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Dopo la teoria, ancora la teoria

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di Paolo Zublena

Se si dovesse tracciare in poche righe la storia della critica (e del rapporto tra teoria e critica) nell’ultimo mezzo secolo, il risultato potrebbe essere – con gli ovvi limiti di una semplificazione – relativamente lineare e geograficamente non troppo discontinuo, tolte ovvie sacche di discronia, di inerzia o di marginalità. A grandi linee,

Ci vuole molta lotta nella classe: una lettera aperta

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di
Chiara Di Domenico

Cara Giulia,
quando penso a te e a me mi viene in mente uno strano collage che forma due donne. Tu col tuo lavoro, e io col mio. Mi viene in mente, a pensare questo, che abbiamo una grande responsabilità verso chi oggi un lavoro non ce l’ha, o rischia di perderlo (a dire il vero anche io ho un contratto a progetto, come sai, ma sono serena e fiduciosa nel futuro). Abbiamo più o meno la stessa età. Siamo nate nello stesso periodo, ma siamo cresciute in maniera diversa. Qualcosa però nonostante tutto ci ha accomunate. Gli anni Settanta in cui siamo nate, l’amore per i libri, i nostri padri. Tuo padre è stato minacciato dalle Brigate Rosse, mio padre nel 1978 rischiava la pelle mentre faceva il suo lavoro, chiamato a presidiare come poliziotto le strade di Roma, nei giorni del rapimento Moro. Chiamava ogni sera, per fare sapere che era vivo.

In questi giorni dove per fortuna l’unico piombo è quello della carta, quegli anni in cui siamo nate sono stati evocati più volte. Io, a parere di alcuni, sono stata una terrorista a fare il tuo nome: non ho lanciato una bomba, ho lanciato una frase. Che in un paese attinto da venti anni di televisione spazzatura e di risse in tv si è trasformata in una slavina. Non mi sento vittima per le offese dozzinali e volgari, per le sentenze alla sottoscritta costruite sui sentito dire: è stato detto che sono un’idiota, una cretina, una prezzolata dal PD, una forcaiola. Qualcuno ha anche scritto che, a guardarmi bene, Lombroso non aveva tutti i torti. In quel famigerato intervento a “Le parole dell’Italia giusta”, mai concordato con nessuno, ci tengo a ribadirlo per l’ennesima volta, ho citato una tua intervista di qualche anno fa, in cui tu dicevi di essere stata assunta a 23 anni. All’epoca non eri neanche laureata, e come tanti altri che non l’hanno detto ma l’hanno pensato, sono rimasta sconcertata.

Non voglio più entrare in merito a questo caso velenoso e stupido, buono a togliere l’attenzione dal quasi milione di precari presenti in Italia e a dare la scusa per parlare sui giornali dell’ultimo scandalo piuttosto che dei problemi che stanno affossando questo paese. Per questo motivo non ti chiedo scusa (così come non chiederò le scuse di chi mi ha strumentalizzata e ricoperta di insulti in questi giorni), ma ti dico grazie. Grazie per avermi aiutata a riportare in primo piano questo problema drammatico.

Proprio oggi è uscito un comunicato sulla trattativa in corso per 51 precari in Mondadori. Bene. Augurandomi che queste assunzioni prevedano un’ effettiva acquisizione dei diritti impliciti in un contratto a tempo indeterminato, mi viene in mente che nell’azienda dove lavori, in tutto il gruppo editoriale Mondadori intendo, la Rete Redattori Precari di cui faccio parte ha rilevato un numero di precari ben maggiore. Uomini e donne che da anni lavorano in azienda ricoprendo diverse mansioni, donne e uomini meritevoli se un’azienda così importante si è avvalsa del loro lavoro per lungo tempo. Molti di loro avevano un contratto a progetto. Con la legge Fornero, come sai, questi contratti sono arrivati a un punto di svolta: o l’assunzione, o la consulenza tramite partita iva, o il licenziamento senza nessun paracadute sociale, che sai meglio di me che se un contratto a progetto non viene rinnovato non è previsto nessun TFR e nessun sussidio di disoccupazione.

Ieri i tweet di Monti cinguettavano ottimi propositi per i giovani, il lavoro e la meritocrazia. Ottimo, cara Giulia. Qualcosa mi dice che in tutto questo ci sia il nostro zampino. Tuo, tirata tuo malgrado in questo “catfighting” come l’ha definito qualcuno (e devo dire che in questi giorni di politici e cani non mi dispiace questa definizione) e mio, che comunque sto ancora sentendo dei bei sassi planare sul mio scudo.

Mi dispiace sinceramente per gli inconvenienti che ci sono arrivati addosso da questo strano caso, ma vedo che tu stai bene, che la tua reputazione ne è uscita rinforzata, e anche io ho ricevuto un tale calore e incoraggiamento da tanti, per quell’intero discorso, che ogni mattina invece di svegliarmi preoccupata sorrido, e sono quasi felice a vedere che questo paese non è morto e ottuso come ce lo dipingono.
Pensavo che tanta disattenzione alla vita quotidiana della gente avesse ucciso definitivamente la partecipazione, e invece riscopro con gioia che la gente interviene, dice la sua, addirittura in molti mi hanno detto che torneranno a votare, nonostante tutto.

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Cara Giulia, dobbiamo fare un altro passo, un passo importante. So che per entrambe non è facile conciliare tanto lavoro con l’impegno, ma chi fa cultura in un modo o nell’altro prima o poi è chiamato, per forza, a fare qualcosa per quel paese che ci ha dato istruzione e possibilità.Facciamo in modo che queste possibilità siano per tutti. Che tutti abbiano la loro chance. Che sia davvero, e senza nessuna ombra, un paese democratico basato sul lavoro.

Dobbiamo ridare fiducia a questo milione di persone, che si stanno avvicinando pericolosamente alla soglia dei quarant’anni, quella soglia che un mercato del lavoro spietato ha segnato come il punto di non ritorno per guadagnare uno stipendio ed essere quindi dei liberi cittadini, capaci da soli di pagarsi un affitto e mantenere una famiglia. E non possiamo deludere quegli altri che ogni giorno, appena usciti dalle università, ci chiedono come si fa a entrare in questo mondo incantato dell’editoria. Verso di loro abbiamo una responsabilità ancora più forte. Non dobbiamo illuderli, e allo stesso tempo non dobbiamo deluderli.

Sappiamo entrambe che la flessibilità, nell’anno di crisi 2013, è indispensabile. Lavoriamo ogni giorno a fianco di situazioni difficili. Conosciamo entrambe persone che in questi mesi hanno perso lo stipendio. Dobbiamo lavorare anche per loro. Esercitare la nostra posizione per riportare ogni giorno sui giornali e nel quotidiano queste storie. Senza vittimismi (ecco, se c’è una parola che mi ha colpita di quelle che hai usato parlando di me e che non mi appartiene è proprio questa), mediando con chi può migliorare le condizioni dei nostri colleghi, rendendo il linguaggio difficile del mondo del lavoro alla portata di tutti. Spronando i numerosi intellettuali che conosciamo a tenere alto un dibattito civile e costruttivo sul valore della cultura pubblica e dell’uguaglianza sociale, a ricordarla e praticarla ogni giorno.

Così ho pensato che sarebbe bello davvero, se ci fossi anche tu sabato prossimo ad un incontro pensato proprio per i lavoratori precari. Si chiama “Alta Partecipazione”, l’ha organizzato un gruppo di associazioni che da più di un anno si batte per una flessibilità giusta, per dare stabilità a tutti ma senza perdere i nostri diritti. Perché il lavoro è cambiato, e bisogna dare a tutti quanti i mezzi per conoscerlo e interpretarlo meglio. Perché non esistano più partite iva con un solo committente uccise dalle tasse, perché non si chieda più alle persone di lavorare dodici ore al giorno senza neanche lo straordinario, perché la maternità sia una gioia e non un problema.

Dobbiamo spazzare via questa rabbia, questo sconforto.
Alta partecipazione è una bella occasione. Potremo finalmente conoscerci, riappacificare gli animi, partecipare attivamente a un dibattito portato avanti da un anno in maniera produttiva. Al momento l’unica forza politica che ha aderito è appunto il PD, ma sarebbe bello e auspicabile, visto che il lavoro è un diritto di tutti, a destra e a sinistra, che anche le altre forze politiche partecipassero.

Bene, è tutto. Non ti rubo altro tempo in questo lunedì pomeriggio.
Spero di vederti a Roma. Lo so che stai a Milano e che il tempo libero è poco, ma sarebbe davvero un segno di qualcosa di nuovo, di diverso rispetto agli spettri degli anni in cui siamo nate e che a qualcuno è tanto piaciuto rievocare, a sproposito.
Conto su di te. E perdonami se questa è una lettera aperta, ma non c’è niente da nascondere tra noi. Non più.

Ti aspetto sabato prossimo, al Centro Congressi Frentani, a Roma.

Un saluto, e intanto buon lavoro, a te e a tutti.

Zero Dark Thirty. La cancellazione dell’alterità del nemico e l’esibizione della tortura

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bigelow

di Andrea Inglese

Sono andato a vedere Zero Dark Thirty. Quando ho saputo che negli Stati Uniti avevano già sfornato un prodotto per raccontare cinematograficamente l’uccisione di Bin Laden, sono rimasto lievemente incredulo e ammirato. A nemmeno due anni di distanza dall’evento, la grande macchina narrativa hollywoodiana aveva già fagocitato, elaborato, e confezionato una versione dei fatti da vendere in giro per il mondo con l’intento di far sognare, divertire ed emozionare un pubblico globale.

Corona (+ 3)

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coronadi Andrew Zawacki

traduzione di Andrea Raos

Corona  

Un io balbettò e un io mutò
voce, un io provò

a legare una fune a un io che
se la slacciava.

