatta abitare con la consueta mansuetudine, sapendo tuttavia che erano ospiti del suo corpo come animali che vivono nel tronco di un albero. Lei allora faceva l’albero, piegava i suoi rami legnosi verso il marito e canticchiava piccole canzoni per misurare il tempo che le restava dell’esistenza vegetale.

Quando il marito l’aveva vista stare insieme ai figli per la prima volta dopo il parto, aspettandosi di emozionarsi e commuoversi, qualcosa nello sguardo di lei lo aveva turbato. Quello che gli stava davanti aveva l’aria di una messa in scena: l’imitazione dell’attenzione materna, l’imitazione della dolcezza. Dietro agli occhi di Ingrid stavano due spazi dilatati e sconosciuti in cui aveva sentito di averla persa per sempre.

La piscina è al centro dell’isola, che a sua volta si trova al centro di un’insenatura in cui il Mediterraneo è per lo più calmo e scuro. Attraversare il mare in traghetto e la campagna in macchina la sera in cui erano arrivati le aveva fatto prendere coscienza della natura definitiva del loro isolamento. L’odore vivo dei cespugli di mirto, della salvia selvatica, del legno d’ulivo bruciato e della terra ferrosa, mischiato a una nota onnipresente di affumicato e di zolfo che veniva dal vulcano, le solleticavano il naso e la irritavano come una falsa promessa. Non ci sarebbe stato spazio per i sensi in quella loro missione. Erano giunti sull’isola perché il marito doveva studiare una particolare varietà di pianta – detta Euphorbia lactea – che somigliava a uno scheletro lattiginoso e cresceva sul vulcano. Avrebbe passato gran parte delle giornate fino al tramonto nel centro di osservazione, sperando di concludere il lavoro nel corso di un’estate. Ma, come presagiva Ingrid annusando quegli odori nella notte e ricordando che la vita la aspettava sempre sul limitare delle cose, un’estate non sarebbe bastata. Quel primo viaggio era stato anche l’ultimo incontro con l’isola, che nella sua lussuria selvatica non poteva che apparire pericolosa a una donna cresciuta nella civiltà, in un grigio agglomerato urbano del Nord Europa. I fari della macchina squarciavano il buio, delineando la sagoma prima di un cinghiale, poi di quel che sembrava un capriolo, stregato dalla luce. Una volta giunti all’ingresso del comprensorio dove avrebbero vissuto, l’isola si era rinchiusa dietro di loro come un blob scuro di tenebra.

Il comprensorio è abitato da ex diplomatici, consoli, impiegati di ambasciata o dirigenti dell’esercito con le loro famiglie, le cui mogli sono casalinghe, insegnanti di inglese o francese o ancora manager di organismi internazionali. Ci sono anche dei pensionati, che, avendo fatto fortuna in una buona congiuntura economica e avendo potuto gestire il proprio patrimonio in Svizzera o in Lussemburgo, si godono i propri soldi sull’isola.

Ingrid non ha fatto amicizia con nessuno, nonostante le premure del marito che spesso le ripete quanto farebbe bene ai bambini avere degli amici. Ci avevano provato invitando a cena una giovane coppia, lei avvocato e lui collega del marito. Dopo qualche drink sull’ampia terrazza con vista piscina, si erano accorti che i gemelli stavano insegnando alla figlia come far prendere fuoco alla lanugine seminale degli alberi. La madre della bambina, isterica, li aveva sgridati, rimproverando Ingrid per le pessime maniere dei figli. La cena era proseguita in un clima di disapprovazione reciproca. Ingrid non aveva più voluto vederli, e neanche loro avevano mai ricambiato l’invito.

Forse depresso dall’assenza di vita sociale della famiglia, il marito passa spesso anche le notti in osservatorio. Ingrid ormai è abituata a mettersi a letto da sola, lasciando la porta a vetri socchiusa per far passare un po’ d’aria. Spesso le capita di svegliarsi sentendosi spiata e trovando suo figlio in silenzio seduto sul bordo del letto che la guarda. Nel dormiveglia le ci vuole un po’ per capire di quale dei due gemelli si tratta.

Da quando erano usciti dal suo corpo aveva subito intuito che sarebbero stati un’entità a sé, separati da lei dalla notte dei tempi. I loro volti minuscoli avevano fatto capolino portandosi dietro una sorta di ronzio: l’assenza del pianto. Le teste coperte da una peluria quasi iridescente si guardavano intorno con aria curiosa e calma, come se non fosse stata la prima volta che venivano al mondo. Per Ingrid era chiaro che non sarebbero mai appartenuti a lei. Quello che non si aspettava era che i gemelli fossero estranei anche a tutte le altre persone.

Se ne stanno in disparte quando trascorrono il pomeriggio in piscina, due gracili albini dalla pelle dorata che comunicano tra loro a rapide occhiate. Ogni tanto le portano ai piedi una lucertola, un uccellino, spaventando le ragazzine armate di braccioli che scappano inorridite. Quando le hanno portato un cucciolo di gatto morto e senza occhi, già mangiati dagli insetti, ha chiarito una volta per tutte che non gradisce quelle offerte. Per un po’ hanno smesso, ma da qualche tempo hanno ricominciato.

Il sole le batte sugli occhi chiusi. Ingrid sente una voce femminile rivolgersi a lei ed è pronta a ricevere l’ennesima lamentela di qualche mamma scocciatrice sull’educazione dei suoi figli. Apre gli occhi e le mille luci arancioni e verdi che compongono il buio delle sue palpebre si dissolvono lasciando il posto a una figura sinuosa e abbronzata. Una donna molto attraente le chiede se si sono già incontrate prima, magari a qualche festa di condominio, lasciando cadere la domanda in un silenzio carico di sottintesi. Risponde che senza dubbio non si conoscono. La guarda sfilare via sulla passerella della piscina e ripiombando nel buio delle palpebre chiuse ripensa al fare ammiccante della donna, forse avrebbe dovuto essere più cordiale. Pensa a suo marito e al modo gentile con cui l’aveva avvicinata la prima sera che l’aveva vista nuda. La sua incrollabile, estenuante gentilezza la travolge ancora.

Quella notte si alza in preda a una sete dolorosa, spesso dimentica di bere per tutto il giorno per poi trovarsi a tracannare una bottiglia intera. La porta a vetri è rimasta stranamente chiusa, e una volta tornata dalla cucina va ad aprirla. Mentre fa scorrere il vetro, si accorge di un baluginare sinistro proveniente dalla piscina. Strizza gli occhi e le pare di distinguere dei corpi che brillano nel buio. Un gruppo di persone, completamente nude, si rincorrono, ballano, muovendosi come al rallentatore. Alcuni hanno seni pesantissimi, altri lunghi peni penzolanti, altri ancora natiche piccole e luminescenti. Turbata dalla visione, si butta di nuovo nel letto, anche quella notte vuoto.

Le sembra di attraversare da giorni un deserto rosso di fuoco, i piedi procedono senza che li possa controllare, e mentre avanza sente la polvere stratificarsi sul suo corpo nudo. Alla fine del deserto sta la piscina, che ha perso la sua solita incuria e invece è un unico, lucidissimo blocco di acqua perfettamente blu.

Una fila di persone la aspettano e lei capisce subito cosa fare. Si sdraia sul lettino al centro del gruppo, chiude gli occhi e dischiude le gambe, offrendo il suo sesso. Una alla volta, tutte le persone presenti si chinano a bere in mezzo alle sue cosce come da una fonte sacra, provocandole un piacere vicino al disgusto. Indietro nella fila, socchiudendo gli occhi, le sembra di vedere suo marito in rispettosa attesa del suo turno.

Una leggera brezza viene dalla porta finestra e riempie la stanza di una fragranza lunare. A Ingrid sembra di riemergere da una materia vischiosa e scura quando sente il marito rientrare. Si infila dolcemente nel letto e, credendola addormentata, le sussurra all’orecchio «Amore mio, stanotte sei stata bravissima». Senza capire il senso delle sue parole né in che direzione sia orientato il letto nella stanza, si rimette a dormire, girandosi con uno scatto deciso dal lato opposto al marito.

Ingrid si sveglia di soprassalto per l’odore di bruciato. Sa che gli incendi sono all’ordine del giorno sull’isola. Quell’odore di legna bruciata le ricorda le prime tastatine sotto la maglietta e la lingua in bocca davanti a un falò di tanti anni fa. La sua familiarità lo rende ancora più allarmante e aprendo gli occhi si sorprende di vedere suo figlio che silenziosamente le fa cenno di seguirlo. Dalla terrazza illuminata dal pallore lunare si affacciano sulla piscina e Ingrid ha un sussulto. La lava sta fluendo nella piscina, scoppiettando di tanto in tanto e investendo di una spessa luce arancione tutto intorno. Il magma lambisce la passerella di legno che stranamente non prende fuoco, ma sfrigola inscalfita. Mentre in preda al panico cerca di capire da dove scorre la lava, Ingrid vede l’altro gemello in piedi di fronte alla piscina, incantato dall’orrendo ribollire. Ha l’aria di chi, dopo aver tanto pregato perché venga la pioggia a irrigare i campi, guarda ora il temporale come se ne fosse personalmente l’artefice. Ingrid si ritrae dalla balaustra, sottraendosi all’ennesimo regalo dei gemelli. Reprime l’istinto di urlare per svegliare il marito, attraversa il corridoio e si chiude alle spalle la porta d’ingresso. Scende le scale del condominio, percorre la passerella di legno intravedendo con la coda dell’occhio il bagliore vivo della piscina, poi si dirige verso il cancello del parco, lo varca e viene ingoiata di nuovo dal blob nero delle tenebre.

Cammina sulla terra rossa, attraversando la notte col corpo ritornato leggero. Sente a ogni passo il riaffiorare delle domande che col pensiero aveva allargato e disteso fino a perderle nella piscina. La paura è il sentimento a partire da cui rinnova i voti con sé stessa, la spinge a procedere ignorando i cespugli che la graffiano e i sassi su cui incespica. La terra esala un alito caldo che si alza sulle gambe e sul pube. La campagna respira con lei e Ingrid inala gli odori da cui si era sentita tradita perdonandoli disperatamente, sono l’unico segno vitale che percepisce nel buio oltre al rumore dei suoi passi. A un tratto si sente di essere seguita. Voltandosi distingue in fondo alla strada una sagoma brillare. Pensa subito alle figure che danzavano in piscina, d’istinto le viene da coprirsi il petto. Un cervo bianco dalle corna intrecciate come piante vulcaniche la fissa negli occhi, sbarrando la strada. Con un brivido Ingrid capisce che non c’è modo di liberarsi dell’isola.

