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Una cosa che torna ciclicamente sui ragazzi fin dai tempi di Flaubert

1

di Gustave Flaubert

Jesús Madriñán, fotografia tratta dalla serie “La escena”.

Una mattina di dicembre, nel recarsi alle lezioni di procedura, gli parve che in rue Saint-Jacques ci fosse più animazione del solito. Gli studenti uscivano a precipizio dai caffè, o, si chiamavano, di casa in casa, dalle finestre aperte. I bottegai sul marciapiede si guardavano intorno con aria preoccupata; le imposte si chiudevano, e, quando arrivò in rue Soufflot, notò un grande assembramento intorno al Panthéon.
Alcuni giovani, in drappelli diseguali dai cinque ai dodici, procedevano tenendosi a braccetto e s’avvicinavano ai gruppi più considerevoli che stazionavano qua e là. In fondo alla piazza, contro i cancelli, uomini in blusa arringavano, mentre le guardie municipali, tricorno sulle orecchie e mani dietro la schiena, vagavano lungo i muri, facendo risuonare il lastricato sotto i loro pesanti stivali. Avevano tutti un’espressione misteriosa, stupita, come se trattenessero un’interrogazione a fior di labbra; evidentemente si stava aspettando qualcosa.
Frédéric si trovava vicino a un giovanotto biondo, dal volto distinto, con baffi e pizzetto come un gentiluomo dell’epoca di Luigi XIII. Domandò a lui la causa del subbuglio.
«Non ne so nulla» ribatté l’altro «e neppure loro! Oggi si usa così! Che razza di commedia!»
E scoppiò a ridere.
Le petizioni per la riforma elettorale, che si facevano firmare presso la guardia nazionale, assieme alla proposta di legge Humann sulla revisione delle liste di leva, e anche altri avvenimenti, provocavano da sei mesi inspiegabili adunanze di folla; e anzi, si rinnovavano così sovente che i giornali non ne parlavano più.
«Manca di linea e di colore» continuò il vicino di Frédéric. «Opino, messere, che abbiamo degenerato! Ai bei tempi di Luigi decimo primo, e addirittura di Benjamin Constant, serpeggiava più ribellione tra gli studenti. Io li trovo pacifici come agnellini, sciocchi come rape, e idonei a fare il droghiere, santo Dio ! E questa la chiamano Gioventù studentesca»

[da L’educazione sentimentale, di Gustave Flaubert, Oscar Mondadori, pp. 71-72, traduzione di Giuseppe Pallavicini Caffarelli]

Otto poesie

12

 

di Stefano Salvi

Da “Il seguito degli affetti”

Eppure chi vede, altro non vede
che questo: certe visitazioni. E favoriscono
nella remissione atmosferica.
Tempo di luce forte, ad aria
chiara, ripetendo le pose del fuoco ed il solo
punto di voce – gli agi di commozione
vengono a due a due:
i segni del raccolto sono di epoca
di un approdare visibile, come
il raggio del risveglio, scomparso
dalle abitazioni,
soccorreva la cognizione degli astri
scanditi attorno all’avvento.

Neanche più una minima notte
da nessuna parte. Dall’interno dell’acqua si scende
nel bosco, come da uno stelo calmo
a quello successivo. Perciò
verso l’albore
una mano premuta sul fiume.

Presto prima della pietraia
sempre due respiri. Anzi neanche.

A lungo tieni
il gelare in molte parti,
fino a che si offusca. Altrimenti
saresti continuamente
in una primavera eseguita fino dalla
spaziatura minerale.

Nei rami l’assoluta persona per la notte, nella
parte più fresca delle mani,
per quante nubi configurano, a volte,
e forme di volto in volto
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
in tutto un anno trovi
nel fondo buio,
le cui estensioni ed aspetti mantengono il vento.

Ogni stagione valuta vene proprie
i visi fissati alla spina.

Ed è bene distinguere dalle attenzioni
dell’acqua i vivi in intimo.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

E in queste vene dure quello che toglie
all’erroneo è il cavo
nelle foglie – solo così guardi con cura: dopo spinta
un’acqua accesa a sciamare, nelle ore di notte.
Non esiste la neve, con
evidenza, ovunque, e non si possono
scoprire lumi neanche su un sonno.
L’equilibrio in una traversata diurna
è più forte, perché si trova solo ciò
che mette eco; sarà sempre possibile
questa durata, nel valico delle figure, dove gli oggetti nel mare
sono più visibili. E non c’è tenue confine
per generare il fuoco: soltanto, in apparenza,
è concesso di giungere. Anche il seme, quando porta
chiarore, come
i nomi in cielo, apre un incaglio, compie. Proprio
il molto numero delle soglie dice
l’elevazione trovata.

Il segno per le materie eruttive
scompare, come sempre fa ogni rovo: aperto.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E non può trovarsi nelle mani
niente altro che ciò che fai in parti.

Le mani irrigidite dopo essere stata
vicino all’acqua, e

aperta a tutti i rigori del Sole.

Si legge il firmamento, con i momenti si termina per
decifrare i rilievi del mare
e si vuole essere i visi penultimi,
la rosa incessante di tutti.

Osservi il percorrere gli alberi, come è descritta
la latitudine necessaria,
le circostanze delle immagini.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Dove la pietra è calma
si trova la parte dell’innesto.

Da “L’avvenimento del terreno”

Nondimeno nel tuono si compie
il nome del grano, in queste cose fra la bocca dei morti:
qui, preme con lo squarcio lo strato delle api
che distende la spiga,
e non un rumore, e non un fondo di foglie
a vedere il cielo che sostenta
di quel sale vasto dell’insetto, della figura vagamente inoppugnabile
che danno sul terreno gli scopi estranei alla vita degli alberi,
e dove arderai il cuore.
Scheggia il tocco ripetuto
dell’erbaio: qualcuno, più d’uno, ha,
dall’incandescenza del palmo,
l’invenzione delle radici, che feconda; poco è
avvolto in sogno nella
specie delle ossa.
La condizione di amato non ha nome.
Chiusa nella tua bocca, temi
che la forma del bacio possa fare cadere, e farti infrangere
la terra e trascinarti infine.

Importa conservare l’imbattersi nel suolo dal
ramo che cade, non perdere sangue: a pochi istanti,
le foglie rafforzano il sentiero. Talora,
riposano dal volto di vivo
le sorti la cui bontà
è il piano guardare, andando a fondo dell’erba.
Sempre, il fulgore, se dai morti,
è per il suolo parte delle membra:
al termine del percorrerlo
essi non servono due volte, non riescono delle piaghe,
nelle mani dove è di maggiore rumore, una caduta, lenta di gocce.
Il fine cui tendiamo non è
essere in lacrime, invecchiare
l’interno della terra.

Da “Il modo dell’albero”

III

E stai / con le occasioni minute delle nubi,
coinvolta di sottili mani

– e dai segni, dell’intridere dalla
trasparenza, il cielo mostra i tepori
di minuto in minuto: nel giardino dove viene incontro
il tuo lasciarti tagliare per la bocca.

 

[Foto: Rinko Kawauchi.]

I maledetti toscani

28

Cosa succede in Toscana
di
Vanni Santoni

Cosa succede in Toscana? Parecchio, succede. Mi spiego. Ho cominciato a scrivere non troppi anni fa, su Mostro, una rivista letteraria fiorentina. Aveva contenuti buoni per una rivista autoprodotta, e tuttora considero cruciale per la mia formazione la prova del confronto immediato con autori con più esperienza di me; tuttavia erano – eravamo – ragazzi, e pativamo una mancanza di connessioni, di “scena”, in città; di gente con cui confrontarci, con cui stipulare alleanze o da tenere come pietra di paragone. La scena, a nostro vedere, eravamo noi stessi, più qualche unità, qualche scrittore più famoso che andava per la sua strada e con cui non avevamo contatti. Non si trattava di una nostra mispercezione: ricordo che, qualche tempo fa, intervistando per il Corriere Fiorentino Sergio Nelli, scrittore della generazione precedente alla nostra, egli lamentasse che negli anni ’80, all’epoca del suo trasferimento in città, non ci fosse scena letteraria, tanto che i primi sodali andò a trovarseli a Milano.

Oggi, invece, quella scena, a Firenze, c’è. In embrione, per certi versi; scollata, senza dubbio; ma esiste. Si è pian piano coagulata attorno a luoghi come la libreria La Cité, eventi come la prima e unica edizione del festival Ultra, riviste che hanno raccolto l’eredità di Mostro come Collettivomensa, serate “aperte” come Torino una sega, e si è riconosciuta e “contata” quando, l’anno scorso, c’è stato da lottare contro un “festival” assai discutibile che, in modo del tutto avulso proprio da tale embrionale comunità (o da qualunque altra istituzione culturale cittadina), veniva a speculare sopra le aspirazioni degli esordienti. Va da sé che dopo la battaglia il gruppo si è nuovamente sfilacciato – c’è stato, e c’è, un seguito, che si tradurrà magari in eventi e iniziative, ma di fatto ognuno ha ripreso la propria strada –, ma niente è più come prima, perché questa comunità di scrittori adesso esiste, e si collega anzi a una più ampia nuova scena regionale: di recente il critico Raoul Bruni, sempre attento alla contemporaneità e a quanto avviene nel nostro territorio, mi ha invitato a partecipare a un’antologia che documenterà questa nouvelle vague di autori toscani sotto i quaranta; va da sé che ho accettato, e il roster dei nomi è assai interessante: Simona Baldanzi, Diego Bertelli, Filippo Bologna, Silvia Dai Prà, Francesco D’Isa, Fabio Genovesi, Simone Ghelli, Ilaria Giannini, Pietro Grossi, Emiliano Gucci, Gregorio Magini, Paolo Mascheri, Francesca Matteoni, Ilaria Mavilla, Valerio Nardoni, Sacha Naspini, Federico Parlato, Flavia Piccinni, Alessandro Raveggi, Luca Ricci, (Vanni Santoni), Marco Simonelli. La nuova scena esiste, scrive e, da buon embrione, cresce rapidamente: a livello numerico, ma anche qualitativo. Sono infatti usciti di recente in libreria due romanzi, a firma di due scrittori inclusi nel gruppo succitato, che marcano una crescita decisa per loro e, più in generale, per la scena.