Un io guardò un pescatore trainare a riva
dal frangente uno squalo tigre della sabbia,

mentre un altro io era già anni più tardi,
tornato là dove un abitante del posto

aveva messo l'esca per il persico ma abboccò uno squalo.
Un io si sedette sotto nuvole olivina,

nuvole rosso acceso, un cielo cortigiana,
e un io si stese al sole

da bambino, immaginando una canna da pesca
divenuta corona. Un io sventolò una sciarpa

fiordaliso, ascoltò il suono di una girandola
e il suono del vento,

salutò con la mano un imminente
amore passato. E un io andò in giro

a piedi nudi e scottato dal sole attraverso
le inibizioni nicheliche del pomeriggio,

scagliando bottiglie ambrate contro un sommacco selvatico,
il lago piombo, nuotando per raggiungere i suoi

sul molo mentre scendeva il crepuscolo,
mentre lo stesso ragazzo restava indietro

a guardarlo nuotare. Un io credette
che un padre potesse essere ucciso da uno smottare di roccia

e un io si svegliò per scoprire che aveva solo
sognato, benché suo padre fosse già morto,

e un io credette nella bellezza di una casa
non costruita da nessuna mano. Un io promise

che mai niente si sarebbe rotto – e niente si ruppe – 
e un io vide rompersi ogni cosa

e non seppe dirlo.

*

Vertigine

Se il vento che si attarda tra i rami
sfugge da sé solo per finire in quarantena
per via di una bufera sbandata dal nord

e se l'aria si capovolge mimando
i resti dell'imbrunire sconvolta da una gelata precoce
e punita per quanto freddo è il suo freddo

tu, come un proiettile che si incastra nell'osso
e diventa parte del corpo,
non ti sveglierai partita via dal tuo nome.

E io non sarò parte di te.

§

Ci sono cose che vorrei mettere in chiaro
con me stesso. Perché, per esempio,
mentre l'autunno si dipana, non riesca a cementare

me con me stesso, solo luce del sole
sparsa in giro da qui fino al sole. Con “io”
voglio dire una finestra, punto di rosso che sfiora il lago

all'alba o un'eco spulata
lungo il muro, premuta a nascondersi
e sformata dalla voce da cui svanisce.

Voglio dire così tante finestre. Così tanto rosso. 

§

Che non mi si fraintenda.
Quella donna che porta in sé
l'inverno, intirizzita da una neve

che mai si livella – vorrei dire
io la amo. Ma io è parola troppo forte
e amo non abbastanza.

*
Glassscape

Soffio di grigi in campo
fluido e ticchettio di pioggia
	lo-fi – bleu pétrole – 
				un sole
a 60 watt svitato dal
cielo desolato: pietr-
			ame e fanghiglia di carbone,
	benna e loess, per quale fosforo
è un semaforo, setoso
				nelle sue ombre acustiche
		a slucernare, a restare
via quando mi sposto:
figure lontane dal mercurio
		buio, non
          infrangibile, non
	otturabile,
da immagine rumore
ogni contorno stirato a
			strass – 
		come se i margini fossero
invasi da centri o ceneri
			– “Ecchoes 
			to the Eye” –   
o la scarpetta di Cenerentola
soffiata in poli-
		vinile butile
	laminata a vetro.

*

Le forme gelate in familiare lontananza

Questi azzardi,
usciti da una neve speculare

più bella di quanto la sua scarna ed elastica grammatica
dovrebbe consentire, ma l’assiomatica dell’inverno

ristà – intarsiata, soffiata a vetro – sul fiume
spianato incolore, il suo moto

sospeso ormai da ore, anche solo alla vista,
come una cicatrice sutura una ferita,

da taglio, la frontiera tra febbre e fremito,
o una ripresa aerea dei quartieri

open- source della mente
– e allora cosa. Il terreno assalito saturato

da tutto tranne noi benché noi
stiamo qui, una buca nel campo già una tappa

verso la foresta, e perciò siamo trattenuti dai
boschi e dai prati nello stesso tempo, grati a entrambi,

corsivi lungo il nostro elaborato collasso verso l’alluvionale
disastro della storia. Come se il crepuscolo

fosse una forma di cortesia, antiquato, pittoresco
con quei suoi ninnoli, sbatacchiante contro un sottocoppa fragile che accoglie

il poco che è versato – eppure i Fahrenheit di una ricerca,
incisi e ribattuti a cercare

ciò che mai ci tocca
malgrado la nostra mancanza di sentimento, la nostra costante

incostanza nascosta agli occhi e così esposta al meglio,
impreparata alle stravaganze del sonno, la sua aragonite,

dei nomadi punti cardinali del sonno.
Quale flangiata o sfalangiata ipotesi

– qui, oppure qui – chiediamo del ghiaccio,
non poterono nascere, o gene- rarvisi, quali sovranità

del lago sono causa del vento – un’interruzione di chi siamo
e anche di sé – non svaniranno in quello stesso

bianco che le rende alla visione.
Che il fico fiorisca, ai margini

di preoccupazioni personali, il cipresso
come evento statico, i suoi rami vitrati in

cristallo saldato in acqua nel freddo,
di cui il centro è una cosa che nuota

che ingloba il panico presente nei suoi polmoni
sferici, cimmeri, e aspetta un concetto di superficie

per lasciare andare. Abbiamo forse fatto troppe storie
in merito all’impianto formale, rapide a sbiancare le sue mura,

quando la vacuità del contenuto è ciò che vuole
e ciò che è. Solfato di rame e più ramata

aria, tardiva in deviazione ottica:
così l’oro- genico, augurato cuore.

Una notte latente si annuncia
anonima da un hinterland, tagliata dal testo della cornea,

la sua luce spinta avanti in quanto analisi, lo gneiss
che un tempo solo e nel buio ammassò il buio:

tempra, con un carico termale, annullando
ogni icona venuta prima; ma a differenza di chi

la guarda, di chi ascolta entro la sua infernaledischiusa
cornice – e noi non facciamo eccezione – molto tristemente per

lei lei
non morirà mai.

***

Fermata

One of me stuttered and one
of me broke, and one of me tried

to fasten a line to one of
me untying it from me.

One of me watched a fisherman haul
a sand shark from the breaker,

while another was already years later,
returned to where a local man

baited for striper but landed a shark.
One of me sat under olivine clouds,

clouds of cerise, a courtesan sky,
and one of me sunned himself

as a child, imagining a fish-rod
turned fermata. One waved a sash

of cornflower blue, one heard
a windmill, one heard the wind,

one waved goodbye to an imminent
leftover love. And one strolled

barefoot and sunburnt across
the nickel inhibitions of afternoon,

tossing amber bottles at a smoke tree,
the gun lake, swimming toward

his family on the dock as twilight fell,
as the same boy stayed behind

to look at him swim. One believed
a father could be killed by falling rock,

and one woke up to find he’d only
dreamt, although his father was dead,

and one believed in a beautiful house
not built by any hand. One promised

nothing would break, and nothing did,
and one saw breaking everywhere

and could not say what he saw.

*

Vertigo

If wind that wastes its time among the trees
escapes itself, only to end up quarantined
by a derelict squall from the north,

and if the air turns somersaults, miming
the outtakes of dusk, scandaled by an early frost
and punished for its coldness by the cold—

then, like a bullet that lodges in bone,
becoming a piece of the body,
you will not awake apart from your name.

And I will not be not a part of you.

§

There are things I would settle
with myself. Why, for instance,
as autumn unravels, I cannot mortar

myself to myself, nothing but sunlight
littered from here to the sun. By I
I mean a window, redness grazing the lake

at dawn, or an echo winnowing out
along a wall, hard pressed to hide itself
and straining for the voice it vanished from.

I mean so many windows. So much red.

§

Please do not misunderstand.
That woman who carries winter
inside her, dizzied by snowfall

that won’t level off—I would say
I love her, but I is too strong a word
and love not strong enough.

*

Glassscape

Grayscale breath on a fluid
field, with lo-fi
           rainpatter—bleu pétrole—,
                                a 60-watt
sun unscrewed from the
woebegone sky: rip-
                 rap & coal slurry,
    dragline & loess, what phosphor
-us is a semaphore
for, silklike
               in its acoustic shadows
                   louver away, or stay
when I move:
figures astray from the mercury
              dark—shatterproofless,
                   shutterproofless,
image noise
stressing each contour to
                          strass—
             as if the margins were
swarming with
centers, or cinders
                      —“Ecchoes
                   to the Eye”—
or Cinderella’s slipper
blown of poly-
                          vinyl butyral
                  & laminated glass

*

The Forms Frozen in Familiar Remoteness

These hazards,
out of a specular snow

prettier than its gaunt,
elastic grammar

ought to allow,
but winter’s axiomatics

hang—tessellated,
ashblown—on the river

matted colorless,
its movement

suspended for hours now,
if only to the eye,

as a cicatrix
sutures a jackknife

graze, the frontier between
fever & thaw,

or an aerial recon
photo of the mind

’s open-
source arrondissements

—and what of it.
The assailed ground saturated

with anything other
than us although we

stand there, a hole in the field
already a halt

to the forest, and are thereby
held by

woods and meadow at once,
beholden to both,

cursive along our labored
collapse toward history’s

alluvial havoc.
As if twilight

were some kind of courtesy,
antiquated, quaint

in its china, rattling against
a brittle saucer that catches

the little is spilled—and yet
the Fahrenheits of a research,

inlaystricken and outward
struck, to track

what is never not
touching us

despite our lack of
feeling, our constant

inconstancy hidden from view,
that being its proper display,

ill prepared for the vagaries
of sleep, its aragonite,

of language’s nomadic
cardinal points.