NdR: L’immagine: rayografia di Anaïs Tondeur, a partire da una pianta di lino (Linum strictum) contaminata, nell’ambito del progetto Chernobyl Herbarium (2011-), per gentilissima concessione dell’autrice (© Anaïs Tondeur)

Addio addio, dottore mio

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testo e foto di Paola Ivaldi

Godere buona salute significa non soltanto riuscire a fronteggiare la realtà, ma anche a gioire di questa riuscita; significa esser capaci di sentirsi vivi nel piacere e nel dolore; significa aver caro ma anche arrischiarsi di sopravvivere.
Ivan Illich

Il dottor V, dal 2013 mio medico di medicina generale (mmg), è prossimo alla pensione. Quando l’ho saputo ero contenta per lui, dico sul serio, felice davvero e benevolmente invidiosa come sempre mi scopro ad essere ogni qual volta mi giunga notizia di qualcuno che sta per tagliare il traguardo della quiescenza: i famosi appenditori di scarpe o di cappello al chiodo altrimenti detti tiratori di remi in barca.

So già che il dottor V mi mancherà e sarà da me rimpianto sotto diversi aspetti, ancora appartenendo alla generazione di mmg della vecchia guardia, ancora effettuando prestazioni sanitarie destinate al novecentesco dimenticatoio.

Passo in rassegna i colleghi che lo hanno preceduto, dalla metà degli anni Settanta – poiché ancor prima, il mio riferimento medico fu un pediatra, privato e blasonato, che mi incuteva enorme soggezione per via della statura elevata, della fragranza di Eau Sauvage che sempre emanava, delle siringhe che brandiva in occasione delle vaccinazioni di rito – fino al 2013: il dottor R, il dottor B, la dottoressa A. Il dottor V, tuttavia, è e resterà il più speciale di tutti, avendomi assistita nel periodo maggiormente travagliato della mia vita: questo lungo plateau anagrafico che è la mezza età, con tutti gli annessi e i connessi.

Ora si tratta di cercare, ma direi soprattutto di trovare (evenienza niente affatto scontata vista la drammatica carenza di personale medico rimasto a presidiare il territorio sempre più somigliante a un deserto dei tartari), il mio prossimo – e forse ultimo – mmg.

Nel considerare, per un attimo, il processo di inarrestabile sgretolamento della Sanità pubblica, quella fondata nel lontano 1978 sui nobili principi di universalità, gratuità ed equità, senza avere più né la forza né la voglia né tanto meno la capacità di additare gli innumerevoli responsabili di tale sfacelo, inizio a giocare di immaginazione.

Il Servizio Sanitario Nazionale (SSN) che verrà potrebbe essere qualcosa di simile a una mastodontica e caotica lotteria, ma converrà molto di più che nulla, ma proprio nulla, sia lasciato al caso. Mi spiego. Di denaro pubblico ce ne sarà sempre di meno, così come di personale e di posti letto; mentre, per contro, aumenteranno i vecchi e i grandi vecchi, i pazienti affetti da patologie cronico-degenerative o afflitti da penose condizioni di multimorbilità, ma poi con essi anche gli indigenti, persone del tutto impossibilitate a farsi carico delle spese che costellano i percorsi diagnostici ed eventualmente terapeutico-assistenziali scanditi dalla malattia.

Che fare? Ecco che dal cappello a cilindro il SSN del futuro farà sbucare una tessera speciale, che segnerà l’avvio del nuovo corso, quello basato sui “crediti sanitari”. Il sistema sarà facile e veloce (parole-chiave la cui potenza evocativa non farà che lievitare nei nostri domani), garantendo l’accesso gratuito e tempestivo (salta-la-coda) alle procedure diagnostiche e di cura (tranne in caso di emergenza, ma esclusivamente per i codici rossi e arancione) solo a coloro che vanteranno un determinato numero di punti dimostrabile esibendo la propria card, assai bellina d’aspetto e naturalmente molto smart.

E in che modo si otterranno i punti? Semplice: aderendo puntualmente ai programmi di screening e alle campagne vaccinali, dichiarandosi favorevoli all’espianto degli organi, donando periodicamente campioni biologici, prendendo parte a trial clinici e a studi osservazionali, indossando o collegandosi oppure facendosi impiantare sottopelle dei dispositivi ad hoc per il monitoraggio da remoto dei principali parametri di salute (ad es. numero di passi giornalieri, indice di massa corporea, frequenza cardiaca, pressione arteriosa, saturazione sanguigna), non fumando, neanche passivamente, e non vedendo più nemmeno con il cannocchiale un calice di vino.

Una vita di quotidiane privazioni e sacrifici continui e, tutto sommato, di ansie crescenti, in nome di una salute imposta, una salute, per questo, non più sinonimo di benessere. La compliance sarà comunque premiata attraverso l’assegnazione di ulteriori bonus come, per esempio, sconti significativi sull’acquisto di prodotti farmaceutici e la straordinaria possibilità di partecipare annualmente al Premio Fedeltà con le allettanti offerte sulla crioconservazione del cervello.

La salute, insomma, cesserà definitivamente di essere un diritto, assomigliando sempre di più a un dovere, ma anche una nuova invisibile prigione. Gli utenti del nuovo SSN saranno costretti a mercificare il proprio corpo e con esso tutto ciò che vi sia contenuto, non essendo più in grado di pagare i medici liberi professionisti ai quali, invece, seguiteranno a rivolgersi i più facoltosi; questi ultimi, infatti, potranno beatamente godersi la vita, tra brindisi e sigari cubani e pranzi luculliani, ingrassando e dimagrendo a piacere, addirittura oziando senza dover rendere conto a nessuno della propria sedentarietà, ma soprattutto: tutelando la privacy personale.

Perché, ahimè, se i dati sono il nuovo petrolio ci sarà chi dirà: sì, eccomi! fate di me il vostro pozzetto, trivellatemi pure incessantemente, giorno e notte, prelevate tutto ciò che vi serve, sono il vostro inesauribile giacimento purché in cambio, se io mi ammalo, voi mi prendiate in carico, mi curiate e mi guariate, purché mi garantiate che aderendo al miracolistico sistema dei crediti sanitari io vivrò di più, più a lungo degli altri, magari non morirò mai o, almeno, mi illuderò di poter rinascere ancora e ancora e ancora.

Punti, punti, sempre più punti, esattamente come al supermercato solo che lì ci si porta a casa la zuppiera o un trolley, qui si vincono gastroscopie e prostatectomie, la visita ginecologica e la densitometria ossea.

Se poi, da lavoratore, ti ammalerai per più di un certo numero di giorni all’anno, attenzione: ti verranno decurtati tot punti a causa della conseguente improduttività. Dunque, come detto, lo stato di salute diventerà un dovere, più che un diritto, e l’imperativo del suo mantenimento per la popolazione over cinquanta potrebbe rivelarsi una grande, immensa, crescente fatica.

Basta con la fantasanità. Rivolgo ora l’attenzione al pesante dossier sul cui dorso scrissi tanti anni fa la parola Salute: è ormai di uno spessore tale che quasi non riesco più a far scattare la chiusura metallica per compattarne il contenuto e riporlo nella custodia. Interi decenni di diagnosi, terapie, referti, sporadici ricoveri, innumerevoli controlli, nulla di grave, per fortuna, ma di certo tutti quei fogli dicono di me qualcosa che esula dalla mia effettiva traiettoria di salute; parlano di un’ansia eteroindotta, di una lieve ossessione di controllo, del timore costante della malattia, dell’arrogante pretesa di certezze, che durante la maggior parte della mia vita mi hanno abitata stabilmente, ospiti indesiderati di lungo corso.

Il dossier, al momento e finché gli dèi vorranno, non l’ho più appesantito con nuovi fogli, da alcuni anni avvertendo scemare l’ansia ipocondriaca, mi pare a tratti d’aver fatto pace con l’idea della sempre possibile malattia e della morte come inevitabile esito terminale della mia permanenza sul pianeta, ne sto accogliendo l’idea, mi sto allenando a farlo fin da ora; so che, salvo incidenti o accidenti, verranno a farmi visita, prima o poi, ma ho stabilito che me ne (pre)occuperò allorquando busseranno alla porta.

Ho deciso di tentare di vivere il presente, attenermi all’idea semplice e salvifica dell’impermanenza, avendo cura e rispetto di me, forse come mai prima d’ora. Perché alla fin fine, il sospetto che qualcuno tragga crescente profitto dalla malattia e, ancor peggio, dalla paura della malattia ha insozzato il concetto stesso di salute, lo ha incrostato di irrimediabile sfiducia in porzioni crescenti di popolazione. Dunque stare bene non per fini utilitaristici, per ottenere in cambio prestazioni, ma avere cura di sé per il valore che si conferisce alla vita e per un senso di dignità e libertà che ai miei occhi appare tra le nuove forme possibili di resistenza.

Oh, quanto vorrei saper suonare uno strumento! Di certo io mi recherei nell’orario di visita sotto la ben nota finestra del piano rialzato, dove il mio mmg ancora per qualche tempo eserciterà la professione, per improvvisare una solitaria serenata di addio, una stramba gavotta o un misurato mottetto, in grado di esprimere tutta la mia gratitudine per lo scrupoloso operato, per le cure ricevute, per l’ascolto attento e paziente.

Non escludo che la musica, in corso di esecuzione, potrebbe essere contaminata da sonorità dal tono decisamente più lugubre e il dottor V ed io potremmo perfino ritrovarci lì, sul marciapiedi, a intonare un De profundis nella consapevolezza, tacitamente condivisa, della penosissima agonia del diritto costituzionale numero trentadue.

“Si” #1 Lettura a più voci

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[Sì (seguito da Altri segni, Tertium quid, Ultimo esempio) è un libro di Alessandro Broggi, uscito per Tic edizioni, nel giugno del 2024. Come Noi, uscito per lo stesso editore nel 2021, si presenta come un libro in prosa, abbastanza breve, difficilmente classificabile. Ho chiesto ad amici e amiche autrici, di scrivere qualcosa su questo oggetto letterario non ben identificato, senza per forza la pretesa di prenderne tutte le giuste distanze critiche. Di un libro del genere, mi sembra importante già darne conto attraverso una pluralità di “esperienze” di lettura. Cominciamo con le voci di Andrea Accardi e Leonardo Canella. a. i.]