Il primo è I provinciali di Ilaria Giannini, uscito per Gaffi lo scorso novembre. Rispetto al suo esordio Facciamo finta che sia per sempre (Intermezzi 2009), ne I provinciali Giannini segna un cospicuo progresso stilistico, trovando nella lingua parlata il punto di forza del proprio registro. Lo dico con cognizione di causa: ho passato tante estati d’infanzia e di adolescenza in Versilia, e quando ho letto passaggi come

«Eh no, eh! Non rigira’ la frittata come sempre! Non m’hai nemmeno chiesto come sto e poi sono io lo stronzo! Mi fanno male le costole, devo farmi una radiografia, magari c’ho qualcosa di rotto e come al solito te ne freghi».
«Ma smettila, tante storie per du’ colpi! Sempre il solito esagerato, il solito piagnone, avevi a ridargliele, è la metà di te!».
«Ma se m’ha preso di spalle, quel codardo! Mi vuole ammazza’, te sei sposata con un pazzo!».
«Lo sapevi che ero sposata, ma finché c’era da scopare andava bene, eh? Dai, Emma, rilassati, non lo saprà nessuno, è il nostro segreto, ci penso io a te! Lo vedo come ci pensi a me, per fare i tuoi comodi e basta!».
«Ma falla finita, i miei comodi un cazzo, i tuoi comodi! Qui no, a quell’ora no, c’ho da badare alla bimba, mi’ ma’ sta male, il mi’ marito m’aspetta e io lì, come un bischero, è un mese che cambio tutti i turni per te! Ma basta eh, mi basta e mi avanza, scemo io a infilarmi in ‘sto casino per una come te!».
«Mi fai pena, te una come me a vent’anni te la potevi giusto sogna’ da lontano, ma guarda con chi mi so’ confusa io! Lasciamo perde’…».

..ho avuto un immediato déjà-vu dei genitori di un mio amico, i quali, ogni volta che andavo a giocare da lui, sentivo litigare nell’altra stanza. Quelli del passo riportato sono amanti, non coniugi, ma la parlata, il taglio, il modo di inserire la risposta sulla frase precedente, sono quelli. Non so quanto, viste da fuori, le diverse declinazioni del toscano si assomiglino; viste da dentro sono molto diverse tra loro, e il “basso versiliese” di Giannini è di un’esattezza indiscutibile. Il romanzo è infatti ambientato a Bozzano, frazione di Massarosa, piccolo centro della Versilia “profonda”, quella senza Twiga, “Forte”, Bussola né Principe di Piemonte, e la virtù principale dell’autrice è quella di cogliere la lingua della propria terra (e riprodurla, perché quando si va a trasferire un parlato innervato di dialetto sulla pagina scritta, non basta la fedeltà: va ritrovato un equilibrio nella rappresentazione, che è differente da quello “reale”) e usarla per raccontare, attraverso un continuo dialogare, che avviene sovente attorno al fulcro della cucina di casa, un micromondo magari odiato dai suoi personaggi, ma irrinunciabile, perché lì fuori davvero non c’è più niente, e questa famiglia, sfibrata, disfatta, disprezzabile, fonte più di pensieri e dolore che altro, resta comunque l’unica cosa che possiedono.

Il secondo romanzo è Nel vento di Emiliano Gucci, in libreria da pochi giorni. Gucci, veterano delle lettere locali – è il suo quinto romanzo, dopo pubblicazioni con Fazi, Guanda, Elliot – esce per Feltrinelli con un romanzo esistenzialista di grande pregio: sotto la patina apparente del concept book – vi si racconta infatti la vita di un centometrista, presumibilmente di rango internazionale, attraverso i pensieri che si manifestano nella sua mente lungo i soli dieci secondi della gara –, Nel vento si rivela subito come un libro potente, e lo fa innanzitutto attraverso lo stile. Gucci raggiunge infatti un’economia e una precisione notevolissime, e scaraventa il lettore all’interno delle stanze mentali del protagonista – perché più che dedali sono stanze, ricolme di immagini, traumi, frustrazioni, istanti di chiarezza percettiva (brillanti quelli sul “puzzo di atletica” e sul rumore dei polmoni dei piccioni), tutti sempre visibili sul palcoscenico del ricordo, come installazioni permanenti e terribili – delineandolo come se si trovasse, lui, frutto di quelle esperienze, frutto di quei ricordi, a essere parte di un gioco cosmico nel quale non esistono ormai che dieci elementi: la pista, la folla sugli spalti e gli otto centometristi – lui stesso e gli altri sette, definiti nella sua mente solo da numeri, e pronti a buttare, come lui, tutta una vita in quei dieci secondi. E tuttavia non siamo di fronte a un romanzo sull’atletica: si parla di atletica, si corre in una pista di atletica, c’è il pubblico dell’atletica, si parla anche di sponsor, allenamenti, doping, ma Gucci riesce a far essere Nel vento un libro su qualunque sport. Di più: su tutti quegli sforzi umani nei quali una lunga e dolorosa preparazione viene spesa in un attimo brevissimo.

Questa assolutezza di visione è il punto di forza del romanzo, tanto che tramite di essa Gucci riesce a centrare un secondo obiettivo, quello di “uscire dal giardino di casa” senza cadere nel vizio opposto, ovvero l’esterofilia forzata: se alcuni nomi che si incontrano lungo la narrazione suggeriscono che il protagonista sia italiano, non lo sono ovviamente i suoi avversari, ma soprattutto tutto il libro si svolge in uno scenario sospeso dove non c’è traccia di specificità locali; anche il vissuto del protagonista è costituito dai soli snodi traumatici, omettendo quell’esistenza di provincia che con ogni probabilità ha fatto da contorno alla crescita di un uomo che oggi è arrivato a giocarsela in una finale importante, forse addirittura olimpica – forse, di nuovo, perché molti sono i non detti nel testo, che contribuiscono a trascinare il lettore in un mondo fatto esclusivamente di elaborazione mentale – il cui racconto però non ci parla di lui, dello sport o dell’agonismo, ma del dramma di essere vivi, e in scena, nostro malgrado.

Da “Wasurenamu”

8

di Valeria Ferraro

.

bisogna considerare
chi ti ha manovrato
assemblato ispezionato
curato levigato
con assoluta pietà
tutta la gente che vedi
ha stigmate
profonde come le tue
– è sopravvissuta –

Rue Franklin

1

 

di Davide Vargas

È un bacio leggero che un ragazzo poggia sulle labbra di un altro giovane orlato da un pizzetto rossiccio. Poi si toglie il berretto e brillano due occhi. Allungati, truccati e verdi. Bellissimi. Ha la testa rapata. Il cielo ha il colore dei fumi di scarico delle macchine che passano su rue Beaubourg. I due ragazzi si avviano verso l’ingresso alla biblioteca del Centro Pompidou. Nella piazza c’è già la fila che parte dalla fontana Stravinsky, si allunga fino al cesso chimico tra i grandi aeratori bianchi e poi rigira. Tutto per la mostra di Salvator Dalì. Forse per la pubblicità, dice con i suoi denti bianchissimi. Perché è facile, risponde il ragazzo con gli occhi imbruniti e gli accarezza lievemente il culo  rivestito dalla tela di un jeans largo e cadente. Si sorridono. È una libertà tenera. Quasi languida. Come la luce che si impasta con i toni bruciati dei platani arrampicati nel cielo che si scurisce ancora. Una cosa diversa dalla furia di Dean Moriarty. Altri tempi e altri luoghi. Davanti al centro Pompidou c’è una grande scultura: la testata di Zidane a un Materazzi che ha sul viso la smorfia della colpevolezza. Una visione di parte. Come tutto ciò che riguarda le colpe. La gente si fa fotografare. Arriva ai polpacci dei due giganti. E nella fontana di Tinguely non c’è acqua e sul pelo del fondo umidiccio i pacchetti di sigarette restano incagliati tra i meccanismi gli ingranaggi i cavi. Le figure di alluminio scoloriscono. I due ragazzi stanno entrando.

Una voce che dice: Baudelaire. Una donna con i capelli crespi raccolti in uno chignon e due occhialini da topo come in una striscia di Art Spiegelman. Alle tempie i capelli sono ancora più crespi come le basette di un uomo. Un’altra segue il suo dito puntato all’edificio sulla Senna. Altri occhialini e un caschetto di capelli bianchi. Una targa recita: Baudelaire y vecut en 1842 et 1843. La lunga sequenza di finestre con gli scuri chiusi e spellati si perde in fondo. Un fronte compatto. Sull’altra sponda, l’Istitut du Monde Arabe. Da qui si legge tutta la forza urbana dell’intervento. È il terminale del fronte dirimpettaio. Si aggancia all’esistente e ricurva verso il corpo di fabbrica più alto. La facciata con i famosi merletti di metallo, meccanismi di tanti obiettivi fotografici. Praticamente ricurva verso se stesso. Dentro c’è una mostra di architetti arabi. Giovani. Marocco. Libano. Disegni e fotografie di opere. Roba interessante. C’è una specie di ingenuità. Senza malizia. Mi spiego: riferimenti a immagini mille volte viste. Ma glieli concedi. Sono quasi necessari. Cosa che non sei disposto a tollerare altrove.  Sarà la solidarietà tra chi vive contesti difficili. Eppure non c’è paragone tra i dolori. L’altezza della sala non supera i due metri e venti. Una bella sensazione. Lo spazio che occorre. Da noi non sarebbe possibile. La facciata appare congelata. Riflette i colori della città. Brandelli di cielo. Che si è schiarito. Oh, non molto. Un grigio-azzurro polveroso calato sulla città. I graffi degli alberi spogli. I platani solenni.  Magnificamente infelici. Le luci puntuali della città. I rossi dei semafori. Le luci arancioni. Bluastre. I gialli. Vapori di mercurio. I viola. Di sodio. Dal parapetto superiore si affacciano piccole persone come birilli. Giù sul lungosenna passeggiano un paio di persone fin dove possono. L’acqua è salita e ricopre dei pezzi di percorso. Una scala finisce nell’acqua torbida ed una bella madre bionda controlla i movimenti di un bambino con un cappello da aviatore che gioca sui gradini. Sarà per il vuoto del fiume. Sarà per il profilo interrotto. Sarà perché ai lati del ponte un clown si sta preparando con le sue cianfrusaglie. E i bambini trepidano. Sarà per tutto questo o no, ma tutta la massa di urbanità che ci incombe ogni giorno sulla testa sembra aprirsi. Sfilacciarsi. E alleggerirsi.

Una vecchia valigia da emigrante aperta nell’androne. Uno spazio stretto buio e allungato nella palazzina incastrata tra una boulangerie dove si fa la più buona baguette della città [ certificato, sì ] e un banco che negli ultimi giorni dell’anno è colmo di vassoi di ostriche impacchettate e infiocchettate. Poggiata al muro con un cartello: servez vous. Vecchi libri che a fine settimana verranno buttati. Ingialliti. Improbabili. Ma la tentazione è forte. Le persone si fermano. Si abbassano. Malgrado le schiene doloranti per l’umidità feroce che punge le ossa. Sfogliano le pagine secche come le foglie. Alcuni riposano il libro. Altri lo infilano nelle borse o nelle tasche. Una boucherie ha un vano nell’androne. Un olezzo di carni e spezie si diffonde. Roba forte. Le copertine colorate stanno lì. Andranno a rifiuto. Mentre scrivo a duemila chilometri lontano un libro è qui. Come un souvenir. Non lo leggerò mai ma la storia c’è ed è salva.