What flanged or unphalanxed
hypothesis

—here, or here—,
we ask of the ice,

could not be born, or borne
across, what sovereignties

of the lake effect wind—
an interruption to who we are

and even to itself
—won’t vanish into the very

white that gives them back
to vision.

That the fig tree
flower, at the outskirts

of private concern,
the cypress-pine

as a static event,
its branches glassed in

water soldered crystal under
the cold,

the center
of which is a swimming thing

that packs the current taut
within its globed,

Cimmerian lungs, and waits
for a concept of

surface to let it go. Have
we fussed too much

with the formal design, quick
to flaxen its walls,

when emptiness
of content’s what it wants

and what it is. Bluestone
and the bluer

air, late
thru an optic swerve:

so the oro
-genic, augured heart.

A latent night
announces itself

anonymous, from a hinterland,
cut from the cornea’s text,

its light rushing forth as
analysis, the gneiss

that once alone and in
the dark amassed the dark:

anneals, with a
thermal freight, annulling

every icon came before;
but unlike those who

look at it, who listen inside its
helllatched

frame—we being no
exception—sadly enough for

it it
cannot die.

“Gli italiani sono bianchi?”

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balotelli

di Tatiana Petrovich Njegosh

Soltanto ci si confonde con chi ci assomiglia, da ciò la necessità di mantenere netta separazione fra le due razze bianca e nera.(Alessandro Lessona a Rodolfo Graziani, 5 agosto 1936)

Il razzismo fascista segna una svolta cruciale, sia per l’affermazione di un razzismo di stato, sia per la costruzione della ‘bianchezza’ e ‘arianità’ dell’uomo “nuovo” italiano, prima con il divieto della mescolanza razziale nelle colonie (il Regio decreto del 1937) e poi, dal 1938, con le leggi antisemite in Italia. Gli studi dedicati all’antisemitismo, all’antiebraismo e alle leggi razziali antisemite in Italia sono stati numerosi, e ai fenomeni di antisemitismo ancora ampiamente diffusi corrispondono, in una certa misura, rituali pubblici (come la Giornata della memoria, il 27 gennaio), nonché una opinione pubblica discretamente informata e reattiva. Nonostante i molti recenti studi sul colonialismo italiano, invece, poco è stato fatto per capire i rapporti tra antisemitismo e razzismo coloniale, nonché, più in generale, per illuminare i nessi tra la categoria di razza e quella di identità nazionale dall’Unità a oggi.

[…] il Regio decreto del 1937 è un esempio italiano di razzismo istituzionalizzato, la cui pressoché totale rimozione, nonché il mancato collegamento con le norme sul meticciato del colonialismo liberale e soprattutto con le successive leggi razziali del 1938-39 ne oscurano l’importanza e il significato. Nonostante la ‘brevità’ della sua storia coloniale e la ristrettezza del suo impero, l’Italia detiene il “triste primato” di “numerosi” “crimini di guerra”, e rappresenta inoltre un vero e proprio “caso” perché con le leggi del 1937 “la colonia anticipa la madrepatria” rispetto alla legislazione antisemita successiva, creando “sostegno di massa ad un progetto razzista, reazionario e totalitario” (Labanca 422, 420). La società coloniale italiana era di fatto una società segregata, ma la legislazione razzista introdotta nelle colonie nel 1937 segna un cambiamento, un’incongruenza. Come ribadito da Nicoletta Poidimani, le politiche razziali e sessuali del regime sono state sperimentate nelle colonie e poi attuate nell’Italia fascista a sostegno del progetto di costruzione di una nuova identità imperiale italiana. Quello che quindi sembra un’incongruenza, un impiego di risorse normative del diritto privato a ‘tutela’ di un esiguo numero di cittadini italiani in Africa, forma in realtà, come ha sostenuto e dimostrato Barbara Sòrgoni, il “cuore” del dibattito del colonialismo europeo, della schiavitù e della segregazione statunitensi. Il “cuore” del problema, con il carico di “desiderio e repressione”, è quello della “sessualità interrazziale”.

Il tema scottante della sessualità interrazziale è un problema cruciale, non certo di mero ordine pubblico o morale, ma identitario, ideologico e politico, come si ricava dalle direttive, precedenti al Regio Decreto, del ministro dell’Africa Italiana Lessona al viceré Graziani citate in epigrafe. A colpire non è la certezza della differenza, ma la paura della somiglianza e della confusione tra ‘bianchi’ italiani e ‘neri’ africani. La linea che separa le identità dei due gruppi e definisce i confini dell’identità italiana  è documentata, o meglio percepita, come frontiera permeabile e incerta. A partire dall’Unificazione, poi nei primi esperimenti coloniali, rappresentati come occasione per riscattare l’immagine negativa dell’identità italiana e provarne la bontà razziale, nella svolta impressa dal Fascismo (che smentirà con forza l’ipotesi di un’origine camitica, africana, degli italiani, Cassata 228), nel dopoguerra, e ancora oggi, l’identità italiana si forma e si definisce anche attraverso la categoria di razza. Se, per esempio, nell’opinione di alcuni osservatori contemporanei la sconfitta di Adua (1896) rivela la debolezza razziale italiana, la guerra di Libia (1911-12) offre viceversa un’occasione per mostrare la bontà e la ‘bianchezza’ degli italiani.

Il colonialismo – e ciò che sostengo credo serva ad aggiungere un motivo alle cause della sua rimozione dalla memoria pubblica – fornisce, in altre parole, uno spazio simbolico e un luogo concreto per provare la ‘bianchezza’ degli italiani, ma allo stesso tempo rappresenta una zona liminale e rischiosa, un terreno incerto dove lo status razziale indefinito degli italiani può rivelarsi ‘nero’ (con le sconfitte militari, nonché con i rapporti sessuali tra italiani e africani), o comunque non ‘bianco’. La questione dei rapporti sessuali tra italiani e africani porta infatti con sé quello che il ministro delle Colonia Emilio De Bono definisce, nel 1933, il problema “gravissimo” dei meticci (cit. in De Napoli 4), il possibile inquinamento di una razza incerta su cui grava l’ombra dell’origine africana. La teoria dell’origine camitica degli italiani, già diffusa prima che Sergi la riproponesse nel 1895, assurge a grande fama perché ripresa e ‘tradotta’ negli Stati Uniti agli inizi del Novecento. L’africanizzazione degli immigrati provenienti dal Sud Italia, e poi di tutti gli italiani, avviene sulla base dell’ipotesi sergiana della presenza di sangue africano in alcune comunità insulari italiane. Quell’ipotesi – che in Italia ebbe poca fortuna, fu duramente contestata e non sfociò nell’istituzione di uno stato razziale – incrementa il suo ‘valore’ e muta i suoi significati negli Stati Uniti, dove viene interpretata secondo la one drop rule nata durante la schiavitù. Il sangue africano dei discendenti dei camiti (per Sergi gli italiani e tutti gli europei) viene ‘tradotto’ nella goccia di sangue nero che dopo la sentenza della Corte Suprema del 1896 istituisce una rigida separazione tra ‘bianchi’ e ‘neri’.

Molto si è parlato, negli ultimi decenni, di convergenze atlantiche (di solito in contesto politico-diplomatico o letterario), e certo il 1896 e il 1911 sono date che tracciano nuove linee nei contatti circumatlantici tra Italia, Africa e Stati Uniti. Il 1896, l’anno della sconfitta di Adua, è l’anno di Plesssy vs Ferguson, la sentenza con cui la Corte suprema americana elimina la classificazione razziale precedente, altrettanto razzista ma più sfumata (mulatto; quadroon, quarto di sangue nero; octoroon, ottavo di sangue nero). Il 1911 è l’anno in cui inizia la ‘conquista’ della Libia e l’anno in cui viene pubblicato il Dictionary of Races or People a cura della US Immigration Commission istituita nel 1907 da Theodore Roosevelt, dove gli italiani, via Sergi e Niceforo, e grazia alla propaganda razzista diffusa a livello internazionale a partire da quel documento, esordiscono nella categoria delle ‘razze scure’ (cfr. D’Agostino).

[…]

In occasione della partita di calcio Juventus-Inter giocata allo stadio Olimpico di Torino il 18 aprile 2009, una parte della tifoseria juventina ha rivolto all’indirizzo dell’allora giocatore dell’Inter Mario Balotelli lo slogan “Non esistono negri italiani”. Lo slogan, poi destinato a sparire nel calderone del problema squisitamente settoriale del “razzismo nel calcio”, o peggio, ad essere archiviato con la sostanziale motivazione che è Balotelli, con il suo comportamento ‘eterodosso’ in campo e fuori, a calamitare le reazioni dei tifosi, ha segnato uno scarto e un ritorno che pochi hanno colto. L’impatto di quello slogan risultava potenziato, per me come per altri colleghi americanisti, da una doppia eco. Quelle parole da un lato ricordavano le parole di Du Bois sull’impossibilità, negli Stati Uniti moderni e democratici, di essere americani e neri. Dall’altro lato, quelle parole violente, che parafrasando Faso, “escludono”, riportavano nel presente la “difesa” dell’instabile “razza italiana”, confermando l’intreccio tra la costruzione dell’identità nazionale e le dinamiche di razzializzazione, tra africanizzazione dell’altro e sbiancamento di sé.

Uno dei limiti più forti degli studi sul razzismo oggi consiste nella premessa generale che il razzismo sia un’eccezione, che si manifesti e sia visibile solo nella sua fenomenologia violenta, e infine che dipenda dall’ignoranza. Se l’ignoranza e la rimozione sono certo ingredienti decisivi del problema, non bisogna dimenticare le fiere e ‘dotte’ rivendicazioni – vedi le centinaia di pagine in rete, in italiano, dedicate a topic sulla purezza razziale, sull’ ‘obbrobrio’ della mescolanza razziale, sui rischi di ‘estinzione’, sul fenotipo e il genotipo, o anche le pubbliche celebrazioni, su testate non certo secondarie della stampa nazionale, della legittimità e correttezza del termine ‘negro’.