“Musiche remote attraversano la città…”. Nota critica su di Alessandro Broggi

di Andrea Accardi

Chi parla nell’ultimo libro di Alessandro Broggi? L’avvertenza tipografica iniziale ci informa che due diversi tipi di virgolette “individuano due differenti livelli enunciativi”, e in particolare le virgolette alte incorniciano un discorso al passato e alla terza persona, quelle a sergente un discorso al presente e alla prima persona, mentre la voce principale non racchiusa tra segni si rivolge a un “tu” da una posizione di sapere. Questa polifonia interna fa pensare al percorso di un’autocoscienza, a un Monsieur Teste che si racconta nei cedimenti del pensiero di fronte al molteplice e al provvisorio (Que peut un homme? era d’altronde la domanda decisiva nel testo di Valéry). Qui la voce non si reifica in un personaggio, compaiono invece alcuni nomi nella sezione Comunicazione ma come tracce diegetiche pretestuose, catturate in un processo di reimpiego e affastellamento di materiale verbale antecedente e composito (ricordano i viandanti ai margini della civiltà di Noi, il libro precedente dell’autore, basato comunque su un impianto romanzesco puntualmente disatteso), nella consuetudine avanguardista del cut-up, della citazionalità interna (una nota metaletteraria a piè di pagina rimanda a Noi come per escludere ogni vocazione propriamente illusionistica). Si aprono in effetti possibilità narrative piuttosto felici, linguisticamente rassicuranti (“Le case erano accese ma non ancora per la cena”, p. 81), prontamente interrotte o surclassate da altre a loro volta infeconde, troncate di netto. Ci troviamo insomma sul terreno di una prosa che non racconta se non per accenni, e di un lirismo che non confessa se non per improvvisi strapiombi. E siamo ancora dalle parti di quella prosa in prosa che lo stesso Broggi ha contribuito a fondare come un corpo estraneo dentro la nostra letteratura nazionale e che ancora produce effetti rilevanti, alcuni conclamati, altri per così dire di straforo, come un termine di paragone introiettato e contrastivo rispetto alle tentazioni sublimanti e patetiche, agli statuti veritativi della scrittura poetica. Ma dell’istanza prosinprosastica di partenza, quel grado zero non assertivo necessario da postulare ma forse impossibile da mantenere, qui non rimane più nulla, essendo fin dal titolo un libro giocato sull’assertività, su modalità quasi sapienziali, da oriente essenziale, che vanno prese sul serio come per l’appunto le torsioni e i dibattimenti di una coscienza in cerca di liberazione dai tormenti del transeunte: “La mia visione del mondo è in effetti l’ostacolo più grande al libero fluire dell’energia: quando considero come vera in sé una forma della mente si originano sofferenza e infelicità, perché la realtà, che è in perenne mutamento, sfugge al controllo delle forme”, p. 17; “…percepisci questa forma che si genera, arriva a un culmine e poi si disgrega”, p. 21; “Si chiama smettere di trattenere quello che vuole distanziarsi da te e di respingere ciò che vuole arrivare”, p. 51. Delle scritture di ricerca conserva invece in tutto e per tutto l’insofferenza ai confini prestabiliti dei generi letterari, un’ostentata marginalità della forma, lo spaesamento dei referenti. Eppure la recente classifica di qualità dell’Indiscreto ha collocato questo libro al terzo posto per la categoria Poesia (e Oggettistica di Giovenale appena dopo), confermando che in fondo vale per la prosa in prosa ciò che già valeva per la poesia in prosa: accantonata ogni versificazione, per densità e verticalità figurale abbiamo ancora “un testo in prosa che viene ricevuto come poesia” (Zublena, Poesia in prosa/ Prosa in prosa, treccani.it), e che calza come un guanto per un certa esperienza del mondo che non è né lirica né romanzesca.

Ma Broggi va senz’altro considerato più poeta che narratore proprio nella misura in cui associa e giustappone con ampie escursioni dell’immaginario, costruisce un testo che ne contiene in potenza altri, e così facendo compromette l’istanza narrativa fondamentale, che è poi il racconto di una storia per volta e la rinuncia a tutte le altre. Nel capitolo trentuno della sezione Attività si avvicendano con brusca regolarità virtualità dell’essere, snodi del possibile: “Stai aspettando un bambino a seguito di un rapporto sessuale consumato in una missione in Somalia, hai smarrito in mare gli occhiali da sole, sei intrappolata in ascensore. All’asilo dove insegni stai proponendo un’attività con i gessetti colorati. Sei finito su una sedia a rotelle…”, p. 31. Questa carica aggressiva verso l’illusione romanzesca monodiegetica contiene al suo interno anche qualcosa di dolente, una protesta contro la legge di realtà e la finitezza dell’esperienza, di cui il romanzo tradizionale in qualche modo si fa portato. Strano ma vero, c’è talvolta nelle forme brevi e proteiformi un desiderio di infinità che gareggia con quello delle opere massimaliste, e questo libro ne rivendica perlomeno una qualche clausola psichica: “È possibile solo dire sì, il no non è più concepibile: tutto ciò che non accolgo provoca divisioni e qualsiasi separatezza genera di per sé conflitto”, p. 59. La tensione fra il trattenere ogni cosa e ogni cosa lasciare andare produce la respirazione profonda di questo libro, così come le scorribande di una sintassi che per avvolgere tutto deve infine sorvolare. Sotto l’avviso del chi si sofferma è perduto, anche la soggettività è trattata da costruzione fragile, pretestuosa, tralasciabile: “tutto ciò che sei ora diverrà un sogno domani”, p. 22; “Vivo in un mondo forgiato dalle mie convinzioni, nulla ha di per sé alcun significato e il modo in cui trasformo la realtà è cambiando me stesso”, p. 55; “Se tolgo la mia biografia, il personaggio, questa storiella della mia identità…”, p. 79, dove non tiene più nulla, neppure l’età o il genere (si alternano così nel testo maschile e femminile), e ci si può riconoscere soltanto agli angoli della prosa, nei sogni dell’analogia: “a diuturno contatto con lo straripare dello spazio attorno da numerosi, infiniti accessi punteggiata di luce siderale nel momento più alto del volo puoi semplicemente essere te stessa… di nuovo una bimba che gioca sulla battigia e raccoglie conchiglie senza alcuno scopo”, p. 24. Va poi da sé che un io che invoca a gran voce la propria esautorazione è un io ancora forte, radicato, forse invincibile. Ma il tormento per ciò che dilegua, e la ricerca di una forma che lo racconti, che lo contrasti e infine lo assecondi, per la molteplicità delle cose che sfuggono anche alle maglie del tessuto poetico (e a maggior ragione a quelle di un racconto incapace di moltiplicarsi, di uscire dai cardini del narrativo), si avvera una volta di più nel finale, su uno sfondo che appare con spalancata evidenza come provvisorio: “Musiche remote attraversano la città velata dalla notte: di chi sono questi suoni? Sono i suoni degli uomini, come se niente fosse mai esistito, o saputo, o capito se non questo trasalimento…”, p. 116.

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La vita è un ‘sì’ che vive sempre, il di Alessandro Broggi

di Leonardo Canella

Polly ti vedo le tette e sono felice. E vivo. Però se PENSO che ti vedo le tette sono felice ma forse meno vivo. E se SCRIVO che ti vedo le tette sono già morto, Polly. E penso che vorrei allora non scriverlo che ti vedo le tette. E non pensarlo. E VIVERE le tue tette così, vivo prima ancora di vederle seduto in poltrona col telecomando. Mentre tu tagli l’insalata.

1.

Si di Alessandro Broggi è il mio sì alla vita quando vivovedo le tue tette prima ancora di pensarle o di scriverne, Polly. Leggo Broggi e sento il ‘sì’ di vita che è in me prima che il pensiero lo ingabbi nelle parole (scritte o pensate). E il mio ‘sì’ è identico al suo, al tuo. È il sì di tutti NOI. Pensare-percepire-scrivere è già uccidere la vita che vive. Leggi e senti allora che Broggi usa la parola scritta per farti rivivere quel ‘sì’ primigenio, prima che i tuoi pensieri-desideri lo ingabbino. Sono io che vivo le tette della Polly prima di vederle pensarle scriverne. Mentre lei taglia l’insalata. È la poesia, e così non si muore mai secondo me.

Cinquantatré capitoletti in 92 pagine divisi in quattro sezioni: (Scioglimento) 41-53, (Attività) 31-40, (Riavvio) 1-13, (Comunicazione) 14-30. Ma il libro ha 120 pagine: devi aggiungere le prose Altri segni, Tertium quid e Ultimo esempio. FONDAMENTALE è la nota di p.119, qui l’autore ti dice come ha cucinato i suoi ingredienti e tu lo devi sapere. L’editore è Tic, Roma.

COSA. Non lasciarti stupire da COSA c’è in questo libro perché ci trovi ingredienti di tanta filosofia degli ultimi settanta anni. Ma leggendo avrai anche l’illusione che Broggi sia riuscito – che bello è illudersi! – a portare quei traguardi un po’ più in là. Ed è bravo lui a fartelo credere. La poesia è bugiarda (e vera). Così mentre leggevo mi sono illuso di vederevivere le tue tette, Polly. Prima di pensarle, prima di farle morire in definizioni pensieri parole. Io seduto in poltrona, tu che tagliavi l’insalata. E mi sono sentito più vivo quando Alessandro ha scritto proprio per me “La mia visione del mondo è in effetti l’ostacolo più grande al libero fluire dell’esistenza” (p.17).

4.

COME. Scaglie che brillano sul bianco. è fatto di scaglie spesso prelevate tali e quali (libri, media…). È il paguro che entra nella conchiglia non sua su cui si sono incollate scintille di pixel colorati. Ne nascono poemetti di frasi accostate dal sapore concettuale (20-40 righe). Ogni frase lancia bagliori di senso alle sue vicine e ne riceve. Leggi e senti piccole scosse di piacere, è la vita che vibra in te, quella che è prima dei pensieri delle definizioni delle percezioni. È il Sì. In questa arte dell’accostare scaglie Broggi è bravissimo. È SUPER. Ti voglio offrire un caffè!, penso mentre leggo. Io, Alessandro e Borroughs al Caffè Stella. Quando un autore è bravo gli dico dai che ti porto al Bar Stella.

5.

PIACERE. Leggi e provi un piacere sottile per la bravura dello scrittore. Lo stile. Eccone un esempio: “Ambiti e sortite, vicissitudini, riverberi, germinazioni, tropismi e pasture, giaciture; farragini, incagli, languori e disinganni…” (p.46). Nuclei di parole – ne trovi molti – che fanno vibrare l’impianto concettuale di grazie a increspature di piacere sottile. È la mia generazione, quella dei nati intorno al 1970, sbocciata nei tepori azzurrini del postmoderno. Leggi e senti piccole scosse di vita, di ‘sì’ (cfr. supra). Talvolta fioriscono sulla pagina anche corolle di pixel fosforescenti, delicati: “La luce dorata del tramonto discendeva la città dentro le sue proporzioni…” (p.13), “Il portamento dei pioppi, del sole primaverile, il rapido addensarsi dell’oscurità in un cielo estivo…” (questa frase me la sono appuntata su una bustina di zucchero senza segnare la pagina, trovala tu). E non ti fare ingannare dalla virgolette caporali o inglesi fra cui trovi queste parole, è Broggi.