Parigi è rue Franklin in una giornata di pioggerellina fine. Sali e ti ritrovi a tu per tu con la pelle a fiorami dell’edificio di August Perret. Un rivestimento di ceramica, fiori carnosi aperti e incastrati. Come un vestito di donna. La Tour Eiffel è mozzata dalla nebbia. Ed  un bene. Non siamo alla ricerca di icone. Alla Cité de l’Architecture & du Patrimoine lì vicino c’è una mostra sull’opera di Henri Labrouste. Bellissima. Una grande modernità. La sala di lettura della Bibliothèque Nazional de France è uno spazio di grande innovazione. Pilastri di metallo esili. Spazio fluente. Decorazioni significative. Un pensiero limpido dietro le forme. La casa di rue Franklin è del 1903. La struttura è in cemento. La prima opera in cui la struttura scandisce il disegno. I pilastri e le travi hanno rivestimenti in ceramica liscia. Quindi ne segui lo spartito distinto dai pannelli di tamponamento. La facciata si ritrae nella parte centrale e l’articolazione interrompe la continuità monotona della cortina. E poi tutti gli ambienti interni hanno la luce. Ci sono di fronte come una montagna di anni fa. Studente di architettura nel primo pellegrinaggio tra le opere studiate sui libri. E nella città dei sogni. L’America sembrava troppo lontana per le timidezze di un ragazzo cresciuto a chiedere permesso. Sono viaggi che ti restano nelle fibre. Quello che capisci e quello che no. Non che avessi capito molto di questa casa. Ma l’avevo vista. Da vicino e questo contava. Fino ad oggi. Con una diversa sorpresa. Il portoncino laterale si apre. Faccio in tempo a intravedere l’atrio rivestito di legno, un lampadario liberty e una seconda porta  a vetri che probabilmente porta alla scala. Nella mia memoria la scala è sul retro chiusa da una vetrata. Un vecchio ricurvo esce in strada. Ha gli occhi liquidi e malinconici e un paio di incredibili scarpe. Appuntite. Di vernice nera e lunghissime. Una cosa sproporzionata. Il vecchio fa pochi passi. Traballanti malgrado le grandi scarpe. E poi si siede sugli scalini davanti alla lunga vetrina. Lentamente come fanno i vecchi doloranti. Il cappotto si apre e la cravatta è allentata. Come il labbro che pende. Dalla vetrina si affaccia un giovane col cellulare che lo guarda negligente. Non mostra alcuna sorpresa. Poi rientra. È un negozio Bulthaup. Credo che la scaletta, il piccolo ammezzato circolare, i tubi verniciati di nero, gli infissi, tutto sia originale. Il vecchio resta lì con un’espressione un po’ caustica e sembra guardare il mondo con rimpianto. La pioggia infittisce. Molti anni fa c’era una ragazza. Era seduta sul marciapiedi e disegnava l’edificio di fronte che era come un accenno di abbraccio, niente di esagerato ma un sussurro moderno. Il s’agit d’un immeuble du 1903 – disse la giovane e gli mostrò il disegno con le dita nere di carboncino. Era vestita parigina e aveva una bocca fatta per dire cose dolci…Si, ricordo quella bocca così calma. Ricordo l’intonazione e le parole che pronunciò… e poi andarono insieme in un caffè e poi in giro per la città…Si, ricordo i nomi delle fermate. Stalingrad e la metropolitana fuori terra in mezzo alla città. La metropolitana affollatissima e le pensiline di Guimard. Parigi è i nomi… e la sera dormirono insieme. Tutto così lineare nel flusso della vita non l’aveva mai provato. Era la sua esperienza, non c’è che dire… E ricordo quella notte. Dalla finestra gli alberi si spegnevano insieme ai lampioni. La stanza con le minuscole riggiole scardate e le travi di legno al soffitto. E le tende …col volto sul corpo della donna ascoltò il cuore della città perlacea e pensò che ne valeva la pena. Naturalmente  tornò a casa e disse agli amici : Io andrò a morire a Parigi – e ci credeva veramente, sulla panchina difronte alla stazione che assorbiva i colori della sera. Leggo da una specie di diario trovato tra le vecchie cose. In terza persona. I ricordi affiorano e si precisano nel presente. Da oggi a ieri. Ma contro ogni logica il passato non resta immutabile dov’è. La seconda volta davanti alla palazzina di rue Franklin è ora di smascherarlo. Perché io so che non era vero. Non è mai esistita la ragazza e neanche la notte. Un’ invenzione e una libertà concessa alla costruzione della propria mitologia personale.

Ma Parigi è [stato] anche questo.

 

a Parigi, gennaio 2013

Il residence dei mariti di Roma nord

14

di Davide Orecchio

Nella mia città di nascita e vita c’è un residence dove capitano o hanno l’incubo di finire i mariti di Roma nord. Col petrolio di grandi e piccoli errori, debolezze, cattiverie, forse violenze, mediocrità, rabbia, mogli che non ascoltano, porte blindate da mogli che non ascoltano, spazzolini in assenza, dentifrici in assenza, non mutande pulite né camicie di ricambio i mariti di Roma nord sbarcano o hanno l’incubo di sbarcare al residence su via Candia, per un loro passaggio in purgatorio o inferno.

Venerdì 18 Gennaio: doppio appuntamento poetico a Milano

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1) Dalle 15.00 alle 17.00:

Seminario di Giulio Marzaioli sulla ricerca compiuta nella realizzazione dell’opera Quattro fasi (Edizioni La Camera Verde, 2012), nell’ambito del corso di Tecniche e tecnologia della pittura tenuto dalla professoressa Teresa Iaria presso l’aula 3 dell’Accademia delle Belle Arti di Brera (via Brera 28).

2) Dalle 21.00 alle 23.00:

Presentazione del volume di poesia di Vincenzo Ostuni Faldone zero-venti (Ponte Sisto, 2012) presso la Libreria Popolare (via Tadino, 18), con interventi critici di Gherardo Bortolotti, Paolo Giovannetti e Paolo Zublena, coordinamento di Alessandro Broggi e presenza dell’Autore.

“In realtà, la poesia”: nascita di un nuovo sito

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Luigi Bosco, Davide Castiglione e Lorenzo Mari sono i giovani  coordinatori di un nuovo sito di critica di poesia che mi sembra particolarmente degno d’interesse, stando alle premesse che si possono leggere nel post di apertura. Non che la critica di poesia sia assente dalla rete, ma permane tutt’ora l’esigenza di esplicitare criteri e nodi teorici del lavoro critico. Insomma, è importante (ri)definire in modo consapevole quale visuale vogliamo adottare nel nostro approccio ai testi cosidetti poetici.

IN REALTÀ, LA POESIA vuole interrogare il binomio “poesia e realtà” nel suo intrecciarsi fitto a partire dai testi e dalle opere, rilanciando la pratica del close reading e dell’analisi testuale. Lungi dall’essere un ritorno a paradigmi formalizzanti, l’approccio qui proposto considera i testi e le opere al tempo stesso tanto come prodotti – diretti o indiretti – di una data situazione storica, sociale e individuale, quanto come strumenti per interpretare o cercare di comprendere la realtà in cui si collocano e/o a cui fanno riferimento. Continua qui

I pericoli del racconto

3

di Enrico Palandri

Chi racconta delle storie non dice la verità. Liquidare però la realtà presentata da un autore come una storia, è più complicato di quanto appare a prima vista. Don Chisciotte, Madame Bovary ci sono presentati dagli autori come personaggi per cui la lettura è stata nociva, ha fatto smarrire il loro buon senso in un’eccitazione della fantasia. Sono però anche gli eroi dei loro autori che ci presentano dunque il loro modo di vedere il mondo attraverso un doppio specchio: chi leggendo si innamora di Emma e dell’hidalgo si ammala della stessa malattia e si associa alla loro condizione, ma attraverso la perdita di senso della realtà legata alla lettura ribalta con loro la situazione e mostra il mondo che li giudica quale esso è, inadeguato a comprendere e sentire, e non viceversa.

Ci sono dunque diversi piani in cui si percepisce il reale anche nel mondo bugiardo delle narrazioni. Chi racconta delle storie non dice la verità. Ma supponiamo di trovarci nella Lubjanka, o a Via Tasso, o a Guantanamo, e il poliziotto che interroga lo scrittore sospettato di tradire il comunismo o la patria, sottoponendolo a tortura, dica: non mi racconti delle storie… E che magari quello stesso funzionario, guardi un film al cinema, o racconti ai figli o ai nipoti qualche storia familiare come faceva mia nonna. Quanti diversi significati, e quanto contraddittori, assume l’espressione raccontare delle storie a questo punto?

Ai bambini viene raccontata una fiaba, ma gli si insegna anche che si deve imparare a rinunciare alla fiaba per crescere. Si racconta ad esempio di Babbo Natale, ma i bambini imparano presto che la frontiera segnata da quel racconto nel loro sviluppo è un rito iniziatico. Niente renne volanti, niente casa al Polo Nord, scoprono con delusione che i regali sono stati comprati dai genitori. La vera soglia sono loro, e raccontano una storia, cioè hanno mentito. E perché? Questa è la domanda dolorosa che si pone ogni bambino scoprendo che i genitori possono mentire. Impara a tollerare la paura attraverso narrazioni terribili come Hansel e Gretel, Pollicino, il figliol prodigo, ma impara anche a trattare questi racconti come storie appunto, che i genitori non hanno fatto altro che raccontare delle storie, e così la loro generazione, gli insegnanti e i politici, i preti e i poliziotti. Tutto il mondo, così come ci è stato trasmesso, appare a un certo punto come un insieme di storie, e storie false, superate. Non la descrizione di quanto è accaduto ma un uso della narrazione che consentiva ai padri di prendere una distanza dalle loro responsabilità ed elaborare ciò che raccontavano. Quelle colpe ci raggiungono intatte e il primo moto di ribellione è contro il modo inefficace con cui hanno tentato di fare i conti con il loro passato. Vittorie tradite, resistenze che non hanno resistito, gli anni di piombo. Bisogna ripensarci, riprendere in mano quel materiale e cercare questa volta di dire la verità. Uscire dalla loro narrazione e dire le cose come stanno.

Uscire da una narrazione dà per questo un senso di realtà: fuori dal racconto, fuori dalle storie c’è il reale. Finisce un’epoca politica, cade un regime, e tutto quel che quel regime ha detto ci appare una storia. Il più delle volte ci basta riconoscere il carattere romanzesco, la narrazione di quello che abbiamo appena lasciato. Sotto il fascismo ci dicevano che… Nel ‘68 gridavamo viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tze Tung…

Si impara così a far passare per l’immaginazione una catena di eventi sapendo che sono una rappresentazione delle cose, cercando di lasciare andare quello che non è più avvincente, ha esaurito la sua funzione, è appunto diventato semplicemente una storia. E così via, per tutta la vita ci avviciniamo a narrazioni che ci attraggono, ci aiutano a crescere e presto ce le lasciamo alle spalle, portandone le tracce in un tempo parallelo al presente, sotterraneo, che costituisce il tessuto di nuove narrazioni attraverso cui interpretiamo il mondo.

Queste storie sono antiche come il mondo. Ripetute in mille variazioni ci permettono di tenere vivo un senso di quel che viene narrato che è più profondo degli eventi che accadono. Lo condividiamo con gli altri animali: un cane che aspetta il ritorno del padrone, scodinzola e ripete un rituale di festeggiamenti, è già una narrazione. Un racconto si rivela falso, non funziona più, lei non mi amava o la mamma è morta, il comunismo era un incubo o la beat generation un gruppo di sbandati; lo si dice, lo si ripete e la cosa perde forza, restano solo parole e al di là di questa storia spezzata, dai suoi frammenti, rinasce una nuova narrazione.