[…] Lo slogan segna uno scarto rispetto agli slogan razzisti rivolti a giocatori stranieri dalla pelle scura, o africani dalla pelle scura, proprio perché mette in relazione l’identità italiana con la negazione della ‘blackness’ e con una indiretta affermazione di ‘bianchezza’. È uno slogan tutt’altro che ‘idiota’, confuso o generico, anzitutto perché quelle parole spostano l’attenzione dal livello fenomenologico a quello linguistico, rappresentativo e identitario. E poi perché segnano un ritorno, una ‘traduzione’, danno veste simbolica odierna alle dinamiche complesse, relazionali e razzializzanti che costruiscono, nel passato come nel presente, l’identità italiana. L’insulto a Balotelli non costituisce insomma un unicum, ma è una versione contemporanea di una narrazione più antica che non riconosciamo nella sua storicità grazie al mito dell’innocenza razziale degli italiani e per il vizio di relegare nel presente, nel nuovo, nella società globale e multiculturale, lo strano fenomeno dei neri italiani. […]

 

*

 

Estratti da Tatiana Petrovich Njegosh, “Gli italiani sono bianchi? Per una storia culturale della linea del colore in Italia”, in Parlare di razza. La lingua del colore tra Italia e Stati Uniti. A cura di T. P. Njegosh e A. Scacchi, Ombrecorte, Verona, 2012, pp. 20-22, 36-38.

 

Sulle chains di Django Unchained

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di Renata Morresi

Abbiamo visto Django. Finalmente sono riuscita ad organizzarmi con tutti gli altri e andare. Eravamo io, tre musicologi (classica, funk e remix post-mortem), il sociolinguista, la dialettologa, la storica dell’arte antica, il cinefilo fine conoscitore di macaroni Western, la Black feminist, lo studioso di Griffith, il laureando su Ford, gli eredi di Leone, il cultore di splatter-polizziottesco-gorno-peplum, la filologa di Black Vernacular English, l’istruttore di dressage, una piccola rappresentanza di ex-campioni olimpici di lotta greco-romana, l’esperto balistico, Demofilo Fidani, Spike Lee, gli immancabili tarantiniani doc che se ti sfugge un’allusione alla filmografia dell’ultimo secolo, come fai, dico, come, come puoi?? Io che in vita mia ho visto mezzo Spaghetti western e non so un beato nulla di Corbucci non avrei mai e poi mai – mi dicono – potuto godermi questo film con le sole mie forze.

Ah, c’era anche la mia amica Maria, che di tanto in tanto rilasciava un “aah”, di solito al manifestarsi di un muscolo ignudo del bell’attore protagonista. Mancava solo qualcuno che raccapezzasse qualcosa di un tema, macché, di un temino, di un riferimento del tutto marginale e secondario rispetto alla vera essenza del film: la storia dello schiavismo. O no?

django on his knees

seal +flagellation

[Nelle immagini un fotogramma dal film, lo stemma di una associazione abolizionista (1837), e una incisione di fine ‘700 dalla biografia di tal J. G. Stedman, soldato olandese che racconta di come la ragazzina qui rappresentata fu scuoiata da due negrieri.]

 

Magari lo schiavismo non è un soggetto così irrilevante per Django come si direbbe a leggerne le recensioni. E forse Tarantino, che ovviamente non ha fatto un film storico sulla schiavitù, come già in Inglourious Basterds non ha fatto un film di guerra sulla resistenza al nazismo, come in Kill Bill non ha fatto un film femminista sulla ricerca di self-empowerment, auto-determinazione, bla-bla, forse Tarantino qualcosa di interessante su come funziona/va la schiavitù l’ha detto comunque.

Vi dico le 4 cose interessanti sullo schiavismo moderno che Tarantino riesce a far emergere dalla sua fantasmagoria di pasticciacci intertestuali e gorgoglianti flutti (più che schizzi) di sangue. Poi Insieme vi dico, in breve, come questo sta nella Storia (uh!) e perché gli/ci interessa. Infine Intanto vi dico dove avrebbe potuto fare ‘meglio’, ma forse non poteva proprio farlo di default, poiché Tarantino non ha né la formazione, né la vocazione di occuparsi di qualsiasi comunità identitaria, preferendo – per nostra fortuna – dedicarsi a un’altra questione (radicata nell’americanità, benché oramai trasversale): i limiti dell’individuo.

E per boicottare sin da subito questo procedere assai powerpointiano comincerò con una domanda, che molti càndidos si son senza dubbio chiesti nel corso della vita, e che Calvin Candie/Leonardo di Caprio pone in uno dei momenti cruciali del film: “Perché gli schiavi non ci ammazzano tutti?” La risposta di Tarantino è assai circostanziata [qui cominciano gli spoiler]: sì, in effetti tra poco Django li ammazzerà tutti. La risposta della Storia (uh!) la danno nel cinema accanto: come mostra il film di Spielberg, sì, in effetti Lincoln vinse la guerra civile aprendo l’esercito ai neri, che in massa si arruolarono dal Nord e in massa disertarono l’esercito sudista e gli Stati di confine per unirsi all’Unione ed ammazzarli tutti. La risposta dei neri presenti sulla scena è nella non-reazione, nel silenzio: Django prima dovrà assicurarsi di poter salvare la moglie e poi potrà ammazzarli tutti. Se gli schiavi non si sono ribellati per ammazzarli tutti è perché il sistema schiavistico era abbastanza intelligente da proibire loro legalmente, con gli Slave Codes, la possibilità di riunirsi, portare armi, imparare a leggere e scrivere, e così via, persino di guardare i bianchi negli occhi (un simpatico reato conosciuto col nome di “reckless eyeballing”, “sguardo impudente”). E così raffinato da sfruttare le famiglie divise e le comunità affettive, la concorrenza tra disgraziati, nonché il senso di inferiorità instillato sin dalla nascita nei sottoposti, per tenerne in pugno, con il ricatto e la minaccia, a volte le blandizie, le sorti. E poi, certo, c’erano i cani.

Ecco la ricetta del dominio, dunque: una abile miscela di regolamenti e burocrazie (quanti attestati, carte e certificati vediamo in Django? in mezzo al carnaio c’è sempre qualcuno che cerca il documento giusto) e di continua intimidazione emotiva (oltre, evidentemente, al vecchio vizietto delle sevizie).

 

runaway family

[Un volantino del 1847 mostra quale fosse la preda preferita dei cacciatori di taglie.]

 

Le 4 cose dello schiavismo che ho promesso. Una l’ho pensata nella piantagione di Spencer ‘Big Daddy’ Bennett/Don Johnson, il disgustoso di-bianco-vestito piantatore e datore di lavoro dei sadici Brittle Brothers, che sta lì lì per guidare la scorreria del proto-Ku-Klux-Klan (quello ufficiale fu fondato solo dopo la Guerra civile). Se ne sta in cima alla scalinata bianca della sua bianca magione, immerso nel suo harem di giovani schiave, servitori neri, domestici mulatti, lacché, dipendenti, staffieri di varie gradazioni, ineffabili ragazzine di chissà quale discendenza. Nel momento in cui scopre che Schultz e Django sono in realtà cacciatori di taglie che hanno legalmente ammazzato i tre sorveglianti lo vediamo circondato dalla sua corte variopinta. Il quadretto mi ricorda l’affanno con cui gli pseudo-scienziati illuministi computavano le razze, le loro inafferrabili classificazioni: da mulatto a meticcio a octoroon a sangue-misto e così via, un nome per il figlio di ogni stupro. Eccoli lì tutti assieme. Il confine tra bianco e nero continuamente smentito dall’abuso sessuale delle schiave, i cui figli, non importa il colore della pelle, sarebbero a loro volta divenuti proprietà. Il confine tra bianco e nero continuamente ribadito dal diritto e dalla ‘scienza’, che stabilivano (=INVENTAVANO) la diversità (e i metodi per ammansirla). Il meccanismo innescato da questo dispositivo sessual-scientifico-legislativo ne garantiva la ‘naturalezza’, l’invisibilità. [È poi così lontano da certe invocazioni odierne a “l’ordine naturale”?]

Due: il razzismo e lo schiavismo non sono esattamente la stessa cosa. Insomma, se si trattasse solo di mostrare che la schiavitù era brutta e cattiva a un pubblico che intuisce che la schiavitù è brutta e cattiva e vuole rallegrarsi di saperla giusta vedendo tutte quelle bruttezze e cattiverie, non ci sarebbe molto da dire. Se fosse solo lo schiavismo sarebbe (quasi) anacronistico. Il razzismo è altro, e già allora era lungi dal riguardare solamente alcuni bianchi cattivi perseguitanti alcuni neri buoni. Il maggiordomo Stephen/Samuel L.Jackson è forse il più ‘razzista’ della storia: per quanto Candie lo immagini inferiore e sottomesso, è lui ad intuire il gioco dei due compari, è lui che decifra la scena al padrone, è lui che suggerisce che il “campo” sia la punizione peggiore. Perché lo fa? Perché no? Ognuno si salva come può e il razzismo è una forza che va ben oltre l’idea di “razza”.

(Certo, Tarantino è molto interessato a questa affermazione individuale, assai meno alle qualità di resilienza di una comunità. È molto interessato allo “stato di eccezione” nelle sue manifestazioni singolari, a cosa fa Uno/a VS Rest of the World nell’omonimo videogioco, piuttosto che alla resistenza dei paria. Di solito, negli altri film, si intuisce che si comincia da capo: i nemici si rigenerano, Hans Landa diventa un bravo americano, e si passa allo schema successivo. Per questo Django risulta un po’ piatto: non c’è trucco non c’è inganno, alla fine l’eroe vince, i cattivi sono sconfitti. E tutti vissero… o non è andata così?)