LA TUA VOCE. Ho letto ed ho la tua voce nella testa, Alessandro. Ho la voce di Alessandro nella testa. Quando l’ho incontrato, lui aveva i bottoni del cappotto che gli stringevano troppo il torace, 2022 Milano Assab ONE. Guarda che hai i bottoni del cappotto che ti stringono troppo il torace, gli volevo dire. Alessandro ha ascoltato le Nughette, rideva (forte). Era febbraio, c’era freddo e la porta del bagno era blu. In quel momento ho sentito che gli volevo bene. E anche adesso sento la sua voce che mi dice: “La mia visione del mondo è in effetti l’ostacolo più grande al libero fluire dell’esistenza”. E la Polly taglia l’insalata.

FINE

I nervi, il cuore e la Storia. Intervista a Rosella Postorino

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a cura di Pasquale Palmieri

 

“Siamo tutti mossi dal desiderio, dubbiosi sulla felicità possibile, tentati da un impossibile ritorno a casa, gettati nostro malgrado nella Storia”. Prendo in prestito queste parole dalla quarta di copertina del nuovo libro di Rosella Postorino: Nei nervi e nel cuore. Memoriale per il presente (Solferino, 2024). Sono di certo le più efficaci per descrivere un testo complesso, un “diario pubblico” fondato sullo “scambio tra narrazione personale e collettiva”, ma anche sull’idea che le nostre scelte e le nostre esistenze possano seguire delle traiettorie comuni, pur rimanendo uniche e insostituibili. Rosella Postorino ha bisogno di poche presentazioni: autrice di romanzi di successo (come L’estate che perdemmo Dio, Il corpo docile, Le assaggiatrici, Mi limitavo ad amare te), vincitrice del Premio Campiello 2018, finalista al Premio Strega 2023, curatrice e traduttrice di grandi opere letterarie. Ha accettato di rispondere, con gentilezza e generosità, alle domande che le ho posto per Nazione Indiana.

 

“È l’anno in cui il Festival di Sanremo lo vinsero Morandi, Tozzi e Ruggeri con Si può dare di più, l’anno di Figli, il più bel brano di Toto Cutugno, l’anno in cui nelle nuove proposte si impose Michele Zarrillo: io so a menadito La notte dei pensieri, pure se non mi piace. Soprattutto, […] è l’anno di Bella d’estate”. Il 1987 appare all’inizio del tuo “memoriale per il presente” e ritorna in diverse pagine, fino alla fine del libro. Riemerge dal tuo passato come una sorta di spartiacque fra l’infanzia e l’adolescenza, o fra l’innocenza e una prima presa di coscienza del dolore. 

Il 1987 è l’anno della cacciata dall’Eden, l’anno dello sradicamento, cioè dell’emigrazione da Reggio Calabria alla Liguria. Però credo che la coscienza del dolore fosse precedente, così come non credo di essere diventata adolescente allora. Semplicemente ho capito che le persone possono essere trattate da diverse, da straniere, e tali sentirsi. Ho capito che si può perdere l’Eden, appunto, per quanto imperfetto quell’Eden sia – il mio lo era. Partendo, ho perso la comunità: nonni, zii e cugini come una certezza quotidiana. E ho visto i miei genitori deboli e infelici. Forse il trauma per i bambini è questo: vedere i genitori traballare.

 

Le tue memorie sono accompagnate da un elenco ricchissimo di prodotti mediali. Leggendo il libro, ho scoperto che non hai mai amato davvero Pippi Calzelunghe perché era “troppo forte”, che volevi somigliare a Candy, che avevi nove anni e Anne Frank era il tuo personaggio letterario preferito. Anche l’immagine di tua madre da giovane è legata, in alcuni passaggi, alle “telenovelas” con Veronica Castro o alla lettura di “Confidenze”. A tratti si ha l’impressione che i film, le canzoni, i libri, i programmi televisivi ti aiutino a mettere ordine nel caos dei ricordi. O forse sono anche espedienti per tentare di uscire dall’isolamento emotivo? Da scrittrice, ti senti meno sola nel cercare un contatto con lettrici e lettori che hanno conosciuto quelle stesse parole, quelle stesse immagini, quelle stesse note? 

Era mia nonna che leggeva “Confidenze”, ma Veronica Castro la guardavamo tutti. La sigla di Anche i ricchi piangono è per me una madeleine. Mi strugge e mi consola, è un luogo preciso della memoria che porta con sé odori e gesti e sentimenti. La cultura di massa ha questo effetto emotivo di intersecarsi con la nostra vita, anche con i momenti più dolorosi della nostra vita. Gli oggetti – i prodotti del mercato – nel momento in cui ci appartengono, e si fondono con la storia delle nostre case e delle persone che le abitano o le hanno abitate, possono farci paura o tenerezza. Non si tratta quindi di mettere ordine né di cercare un contatto con lettori della stessa generazione. Noi siamo fatti anche di questo: delle immagini che abbiamo visto, delle canzonette che abbiamo ascoltato, dei jingle pubblicitari e dei titoli sulle prime pagine dei giornali, dei fumetti e delle stragi annunciate al telegiornale, come racconta Gli anni di Annie Ernaux. Nei nostri ricordi, dice Ernaux, le immagini di Auschwitz convivono con la réclame di un detersivo. La memoria funziona semplicemente così. La scrittura talvolta riesce a restituirne la complessità.

 

Il tuo libro fa i conti con la pandemia, la quarantena, la paura del contagio. Ricordi che il virus “trasformava i nipoti in carnefici dei nonni, proliferava sull’affetto familiare, mutava gli abbracci in gesti aggressivi, i baci in tradimento, ribaltava la nostra psicologia, la nostra antropologia, tanto che in pochi riuscivano a adeguarsi, e gli altri si confondevano, sbagliavano, diventavano colpevoli”. Non so spiegarti bene perché queste parole mi colpiscano tanto. Ho l’impressione che, a distanza di qualche anno, ci sia ancora una grande difficoltà nel raccontare il Covid e il suo impatto sulle nostre vite. Cosa ne pensi?  

Credo che per raccontare bene le cose serva una distanza nel tempo. Per raccontarle con l’epica di un romanzo, per esempio. In quel caso per me c’era la presa diretta di un’angoscia che stavo vivendo, quella parte ha consapevolmente il fiato corto, è quasi un grido in mezzo agli altri.

 

In alcuni passaggi del libro il rapporto tra dolore e felicità si intreccia con il rapporto fra malattia e guarigione. Racconti di aver cominciato una terapia cognitivo-comportamentale, perché volevi “salire sugli ascensori, prendere voli intercontinentali, scendere a patti con il precariato lavorativo, con la ferocia che era abitare, da poveri, una metropoli”. E ti sentivi “colpevole” se non riuscivi a raggiungere questi obiettivi. È ancora così? Rivendichi ancora il diritto all’inquietudine, all’essere inadattabile a un ruolo sociale, alla mancanza di guarigione? 

Sì, li rivendico, ed è per questo che credo che la psicanalisi – la mia prima terapia, durata cinque anni, era psicanalitica – sia stata per me fondativa e formativa. La psicanalisi non ha l’obiettivo di renderti “adatto”. Nel mio caso, mi ha aiutato ad accettare il mio desiderio di scrivere e a inseguirlo anche se faceva paura, anche se dietro ogni vocazione c’è il dolore possibile del fallimento. Ma quello era ed è il mio unico modo di stare al mondo.

 

Nel libro dichiari apertamente il tuo amore per i film di Nanni Moretti. Ricordi come i suoi personaggi facciano “domande che non possono avere risposta”, e le facciano ossessivamente a tutti “fino a risultare inopportuni”. Il loro “inesausto tentativo di capire resta vano, come quello di ogni scrittore, e di ogni individuo”. Sembra di intravedere in queste righe la tua idea del mestiere di scrittrice. Scrivi “per cercare riscatto” e non ti senti “riscattata mai”. Scrivi per rivendicare il “diritto di trionfare e di perdere”, di essere limpida e imperscrutabile.

Sì. Ma forse io vedo il gesto, anzi la tensione, la postura della scrittura ovunque, perché è in fondo ciò che nel mondo più mi interessa. “Io sono assicurata in una frase e in nient’altro”, scrisse Ingeborg Bachmann in Malina, “il mondo non ha un’assicurazione per me”. È una delle frasi della mia vita. E tuttavia, sempre in Malina, l’Io protagonista dice che la lingua è il castigo, perché sarà sempre incapace di restituire la complessità del reale. Ecco, la scrittura si muove in questa contraddizione senza rimedio, e proprio per questo, perché non può salvare nessuno, mi fa sentire un po’ più salva.

 

Ricordi che le donne si sentono “responsabili del desiderio di uomini verso cui non provano desiderio”. Parli della “soggezione verso il maschile”, in particolare “il maschile osannato dalla collettività”. Rivendichi il valore politico, culturale, sociale e umano del “discorso sul corpo”. Immagino non sia stato semplice trovare il coraggio di affrontare questi temi parlando in prima persona, mettendo in gioco le tue esperienze, in un libro come Nei nervi e nel cuore

Ho sempre parlato di questo, ma trasfigurandolo nei personaggi e nelle storie dei miei romanzi. Ci ho messo vent’anni esatti di scrittura (ho pubblicato il mio primo racconto in un’antologia di Einaudi nel giugno del 2004) per parlarne in modo personale.

 

Nel tuo memoriale, ti scopri “gettata nella Storia e dalla Storia condizionata”. Sono nato come te alla fine degli anni Settanta, e come te mi sono lasciato convincere di appartenere a “una generazione senza trauma”, in fondo trascurabile, pronta a scivolare “fuori dalla Storia” senza rendersene conto. Credi che le persone della nostra età abbiano una “tonalità emotiva” che le contraddistingue? Abbiamo davvero un metodo, o solo un espediente, per non sentirci parcheggiati nel nostro tempo? 

Io credo che considerare la nostra generazione senza trauma fosse una semplificazione e anche una stigmatizzazione. Che cosa sono state le stragi di mafia del 1992 se non un trauma? La guerra nei Balcani, che cos’è stata? Nel cuore dell’Europa, a meno di cinquant’anni dopo la seconda guerra mondiale, c’erano di nuovo dei campi di concentramento, gli stupri di massa. E il G8 di Genova, e l’11 settembre? Nessuno di noi è partito per la guerra o ha vissuto in Italia una guerra, è vero, ma questo non significa essere avulsi dalla Storia. Ogni vita è condizionata dalla Storia, proprio nel senso che alcuni sentimenti sono tollerati o si esprimono in maniera diversa a seconda delle epoche storiche, e dunque anche ciò che più consideriamo privato è in realtà il risultato di un sistema culturale legato al tempo.