Siamo fuori da quella storia e siamo già in un’altra storia. La narrazione della fine di quello che era e non è più. Sappiamo che le storie passano e far passare quanto è accaduto in una storia ci è necessario per liberarcene. Narrare, fare una narrazione, non essere prigionieri di una sola rappresentazione del reale ma usare ogni storia come superficie, forma, specchio, per rimettere in movimento la nostra comprensione, per far scorrere l’acqua.

Presto, scoperto il meccanismo di mascheramento della realtà attraverso il racconto, iniziamo a chiedere: ma è una storia vera? Nell’adolescenza ci si può così votare, contro la poesia e i miti, alla scienza e alla verosimiglianza, opponendo all’immaginazione degli autori l’indagine documentaria, i fatti, gli esperimenti e le prove, ma alla fine anche questa strategia si rivela composta essenzialmente di un carattere induttivo e narrativo, un romanzo che ha altre regole. Persino la scienza, come scrive Galileo in Contro il portar la toga è parente prossima dell’Ariosto, della fantasia. Insomma, la verità, a cui l’accusa di raccontare delle storie si contrappone, è essa stessa una storia, un libro, una narrazione. Che sia la Bibbia, i Vangeli o il Corano, o ciò di cui i libri sacri parlano, ammettendo di poter distinguere la trascendenza del contenuto sacro e spirituale dai testi dalle parole di cui sono fatti, persino il dubbio nichilistico e la sfiducia in qualunque verità ha forma di narrazione. Narrata è la giustizia e gli ordinamenti giuridici dei vari paesi, narrate sono fin dall’infanzia le vicende biografiche della famiglia, del paese, della nazione, del mondo. Narrato è il passato e il futuro e in queste storie noi viviamo ora insieme, ora in gruppi più piccoli, ora soli. O così ci sembra, perché come abbiamo postulato fin dall’inizio, le storie sono prima di tutto bugiarde: condannano tutto quel che accade ad apparirci.

Di fronte agli eventi quotidiani i giornali, le radio e le televisioni offrono narrazioni del mondo che gruppi diversi nella società consumano e nutrono confortando i propri assunti ideologici, religiosi, sessuali, tutto ciò che in noi già attende quella narrazione e l’ha preparata nelle puntate precedenti, vedendo confermati in ogni momento i giudizi che ha già dato sul mondo. Siamo tutti come Don Ferrante nei Promessi Sposi, bravissimi a convincerci di quello che già pensavamo.

Pensare è sia un tentativo di conformismo, di adattamento all’ambiente in cui siamo, alle sue regole attraverso le sue storie, sia l’avvertire il cambiamento e dunque ribellarsi per cercare di liberare il flusso, il punto in cui il contrasto tra forme che si svuotano e altri contenuti spezza la superficie, facendo sì che alcune storie diventino false e ci costringano a criticare il mondo da cui veniamo, mentre altre sembrano poter prendere forma e le aspettiamo.

Il potere politico è anche lui essenzialmente narrazione, ma una narrazione che cerca di non sapere cosa è, che vuole confondersi con la Storia. Affinché le sue narrazioni abbiano peso usa eserciti e prigioni, guida oppure piega a una visione del mondo il destino dei popoli. I partiti e le riunioni politiche sono caratterizzati da un interminabile narrarsi gli uni con gli altri la propria versione delle cose, quando c’è la fortuna di avere un parlamento, o l’imposizione di un’unica narrazione nelle dittature: la storia romana e la storia fascista ben saldate, oppure l’apologia di una qualche altra visione del mondo. Questa storia va creduta e nelle dittature diventa un crimine il credere qualcosa di diverso. Avere per la città individui che dubitano, che diffondono il dubbio, non è possibile. Individui che come bambini che vogliono crescere cercano di dire agli altri: questa è una storia, cresciamo insieme. Verso dove? Verso una nuova narrazione, certo, ma che si presenta sempre come la storia di Hansel e Gretel la prima volta che la si ascolta, una storia spaventosa e creduta reale.

Del resto, purtroppo, ciclicamente affiora una certa stanchezza per il moltiplicarsi delle storie e nostalgia per una unica storia che offra identità, il senso di essere quello e non altro e di poter credere che non di una storia in quel caso si tratta, ma della verità.

Cosa possiamo fare allora noi che temiamo il rinserrarsi di questo conformismo fatale, il bloccarsi del flusso narrativo in forme inadeguate? Un conformismo che precipita inesorabile verso la morte e la guerra, perché su quello si fonda? Probabilmente nulla, e così confermiamo l’accusa di essere ininfluenti, inutili, marginali. Come tutti gli intellettuali, i poeti, gli scrittori, i filosofi. Rientriamo così nel disprezzo nutrito verso Don Chisciotte e Madame Bovary, il disprezzo di chi taccia altri di intellettualismo e non considera il proprio mondo come narrazione, e vede in noi solo gente che racconta delle storie.

(questo bellissimo testo è l’omonimo capitolo di “Flow” , Barbera Editore, 2011, del quale NI ha pubblicato in passato il capitolo precedente, “Una nonna narratrice”)

Un’autobiografia impersonale. Note su “Girls” di Lena Dunham

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di Enrico Camporesi

Who cares if there’s a plot or not

when they’ve got a lot of dames?

What do you go for? Go see a show for?

Let’s tell the truth: you go to see those beautiful dames!

Da Dames (R. Enright & B. Berkeley, 1934)

Quasi fosse un esercizio sofistico, a più riprese ho tentato di dare corpo, oralmente, alla mia passione per Girls. La verbalizzazione si faceva difficile, quanto più semplice e irresistibile era il piacere tratto da questa prima serie prodotta da HBO e trasmessa l’anno scorso, giunta con qualche mese di ritardo in Italia, e che ora si appresta a trovare un prolungamento in una seconda (a partire dal 13 gennaio). Giova forse ricordare un frammento di conversazione che aveva aiutato a portare l’attenzione sull’oggetto. Un’amica: «hai visto Girls? È il Sex and the City dei tempi della crisi». Mi sono detto, dopo aver letteralmente divorato l’integrale di quest’ultima, che certo una visione si imponesse. Premessa doverosa: la serie televisiva non è qualcosa che attrae tendenzialmente la mia attenzione, benché negli ultimi tempi mi sia ritrovato a guardarne (per i più diversi motivi) una certa quantità. A differenza di altre immagini mobili, per così dire, la serie è stato sempre un oggetto difficile da affrontare, vuoi per una maggior inclinazione verso l’immagine cinematografica, vuoi per un’insofferenza pacata (e preciso: per nulla snobistica) verso la narrazione a puntate. Ora, ho visto Girls per la prima volta in una settimana di vacanza quando, come spesso mi succede in questi brevi periodi di pausa, avevo deciso di accantonare temporaneamente il film come oggetto d’elezione e dedicarmi ad altro. Se ripercorro brevemente il contesto nel quale si è svolto il primo incontro con Girls è al solo fine di chiarire come le condizioni di visione fossero così peculiari e non lasciassero certo presagire quanto segue. In compagnia di un amico vedo dunque il primo episodio, recuperato come l’intera serie sulla rete e visto su un altro piccolo schermo, il notebook.

C’è nell’inquadratura una ragazza rotondetta e non particolarmente carina, a cena coi suoi genitori. La famiglia si è riunita a New York, dove la figlia ventiquattrenne sta svolgendo uno stage non ben identificato ed è alle prese con le sue ambizioni letterarie. Attraverso qualche riga di dialogo si indovina il clima che iscriverà la serie appunto sotto il segno della “crisi”, nella doppia declinazione economica e personale. I genitori, vedendo i progressi di Hannah, decidono di tagliarle i fondi: da ora in avanti dovrà cavarsela da sola. Malcelata sotto le spoglie di un incoraggiamento energico, la decisione deriva in realtà dalla volontà della madre di godersi il frutto del suo lavoro, senza dover pensare alla sopravvivenza della pargola. Come ogni decisione in vista di un godimento personale, la madre si concede un’oncia di sadismo: proibire il dessert alla figlia, una volta consumato il pasto. Tanto è bastato, sul principio a catturare la mia attenzione. In effetti, il momento di apertura del pilota è già programmatico, benché non esaustivo. Ma vi è tutto l’occorrente per decifrare la serie, a ben vedere: la messa in scena asciutta, i dialoghi affilati e precisi, un conflitto inaugurale e, beninteso, la “crisi” che ha contribuito a fornire l’orizzonte interpretativo dominante dell’opera – elemento certo pertinente ma perlomeno in parte fuorviante.

Eppure proprio dalla “crisi”, e da ciò che vi sta attorno, si potrebbe partire per una lettura di Girls. Non solo e non tanto perché la componente economica fa il suo ingresso immediatamente sulla scena ma per ragioni più profonde, che riguardano anche la prospettiva dello spettatore. Se la crisi infatti coincide, come l’etimo vuole, con un momento di separazione, è chiaro che la declinazione del termine consente di intravvedere un ostacolo problematico, vale a dire la componente generazionale. Perché mi sento immediatamente coinvolto da Girls? Forse solo perché riguarda la mia stessa generazione? Riporto l’osservazione pertinente di un’altra amica, che dopo aver visto i primi minuti del pilota ha dichiarato: «it’s a little bit too close to home». Mi riguarda troppo da vicino. C’è qualcosa in Girls che mi tocca o, meglio, mi addita come soggetto privilegiato. Sulle prime ho pensato che fosse precisamente questa interpellazione diretta e anagrafica ad attrarmi, ma basta aspettare qualche minuto perché all’interno dell’episodio la stessa Lena Dunham (attrice, sceneggiatrice e in gran parte regista – in buona sostanza autrice della serie) confuti irrimediabilmente questa intuizione imprecisa. Hannah si reca dai genitori per cercare di convincerli a finanziare il suo futuro e pronuncia, sotto l’effetto di una bevanda all’oppio, alcune parole: «credo di essere la voce di questa generazione, o almeno una voce di una generazione». La consapevolezza, filtrata da un allucinogeno, è pregnante, e svela l’attrazione generazionale come un miraggio. «Una voce di una generazione»: non vi è dichiarazione meno presuntuosa, chiunque potrebbe fare suo questo proclama.