 

iron mask

[In Django si vedono i collari, ma, se non ricordo male, non le maschere di ferro, all’interno delle quali era sistemata una piastra che andava a incastrarsi nella bocca per impedire di parlare. Questa è una incisione del 1807.]

 

Tre: Simone Weil scrive che vi è qualcosa in comune tra ignorare un grido di dolore e provare voluttà quando viene lanciato. Questo secondo stato d’animo è una forma attenuata del primo. Per questo si persevera con compiacenza nell’ignoranza: ignorare che un altro esista significa espandere i limiti dei propri desideri. “Ogni espansione immaginaria di quei limiti è voluttuosa”, scrive Weil, “[p]er questo la schiavitù è così piacevole per i padroni”. Che vuol dire? E perché penso che c’entri con la famigerata scena di lotta tra i Mandingo? Ce n’erano di torture e orrori da mostrare dritti dritti dall’ante-bellum Sud: perché inventarsi la storia delle battaglie all’ultimo sangue? Eh, Tarantino, geniaccio, quant’è vero il tuo gusto per il meta-spettacolo… quanto ti piace mostrarci una stanza chiusa, dentro cui va in scena uno spettacolo immondo, si intrecciano tante forze dichiarate e sottese, tanti livelli di lucidità e libidine, i sadici che urlano, l’amante che ammicca, il barista che lucida il bicchiere / quanto ti piace pensare a noi in una sala chiusa, che sgranocchiamo patatine, urliamo, ridiamo, tratteniamo il fiato, inorridiamo e, in sostanza, ci divertiamo un sacco alla scena del sopra detto immondo spettacolo. Non siamo complici, lo so, però lo capiamo. lo capiamo.

Quattro: forse l’ho già detto. Lo schiavismo fu una ingegnosa mescolanza di diritto e sopraffazione, di colore della pelle e status giuridico: non tutti i neri erano schiavi, per esempio, ma tutti gli schiavi erano ‘neri’, anche quelli che le unioni interrazziali avevano reso bianchissimi. È questo contratto civile ad aver reso lo schiavismo tale roccaforte nel bel mezzo della modernità. Mentre costruivano i metrò e scoprivano i pianeti, mentre Freud sgambettava bimbetto e Pasteur si dava da fare coi microbi, alcuni si prodigavano a dimostrare l’inferiorità di coloro che andavano martoriando. Non è una contraddizione tra progresso e barbarie, ma una delle versioni più diffuse del loro vicendevole radicamento nella ricerca dell’utile. I Big Daddy e i Candie sono comunque sempre mossi dai dollari favoleggiati dagli Schultz. Ai denti dei loro cani quello oppone il grande dente pubblicitario in cima alla sua carrozza. E tutti sparano allegramente, chi per “retribution” (=vendetta), chi per retribuzione.

Non è neanche una gran novità per noi venuti dopo Auschwitz. (Ormai per sempre, fino alla fine dei tempi, dopo.) Come Tarantino ci ricorda per bocca di Stephen, il peggio verrà nel “campo”. Ma perché questo ci piaccia tanto, perché questo ci faccia sentire vivi, è interessante. E non so bene se è perché la cosa ormai non ‘ci’ riguarda, o se è perché la troviamo stranamente famigliare, il lampo di un ammonimento.

 

***

 

Immagini tratte da:

The Atlantic Slave Trade and Slave Life in the Americas: A Visual Record.
http://hitchcock.itc.virginia.edu/Slavery/index.php

 

House Divided: The Civil War Research Engine at Dickinson College. http://housedivided.dickinson.edu”>http://housedivided.dickinson.edu

 

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Ci vuole molta classe nella lotta

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ursuladi
Chiara Di Domenico

Mi presento. Mi chiamo Chiara Di Domenico, sono la prima laureata della mia famiglia: una laurea in Lettere, vecchio ordinamento, che pensavo di utilizzare per insegnare, ma poi qualcuno ha deciso che ci voleva una specializzazione, e mi sembrava stupido ripetere gli stessi esami solo perché era stato deciso così.Sono diventata libraia alla libreria Martelli di Firenze (catena Edison, la stessa che ha appena messo in cassa integrazione tutti i suoi dipendenti), dove un incauto business plan ci ha sballottato fuori dalla libreria in 11 e sparpagliati nelle altre librerie, fino a lasciarci per strada.

Così ho continuato a lavorare, testardamente, nell’editoria. Ho fatto un master universitario, e senza passare per lo stage ho iniziato a lavorare con le edizioni Fernandel. Chi mi conosce sa la storia dei miei ultimi anni. Non vale la pena ricordarla nel dettaglio qui, perché non è che una delle tante. Proprio per quella storia, che è una storia vincente, visto che oggi posso permettermi di investire 600 dei miei 1.200 euro di stipendio in un monolocale a Roma, il Pd mi ha scelto giovedì per parlare di lavoro. Esordendo l’ho detto: «Sono la precaria ignota», rappresento una categoria che stringe i denti e sacrifica tempo e fatica nella speranza di un po’ di normale stabilità. Non sono tesserata Pd, non sono mai stata tesserata. Insieme ad altri precari da due anni organizziamo un festival, «Mal di Libri», che dà voce ai tanti (bravi) scrittori e lavoratori ignoti che hanno difficoltà a trovare spazi.

Oggi lavoro per una casa editrice che rispetta il mio contratto a progetto.Ieri ho parlato per 8 minuti del nostro lavoro. Di chi si è stancato di firmare un contratto a progetto senza obbligo di ore e si ritrova paradossalmente a fare straordinari che non gli verranno mai pagati. Di chi è costretto ad aprirsi la partita iva pur avendo un solo datore di lavoro. Di chi viene mandato a casa, sostituito da un apprendista, perché così è lo stato a pagare le tasse, e non il suo datore di lavoro. Per anni accetti. Ti metti in gioco. Poi ti accorgi che passano gli anni e niente cambia.

Per anni mandi lettere, come un San Girolamo dal deserto, ai giornalisti, ai direttori di testate, agli uomini e donne di spettacolo e di cultura. Alcune sono diventate note sul mio profilo facebook. Una volta ho invitato il direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano a venire nel mio quartiere a conoscere i precari di cui parlava spesso. Ha voluto il mio numero, mi ha detto «La contatteranno». Silenzio.Ho scritto una lettera a Federico Fubini, giornalista del Corriere della Sera, che portando ad esempio Angelo Sraffa dice che siamo incapaci di farci sentire. L’ho invitato a una cena collettiva, lui mi ha proposto un incontro nella sua città. Allora ho deciso di farci sentire.

invasioni C’è un elefante, nel salotto letterario dove lavori ogni giorno. È davanti agli occhi di tutti, ma tutti fanno finta di niente. E quell’elefante è un ricco collage di ruoli e nomi noti. È forte a destra come a sinistra, e quella parte sinistra fa ancora più male. Io ieri ne ho fatto uno di questi nomi, non per attaccare, ma perché in questo paese, in un sistema di informazione ormai improntato solo sullo scandalismo, devi fare scandalo per fare sentire la voce tua e della classe che rappresenti. Ho fatto un nome che conosco, quello di Giulia Ichino, perché mi ha colpito leggere che è stata assunta da Mondadori negli stessi anni in cui in Italia si attuava la Legge Biagi. Mi ha colpito che fosse stata assunta a 23 anni quando molti di noi a quell’età hanno giusto la possibilità di uno stage non retribuito. In questo paese è ancora legittimo stupirsi e avere libertà di parola. Ho detto che c’era un elefante nel salotto letterario. E l’elefante finalmente si è accorto del topolino. Si è alzato, ha gridato «allo squadrismo».

Ha detto che ero strumentalizzata dal Pd, come se non sapessi leggere e pensare da sola. Non importa. Non sono una squadrista. La libertà di parola vale per me e per tutti. Ma è importante riportare l’attenzione sui precari, chè è il motivo di tutto questo rumore. Giovedì l’ho detto a Bersani e a tutto il gotha del Pd presente: chi ha potere ha responsabilità. Ha responsabilità Bersani, nel proporsi come prossimo Presidente del Consiglio, nel riformulare una legge sul lavoro che permetta un futuro, una casa, un’istruzione e una pensione agli italiani di oggi e di domani. Ma ha una responsabilità anche chi ricopre ruoli stabili nelle aziende, nel tutelare chi è più debole. In Mondadori non sono tutti assunti.

Molti lavorano a contratto a progetto, peggio a partita Iva. Chi è testimone di questa disuguaglianza deve intervenire. Ora che tutti guardano l’elefante bisogna intervenire, e occuparsi di chi è costretto a non partorire, a vedersi decurtare lo stipendio pur di avere un lavoro, a chi si ritrova a pagare migliaia di euro di tasse perché il suo datore di lavoro lo vuole ma non vuole prendersi i rischi di un’assunzione. Chi prende i tram, chi ascolta i discorsi per strada, lo sa quanto questo è diventato frequente. Troppo frequente. Io sono solo un topo, che ha osato guardare negli occhi un elefante. Mi hanno accusato di un «attacco ingiusto». Non ho mai alzato la voce. Non ha mai minacciato. Mi sono solo chiesta come si possa andare avanti a fare finta di niente. A guardare indifferenti chi non ce la fa più.