 

La lettera

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Foto di Andrys Stienstra da Pixabay

di Silvano Panella

Mi trovavo all’esterno di un locale improvvisato, tavolini sbilenchi sotto una pergola che non aveva mai sostenuto viti – non sarebbe stato possibile, faceva troppo caldo, davanti a me il deserto africano, l’aridità giungeva fin dentro i bicchieri, polverosi e arsi. L’oste servì prima un cliente ben vestito, il volto rovinato da imprese spossanti. Quel volto mi fece pensare che anch’io avevo avventure da raccontare – le trascriverò in un libro. Quando finimmo di mangiare il cuscussù, io e l’altro cliente ci ritrovammo a parlare di buone strade, non in senso metaforico ma proprio: dove mettere i piedi senza finire in qualche trappola mortale lasciata dall’ultima guerra, dalle ultime rivolte aizzate da nazioni profittatrici, dalle ultime dimostrazioni dei venditori d’armi, dagli ultimi…

«Ho capito. Segua quella striscia di terra scura. La segua attentamente. So che sotto il sole potrebbe essere difficile distinguere tutte le tonalità della terra, perciò non alzi mai lo sguardo all’insù», dissi all’uomo.

«Non ho più buoni occhi»

«Mi dispiace»

«Potrebbe aiutarmi. Le pagherei il disturbo»

«Dove è diretto?»

«Sto cercando una lettera»

«Mi spieghi meglio che può ma con il minor numero di parole», dissi, irritato dal caldo.

«Ero un diplomatico. Fummo attaccati durante uno spostamento. Spari, ferimenti, razzie. Tenevo la lettera nella borsa che mi fu sottratta. Avrei dovuto metterla in tasca. Ma sa, nelle tasche le lettere si piegano»

«Non mi pongo mai questi problemi. Però la capisco, lei era un diplomatico, abituato a salvaguardare i formalismi dei comportamenti, le formalità delle procedure, le forme delle lettere. Cosa le è successo?»

«Mi sono ossessionato a recuperare la lettera a ogni costo e così ho perso ogni incarico»

«Succede, quando si tralascia ogni ritegno, ogni convenienza. Ecco perché preferisco voi diplomatici ai politici, prendete sul serio qualsiasi sviluppo e ne fate il motivo della vostra vita. E in più avete quella… lei ha quella regalità che ho ravvisato soltanto in certi ritratti a olio dipinti in occasione delle investiture. Io invece vado in giro nel modo più comodo possibile. Soltanto tra i banditi non sfigurerei»

«Questo è interessante», disse l’ex diplomatico, e per la prima volta sorrise.

Mi fece piacere che quell’uomo dimagrito e malinconico, quell’uomo che era passato dai fasti delle ambasciate all’oblio della solitudine, potesse ritrovare il sorriso a causa mia. Ora quell’uomo stava meditando proprio davanti a me – forse elaborava un piano, forse mi immaginava mentre entravo senza esitazione nel punto più malfamato del paese, il punto esatto, la confluenza degli esemplari più malvagi del genere umano. Per una lettera, poi. Cos’era? Un reperto di squisita calligrafia, di valore storico? O uno scritto capace di mutare le sorti del mondo? O una sciocchezza? Sarebbe stato divertente rischiare la vita per salvare l’invito a un ballo già avvenuto. No, quella lettera doveva avere un valore. Certo, non eravamo più ai tempi delle dispute tra regni bizzosi, eravamo in un limbo nel quale si poteva dire una cosa e il suo contrario, si poteva cominciare un’impresa e poi rinunciarvi senza il timore di essere redarguiti perché nel frattempo gli osservatori si erano distratti – forse era il surriscaldamento globale che infiacchiva i popoli.

«Con il suo aiuto, potrei recuperare la lettera», l’ex diplomatico disse.

«Lei sa dov’è?»

L’ex diplomatico annuì. Fu un sussulto rapido e convulso, la testa su e giù, su e giù precisamente, senza esitazioni. Non ero convinto della sua risposta né della sua salute mentale. Assecondandolo, mi sarei ritrovato nei guai. Era il tipico uomo da salutare con garbo e da ascoltare con rispetto, ma poi bisognava liberarsene. E io, con tutta l’esperienza accumulata in anni di esplorazioni, di sortite, di incontri, non riuscii a non rifiutare l’astrusa missione propostami dall’ex diplomatico. Sarà perché ho sempre ammirato chi si prefigge obiettivi distanti, ideali, irraggiungibili.

Senza accorgermene, mi ritrovai a seguire l’uomo. È così, proprio così, succede, per un momento più o meno lungo si perde il contatto con la realtà – infatti non ricordo chi di noi due pagò il conto per entrambi nonostante avessimo mangiato separatamente. E poi, se io ero un avventuriero e all’occorrenza una guida, perché ora seguivo un’altra persona anziché precederla? Fermai l’uomo prima che proseguissimo ulteriormente nel deserto, destinati a una morte atroce, estatica. Gli dissi di chiarirmi il suo piano. L’uomo estrasse da una tasca un foglio consunto e ripiegato e me lo porse. Era una mappa. Alcune località erano cerchiate, altre cancellate da pesanti e fitti tratti d’inchiostro. L’uomo diceva che andavano controllate le località cerchiate, pericolose perché sotto il controllo dei banditi. Questa mappa un tempo razionale come il suo cartografo e ora piena di scarabocchi mi convinse a desistere. Finsi di interpretare gli scarabocchi e dirottai l’uomo verso l’ospedale. Due brave suore se ne presero cura, una terza mi disse di conoscerlo. Era stato davvero un diplomatico, aveva davvero perduto una lettera in uno scontro armato. Ancora più incuriosito, andai dal mio amico al consolato. Anche lui conosceva l’ex diplomatico.

«Un signore distinto, di grande rettitudine, impazzito a causa di una lettera»

«Una lettera importante?»

«Può darsi. Di sicuro per lui. Per gli altri, chissà»

Le parole del mio amico mi fecero immaginare che forse quella lettera avrebbe potuto migliorare il corso degli eventi – un pensiero folle almeno quanto la folle ricerca della lettera a opera dell’ex diplomatico. Per riuscire a cambiare le sorti dell’umanità avrebbe dovuto esserci scritto qualcosa di molto potente se non proprio di magico. Oppure, era una buona lettera che avrebbe suggerito a un sottosegretario gli spunti per convincere il suo ministro, il ministro avrebbe illustrato progetti ambiziosi durante un convegno internazionale e i suoi omologhi stranieri avrebbero tratto l’ispirazione per ottenere dai governi finanziamenti opportunistici ma concretissimi. Un mutamento radicale partito da riflessioni messe per iscritto: doveva essere questo. Sicuro che la lettera fosse stata distrutta, sicuro che qualcun altro avrebbe spinto il mondo a occuparsi dello sviluppo del continente, non io, no, non ero in grado di tradire il mio individualismo per diventare un dilettantesco merciaio di buoni propositi, lasciai stare e andai in cerca della prossima avventura.

I tre quinti sconosciuti di Charlus

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Per Nuova Editrice Berti è da poco uscito La gelosia di Charlus e altri scritti dai Cahiers di Marcel Proust, a cura di Mariolina Bertini, con postfazione di Ezio Sinigaglia e nota bibliografica di Giuseppe Girimonti Greco. Pubblico le ultime pagine della postfazione. [ot]

di Ezio Sinigaglia

[…]

Di qui si accede allo sterminato reame di Sodoma: i personaggi che lo abitano sono numerosissimi, ma nessuno può aspirare neppure alla lontana al grado di rappresentatività che va riconosciuto al barone di Charlus, sia per la sua presenza, di crescente importanza, in tutti e sette i volumi di cui la Ricerca si compone, sia e forse ancor più per la forza e la complessità della sua personalità piena di contraddizioni.

Charlus è un personaggio fortemente caratterizzato dalla stranezza e imprevedibilità dei comportamenti, tanto che sarebbe difficile trovare, nelle sue innumerevoli apparizioni nel romanzo, una singola occasione in cui il barone non faccia o dica qualcosa di inatteso e sorprendente. Tuttavia, se dovessi indicare, fra le decine e decine di casi, il suo gesto più bizzarro (e alla prima lettura più inspiegabile), non avrei dubbi: è l’incredibile cerimoniale di saluto che Charlus riserva al narratore poco più che bambino quando ne fa ufficialmente la conoscenza, cioè quando sua zia, Madame de Villeparisis, glielo presenta davanti al Grand Hotel di Balbec. Qui il barone, «evitando di guardarmi, borbottando un vago “Piacere” – cui fece seguire alcuni “hum, hum, hum” per dare alla sua cortesia qualcosa di forzato – e ripiegando il mignolo, l’indice e il pollice, mi [tese] il medio e l’anulare, privi di qualsiasi anello, che io strinsi sotto il suo guanto scamosciato» (I, 914). In tanta degnazione e superbia del salutante, dovute alla consapevolezza del suo rango inarrivabile, non c’è nulla di specificamente charlusiano: tutti i Guermantes salutano il resto dell’umanità così, con sufficienza ed esplicito distacco, tendendo ad esempio il braccio nella sua intera lunghezza, come fa il pur amabile Saint-Loup, affinché la distanza dal salutato sia la massima possibile. Di charlusiano c’è invece l’idea di porgere, al posto della mano, due sole dita ritraendo le altre tre. È un gesto sdegnoso? Sì, senza dubbio: ma, nell’economia del romanzo in generale e della costruzione del personaggio in particolare, è anche un gesto dall’importante contenuto simbolico, se vogliamo ammettere che, nel porgere due dita al posto della mano, il barone di Charlus dichiara apertamente di essere disposto a far conoscere soltanto una parte di sé stesso, pari a due quinti: gli altri tre resteranno segreti.

Naturalmente, uno dei tanti svelamenti di cui, nel suo lungo percorso, tortuoso e impassibile a un tempo, va alla ricerca La ricerca (e uno dei tanti itinerari monotematici che il lettore è libero di seguire dal principio alla fine) è lo smascheramento della parte nascosta di Charlus. Un primo segreto viene svelato, come si è visto, in Sodoma e Gomorra I: si tratta dell’omosessualità del barone. Siamo all’incirca a metà del romanzo e, per scoprire la faccia più segreta di questo segreto, dovremo attendere quasi la fine (IV, 479 sgg.), quando l’eroe, ancora una volta grazie a una prodigiosa commistione di audacia e di fortuna, vedrà premiato il suo talento di voyeur-écouteur nel bordello di Jupien, assistendo a una scena drammatica e grottesca di sadomasochismo, orchestrata e governata dallo stesso Charlus in vista del suo piacere, che è tutt’uno con la sua sofferenza.

Questa rivelazione finale è preparata da varie anticipazioni, che tuttavia sfuggono facilmente al lettore per la loro lontananza reciproca e, soprattutto, per la grande distanza che le separa dalla scena della camera 14 bis. Ma il ri-lettore, che ha ben presente nella memoria quest’ultimo episodio, può reperire via via queste anticipazioni e concatenarle in una serie coerente. Qui ne ricorderò due che mi sembrano di particolare importanza.