Vale allora la pena soffermarsi su chi effettivamente si celi dietro questa voce. La questione è più complessa di quanto potrebbe sembrare a prima vista, e tale complessità è articolata a partire da uno stratagemma dalla semplicità disarmante: la sovrapposizione fra il personaggio finzionale e l’autrice. Lena Dunham aveva già realizzato un lungometraggio, intitolato Tiny Furniture (2010), nel quale la coincidenza era quasi totale. Dunham interpretava infatti una ragazza, che ritornava a vivere a Manhattan dopo gli studi all’Oberlin College in Ohio. Fin qui il percorso ricalca la biografia della stessa Dunham, ma vi è di più. Siri, la mamma artista dalla quale Aura (questo il nome della protagonista) ritorna non è altro che Laurie Simmons, madre biologica della regista e rinomata figura della scena artistica newyorkese. In questo gioco di rimandi che pare infinito fra mondo fittizio e vissuto personale (moltiplicato a livelli esponenziali dato che Aura presenta nel corso del film un “suo” lavoro video – The Fountain – realizzato però da Lena Dunham nel 2007) si articola l’universo di Tiny Furniture. C’è chi, come Phillip Lopate, in un saggio pubblicato in occasione dell’uscita DVD (Criterion) del film, ha cercato di sbrogliare la questione. Il termine di paragone atto a servire da chiave interpretativa è per Lopate, evidentemente, Woody Allen:

She has adopted his strategy of being the performer of one’s own self-mocking material; she uses the streets of New York City in a similarly emptied-out way; and the loft scenes, with their wide angles bisected by wall verticals, seem to quote Gordon Willis’s interior cinematography in Manhattan (1979).

L’osservazione non è certo infondata, anzi essa parrebbe addirittura inconfutabile vista la stretta corrispondenza fra performance attoriale, localizzazione geografica e appurato persino l’eco di uno stile affine. Più avanti Lopate corregge il tiro affermando che però, a differenza di Woody Allen, Dunham non si riserva le repliche verbali più argute, ma amplia il ventaglio dei caratteri, affidando a ciascuno dei suoi personaggi una consistenza drammaturgica specifica. In realtà c’è qualcosa che sfugge, se ci si attiene solo a queste osservazioni. Ed è proprio a partire dall’esempio apportato da Lopate che si può precisare qualcosa di più cruciale. Il tessuto verbale di Woody Allen non è una mera emanazione dell’espressione di un individuo. Se così fosse, si potrebbe risolutamente accantonare il tutto parafrasando l’affermazione della sorellina di Aura (interpretata da Grace Dunham, manco a dirlo, la vera sorella di Lena) riguardo alla poesia compresa in Tiny Furniture: «Poetry’s a very stupid thing to be good at. I mean, poems are basically like dreams, something that everybody likes to tell other people but nobody actually cares about when it’s not their own». È proprio perché la parola si spersonalizza (si sgancia cioè dalla biografia del parlante) che essa ci riguarda. In questo senso Lena Dunham opera in continuità con Allen. Per quest’ultimo cioè l’oggetto principale, la stoffa del suo cinema (dal punto di vista della scrittura) è non tanto come l’ebreo newyorkese Woody Allen parla, ma come è parlato. Nel lavoro di Lena Dunham ciò che attrae vertiginosamente e che sfiora, almeno per il sottoscritto, l’ipnosi sonora, è la capacità (come in Woody Allen) di additare i sintomi, gli errori, le sincopi di un linguaggio quotidiano dato per scontato. Il vero oggetto di Girls (e, sebbene in maniera più tenue, di Tiny Furniture) è questo “si” impersonale, non la parola alla prima persona singolare.

Tutto in Girls è parola. Il sesso, il cibo, l’amore, l’arte, la famiglia, il lavoro si ritrovano incessantemente verbalizzati. Hannah e il suo “fidanzato” Adam (Adam Driver) in una situazione di intimità non smettono di parlare, e il dialogo è ai limiti del surreale, sulla disposizione del corpo e l’uso di un certo lubrificante. O ancora, la preminenza della parola è flagrante nei due episodi che girano attorno alle malattie sessualmente trasmissibili (il secondo e il terzo – Vagina Panic e All Adventurous Women Do) al tempo stesso estremamente drammatici e irresistibilmente comici. Qui a essere epidemica è allora non tanto la malattia ma la parola stessa. Il male di cui si tratta senza sosta si propaga attraverso i luoghi comuni, le dicerie, i proverbi, le leggende metropolitane costruite attorno ad esso. Così quando sul finire di Vagina Panic Hannah se ne sta stesa sul lettino della ginecologa durante la visita e, in un flusso di coscienza suscitato dalla paura, afferma che si sentirebbe sollevata se le dicessero di aver contratto l’HIV, uno scontro di saperi si scatena necessariamente. Adirata, la ginecologa confuta, sulla base di dati solidi, le “idiozie” che Hannah sta blaterando per poi asserire: «you could not pay me enough to be 24 again». Hannah, lucidissima: «they’re not paying me at all». Si tratta di un conflitto generazionale, certo, ma esso è radicato nel linguaggio e nel sapere che sta alla base.

Si ripeta allora, Girls è un’epidemia della parola. Precisando questa idea, si può dire di osservare una parola esplosa, rifratta in più declinazioni, che comprende necessariamente anche i social network e la rete (nonché il telefonino, al centro di almeno un paio di architetture narrative – l’esilarante festa a Bushwick; la foto osé che causa la rimessa in questione della relazione di Hannah con Adam). Per una volta la ricorrenza di questi oggetti non ha nulla di goffo né maldestro. C’è una naturalezza quasi classica che pare infatti contraddistinguere Girls e che consente di includere con disinvoltura al suo interno tutto l’armamentario tecnologico contemporaneo. Vale a dire, è proprio perché la messa in scena e la regia sono estremamente controllate (evitando, per maturità o restrizioni produttive, gli svolazzi più marcatamente arty – e non sempre riusciti – del suo lungometraggio) che l’intero mondo di Girls può apparire coerentemente articolato. Così pare che, più che guardare a Woody Allen o al cinema indipendente americano dei suoi coetanei (che conosce a menadito, se ci si attiene alle osservazioni rilasciate in numerose interviste), Dunham concepisca la relazione fra dialogo e immagine in maniera quasi hawksiana, andando all’essenziale, puntando sulla relazione attoriale.

Del resto, e il titolo della serie è emblematico in questo senso, è proprio sui personaggi che la serie pare investire tutto. L’organizzazione tetrarchica riprende e prolunga evidentemente Sex and the City (e la transizione è annunciata apertamente da una presenza scenografica – il poster – nel pilota di Girls) ma ne complica la struttura, non solo attraverso l’introduzione di personaggi maschili più complessi e tutto sommato più influenti (basti pensare al Ray interpretato da Alex Karpovsky), ma osservando oltre la psicologia dei personaggi la loro stessa superficie verbale. Per Lena Dunham le sue Girls possono sì essere un vettore di empatia, ma mediate da un repertorio di luoghi comuni sapientemente dosato. Lo spettatore è dunque invitato a considerare unitamente al “tipo” psicologico di ciascuno di questi pannelli femminili (che si completano a vicenda) il suo darsi come fatto di linguaggio. C’è dietro a Hannah, Marnie (Allison Williams), Jessa (Jemima Kirke) e Shoshanna (Zosia Mamet), un sapere, uno stare al mondo che si esprime tanto nella componente sensuale della parola quanto nell’organizzazione sintattica, nel vocabolario quotidiano. Chi si è scagliato contro la serie sputando la parola “hipster” non ha forse, nell’ottusità della critica, sottovalutato uno dei suoi luoghi cruciali. Che cos’è infatti un hipster? Nel suo esordio letterario (Junky, 1953) William Burroughs aveva aggiunto in appendice un sintetico glossario dei termini utilizzati. Qui si può leggere alla voce “hip”: «the expression is not subject to definition because, if you don’t “dig” what it means, no one can ever tell you». Ecco, per Lena Dunham la questione in gioco pare essere la stessa. Più che essere hipster, Girls è un repertorio, quasi un dizionario o piuttosto una collezione di tutto ciò che circonda la parola. La sua funzione critica (ed ecco ritornare un’emanazione della “crisi” che ritrovavamo sopra) risiede nel presentare questo linguaggio e dargli un’avventura narrativa come pretesto. Per questo Girls è a mio avviso al tempo stesso un piacere e un esercizio critico: la serie addita precisamente quello che nessuno, seguendo la definizione di Burroughs, ci può spiegare. Qualcuno ci può però fare un romanzo, o una serie televisiva.

Ripenso, infine, al titolo della serie, semplicissimo e affascinante. Al cinema ci sono state le Dames (1934) di Busby Berkeley, le donne di Cukor (The Women,1939) e certo anche, sempre sue, Les Girls (1957) – ma questa è forse un’altra storia. Mi accorgo inoltre di aver scritto essenzialmente sul dialogo, sulla scrittura, insomma, e di aver trascurato le immagini. Certo più di una frattura si è prodotta, mi dico, da quando Busby Berkeley trovava nel puro godimento scopico il fulcro del film e poteva far cantare a Dick Powell «What do you go for? Go see a show for? Let’s tell the truth: you go to see those beautiful dames!»(c’è chi tuttavia al cinema ha cercato recentemente di dissimulare, con esiti interessanti, questo iato, come Whit Stillman in Damsels in Distress, 2011). Ora, non vado a vedere Girls certo per gli stessi motivi. Dopo una breve pausa di riflessione, sorrido tra me e me e mi accorgo che anche questa è una semplificazione. In fondo, per chi ricerca tale tipo di godimento qualcosa si trova anche qui. Per quanto mi riguarda almeno – e mi sembra lecito chiudere così, in modo apertamente personale come questo esperimento di scrittura – una ragione di questo tipo c’è. Il suo nome è Jemima Kirke: semplicemente splendida.

La seconda serie di Girls è trasmessa su HBO a partire dal 13 gennaio.

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I sogni di tutte le cose
Intervista a Ezio Gribaudo
di
Ivan Fassio

È riuscito a intrappolare l’immagine di ogni cosa nell’inconcepibile distanza propria di ogni reperto archeologico. Le lettere dell’alfabeto, i cieli sereni, le statue, gli animali e gli alberi sono riemersi sulla tela come da uno scavo futuro. Ritornato alla preistoria, ha immortalato la fisionomia dei dinosauri, prendendosi gioco del tempo. Su ogni supporto, dai sacchi di iuta ai flani tipografici, dalla carta buvard al polistirolo, ha impresso i suoi segni, ha inciso l’effigie muta del linguaggio. Nel suo studio, ho visto gabbie e mappamondi, strumenti che saldano geografia e immaginario collettivo, presenza e assenza, immaginazione e iconoclastia. Giovedì 10 Gennaio, Ezio Gribaudo compie 84 anni. La mostra alle Fonderie Limone di Moncalieri, che vede protagoniste le sue sculture in bronzo, è stata prorogata fino a fine Febbraio. La casa editrice Silvana Editoriale ha pubblicato, per l’occasione, un libro che, attraverso le opere dell’artista, riesce a viaggiare idealmente tra storia dell’arte classica, avanguardia e ruolo economico dell’industria metallurgica. In fondo, scavalcare metaforicamente i confini di arte, letteratura e società è stato il lato migliore della sua produzione.

I.F.: Narrazione e staticità dell’immagine, poesia e arte figurativa. Il limite è labile. I manifesti artistici sono testimonianze di queste zone di confine, di questi non-luoghi, spazi di pausa.