A vedere le differenze e dire che siamo uguali. Io sono uguale a V. a cui è stato proposto di licenziarsi dal suo tempo indeterminato per farsi riassumere quando avrà finito il periodo di maternità. Sono uguale a chi non dorme più. E tutta l’istruzione, tutta la cultura illuminista, e i diritti acquisiti negli ultimi cinquant’anni, mi dicono che anche il figlio di un tramviere ha diritto di fare, bene, e sereno, il lavoro per cui ha studiato. E se molte persone hanno la fortuna di crescere con una bella biblioteca in casa, anche altri hanno diritto di usufruire delle biblioteche e delle scuole pubbliche. Quelle che stanno cercando di toglierci, quelle per cui fino ad ora si è fatto troppo poco. È lotta di classe questa?

A me interessa solo che i diritti valgano per tutti. E che si regolamenti, finalmente, il mercato del lavoro, sui diritti, e non, come qualcuno ha detto, sulla fortuna. Facciamo delle nuove quote. Dopo le quote rosa, facciamo le «quote qualunque»: per ogni cognome eccellente assunto, due ignoti meritevoli assunti. Non è una provocazione, non è aggressione, forse sì, è lotta di classe.

Pubblicato sul Manifesto di oggi

Sulla querelle si veda il bell’articolo di Gennaro Carotenuto

Le dieci volte che ho incontrato Vincenzo Pardini

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di Carlo Mazza Galanti

Aquila con volpe, Antonio Ligabue, 1944
Aquila con volpe, Antonio Ligabue, 1944

Ho incontrato Vincenzo Pardini molte volte. La prima grazie a un suo estimatore, Carlo Carabba, che alla redazione di Nuovi Argomenti mi allungò un libretto pubblicato da Quiritta presentandomelo come “un grande”, e “uno scrittore di culto”. È stato subito culto, per me, in effetti.

La seconda, ma forse dovrebbe andare per prima, è stato un déjà vu: le prime impressioni ricevute leggendo i suoi racconti, come a volte succede, mi hanno rimandato ad autori del passato che amavo: certa letteratura sospesa in atmosfere impalpabili, e però perfettamente riconoscibili, prossime ai domini del fantastico ottocentesco (Natalia Ginzburg lo definì “il nostro Maupassant”), o all’asciuttezza narrativa di suoi conterranei: Tobino, che Pardini stima molto, e Tozzi, un autore che meriterebbe di essere molto più letto. E Silvio d’Arzo, anche.

La terza volta che ho incontrato Pardini è stato dopo averne letto un po’ di libri (ne ha scritti parecchi), ed essermi reso conto del valore e della ricchezza della sua opera: La mia storia di scrittore – mi ha raccontato via mail – inizia nella metà anni Settanta. Mandai due racconti a Enzo Siciliano, poi confluiti ne Il falco d’oro. Cominciai così. Il primo libro, La volpe bianca, uscì dalla Pilotta nel 1981, nel 1983 uscii col Il falco d’oro, Mondadori, nel 1987, sempre Mondadori, con Il racconto della Luna, poi con Jodo Cartamigli. E via di questo passo, finendo da Bompiani, Giunti, Quiritta, Laterza, con testi per ragazzi, Pequod e infine Fandango.

Ricordo lo stupore leggendo Il bilancio: un racconto di giovinezza credo compreso nel Falco d’oro, già limpido e misterioso come quelli che verranno, la storia di un inseguimento tra un ragazzo e una specie di avvoltoio, azzoppato. Anche quello è stato un incontro che mi piace considerare a parte.

Ma soprattutto quello con Segregazione, lungo racconto che apre un libro del ’95, Rasoio di guerra, ripubblicato da Pequod nel 2007, che mi sembrò uscito da un immaginario così estremo, al limite dell’intollerabile, da ossessionarmi per diversi giorni. Non sono sicuro che sia davvero rappresentativo della sua scrittura: racconta in soggettiva la storia di un freak, un essere umano indescrivibile, orripilante, e si legge come una potente allegoria di ogni forma possibile e immaginabile di emarginazione e isolamento. L’ho postato sul sito minima&moralia, dove chi vuole può ancora trovarlo.

Fu per me decisivo il mio incontro con Pardini mediato dagli amici animalisti e antispecisti: a loro che abbracciano battaglie che paiono fin troppo idealiste ma che possono aiutare molto, credo, a disinnescare un’atavica miopia dell’essere umano, quella di non considerarsi un animale; a loro ho provato a passare Pardini. Non è per nulla interessato a formulazioni filosofiche e teoriche ma potrebbe diventare una vostra icona, gli ho detto. Non credo esistano altri scrittori nella storia della letteratura che abbiano esplorato con tanta intensità, sensibiltà e ostinazione il mondo animale. Quasi ogni suo testo si sviluppa intorno alla presenza di un animale. Bisogna cercare nell’arte visiva per trovare qualcosa di simile: Franz Marc o Antonio Ligabue, per esempio. E bisognerebbe leggere quello che dice Debenedetti sugli animali nei racconti di Tozzi: “movimenti di vita, chiusi e complessi grumi di un divenire nel quale riconosciamo poi, ma solo in un momento ulteriore, la sagoma di un destino che ci riguarda” per scoprire come Pardini sia andato, su quella direzione, molto più avanti del suo nobile predecessore.

“Chiusi e complessi grumi di divenire” si accordano forse meglio a forme brevi che lunghe e per me Pardini resta uno dei maggiori novellisti della letteratura italiana. Non per questo rinuncerò ad annoverare trai miei incontri con lui (siamo al settimo credo) quello con i suoi romanzi, dal magmatico Lettera a Dio fino a Il postale, da poco uscito per Fandango: storia di un postiglione dalla fine dell’ottocento alla fine della prima guerra mondiale. La morte di una professione raccontata con straordinaria perizia descrittiva, minuzia di dettagli, cammei di importanti figure del passato (Pascoli, Baracca, Puccini, Bresci), l’emergere del fascismo dalle ceneri del vecchio mondo, il rilancio del complesso militare-industriale, le nuove tecnologie. La solita lingua pulita e precisissima, dove a “barcollare” non è un ubriacone ma una culla, o dove il Serchio “ruglia”. E naturalmente la storia di un cavallo, che si chiama come quello di Achille: Balio.

In occasione dell’uscita di questo libro, Fandango ha organizzato una serata, a Roma, il 13 dicembre, un vero e proprio omaggio a Pardini dove alcuni scrittori hanno letto parti della sua opera, in presenza dell’autore. Ecco un altro incontro. Non sono mai passato nè da segreterie, nè sacrestie – mi ha detto – indipendenza e solitudine hanno un prezzo alto. Sarà, ma ognuno ha il pubblico che si merita, e quello di Pardini, per quanto numericamente limitato, mi sembra un pubblico invidiabile. Tra i contemporanei ammiratori di questo scrittore ci sono Marco Lodoli, Valerio Magrelli, Emanuele Trevi, Aurelio Picca, Mario Desiati, Sandro Veronesi, Edoardo Albinati, Romana Petri.

L’unica volta, ad oggi, che ho incontrato Pardini nelle sue terre è stato un paio di anni fa, quando sono andato a trovarlo nella sua casa in mezzo alla campagna dell’oltre Serchio. Lui vive da sempre in quella parte della toscana, tra Garfagnana, Lunigiana, Media Valle del Serchio. Quasi ogni sua narrazione è ambientata lì: che si tratti dell’epoca degli etruschi, di quella dell’Ariosto, dell’ottocento o della contemporaneità. In questo senso la sua opera è uno spaccato verticale della storia del nostro paese, a partire da una geografia molto circoscritta. Pardini ha preferito l’intensità del “locale” all’estensione del “globale”. Una forma spontanea di resistenza. “Non vado mai in vacanza” mi ha detto, in quella circostanza. Nel senso che quasi mai si allontana dalle sue parti. Ne conosce il passato, il presente, le genti, gli animali: di cui ripete i versi in un modo particolarissimo, non una semplice imitazione ma uno stenogramma sonoro, per così dire, come se sapesse coglierne solo i tratti pertinenti, quelli che ne fanno un vero e proprio linguaggio.

[Questo articolo, con qualche variazione, è stato pubblicato su Orwell, un inserto culturale momentaneamente e suo malgrado uscito dalle edicole. Per sapere dove e come ritornerà, leggere qui]

Inedite

2
di Daniele Ventre
 
1.
 
Sarebbe dolce salpare seguendo i sussurri piani
tra fuochi lungo le rive d’oceani e cuori di palma:
cullati su un legno lieve abbandonarsi alla calma
piatta dell’onda tranquilla fra scie di sogni lontani.
 
Ma il gioco si chiuderebbe secondo il copione antico
degli albatri zoppicanti fra risa di marinai
fenici (alla fine muti fra allegri canti di lai
inghiottirebbe noi tutti ingordo il gorgo lubrico).

video arte #17 – fischli & weiss

2

Peter Fischli & David Weiss, Der lauf der dinge, 1988.

Camera straniera

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camera-straniera di Fabrizio Scrivano

Marco Belpoliti, Camera straniera. Alberto Giacometti e lo spazio, Milano, Johan&Levi, 2012.

C’è chi sostiene che un incontro non sia mai casuale. Per conto mio ritengo che il caso sia ricco di ottime ragioni possibili, basta non stare troppo a sottilizzare tra causa ed effetto, passato e futuro. Questo però è un caso meno generale e con qualche valore di restituzione.

Tra il 1997 e il 1999, lavorando a una ricerca sull’attualità della scultura, o delle arti tridimensionali, avevo frequentato opere di e su Alberto Giacometti. C’era un motivo specifico per questo interesse: era incontestabile che fosse il più aptico – cioè otticamente tattile, secondo la definizione di Alois Riegl e di Gustav Schmarsow – degli scultori del Novecento. Gli occhi si aggrappano ai suoi oggetti, con tutta quella superficie abrasiva, che inoltre non sembrano mai stare fermi, forse perché indefiniti rispetto a un qualche contesto, quello che sia.