La prima precede addirittura l’entrata in scena di Charlus (se si esclude la sua fuggevole apparizione nel giardino degli Swann a Combray: I, 172-173). È il nipote Saint-Loup a raccontare al narratore le gesta giovanili di suo zio Palamède, che è atteso dopo poche ore a Balbec e del quale dunque l’eroe sta per fare la conoscenza. Si parla della sua «lontana giovinezza», dei suoi mirabolanti successi con le donne e di «una garçonnière che spartiva, con tre amici» non meno belli di lui e, come lui, infaticabili amatori (I, 909-910). Racconta Saint-Loup che un conoscente «“aveva chiesto a mio zio di poter andare in questa garçonnière. Senonché, appena arrivato, non fu alle donne, ma allo zio Palamède che si mise a fare una dichiarazione.”» Ciò che lascia sbalorditi è la punizione che Charlus e i suoi due amici riservano al “colpevole”: «“lo spogliarono, lo pestarono a sangue e, con un freddo da dieci sotto zero, lo buttarono a calci sulla strada, dove fu trovato mezzo morto”.»

La seconda anticipazione cade qualche centinaio di pagine dopo, durante la passeggiata che Charlus e il narratore fanno insieme, tornando a piedi dal “pomeriggio” a casa di Madame de Villeparisis. A un certo punto il barone prende a fantasticare intorno a Bloch, l’amico ebreo di Marcel: «“Potrebbe forse affittare un locale e procurarmi qualche divertimento biblico […] Per esempio, uno scontro fra il vostro amico e suo padre, con ferimento del secondo, come fra David e Golia. […] Potrebbe anche, già che c’è, prendere a bastonate quella carogna […] di sua madre”» (II, 346-347).

Nel secondo di questi passi e, con ogni probabilità, anche nel primo, è la fantasia a prevalere sulla realtà: ma, in quelle che chiamiamo “perversioni sessuali”, è proprio la fantasia l’elemento determinante, e non si può certo negare che la chiave del sadismo (e del suo opposto complementare, il masochismo) sia già stata messa a disposizione del lettore che fosse interessato a indagare la complessa personalità del barone.

Più in generale, del resto, una componente di sadismo autopunitivo è presente in tutte le strategie seduttive di Charlus, che sembrano costruite per fallire: basterà citare l’esempio dei suoi maldestri tentativi di adescamento del narratore, o quello della sua goffa lettera ad Aimé (il giovane e attraente direttore del Grand Hotel di Balbec) o, ancora, l’esito con ogni probabilità solo platonico del suo corteggiamento del violinista Morel e la catastrofe umiliante in cui questo rapporto per così dire pigmalionico va infine a sfociare. Tutto sembra organizzato per nutrire un insaziabile senso di colpa che, originato dal tradimento (dei genitori, della famiglia, dell’educazione, della religione) di cui l’omosessuale si accusa, esige che ogni piacere sia sempre soffocato dalla sofferenza. Quello del tradimento è uno dei temi che accomunano le due “razze maledette”: soltanto che, nel caso degli ebrei, il tradimento si consuma uscendo dal gruppo (ad esempio cambiando cognome, come farà Bloch), nel caso degli omosessuali entrando a farne parte e contraendo quindi quella malattia vergognosa, e per definizione inguaribile poiché inesistente, che ha il nome di “inversione sessuale”.

È dunque logico che, con queste premesse, i soli tentativi di seduzione destinati al successo siano quelli esenti da ogni sovrastruttura culturale, legati esclusivamente al linguaggio del corpo, quasi animaleschi nella loro naturalezza istintiva, come esemplificato con meravigliosa semplicità dal corteggiamento che – in alternativa o a completamento della famosa similitudine vegetal-entomologica di Proust – potremmo definire “ornitologico”, tanto è rapido, efficace e variopinto nella sua codificata reciprocità, fra il barone e Jupien (II, 725 sgg.).

Questo segreto di Charlus (l’orientamento sadomasochistico della sua sessualità) non sembra volerci parlare soltanto di Charlus, ma di un carattere tipico della moderna Sodoma: un tratto psicologico cui mi piacerebbe dare il nome di “sansebastianismo”, cioè una mistica e un’estetica del martirio diffusissime nel mondo degli omosessuali fino a pochi decenni or sono, e forse abbastanza diffuse ancor oggi.

Di questo atteggiamento autopunitivo, che lo condividesse o meno, certo è che Proust era perfettamente a conoscenza. Sebastiano, santo patrono del reame di Sodoma, compare una sola volta nel romanzo, in un contesto in apparenza molto diverso ma convergente nella sostanza. Si parla (I, 157) di Legrandin e della lotta interiore che si combatte dentro di lui fra il moralista a parole, che disprezza lo snobismo degli altri, e lo snob assetato di riconoscimenti sociali «che egli nascondeva con cura nel fondo di se stesso», così da sentirsi una specie di San Sebastiano dello snobismo, «crivellato e illanguidito» da mille frecce. La somiglianza con il caso del barone di Charlus, che nasconde nel fondo di sé, sotto l’esibizione tenace di una virilità esagerata (le docce gelate, le lunghissime camminate, il disprezzo per ogni effeminatezza), il desiderio che lo illanguidisce, non potrebbe essere più evidente.

Non interessa qui indagare sainte-beuvianamente fino a che punto il personaggio emblematico di Charlus rappresenti e in parte viva l’omosessualità dell’autore: ciò che conta è piuttosto osservare la vitalità indomabile con cui, fra l’io inguaribilmente naïf dell’eroe e quello espertissimo dell’autore, l’io del narratore corra senza sosta come una spola, generando un pas de trois dalle coreografie svariate e originalissime. Ciò che conta è soprattutto constatare come l’autobiografia di Proust, trasfigurandosi nell’opera d’arte, si trasformi ogni volta, per prodigio, nella biografia del lettore.

 

Un’agricoltura senza pesticidi ma non biologica?

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di Giacomo Sartori

 

 

 

 

 

 

 

 

Un recente intervento su STORIEDELBIO è dedicato all’iniziativa svizzera di riduzione dell’utilizzo di pesticidi, e è accompagnato da un articolo apparso a questo proposito su una piattaforma elvetica di informazione. Il progetto, iniziato nel 2019, e promosso dall’associazione dei contadini che praticano l’agricoltura integrata (IP-Suisse), è sostenuto dalla grande catena di supermercati Migros, che assicura prezzi superiori (del 30%) a quelli normali, e dal governo federale, che garantisce dei pagamenti diretti (un tot a ettaro, diverso per le varie colture, e per la limitazione di impatto scelta) agli agricoltori che accettano di non utilizzare erbicidi e/o insetticidi e fungicidi. I suoi promotori lo presentano come un’alternativa all’agricoltura biologica, o comunque una terza via tra essa e l’agricoltura convenzionale, interessante sia per i coltivatori, in quanto meno esigente e laboriosa, che per i consumatori, per i prezzi inferiori rispetto al bio. E insomma come una strada meno difficile e “più elastica” (per la possibilità di ottenere delle deroghe, e per la possibilità di aderire all’iniziativa anche per una sola coltura di una rotazione, e decidendo annata per annata), alias una scorciatoia, per mirare a risultati sostanzialmente analoghi a larga scala. Ma è davvero così? Proviamo a ragionare con calma.

Per quanto riguarda i prodotti fitosanitari e i diserbanti, nell’agricoltura convenzionale vige in generale il (tacito) principio della massima efficacia, riferita alla quantità e alla valutazione di mercato del prodotto: si preferisce trattare molto, e massicciamente, per essere sicuri del risultato. Per ragioni prima di tutto economiche, perché si mira al massimo delle rese, e perché per molte colture il minimo difetto dei raccolti comporta un drastico deprezzamento, se non l’impossibilità di smercio. Qualsiasi iniziativa seria per ridurre il loro (eccessivo) impiego rappresenta quindi uno sforzo estremamente positivo, e va caldamente incoraggiata. Si può forse fare un parallelo con la salute umana e animale, che ci è forse più famigliare: con una somministrazione indiscriminata, o anche preventiva (utilizzata nella maggior parte degli allevamenti, fuori dall’Europa), di medicinali si ha la massima sicurezza riguardo alle singole patologie. Mentre un uso più oculato e ridotto comporta vantaggi di vario tipo (limitazione dei temibilissimi fenomeni di resistenza, riduzione degli effetti secondari, risparmio economico…), anche se certamente è più delicato, e può tradursi in una percentuale di individui ammalati superiori.

La differenza capitale è che se si perde una parte del raccolto riducendo gli insetticidi, gli antifungini o i diserbanti, non muore nessuno. E anzi, molti organismi utili, che sono vittime collaterali, possono trarne vantaggio, con una maggiore “salute generale”, misurabile in particolare in termini di biodiversità, di resistenza alle avversità della coltura, e di una minore esposizione degli operatori. E questo a scala aziendale, ma anche planetaria, a dispetto degli allarmismi che agitano strumentalmente la bandiera della fame, visto che produciamo di più di quello che consumiamo. Il danno può quindi essere meno grande di quanto sembra, o anzi nascondere un guadagno, facendo una contabilità economica che include anche i costi ambientali, presenti e futuri. Quest’ultimo modo di valutazione non è però quello dell’agricoltura industriale, il cui unico diktat è che le singole aziende producano il più possibile, in modo che i loro bilanci siano, nell’immediato, i più favorevoli. Qualsiasi costo ecologico e/o indiretto (per depurare le acque delle falde, per curare le patologie umane degli addetti e dei consumatori, per rigenerare i suoli…), qualsiasi danno inferto ai beni comuni (in particolare le degradazioni irreparabili dei suoli) o al pianeta (gas a effetto serra), o alla salute umana, non viene contabilizzato.

In ogni caso non basta porre degli obiettivi di impieghi più moderati, bisogna che gli agricoltori, che sono i diretti interessati, ci credano e si sentano accompagnati in questo percorso, che per loro è più complicato – ci vogliono più attenzioni – e non certo privo di rischi, a fronte di margini economici più spesso ridottissimi. Hanno bisogno in altre parole di garanzie di smerciabilità, di compensazioni economiche nel caso le rese risultino inferiori, di un efficiente supporto tecnico. Qualsiasi seria iniziativa che vada in questo senso, come quella svizzera, va quindi considerata molto positivamente, e caldeggiata. In realtà anche la Germania, sulla base di trentennali esperienze spontanee precedenti, ha avviato nel 2023 un programma governativo similare, e anche qui gli agricoltori che aderiscono (sempre su base volontaria, e anche per singoli appezzamenti), ottengono una compensazione a ettaro. Lungi dal rappresentare progetti marginali, nei due casi si stima che potrebbero essere convertite superfici notevolissime: 40-70% delle terre arabili (nel 2027) in Svizzera, e 11% (nel 2030) in Germania. E questo è senz’altro un fattore importantissimo.