E.G.: Cesare Zavattini scriveva di un oro ecumenico, che le mie opere disperdevano verso lo spettatore, una sorta di emanazione mistica. Giovanni Arpino mi descriveva come un maestro di stregoneria bianca. Nico Orengo sosteneva che io recuperassi memorie per reinventare il mondo, per trasformare lo scarto in nuova vibrazione. La letteratura ha sempre frequentato le immagini che ho creato, figure che vivono nel limbo in cui idea e forma si incontrano. Il contenuto dei miei lavori, da una base concettuale, riesce sempre a ricollegarsi ad una realizzazione pratica, a trovare uno stile che lo giustifichi: in questo senso, ho fatto mio l’insegnamento di Benedetto Croce. I manifesti di ogni corrente attingono da questa stessa fonte di ispirazione. Adriano Spatola, che della poesia concreta concepì il manifesto, trovava la mia pratica estetica vicina alla sua visione, simile ad una riflessione sul peso, cristallizzata nella realtà. Jean Dubuffet, l’autore del manifesto dell’art brut, coglieva un’alta tensione intellettuale nei miei logogrifi. Ho frequentato la regione immaginaria in cui i progetti dell’arte prendono forma. Per questo, il poeta Raffaele Carrieri, indugiando sull’originalità del mio tratto, sosteneva che si trattasse di una sorta di genesi, assimilabile alla “silente, prismatica formazione degli arcipelaghi”.

I.F.: Abitare il luogo originario prima della creazione è affascinante. Il vuoto assoluto, tuttavia, è impraticabile. La libertà è sempre e soltanto un passaggio. Sarebbe meglio parlare di liberazione, di superamento. Abbattere una costrizione per andare oltre: forse dovremmo prendere coscienza che si tratta semplicemente di questo. Un po’ come per i tagli di Lucio Fontana: potrebbero essere il varco per un nuovo Umanesimo?

E.G.: Per festeggiare i miei 84 anni, tornerò a New York, per una mostra personale all’Istituto Italiano di Cultura. Ripercorrerò il viaggio che avevo compiuto insieme a Lucio Fontana. Le luci della metropoli lo avevano ispirato, spingendolo a creare concetti spaziali utilizzando il metallo. Grandi cascate d’acqua che cadono dal cielo, così descriveva i grattacieli. Le sue opere sono mirabili esercizi di distacco dalle apparenze, dalla rappresentazione accattivante. La sua rivoluzione è stata la creazione di uno spazio libero, in cui riprendere confidenza con forme inedite. Per questo, dai nuovi stimoli, dopo il superamento della parete della tela, nasce l’urgenza di rappresentare tutto l’universo che sta al di là del velo. Scopriremo la nostra dimora nell’essenza delle più impensabili possibilità, per un nuovo Umanesimo. Un po’ come nei miei Teatri della Memoria, dove idee, ricordi e materia imparano a convivere.

I.F.: Il bronzo è resistenza allo scorrere del tempo. La tela si può lacerare. Il legno, talvolta, può scoprirsi metereopatico. La carta ingiallisce. Per ogni età un materiale, partendo dalla pietra per arrivare all’informatica.

Il bronzo è stato il mio modo per superare la dimensione dell’effimero. L’ho frequentato per pochi anni, ma è stata l’esperienza che, per me, ha fatto da ponte tra storia dell’arte classica ed esigenze dell’avanguardia. Ero entusiasta e affascinato dal bronzo, un materiale duro e resistente, ma al contempo nobile. Adoravo frequentare le vasche di fusione, insieme ad operai e fonditori che non si erano mai occupati della produzione di opere d’arte. Mi piaceva vedere le mie opere uscire grezze e partire per altre destinazioni, per essere levigate e lucidate.
Ho iniziato dipingendo: la tela è stata il trampolino di lancio, il medium da studiare e da piegare a tutte le esigenze per spingermi oltre. Ho stampato carte e creato collages, ho esposto ready made e objets trouvés venuti a me dal mondo dell’editoria d’arte, che è anche il mio mondo. Ho inciso il tiglio ricreando le forme che avevo impresso su carta. I metallogrifi mostravano le cicatrici delle combustioni. Da sempre, sono stato un coraggioso esploratore della tecnica mista, che è il mio modo per rimanere sempre giovane, curioso sperimentatore che mette in scena i sogni di tutte le cose, a partire dall’età della pietra fino ai tempi moderni! A proposito, il dinosauro alto più di tre metri che ho sistemato davanti al mio studio per il mio compleanno è realizzato in serizzo, una roccia metamorfica che, geologicamente, risale all’Oligocene!

AA. VV., Fonderie Limone. Novant’anni tra industria e arte /Le sculture di Ezio Gribaudo
2012 Silvana Editoriale
Curatore: Paola Gribaudo
pagine: 96
Euro 20,00
http://www.silvanaeditoriale.it/

Zibald on line

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La generosa impresa letteraria inventata da Enrico De Vivo, Zibaldoni e altre meraviglie, in una nuova serie, ancora ci sorprenderà. effeffe

Disegno di Mili Romano
Sopravvivenza degli Omini con la Scala

“Gli Omini con la Scala ascoltano con attenzione le domande e le perplessità indolenti, ma, non essendo dotati di parola, rispondono con ulteriori esercizi, con altri equilibrismi, fino a che qualcuno di loro cade stramazzando al suolo”.
di
Enrico De Vivo

La creazione è provocata dal moto discendente della pesantezza, dal moto ascendente della grazia e dal moto discendente della grazia alla seconda potenza”

Simone Weil, La pesantezza e la grazia

Gli Omini con la Scala disegnati da Franz Kafka sopravvivono, estinti, in una sorta di universo separato e parallelo, che gli esperti definiscono “Settima Dimensione”. Sono estinti perché qui, in questo mondo, nessuno più riesce a vederli distintamente, e per raggiungerli e incontrarli bisogna dunque fare un gran salto mentale, ovvero abbandonarsi a qualcosa di estremamente contraddittorio, che consente la coesistenza, nello stesso luogo e momento, della pienezza e del vuoto. Cosa per niente facile, e non da tutti.

Nella “Settima Dimensione” si legge, si studia, si fa di conto, si scrive; ma soprattutto si compiono, con tenacia e cura diaboliche, e senza soluzione di continuità, esercizi acrobatici con le scale. Gli Omini, nella loro dimensione paradossale (in quanto, nel mondo, sono isolati dal mondo) si esercitano indefessi a salire sempre più in alto, senz’altro scopo che quello di salire, cadendo spesso, ma raggiungendo a volte vette improbabili per le loro fermissime volontà, e inesplicabili per i loro deboli raziocini. Salgono, scendono, senza stancarsi mai. A guardarli bene si riesce ancora a percepire la misteriosa, antica utilità delle loro evoluzioni, eseguite peraltro con scale di ogni misura, in ogni dove: negli ospedali come nei parcheggi dei supermercati, nelle scuole come nei deserti, nelle stradine di periferia come nei boulevard delle metropoli. E anche sulle montagne, lungo i fiumi, tra i ghiacciai e nelle foreste.

“Che senso ha scalare, se poi devi scendere, o addirittura se rischi di cadere?” – commentano scettici alcuni astanti.

Gli Omini con la Scala ascoltano con attenzione le domande e le perplessità indolenti, ma, non essendo dotati di parola, rispondono con ulteriori esercizi, con altri equilibrismi, fino a che qualcuno di loro cade stramazzando al suolo. Solo allora sembra che manifestino una specie di pietà, perché restano assorti e immobili per pochi istanti. Anche se, a ben guardare, non si tratta di pietà – è forse un momento di riflessione più profonda sulla prossima evoluzione.

“Siete dei presuntuosi, siete degli arrivisti falliti! Morirete tutti!” – esclamano in molti.

Gli Omini, con sguardo leggermente torvo (che però non ha nulla di rabbioso, essendo essi concentrati soltanto sulla salita), sistemano con accuratezza il piede sul prossimo piolo, in preparazione di un triplo salto mortale con capriola finale.

“Siete dei dilettanti” – sbotta un tipo camuso, forse un professore di università pubblica.

Gli Omini con la Scala sorridono e porgono al professore camuso una scala, invitandolo con gesti gentili a provare anche lui un’acrobazia. Il professore camuso mette il piede sul primo piolo e cade; si arrabbia; riprova; ricade. Va avanti così, imprecando e fallendo, fino a sera; e anche il giorno dopo; e così via. Poi, da un certo punto in poi, nessuno ne ha sentito più parlare. Povero professore camuso!

Infine ci sono le obiezioni più atroci, quelle dei Servitori del Re, i Realisti: “Siete fuori dal mondo, non capite quali sono le cose veramente necessarie. Pentitevi!”.

Gli Omini, alle terribili obiezioni dei Realisti, provano una leggera prurigine all’inguine sinistro, che a volte effettivamente li blocca nel bel mezzo delle più arrischiate salite, costringendoli a grattarsi a lungo. Sanno bene che si viene fuori dalle prurigini realiste in un solo modo: intensificando l’ascesi, lanciandosi ancora più in alto, ancora più lontano. E così, puntualmente, fanno, provando immediato sollievo e dimenticando in un amen gli zelanti Servitori del Re.

Ricercatori e genetisti hanno provato a rifare la razza degli Omini con la Scala in laboratorio, per sottrarli alla “Settima Dimensione”, per ricondurli in un ambito più umano, più consono alla realtà, per rimetterli, insomma, con i piedi per terra. Nessuno, però, è riuscito ad acchiapparne nemmeno uno per strappargli quantomeno un capello, cavargli un dente, raccoglierne qualche goccia d’umore. Anche l’Omino più piccolo che poggiava sul piolo più basso della scala più corta, riusciva irraggiungibile per il più scaltro e determinato ricercatore o genetista, che rimaneva sempre troppo lontano dalle acrobazie indefinibili che si svolgono nella “Settima Dimensione”.

D’altro canto, avventurieri senza scrupoli e viaggiatori impenitenti, scopritori di nuovi mondi e sognatori persi, provano tutti i giorni a mettersi in contatto con gli Omini con la Scala, a penetrare nella fatidica “Settima Dimensione”, a volte con discreto successo. Non sono in molti a riuscire nell’impresa, ma quando qualcuno afferra il senso degli equilibrismi degli Omini, sembra che accada qualcosa di fenomenale che invoglia ad ascoltare cose nuove. Come l’apparizione di una falena in una casa d’inverno.

Gli Omini con la Scala, in attesa di tutti gli sviluppi possibili, immaginabili e inimmaginabili, salutano e riveriscono ricercatori e genetisti, avventurieri e scopritori, continuando le loro acrobazie meravigliose, leggermente indifferenti, vagamente felici.

Disegno originale di Franz Kafka
P.S.: Gli Omini con la Scala disegnati da Mili Romano per Zibaldoni si ispirano molto alla lontana, e con il dovuto rispetto, agli Omini disegnati da Kafka, del quale peraltro ricordano bene, con muto stupore, queste parole decisive:“La vera via procede su di una fune, che non è tesa in alto, ma rasoterra. Sembra destinata più a far inciampare, che a essere percorsa” (Franz Kafka, Lettera al padre).