Non avevo in mente nulla di questa questione quando sono entrato, subito dopo il colloquio con uno dei professori di mio figlio al Liceo Virgilio di Roma, nella libreria d’arte & caffetteria Let’sArt in via del Pellegrino 132. Il luogo è piccolo e i libri molti, il caffè buono e qualcosa s’impara sempre. Con appena un po’ di sconto sul prezzo di copertina, su un piano, c’era questo librino azzurrino di Belpoliti su Giacometti, che sembrava un richiamo dal passato appena menzionato: irresistibile. La cosa che ho notato quasi subito è che il testo era stampato per la terza volta, a partire dal 1991, poi nel 1996, e io non l’avevo mai incrociato: ecco un’occasione riparatrice.

Non conoscere l’esistenza di questo testo mi aveva preclusa, o più semplicemente trovarlo mi ha permesso di guadagnare la consapevolezza che scrivere di Giacometti è un genere letterario, che appartiene al discorso della critica d’arte solo in parte, o addirittura non gli appartiene. Non mi riferisco tanto al fatto che le parole dei poeti e degli scrittori e dei filosofi dedicate agli artisti, meglio se morti, abbiano potuto in tanti casi dare degli accessi imprevisti alla percezione delle opere: queste operazioni, che pure su Giacometti non mancano, hanno a che fare con l’encomiastica. La narrazione giacomettistica ha un’altra qualità e un’altra funzione: appartiene a quel genere di narrazione che permette di riuscire a raccontare l’esperienza di un altro attraverso il racconto della propria esperienza. Che la giacomettistica abbia fatto genere nel genere si deve all’eccellenza del suo precursore, Jean Genet, che nel 1958 ha impostato alcune caratteristiche: brevità, forte richiamo all’esperienza diretta, concentrazione su un tema o figura da sviluppare, ripresa dei tratti cruciali degli atteggiamenti artistici e personali; l’utilizzazione del materiale d’archivio, soprattutto testi di o su Giacometti, si è aggiunto successivamente.

giacomettipometCamera straniera risponde ottimamente a questa prassi. Il suo tema privilegiato è la morte, luogo/tempo invisibile per eccellenza, destinazione di altri miti (narrati e figurati) che i soggetti di Giacometti incarnano (dire ingessano farebbe tutt’altro effetto). Belpoliti ne attraversa alcuni, facendo riferimento a opere precise davanti alle quali sosta e fa sostare il lettore: non “in assorta meditazione” bensì con grande intensità espressiva. Ho detto sujets ma intendevo figure, perché Giacometti non rappresenta oggetti e spazi che rispondano a qualche criterio di verificabilità empirica; quanto piuttosto produce immagini appena allusive al mondo che siamo in grado di rappresentare. Nelle sue figure scorgiamo cose ben riconoscibili: la mela, la testa, la donna, l’uomo, il cane, la casa; ma lo spazio in cui stanno è straniante, forse appunto straniero come lo dice Belpoliti; in altre parole lo spazio delle figure di Giacometti è irriconoscibile. I corpi filiformi e altissimi, o allungati orizzontalmente se di quadrupedi, i loro gesti infiniti – camminare, sostare, posare, urlare – sembrano alludere a uno spazio immateriale, letteralmente non incontrabile (se non nelle opere di Giacometti). Il passaggio di queste forme dentro il mare del Surrealismo è ancora e sempre molto evidente, ma di passaggio appunto si tratta e ora quelle immagini in lotta con la banalità del reale – supponiamo di non sapere ancora sia apparenza o cosa – si sono asciugate, seccate, divenute infine profondamente simili a se stesse. Se il demone di Giacometti fu lo spazio, come sostiene giustamente Belpoliti, la ricerca di assoluto, di spazio assoluto, sta forse nell’abolire otticamente il rapporto tra figura e sfondo, una relazione necessaria, in genere, alla produzione di contesto. Le figure non sono in rapporto a qualcosa che si vede (e che condividerebbe il medesimo spazio) ma a qualcosa che da esse è espulso, cancellato, abolito, neutralizzato. Come in altri scultori, per esempio Constantin Brâncuși, la statua tende ad mostrarsi come un oggetto irrelato (da lì a qualche anno Donald Judd avrebbe parlato di specific object) e non come un corredo ambientale.

Questo sfinimento dello spazio degli oggetti, nella poetica di Giacometti, come mostrano tutti i suoi scritti sempre puntualmente richiamati, è bisogno di realtà, mai trovata nell’apparenza ma sempre palesata in quel che resta dopo la manipolazione, portata sempre al limite della scomparsa. Cogliendo con nitidezza questo spostarsi dell’occhio-mano verso l’annullamento della figura, Belpoliti lo attribuisce a una continua tensione verso la morte: è il motivo per cui queste pagine si costruiscono completamente sull’intreccio tra lo spazio e la non esperienza che è la morte.

Giacometti skulptur. Gia_091007 012. Foto: Finn Brøndum/LouisianaUn secondo elemento di fedeltà a quel genere che si diceva, sta nel fatto che l’analisi delle opere di Giacometti restituiscono vivamente l’esperienza dell’osservatore e del ricercatore, concentrata sulle opere come sul “brusio” vastissimo che le circonda; e rispettando l’assunto tematico del suo racconto si spinge e ci porta effettivamente in visita lì dove ci sono le soglie materiali di quello spazio in bilico tra la vita e la morte, che è la tomba di Giacometti nel cimitero di Stampa. In questo modo, va notato, Belpoliti inserisce una variante significativa nel genere, che è più legato alla visita al laboratorio dell’artista.

Tra i vari libri di giacomettistica, per esempio, va ricordato quello assai raffinato di Tahar Ben Jelloun, La via di uno soltanto, anch’esso del 1991, e che nella bella edizione italiana (Milano, Libri Scheiwiller, 2009) si arricchiva di un testo del 2006, Visita fantasma all’atelier di Giacometti, postumo tentativo di conquistare un’impossibile fisicità e prossimità. Il racconto di Ben Jelloun si concentrava invece sul tema della solitudine. Iniziava incrociando due immagini, cioè le immagini di due diverse persone: quella della statua Uomo che cammina con una propria immagine di gioventù, la via stretta di Fez (ma così stretta da non concedere che il passaggio di una persona per volta, purché magra). Il riconoscimento di un’immagine interiore in un’immagine esteriore, gli permetteva non solo di giustificare l’incontro e la sintonia tra due anime, forniva anche un’altra figura su cui continuare la narrazione. Giocando sulla relazione dentro/fuori, ora non più spazi antitetici bensì luoghi di continuità, faceva emergere l’immagine del deserto, che caratterizzato come uno spazio indefinito nei margini ed equivoco rispetto alla direzione da prendere per attraversarlo, si offriva molto bene a illustrare questa marcia infinita dell’Uomo di Giacometti, che era in grado di attraversare integro ogni pellicola, ogni involucro, ogni pelle, ogni corazza del suo corpo (del corpo dell’artista), tuttavia mostrandone la desertica, tragica solitudine.

Il bello di queste narrazioni, che insieme utilizzano e offrono argomenti non estranei alla critica d’arte, sta nel saper proporre un approccio caldo all’esperienza artistica. E se il rischio è quello di sovrapporsi all’opera e ancor più agli artisti, è un rischio che vale la pena di correre.

La geologia di Valerio Magrelli

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di Franco Buffoni

Vale le perle della dama di Heaney in North lo chignon della nonna ciociara, conservatosi intatto per lunghi decenni nella tomba di famiglia a Pofi. E in una saga famigliare – in apparenza – consiste Geologia di un padre, la nuova proposta narrativa di Valerio Magrelli per Einaudi, che “chiude” – come precisa l’autore nella nota finale – la serie iniziata nel 2003 con Nel condominio di carne, e proseguita con La vicevita e Addio al calcio.

Ad una lettura attenta, tuttavia, Geologia di un padre si rivela essere non solo il libro di narrativa più profondo e complesso del poeta di Nature e venature, ma anche in qualche misura il suo “testamento”. Tra le righe si può cogliere questo semplice pensiero: se io, Valerio, sono così oggi, è perché sono figlio suo. Io, che con il passare degli anni vado sempre più assomigliandogli anche fisicamente, sono sempre di più “lui”, anche perché ho saputo trasmettere a mio figlio, studente di architettura, la dote più grande del nonno ingegnere: quella capacità di disegnare ponti viadotti monumenti e interni con tratto sicuro e sensibile.

Convincere un gatto a curare la sua sinistra e NON la sua destra

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a Cat

di Davide Orecchio

Apri gli occhi e ascoltami. Scendi dal morbido dove riposi. Sospendi gli oltraggi domestici, le unghie sul limone, la mascella aperta per il fiato che sa di latte. Avvicinati e resta in piedi. Se vuoi, poggia le natiche sulla coda. Non intendo parlarti dell’evaporazione e dello scoloramento di noialtri ma di te, delle tue scelte sbagliate e false convinzioni, di una coscienza miope che non asseconda la tua vera natura e condizione sociale e rotola ingenuamente negli atteggiamenti politici del gatto che sei tu.

Da “Primo romanzo morto”

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[Puoi sostenere la pubblicazione di Primo romanzo morto di Guido Caserza prenotando il libro sul sito di Produzioni Dal Basso a questo link: http://www.produzionidalbasso.com/pdb_1892.html#]

di Guido Caserza

In breve

L’ispettore Polibio indaga su un caso enigmatico. Il cadavere di un eminente uomo politico è scomparso. La sua indagine lo porta a scoprire complotti massonici e segreti di Stato. Fra apparizioni fantasmatiche e ricordi di vita coniugale, l’inchiesta si trasforma in una delirante anamnesi famigliare: un nesso oscuro collega i delitti di una famiglia a quelli della nostra storia repubblicana.