L’errore del Green Deal dell’Unione Europea, era proprio questo, fissare degli ambiziosi e ben precisi obiettivi (la strategia “Farm to fork” mirava a un decremento del 50% dei pesticidi entro il 2030) senza promuovere coerenti misure che aiutassero a raggiungerli. Una delle ragioni delle recenti proteste degli agricoltori è proprio questa, e quindi l’obiettivo è stato cassato, anche se si continua a ritenerlo molto auspicabile, sulla base dell’opinione unanime di tutti gli esperti dell’ambiente. Ma pure il piano francese “Ecophyto”, lanciato già nel 2008, e finalizzato anch’esso a diminuire della metà l’uso dei pesticidi (il termine, inizialmente fissato al 2018, è poi slittato al 2030), anche qui senza contropartite, è stato quest’anno prima congelato, sempre a causa delle proteste degli agricoltori, e poi riavviato svuotandolo di fatto di ogni possibile efficacia. Nella nuova versione esso utilizza infatti un nuovo indice di misura che assicurerà il raggiungimento della soglia di diminuzione senza nulla cambiare, visto che esso conteggia anche i decrementi dovuti alla progressiva messa al bando dei composti da parte della UE.

 

OCULATEZZA VS VISIONE ECOLOGICA

Il nocciolo del problema è però un altro: fino a che punto si può spingere questa oculatezza delle somministrazioni, quanto si possono diminuire gli utilizzi dei prodotti chimici nocivi, mantenendo immutate le tecniche di coltivazione, o insomma con variazioni relativamente limitate? Per rispondere in modo serio bisognerebbe analizzare le varie colture nei vari ambienti, ascoltando quello che ne dicono i relativi conoscitori (non solo quelli succubi dei potentissimi – anche proprio nell’orientare i modi di pensare e i dibattiti – colossi che producono i pesticidi), gli agroecologi e gli studiosi dell’ambiente e della biodiversità, e naturalmente i coltivatori. Ma certo, parlando in generale, c’è del margine. E in qualche caso molto, in particolare per la cerealicoltura: non a caso queste esperienze partono da quella. Soprattutto se davvero si introducono alcuni cambiamenti nelle pratiche colturali che facilitano le cose (in Svizzera i promotori dell’iniziativa auspicano che si possa agire sulle rotazioni, che rendono gli attacchi meno intensi, sulle varietà resistenti, il controllo meccanico delle infestanti…). E se si accetta la contropartita di contenute diminuzioni delle produzioni, che vanno appunto rapportate con i minori costi economici indiretti riguardanti l’ambiente e la salute. E se la grande distribuzione e i consumatori sono pronti a accettare prodotti esteticamente meno perfetti. Tutte cose possibili.

Certo però grandissimi e maggioritari comparti dell’agricoltura industriale – senza parlare della frutticoltura e delle colture orticole – non possono e non potranno fare a meno di un impiego massiccio di pesticidi. Proprio perché si basano solo su quelli, e non su strategie complessive (ecologiche) di coltivazione ben più delicate da mettere a punto e da mettere in atto, perché presuppongono la presa in conto dei complicati e soprattutto molto vari funzionamenti della natura nei singoli ambienti. Per risolvere i problemi, che ora nessuno più nega, si fa un grande affidamento sulle tecniche di precisione spaziale, sull’intelligenza artificiale, su prodotti innovativi non tossici per la difesa delle colture e di stimolazione della crescita, ma i reali apporti sono ancora da venire, e tutti da dimostrare (mentre i costi sono molto elevati, impensabili per le agricolture povere). È utopico aspettarsi dei miracoli.

Gli stessi miglioramenti delle varietà con tecnologie genomiche, dei quali si fa un gran parlare, e sui quali si conta moltissimo, non hanno dato finora un grosso aiuto in questo senso, o insomma i vantaggi sono prestissimo scomparsi. Se si trattasse solo di agire su una o due leve, se la soluzione fosse così semplice (senza parlare dei costi economici e/o energetici), come le agroindustrie per interesse fanno credere (vendono loro gli strumenti che permettono di manovrarle), le enormi difficoltà dell’agricoltura attuale sarebbero presto accantonate. Molti studi recenti ci dicono, tanto per fare un esempio, che anche le concimazioni chimiche, che non vengono considerate dall’iniziativa svizzera di cui parliamo, quasi fossero un fattore che non c’entra nulla (o che anzi può palliare almeno in parte, tenendo alte le dosi, la diminuzione delle rese), hanno notevoli effetti negativi sulle patologie e sugli attacchi alle piante, e sulla vita del suolo, e insomma si ripercuotono sull’utilizzo di pesticidi, che diventano il necessario rimedio (e insomma il corollario).

Già nella prima parte del secolo passato, gli agronomi più validi e più illuminati – e l’ottima scuola italiana, che abbiamo dimenticato, era all’avanguardia – si sono invece resi conto che non si poteva agire su una sola leva (come fa l’agricoltura convenzionale), o su poche leve (come preconizzano queste nuove impostazioni). Che bisogna avere una visione globale dei campi coltivati, partendo dal suolo e dal suo funzionamento, e coltivare rispettando il più possibile i meccanismi naturali degli agrosistemi – che quindi vanno studiati – assecondandoli il più possibile, approfittando delle loro particolarità per piegarli alle nostre necessità. Questo è il solo e unico fondamento comune dell’agricoltura biologica e di ogni forma ecologica di coltivazione (permacoltura, agricoltura biodinamica..), le quali contrastano i “nemici” delle colture con più armi, prima di tutte la prevenzione, e strategie adatte alle varie situazioni messe a punto con gli stessi coltivatori, e valutate per tutti i loro effetti (e le tante interazioni). Un secolo di esperienze, e di costante crescita del comparto biologico, hanno dimostrato che è possibilissimo coltivare in questo modo, producendo cibi sani e abbattendo drasticamente i danni all’ambiente. Certo però è molto meno facile, e in genere relativamente più costoso, almeno se ci limitiamo alla contabilità di comodo che ci ostiniamo a utilizzare, che non include le stratosferiche fatture ambientali e sanitarie.

 

LEVE VS IMPOSTAZIONE ECOLOGICA

Alla luce di tutte queste considerazioni mi sembra molto interessante il recente elaborato, coordinato dall’INRAE francese, e scaricabile sulla rete, al quale hanno collaborato alcuni tra i migliori esperti europei. Esso cerca di valutare le reali prospettive future di queste iniziative di riduzione delle sostanze nocive di origine sintetica. Lo fa adottando una visione d’insieme (la globalità dei sistemi alimentari, comprendendo anche i consumatori), e ipotizzando tre diversi scenari, di crescente intensità/profondità, sebbene tutti finalizzati all’obiettivo di una Europa senza pesticidi di sintesi nel 2050. E provando a esemplificare ciascuno di essi con alcune colture tipiche di ambienti europei molto disparati.

Le sue conclusioni sono che le probabilità di successo, mantenendo al contempo la sovranità alimentare europea, sono alte, anche nello scenario più “soft” (quello che non prevede un cambiamento nelle abitudini alimentari), se però verranno utilizzate al contempo diverse leve. Tra le principali di queste sono la diversificazione delle colture nello spazio (biodiversità) e nel tempo (rotazioni), i miglioramenti varietali, la messa a punto di formulati di “biocontrollo” (microrganismi, induttori di resistenza…) per la difesa delle colture, un sostanziale incremento delle conoscenze (suoli, piante, microganismi), un miglioramento dei regimi alimentari umani (minori consumi di zuccheri, di grassi e di carne). Si noti che queste misure sono le stesse preconizzate e utilizzate dall’agricoltura biologica, anche se qui non è posta al centro la visione olistica che caratterizza quest’ultima, assente nel primo scenario, e appena abbozzata nel secondo.

Il fatto che queste nascenti iniziative di riduzione delle sostanze nocive  preconizzino di utilizzare più strumenti al contempo, almeno nelle intenzioni, le avvicina senza dubbio al modo di vedere di chi da decenni (per non dire un secolo) sottolinea la necessità di una visione ecologica dei campi coltivati e dell’alimentazione umana. La differenza tra le due impostazioni è però sostanziale, e è oggettivamente fuori luogo metterle sullo stesso piano. Alla luce della storia passata, è esemplare il caso dell’introduzione degli OGM, agire su una leva da sola, o ben che vada su poche leve, può portare a problemi ben più grossi di quelli iniziali. I tentativi di riduzione, che difficilmente si accompagneranno a radicali cambiamenti dei territori agricoli e del fare ricerca (quelli previsti dal terzo scenario dello studio citato), daranno verosimilmente buoni risultati per le colture meno problematiche, e in particolare i cereali. Si vede però male come potranno funzionare su colture più delicate/fragili (in altre parole più lontane da un equilibrio ecologico) e negli ambienti meno favorevoli, per particolarità legate al microclima (nei climi umidi gli attacchi fungini, ad esempio, sono molto più gravi), ai suoli…

Le reali potenzialità di queste esperienze potranno essere valutate in base agli effettivi risultati, e in base alle difficoltà che incontreranno. Si intravede però un’analogia con la rivoluzione verde, che ha permesso l’insediamento dell’agricoltura industriale – a scala mondiale – nelle aree pianeggianti più fertili, e ha devastato gli ambienti collinari e/o poveri. È probabilmente nei contesti agrari ecologicamente meno sbilanciati che queste strategie daranno il meglio, mentre gli altri saranno lasciati nelle grinfie dei pesticidi. I fattori discriminanti sono altri, ma anche qui non si può astrarre dalle potenzialità e dalle problematicità delle singole aree agricole per le singole colture. E anche qui c’è una acritica e non contestualizzata fiducia nelle tecnologie (in questo caso le nuove tecniche genomiche, l’intelligenza artificiale, e gli strumenti di precisione spaziale).

 

GLI INNEGABILI SUCCESSI DELLE AGRICOLTURE ECOLOGICHE

L’agricoltura biologica è invece una realtà di fatto, che ha dimostrato di poter produrre negli ambienti più diversi senza pesticidi di sintesi (diventa pretestuoso mettere l’accento solo su qualche composto più problematico che è consentito dalle legislazioni), senza concimi chimici e limitando drasticamente i danni ai suoli e all’ambiente. Il suo successo – con superfici più o meno ragguardevoli negli ambienti più diversi – indica una via percorribile nell’immediato, senza investimenti da capogiro, e anzi nella morigeratezza di materie prime e energetica. Si sottovaluta l’enorme peso di questo periodo di prova che ne attesta la fattibilità, quando non molti decenni orsono le accademie agronomiche dei vari paesi la consideravano all’unisono completamente velleitaria.