Perché le contraffazioni sono la più grande arte della nostra epoca – Un’intervista a Jonathon Keats

3

di Silvia Pareschi

Jonathon Keats durante un reading al City Light Bookstore di San Francisco

Intervistare il proprio marito potrà sembrare un po’ strano, ma io ho fatto di peggio. L’ho tradotto. Qualche anno fa Jonathon Keats ha pubblicato una raccolta di racconti, The Book of the Unknown, che io ho tradotto in italiano per La Giuntina con il titolo Il libro dell’ignoto. Nella mia lunga carriera di traduttrice non mi era mai capitato di lavorare fianco a fianco con il “mio” autore. Potevo fargli tutte le domande che volevo, e potevo persino dirgli se non mi piacevano le sue risposte. Ora che Keats ha pubblicato un nuovo libro – Forged: Why Fakes Are the Great Art of Our Age (“Falso: Perché le contraffazioni sono la grande arte della nostra epoca”), uscito questa settimana per la Oxford University Press, negli Stati Uniti – ho subito colto l’occasione per fargli di nuovo qualche domanda a cui non poteva esimersi dal rispondere.
In Forged, Jonathon Keats (il quale, oltre a essere mio marito, è anche critico d’arte, giornalista e artista) indaga il ruolo del falso nella storia dell’arte, a partire dall’assunto che “i falsari sono i più importanti artisti della nostra epoca”. Perché? Perché mettendo in discussione il concetto di arte “legittima”, i falsari demoliscono certezze e suscitano ansia, che è precisamente quello che l’arte dovrebbe fare.
Dopo aver descritto il diverso atteggiamento di alcune culture del passato nei confronti del falso d’arte, Keats racconta le appassionanti storie di sei falsari moderni, e conclude parlando di come gli artisti contemporanei si siano appropriati di molti aspetti della contraffazione e di come le strategie open source abbiano la possibilità di restituire un nuovo significato all’arte.
Ho cominciato l’intervista cercando di trovare un collegamento tra il falsario d’arte e lo scrittore di narrativa.

Hai già scritto due romanzi e una raccolta di racconti. Vedi un legame fra la tua narrativa e Forged?

Scrivere narrativa è una delle poche forme di contraffazione permesse nella nostra società. Il motivo, a mio parere, è che si tratta di una falsificazione evidente, annunciata già dalla copertina del libro. Se non lo è, come nel caso del falso memoir di James Frey, A Million Little Pieces [uscito in italiano con il titolo In un milione di piccoli pezzi, traduzione di Bruno Amato], i lettori si sentono traditi e l’autore viene punito. Ma se i lettori sanno che si tratta di un gioco di fantasia, allora l’inganno della finzione perde ogni aspetto minaccioso.
Questo gioco di fantasia è proprio ciò che mi affascina in quanto scrittore, perché richiede esplicitamente che i lettori lascino da parte tutto quello che sanno e che in gran parte potrebbe non essere vero. È un esercizio di immaginazione che ci consente di tornare alla nostra vita di tutti i giorni con una mente più aperta, più pronta a prendere in considerazione punti di vista diversi dal nostro.
Certo, i lettori di narrativa sono relativamente pochi. Molti, semplicemente, non sono attratti dall’immaginazione, e i più refrattari sono probabilmente anche i meno sensibili alla possibilità di punti di vista alternativi. Per questo ritengo che la narrativa abbia un potenziale di influenza piuttosto limitato.
Ed è per questo che trovo così interessante la débâcle di James Frey. Molti di quelli che sono stati attratti dal suo memoir non lo avrebbero mai letto, se si fosse trattato di un’opera di fiction. Forse si sono persino un po’ identificati nel personaggio del tossicodipendente Frey. Poi è scoppiato lo scandalo e la gente si è accorta di essere stata ingannata, cosa che ha involontariamente aggiunto un nuovo livello di lettura al libro. Anche chi se ne infischiava della storia di Frey è stato costretto a riflettere sulle ragioni per cui il suo inganno aveva funzionato, finendo per mettere in dubbio la propria fiducia nella parola scritta e nel libro stampato.
In un certo senso, questa vicenda ha trasformato Frey in uno dei più importanti scrittori del nostro tempo. Come collega scrittore sono un po’ invidioso. E come critico d’arte non posso fare a meno di osservare che oggi l’arte è afflitta da un problema analogo a quello che minaccia la narrativa.

Cristo e l’adultera, 1942, un’altra contraffazione di Han van Meegeren

E quale sarebbe il problema che affligge l’arte?

Detto molto semplicemente, lo stesso mondo dell’arte. Se guardi qualsiasi avanguardia artistica dalla metà del Diciannovesimo secolo in poi, vedrai che gli artisti migliori cercano costantemente di turbare la società. Dalla pop art al surrealismo, l’arte moderna è provocazione, è uno stimolo a mettere in dubbio la nostra fiducia nelle cose, dal mercato alla nostra stessa salute mentale. In altre parole, l’arte, per avere un valore, deve essere inquietante. E oggi il mondo dell’arte, in tutta sincerità, è soporifero.
Pensa ai musei. Oggi come in passato, i musei sono posti ben illuminati, dove l’arte è racchiusa dentro teche di vetro. Qualunque cosa risulti minimamente inquietante, ambigua, viene spiegata fino in fondo dai testi dei curatori. L’arte, come un romanzo o una favola, può ancora colpirci in profondità se riusciamo a entrare nell’opera ignorando tutto il contorno, ma è un’impresa difficilissima, specialmente quando il museo fa il possibile per addomesticare le opere che espone.
La maggior parte delle persone non ha voglia di fare quello sforzo in più. Quella minuscola porzione della società che esce per andare al museo – pagando $22 a testa per passeggiare lungo la rampa del Guggenheim – tende a considerare l’arte esposta come un’esperienza istruttiva, un passatempo innocuo o uno scherzo di cattivo gusto. E come dargli torto? La maggior parte dell’arte che viene esposta non è affatto d’avanguardia. Quello che si cerca di fa passare per provocazione non è altro che studiata opacità, un enigma preconfezionato di cui i curatori possiedono già la chiave. Quest’arte non è altro che un prodotto del mondo dell’arte – e prodotto è la parola giusta, perché non comporta alcun rischio per l’artista, l’istituzione e il pubblico.

Han van Meegeren dipinge per testimoniare la sua truffa

Quindi secondo te le opere dei falsari otterrebbero un risultato ormai irraggiungibile per l’arte “legittima”?

I falsi rappresentano un pericolo per tutti i soggetti coinvolti. Se l’arte dei musei è addomesticata, i falsi sono selvatici.
Per riuscire a compiere una truffa, il falsario deve essere un profondo conoscitore della mente umana. I falsari si alimentano dei nostri pregiudizi e delle nostre convinzioni fallaci. A volte operano a livello individuale: un falsario potrà, per esempio, approfittarsi della presunzione di infallibilità di un esperto. Altre volte lavorano a livello sociale, magari manomettendo gli archivi per prendersi gioco del nostro rispetto incondizionato per l’autorità istituzionale. In un modo o nell’altro, i falsari oscurano i nostri punti ciechi, e quando vengono scoperti – se vengono scoperti – aprono delle crepe nelle percezioni quotidiane e nelle opinioni convenzionali del pubblico. Lo scandalo ci induce a rimettere in discussione la nostra visione del mondo – cioè proprio quello che cerca di fare l’arte migliore. Per questo motivo, ritengo che lo scandalo meriti di essere considerato di per sé un’opera d’arte. Un grande scandalo è un capolavoro.
La differenza principale tra un’opera d’arte “legittima” e un falso è che, mentre in genere possiamo scegliere se guardare un quadro oppure no, un falso s’impone alla nostra attenzione. Anche se non siamo noi le vittime della frode, e anche se non siamo appassionati di arte, verremo a sapere dello scandalo dalla televisione o dai giornali, e di conseguenza ci sentiremo forse un tantino ansiosi. Ci chiederemo quasi involontariamente se ci saremmo cascati anche noi, e così facendo sperimenteremo il più salutare effetto dell’arte, che è quello di comprendere meglio noi stessi e il nostro mondo. Ecco perché i grandi falsi sono le opere d’arte più potenti e universali prodotte dalla nostra società.

The supper at Emmaus, di Han van Meegeren, olio su tela, 1937

Potresti fornire un esempio dal libro?

Uno dei casi più scandalosi del XX secolo è quello verificatosi tra la fine degli anni ’30 e l’inizio dei ’40, quando un pittore olandese di nome Han van Meegeren falsificò un intero periodo dell’opera di Vermeer che si discostava da tutto il resto della sua produzione. L’idea gliela diede una teoria sostenuta da un illustre storico dell’arte, l’olandese Abraham Bredius, secondo il quale Vermeer aveva dipinto una serie di opere di soggetto religioso che per qualche motivo erano andate perdute. Così van Meegeren fornì a Bredius le prove che cercava, dipingendo un Cristo che spezzava il pane a Emmaus e firmandolo con il monogramma di Vermeer. Il quadro era di una bruttezza sconcertante, ma Bredius era molto vecchio e quasi cieco. Quella scoperta lo gratificò a tal punto che non solo autenticò il quadro, ma ne scrisse anche su The Burlington Magazine, chiamandolo “il capolavoro di Johannes Vermeer di Delft”.
Potendo contare sul sostegno di un simile esperto, van Meegeren fu in grado di spacciare per veri altri quadri altrettanto orribili e venderli ai musei olandesi. La seconda guerra mondiale venne poi in suo aiuto, perché gli olandesi avrebbero fatto di tutto per impedire che il patrimonio nazionale venisse acquisito o saccheggiato dalle forze di occupazione tedesche. Ma alla fine fu proprio la brama dei nazisti per l’arte di Vermeer a rovinare van Meegeren. A guerra finita, un Vermeer di soggetto biblico venne trovato in possesso del Reichsmarschall Hermann Göring – il comandante della Luftwaffe che aveva guidato l’occupazione tedesca con il bombardamento di Rotterdam – e si scoprì che il dipinto gli era stato venduto da van Meegeren. Per evitare l’accusa di alto tradimento, van Meegeren confessò di aver falsificato il quadro.
Così van Meegeren si approfittò della vanità di uno studioso e sfruttò i meccanismi che possono portare una decisione sconsiderata a determinarne innumerevoli altre. La sua frode si verificò in circostanze molto particolari, una truffa su misura per quel luogo e quel momento storico, ma come ogni grande opera d’arte ha ancora oggi qualcosa da dirci. Va da sé che un falsario del XXI secolo non potrebbe mai introdurre dei quadri così brutti nei grandi musei olandesi sulla base dell’opinione prevenuta di un unico studioso, ma la gente continua anche oggi a cadere vittima della propria vanità, e moltissime decisioni vengono ancora prese inserendo il pilota automatico. Il capolavoro di Van Meegeren mantiene intatta la sua forza e pertinenza.

Han van Meegeren in tribunale

Ma esistono oggi dei non-falsari che portano l’arte nella giusta direzione?