Qualcosa di nuovo sul fronte occidentale

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bd

 

E’ nato, da un’idea di Alessandro Bertante e Giuseppe Genna, Book Detector.

A me pare proprio una bella notizia, no?

Callimaco – Aitia – Prologo dei Telchini

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Sempre i Telchini, che mai della Musa furono amici,
rozzi che sono, sul mio canto rimuginano,
solo perché non lo tesso continuo un poema che narri,
lungo migliaia di versi, o delle imprese dei re
o degli eroi primigenii, ma in piccolo spazio mi volgo,
come un bambino -e non ho pochi decenni d’età.

Presentazione “Commiato da Andromeda” a Milano

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piero di cosimo

Milano – venerdì 8 febbraio – ore 21.00

Presentazione del volume

Andrea Inglese Commiato da Andromeda (Valigie Rosse, premio Ciampi 2011)

presso la Libreria Popolare via Tadino, 18 a Milano

coordina Alessandro Broggi

 intervengono Vincenzo Frungillo e Paolo Zublena

lettura dell’Autore

Do you remember Nicolas Bouvier?

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Bouvier - Copertina

Ritrovare il vento delle strade
di
Luigi Marfè

“Eterni viandanti sono i giorni e i mesi, e gli anni, che vanno e vengono. Chi trascorre una vita fluttuante su una barca e chi accoglie la vecchiaia con in mano la briglia di un cavallo fa del viaggiare la sua dimora
”, ha scritto Matsuo Bashō, poeta e viaggiatore giapponese, instancabile maestro di haikai, percorrendo a piedi il sentiero del nord, verso l’allora remota regione dell’Oku.
Immaginate nei luoghi più improbabili – sotto la neve di un inverno trascorso a Tabriz, in un letto infestato d’insetti a Galle, dentro la boutique di un barbiere di Kyoto, tra le sabbie del Taklamakan, deserto d’Asia il cui nome vuol dire: “non ne uscirai vivo” – le poesie di Nicolas Bouvier, scrittore, viaggiatore e fotografo svizzero scomparso quindici anni fa, devono molto alla tradizione giapponese, capace di raccontare con scrittura scabra ed enigmatica l’impermanenza dell’essere e lo stupore per la fragilità di tutte le cose.

07
Da qualche tempo i libri di Bouvier – autore molto noto nella cultura francese, dov’è considerato l’ultimo degli écrivains voyageurs, erede di Segalen e Michaux – sono diventati anche in Italia l’oggetto di un culto segreto e disperso, frutto di un destino editoriale tormentato, fatto di troppe sedi diverse, ma anche di edizioni andate ogni volta esaurite.
Un nuovo libro, ospitato in una collana curata dall’Associazione alleoPoesia per le Edizioni ETS, offre ora in traduzione italiana anche le poesie di Bouvier. Si intitola Il doppio sguardo. Le dehors et le dedans ed è la sua unica raccolta, il canzoniere portatile di un’intera vita. Quarantaquattro testi, in perfetto equilibrio tra le dehors e le dedans del poeta: il fuori dei paesaggi incontrati lungo la strada e il dentro delle più remote stanze dell’anima.

Dalle opere precedenti di Bouvier – La polvere del mondo, Il pesce-scorpione, Cronache giapponesi – emergeva l’immagine di un maestro della sparizione, che nella deriva cercava un mezzo di scoperta di sé. Esperienza che tuttavia non era conquistata in virtù di un’accumulazione di saperi, quanto semmai, al contrario, per sottrazione: il viaggio inteso come faticoso travaglio (stessa etimologia di to travel…) che mette a repentaglio tutto per liberarsi dagli abiti troppo stretti dell’abitudine, per aprirsi all’incontro con l’altro.
Queste poesie mostrano come la scrittura consistesse per lui nel lento apprendistato di un’analoga arte del levare, con cui ripulire dal superfluo la voce essenziale dell’io.
Ogni passo verso il meno, amava dire Bouvier, è un passo verso il meglio.

03

§

Bruce Chatwin, che di viaggi se ne intendeva, si trovò una volta a distinguere tra due gruppi antitetici di scrittori: quelli che per scrivere hanno bisogno di abitudini e orari fissi, e quelli che invece, quando sono a casa, non sanno nemmeno da dove cominciare, come se l’immaginazione potesse innescarsi soltanto cambiando d’orizzonte, mettendosi in cammino.
Non è difficile immaginare che tipo fosse Bouvier.
Un giorno del 1953 un amico lo invitò in Bosnia, dove si guadagnava da vivere come pittore. Bouvier, che aveva allora 24 anni, ma già lunghe scorribande alle spalle, partì su una Fiat Topolino per un viaggio senza altre mete se non quella di spingersi il più lontano possibile. Ne sarebbe tornato quattro anni più tardi, dopo essere giunto fino in Giappone, con il vanto non da poco di aver vagato per l’Oriente più lentamente di Marco Polo.

Proprio in quegli anni, dall’altra parte del mondo, Kerouac iniziava a girare in lungo e in largo l’America. Anche nei libri di Bouvier si respira un’aria beat, battuta e felice. Ma c’è dell’altro. C’è una poesia che si ostina a tessere ombre, a sottrarre peso alla lingua, per meglio lasciar presagire luci e volteggiare voci altrimenti impercettibili. Una poesia chagalliana, esile e fioca, ma sempre pronta a spiccare il volo.
La poesia, ha scritto Bouvier, è fatta di “parole del mistero, dell’affanno e dell’ombra” che ci vengono ogni tanto a visitare, come uno sciame d’api, insieme a qualche frammento dimenticato di mondo. Il silenzio si allarga così fino a diventare uno spazio da traversare, da eludere, da interrogare, “come un segno o come un presagio / di cui non si è certi di aver trovato il senso”.

§

Mi sono imbattuto in questo libro quando i viaggi dei vent’anni erano ormai finiti da un pezzo. Ma ho avuto la fortuna di viaggiare tra i suoi versi, di abitarli per qualche tempo come traduttore, lasciando che passassero lentamente da una lingua all’altra.
Tradurre i libri di Bouvier, è stato detto, non è semplice, poiché la sua fedeltà a un’idea di letteratura come ostinato esercizio di “ravvivare le parole per dar loro colore” lo ha spinto verso un dizionario dell’impoverimento che non ha riscontro nella lingua di altri poeti.
È quello che accade anche in questo libro, scritto – secondo il precetto di Vladimír Holan, il poeta boemo di cui Bouvier portò con sé i versi durante il viaggio in Oriente – lungo quella sottile soglia mentale in cui si tiene “un piede ancora nel linguaggio e l’altro già nel silenzio”.
A questo linguaggio che rovescia e confonde le comuni coordinate del fuori e del dentro, del vuoto e del pieno, Bouvier attribuiva il potere di far vibrare la “musica ininterrotta” di ciò che è inatteso, imprevisto, appeso a un filo.
Queste poesie erano intese come “canzoni di un compagno di viaggio”, mediante cui trasmutare in regalo l’inverno del cuore, la malinconia, “il peso inesorabile dell’esistenza”.
Ho cercato una traduzione che fosse soprattutto un ausilio alla lettura, o meglio all’ascolto, del loro ritmo. Può darsi che la bellezza dei versi originali lasci talvolta trasparire anche in italiano un’ombra della loro melodia, della loro leggerezza.

Bouvier - cover - 4

 

 

§

POESIE
di
Nicolas Bouvier

§

Novembre

Le melagrane aperte che sanguinano
sotto un’esile e pura coltre di neve
il blu delle moschee sotto la neve
i camion rugginosi sotto la neve
le faraone bianche ancor più bianche
i lunghi muri rosso persia
le voci smarrite
camminano a tentoni sotto la neve
tutta la città, fino all’enorme fortezza
se ne vola via nel cielo striato

Tabriz, 1953

***

Le Indie galanti

Ombelico del continente
Lieve polmone del mondo e polvere dolce ai piedi

Questa strada ha molto dalla sua
in tutte le direzioni della bussola
è spazio e eternità
savane color cuoio
avvoltoi in tondo nel cielo cannella
villaggi verdi intorno a una pozza
ritti dèi coperti di minio
e di carta argentata
città cadenti, arzigogolate
e sguardi che incrociano il tuo
fino alla nausea

Ti spingi avanti lentamente
un mese passa come niente
consulti la mappa
per vedere dove ti ha portato la deriva del viaggio
foci verde acqua aperti come palmi
bruni corrugamenti degli altipiani
i sigaretti legati a un filo rosso
costano appena cinque annas al mazzo
dove andremo domani?

Alla stazione di Bezwada
hai dormito su una panca
sentivi nelle reni il peso della giornata
dai quattro angoli della notte le locomotive
arrivavano
mugghiando come mercantili
svolazzi di madreperla sugli eucalipti

La luna salendo era così piena
e la vita così sottile
che non c’era quella sera
altra perfezione che nella morte

Sholapur, India centrale – Ginevra, 1978

***

Love Song III

Quando ravvivare le parole per dar loro colore
non sarà più affar tuo
quando il rosso del sorbo e il profilo delle ragazze
non ti faranno più rimpiangere la giovinezza
quando un nuovo volto tutto sbreccato d’assenza
non farà più tremare ciò che credevi saldo
quando il freddo avrà preso congedo dal freddo
e l’oblio detto addio all’oblio
quando tutto sarà foderato
dal silenzio opaco dell’agrifoglio

quel giorno
qualcuno ti aspetterà sul bordo della strada
per dirti che è andata bene così
che dovevi concludere il tuo viaggio
spoglio
del tutto spoglio

allora forse…
ma la neve caduta questa notte
sia come un dito sulla tua bocca

Ginevra, dicembre 1977