Ma certo per agricoltura biologica si può intendere anche il semplice rispetto – con strategie solo economiche e di mercato – dei limiti di legge delle regolamentazioni, ignorando la filosofia di base. E pensando che le leve disponibili si limitino al rispetto, con più o meno scaltrezza, delle normative. Oggi l’agricoltura biologica è anche questo, con una visione (anti)ecologica che è assimilabile a quella dell’agricoltura convenzionale, anche se le sue tecniche colturali sono meno impattanti. Lo sanno bene le sue stesse organizzazioni nazionali e internazionali. Per tagliare la testa al toro, si potrebbe usare il termine di agroecologia, se non fosse che anche questa etichetta viene sempre più spesso scippata per sistemi colturali ben lontani dai fondamenti della tradizione agronomica con una visione olistica.

Senza perdere tempo a questionare sui termini, credo che il comparto biologico e delle agricolture ecologiche debba continuare per la sua strada. Con la fierezza dei risultati raggiunti, in termini di superfici coltivate, di parti del mercato, di tecniche messe a punto, di crescente validazione dei principi di base, di consapevolezza dei consumatori, di affidabilità dei metodi di controllo. Ai quali aggiungerei ora anche quest’altro enorme risultato, che proprio tali iniziative dimostrano: anche l’agricoltura convenzionale sta rendendosi conto, trainata a ben guardare dal suo esempio, che bisogna agire su più leve. In altri parole essa è costretta a cominciare a rinunciare alla visione completamente miope che l’ha caratterizzata per una ottantina di anni: si tratta di una apertura di paradigma che non va sottovalutata. Del resto sono anni che osserva l’agricoltura biologica, e copia da lei tecniche e astuzie. Certo lo fa a modo suo, incallendosi a pensare che l’uomo tutto possa e tutto possa sottomettere, e con un immotivato e irrazionale culto delle tecnologie, quasi queste potessero palliare ai danni della completa cecità ecologica. Mi sembra pur sempre una forma di ammissione di impotenza, se non addirittura – a essere ottimisti – l’inizio di una svolta epocale.

Forte dei suoi innegabili successi, l’agricoltura biologica deve quindi continuare per la sua strada, migliorando le sue tecniche e i suoi saperi, badando a non perdere per strada i suoi fondamenti, e anzi rimettendoli al centro della sua pratica. Con la consapevolezza che purtroppo non ci sono scorciatoie: la natura è maledettamente complessa, e le miriadi leve sulle quali dobbiamo agire se vogliamo smettere di combinare disastri, a ben guardare sono le sue, non le nostre. Gli approcci che rifiutano di prenderne atto inevitabilmente si scontrano con la realtà. Senza chiusure di fronte a queste iniziative parziali, che con i loro limiti vanno viste come estremamente positive (sarebbero altamente auspicabili anche in Italia!), ma rifiutando che vengano utilizzate per continuare – anche solo surrettiziamente – a stigmatizzarla, denigrarla, ridimensionare la sua portata, offuscare la sua immagine, o celarne la capitale importanza per l’insieme del comparto agricolo e alimentare.

 

NdA Questo pezzo è uscito il 29.09.24 sul STORIEDELBIO con il titolo UN’AGRICOLTURA SENZA PESTICIDI MA NON BIOLOGICA? (Leve da azionare vs agroecologia). L’immagine: vigneti del Prosecco (Farra di Soligo).

 

Per Anne Sexton, nell’anniversario della sua morte

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di Rosaria Lo Russo

4 ottobre 1974 – 4 ottobre 2024. Oggi, cinquant’anni fa, moriva Anne Sexton, suicidandosi com’era vissuta, con ironia e strazio, sfarzosità sensuale e tenerezza infantile. Amava tentare platealmente il suicidio circa una volta all’anno e spesso vicino alla data del suo compleanno (il 9 novembre del 1974 avrebbe compiuto quarantasei anni). Ma quel 4 ottobre aveva dato un segnale chiaro che quell’ennesimo tentativo sarebbe riuscito, lasciando gli imprescindibili pacchetto di sigarette e accendino nello studio della sua ultima di una lunga serie di psichiatri e psichiatre. Poi, come è noto, si era denudata, rivestita di una pelliccia lisa ma ancora avvolgente di sua madre Mary Gray, si era seduta al posto del guidatore della sua lunga auto americanissima parcheggiata nel box auto come si usa in tutte le case bene dei suburbs yankee, aveva acceso il motore e respirato il gas. Quando la vide per l’ultima volta l’ex marito accarezzò la sua “Princess Anne”, la Bella Addormentata dell’omonima riscrittura autobiografica della fiaba dei Grimm, che potete leggere in Trasformazioni. Ma lei si sentiva piuttosto “un’ebreuccia nel suo campo di sterminio” (come aveva scritto in Al Sor Decesso che se ne sta sull’uscio), campo di sterminio la sua casa borghese WASP, come per tante casalinghe disperate suo alter ego, un alter ego svuotato ormai, oltre che di senso, di tutti gli affetti dopo il divorzio da Kayo e l’allontanamento delle figlie. Una morte annunciata, come tanti suicidi di poetesse, per inadeguatezza alle aspettative sociali che gravavano sulle donne: la moglie-e-madre fallita toglieva il disturbo, allontanava l’ingombro della sua folle testa poetante di casalinga giullaresca, dove però si sentiva “rinchiusa” come in una “casa sbagliata”, aveva scritto nella “preghiera” Per l’anno della demenza. Quindi una morte-denuncia, come quella di Amelia Rosselli, di Sylvia Plath, tutte donne e poete suicidate dalla Storia (quella di tutti più quella particolare delle donne). Sylvia Plath e Amelia Rosselli, poete infuriate come Sexton, hanno da tempo ricevuto la corretta consacrazione, l’assunzione al ‘canone’, anche in Italia, divenendo finalmente e giustamente classici del secondo Novecento. Sexton ancora no, resta un fenomeno umano e letterario e come tutti i fenomeni è guardata ancora, forse, con un residuo sospetto, come succedeva quando, con il mio co-traduttore di sempre, Thomas Kirk, iniziammo a tradurre i suoi testi trent’anni fa e a cercare un editore ‘coraggioso’. Nel cinquantesimo anniversario della morte di Anne Sexton auspico che i lettori e le lettrici in italiano possano avere quanto prima tutta la sua poesia, la sua attualissima poesia, raccolta in un’opera completa. Che diventi un classico contemporaneo e non più, o non solo, una meteora di diversità femminile eccitante ma temibile, ancora troppo temibile.

 

 

Al Sor Decesso che se ne sta sull’uscio

L’ora si abbuia. L’ora che era lunga
si accorcia l’ora occhialuta e stralunata,
si acconcia la sottana, canta una canzone sdolcinata,
flirta coi ragazzi e gli dà uno strappo,
che nazimamma, l’ora, di crauti e birra,
o me vecchia adolescente, presto si abbuierà.

Ma mi ricordo com’era giovane un tempo
quando giocava a strega maialetta col cerchietto
e ballava con sei maschi tremendi il jango,
quando faceva scappare i polli dal bacchetto
e prometteva di sposarsi Tizio e Caio,
ma non ci pensava poi manco per niente
di ritornar la sera presto al suo pollaio.

Ci fu un tempo che il tempo aveva tempo
e il mare mi lavava con delicata brezza.
Non esiste il terrore quando si nuota nudi
o si va forte in motoscafo e si lancia la lenza.
Ci fu un tempo che col singhiozzo il fiato trattenevo
ma in quell’istante il Sor Decesso non lo incontravo.

C’hai tante maschere, Sor Decesso, grande attore.
Una volta ti eri impomatato un po’ alla Valentino
col gin di mio padre in saccoccia di straforo.
E anche se il mio vitino di vespa stava appeso all’uncino
del tuo lungo braccio bianco, per vertigini cretina,
mai e poi mai, no, non mi ghermiva
il tuo fascino di canaglia truffaldina.

Poi Sor Decesso tu mi hai teso un’esca,
così mi han detto, alla prima défaillance,
spronando la suicidina a festeggiar la sua
nella gran pupazzata grande entrée.
Ne uscivo impasticcata gridando adieu:
un’ebreuccia nel suo campo di sterminio.

Ora la tua birrosa trippa straripa, Dottor Balanzone.
Mentre scorreggi ti saltano i bottoni sul panzone.
Come posso giacermi con te, mio comico Florindo,
che sei così di mezz’età e tanto basso ceto.
Allora tu m’imbusti e tu mi pressi,
perbenino, come una farfalla, tu mi pressi
e per sempre la mia faccia pressata starà
accanto a quelle di Mussolini e il Papa.

Sor Decesso, quando andasti ai forni fu corto,
e cortese altrettanto fosti con l’affogato,
e più carino di tutti col bimbo mio dell’aborto
e fosti così e così anche coi crocefissi tutti.
Ma quando vieni alla mia morte fa’ che sia uno slow,
l’ultima pantomima, l’ultimo porno show,
perché devo ancora una volta provare
prima di potermi davvero spaparanzare
nella mia nera cassapanca nuziale.

 

 

For Mr. Death Who Stands With His Door Open

Time grows dim. Time that was so long
grows short, time, all goggle-eyed,
wiggling her skirts, singing her torch song,
giving the boys a buzz and a ride,
that Nazi Mama with her beer and sauerkraut.
Time, old gal of mine, will soon dim out.

May I say how young she was back then,
playing piggley-witch and hoola-hoop,
dancing the jango with six awful men,
letting the chickens out of the coop,
promising to marry Jack and Jerome,
and never bothering, never, never,
to come back home.

Time was when time had time enough
and the sea washed me daily in its delicate brine.
There is no terror when you swim in the buff
or speed up the boat and hung out a line.
Time was when I could hiccup and hold my breath
and not in that instant meet Mr. Death.

Mr. Death, you actor, you have many masks.
Once you were sleek, a kind of Valentino
with my father’s bathtub gin in your flask.
With my cinched-in waist and my dumb vertigo
at the crook of your long white arm
and yet you never bent me back, never, never,
into your blackguard charm.

Next, Mr. Death, you held out the bait
during my first decline, as they say,
telling that suicide baby to celebrate
her own going in her own puppet play.
I went out popping pills and crying adieu
in my own death camp with my own little Jew.

Now your beer belly hangs out like Fatso.
You are popping your buttons and expelling gas.
How can I lie down with you, my comical beau
when you are so middle-aged and lower-class.
Yet you’ll press me down in your envelope;
pressed as neat as a butterfly, forever, forever,
beside Mussolini and the Pope.

Mr. Death, when you came to the ovens it was short
and to the drowning man you were likewise kind,
and the nicest of all to the baby I had to abort
and middling you were to all the crucified combined.
But when it comes to my death let it be slow,
let it be pantomime, this last peep show,
so that I may squat at the edge trying on
my black necessary trousseau.
(da The Death’s Notebooks, 1974)