Per fortuna sì. Il problema del falso come forma d’arte è che nessun falsario sano di mente vorrebbe diventare un grande artista nel senso che intendo io, perché per farlo dovrebbe farsi prendere. L’opera materiale del falsario – come i quadri di van Meegeren – è una parte importante della truffa, ma l’oggetto non è artisticamente interessante di per sé. Ricorda, lo scandalo è il capolavoro. I falsari sono artisti accidentali. Le loro sono opere d’arte involontarie, e questo limita parecchio la loro produzione artistica. Ma io penso che gli artisti possano imparare dai falsari, e dai falsi, a rinvigorire l’arte e a strapparla dal mondo dell’arte per come è adesso.
Gli street artist come Banksy hanno l’istinto giusto, e così anche alcuni new media artist, soprattutto quelli che applicano al loro lavoro una mentalità da hacker. Uno dei primi esempi di questo tipo di opere è Vaticano.org, un progetto del 1998 realizzato dai net artist Franco ed Eva Mattes. Era ingegnosamente semplice. I due artisti presero il sito web del Vaticano – www.vatican.va – e lo replicarono con il domain vaticano.org e qualche piccolo cambiamento. Vi si trovavano, per esempio, encicliche papali che promuovevano le droghe e il sesso libero, e i fedeli potevano farsi assolvere i peccati via email. Il sito distorceva astutamente i dogmi della Chiesa, ma la cosa davvero notevole era l’effetto che si otteneva quando la gente scopriva che era falso. L’inganno minava la fiducia in ogni meccanismo usato per diffondere la dottrina della Chiesa, compreso il vero sito del Vaticano. Era un brillante atto di pirateria nei confronti della fede.
Più di recente, una coppia di new media artist di nome Julian Oliver e Danja Vasiliev ha creato un dispositivo capace di sovrapporsi alla rete wi-fi di una biblioteca o di un bar, grazie al quale potevano modificare in remoto il contenuto di popolari siti di informazione. Una volta, ad esempio, hanno alterato il sito del “New York Times” per annunciare la nomina del fondatore di Wikileaks Julian Assange a Segretario della Difesa Usa. Visto che l’articolo appariva in un solo network wi-fi, il “Times” non aveva modo di venirne a conoscenza. Ma quello che rende davvero affascinante questo progetto è il fatto che gli artisti hanno divulgato sul web le istruzioni per realizzare il dispositivo, in modo che chiunque possiede un saldatore possa costruirsene uno. Impossibile sapere quanti ne sono stati fabbricati. E di conseguenza non ci si può più davvero fidare di quello che si legge sui siti d’informazione negli hotspot wi-fi. Il potenziale di disinformazione è altissimo, e ciò rende questa opera autenticamente pericolosa. Tutti dovremmo essere ansiosi. Tutti dovremmo dubitare di quello che impariamo online, anzi, avremmo dovuto dubitarne fin dall’inizio. È un perfetto esempio di come un’opera d’arte possa diventare una provocazione anziché un semplice trofeo culturale.
Lo scopo di questo libro, in fin dei conti, è incoraggiare lo sviluppo di questa tendenza. Esaminare la storia della contraffazione è il mio modo di cercare un possibile futuro per l’arte.

 

Jonathon Keats è critico d’arte, giornalista, scrittore e artista. È il critico d’arte del “San Francisco Magazine”, tiene una rubrica d’arte su Forbes.com, e ha scritto di critica d’arte per “Art & Antiques”, “Art + Auction”, “Art in America” e Salon.com. I suoi articoli su arte e scienza sono apparsi anche su “Wired Magazine”, “The Washington Post” e “The Christian Science Monitor”. Gli ultimi libri da lui pubblicati sono Forged: Why Fakes are the Great Art of Our Age, Oxford University Press, e Virtual Words: Language on the Edge of Science and Technology, pubblicato sempre da Oxford nel 2011. Tra le opera di narrativa ricordiamo The Book of the Unknown, pubblicato da Random House (uscito in Italia per Giuntina come Il libro dell’ignoto, traduzione di Silvia Pareschi), che nel 2010 ha ricevuto la Sophie Brody Medal della American Library Association. La sua arte concettuale è stata esposta, fra l’altro, al Berkeley Art Museum, allo Hammer Museum e alla Wellcome Collection.

[L’intervista è uscita in inglese su Zyzzyva, in concomitanza con la presentazione del libro alla City Lights Bookstore di San Francisco.]

Esecuzioni

8

di Giuseppe Nava

 

in una trincea da poco occupata
di fronte alle posizioni nemiche
nascosto dietro sacchetti di terra
colpito allo scoppio di una granata
da un sasso sulla spalla o neanche
si allontanava senza permesso
il soldato c.f. da volterra
usando il fucile in suo possesso
si sparò così durante il percorso
all’indice della mano sinistra
essendo consapevole egli stesso
non essere bastante al soccorso
la scusa del dolore alla spalla
non presentando contusioni questa
è chiaro che con dolo egli volle
così pensatamente e consciamente
lesionarsi per lasciare il posto
abbandonare sottrarsi a quelle
operazioni di guerra imminenti
e considerando la sua condotta
di cattivo e codardo sottoposto
da spingere a colpi di moschetto
al combattimento all’avanzata
non sia usata alcuna clemenza
ma anzi che di esempio perfetto
della disciplina necessitata
sia la pena per il reato commesso
la morte con fucilazione al petto

 

*

 

[l’aspirante d. così riferisce]

stanotte sette giugno io sottoscritto
ufficiale di coda al mio reparto
comandato dal tenente al trasporto
di reticolati alla prima linea
giunto a un tratto alla nostra terza linea
trovai il collegamento interrotto

gli uomini di testa erano fermi
era corsa la voce di zittire
di mettere a terra i reticolati
per un ordine giunto dal comando

corsi dunque avanti per controllare
quanto anzidetto era del tutto falso
invitai gli uomini in tutti i modi
feci ogni sforzo per far proseguire
la marcia eppure nonostante ciò
il soldato g. così replicava
non vado avanti aspirante del cazzo
gli intimai più volte di proseguire
ma si rifiutava di andare avanti
perciò lo minacciai con la pistola
ma le minacce non ebbero effetto
così tirai due colpi di pistola
lui cadde riverso a terra morto
questo bastò che tutti i rimanenti
prendessero i reticolati in spalla
e proseguissero la marcia

 

*

 

nei momenti in cui l’anima rozza
la mente ignorante dei compagni
sono più facili alla suggestione
con la forza cavillosa di assurdi
ragionamenti con l’esaltazione
della stessa opera delittuosa
con discussioni contrarie alla guerra
discorsi e frasi e grida sediziose
il prevenuto ha qui perpetrato
l’atto velenoso di istigazione
raffigurato nell’articolo tre
come reato di subornazione
ha poi messo in atto i suoi propositi
opponendosi a ordini formali
rispondendo io da qui non mi muovo
denigrando l’opera dei comandi
disprezzando l’autorità militare
su di lui ricada quindi la legge
nella sua massima severità
nei suoi confronti sia emessa sentenza
di condanna alla pena di morte
per la sua pervicace volontà
criminosa d’indurre alla rivolta

 

*

 

[l’ispettore generale del movimento di sgombero]

occorre imporsi con qualunque mezzo
imporsi con mezzi straordinari
avere ragione di quelle cause
che hanno pervertito gli sciagurati
una lotta d’aggressione morale
una lotta d’aggressione fisica
lottare contro le orde di sbandati
ricondurre subito all’obbedienza
far serrare riordinare i reparti
chiamare a rapporto gli ufficiali
i graduati tutti i capi plotone
sfilare in formazione regolare
dinanzi alla mia persona in silenzio
come quel pomeriggio sulla piazza
di noventa di piave il tre novembre
stavo in piedi sull’automobile
rispondevo salutando al comando
attenti a sinistra quando m’accorsi
un sigaro piantato nella bocca
la faccia atteggiata a riso di scherno
mi fissava con aria di sfida
un soldato con aria di sfida
valutai secondo la mia coscienza
dare subito un esempio terribile
piegare gli sbandati all’obbedienza
affermare una forza superiore
fermato pertanto lo sfilamento
saltato giù dall’automobile
di corsa penetrato entro le file
ho bastonato nella schiena quel soldato
e legato dai carabinieri
l’ho fatto prontamente fucilare
contro il muro della casa vicina

ho operato con la sola visione
del bene della patria in pericolo

 

*

 

[loop]

sedici militari ammutinati
presi con l’arma ancora scottante
furono senz’altro fucilati

logicamente e immediatamente
si sarebbe dovuto fucilare
tutti gli indiziati (centoventi)
del reparto tutti i militari
veri e propri rei di rivolta armata
verso i propri diretti superiori

il comandante della brigata
impose che venisse sorteggiata
la decima parte del battaglione
e questi furono immediatamente
fucilati senza esitazione

non si ebbe alcun inconveniente
durante l’esecuzione –

 

*

 

[la relazione del generale]

un mezzo idiota cattivo d’animo
nell’insieme un pessimo soldato
l’S. ha ripetutamente tentato
di raggiungere la trincea nemica

e cadde più volte al fuoco preciso
a cui fu sempre fatto segno
l’ultima volta a men di mezzo metro
da una feritoia di mitragliatrice
lì rimase immobile un braccio teso
e non dette più alcun segno di vita

i tiratori spararono ancora
sul corpo immobile

quindi b.d.
tenente comandante la sezione
mitragliatrici leggere del fronte
fece portare nei pressi del varco
una mitragliatrice pistola
che in ottime condizioni di tiro
poté sparare altri caricatori
sul corpo immobile

poi con la nebbia
l’aspirante c.s. con altri quattro
dei suoi arditi seguì il percorso fatto
dal disertore verso il nemico
coperti dal fuoco delle vedette
riuscirono a portarsi quasi sotto
le postazioni avanzate del nemico

non essendo più recuperabile
il corpo del codardo disertore
appostati fra le rocce gli arditi
spararono parecchi caricatori
e lanciarono cinque bombe SIPE
sul corpo immobile

dimostrandosi
fieri della gloria della brigata
gelosi delle belle tradizioni
eroiche del reggimento orgogliosi
di essere militari che combattono
e non tradiscono la sacra patria
i suoi compagni non hanno esitato
a fulminarlo ai piedi della linea
nemica prima che mettesse in atto
il bieco proposito di tradire

la giusta vendetta dei compagni
raggiunge sempre come questa volta
i vili senza onore traditori

sul corpo immobile

 

*

 

[lettera intercettata dalla censura]

lina la mia ultima ora è già suonata

quando sarai in possesso di questa mia lettera
il mio corpo sarà già freddo e cadavere

tu già sai il mio debole senso
già tu sai che fui accaduto
due volte sotto le granate
del barbaro nemicho

io fanciullo troppo debole
non conoscendo il grande pericolo
mi venne il pensiero
di scavalcare la frontiera
e farmi prigioniero

ma echo mentre scavalcai
io fui perseguitato
da persone vile i quali
dopo daver praticato tutto
mi fu dato la tremenda sentenza
della fucilazione alla schiena
dunque questa gente incosciente
in chuesto mondo esiste

mi anno dato venti minuti
di scrivere per ammunicando
ai miei cari la tremenda sciagura
sopra di me piantata

mia cara
si maledisca il nostro destino
che sensa fondo e sensa confino
nero esterno e nesurabile
a voluto essere oroso
preparandomi a un abisso spaventoso

in mezzo ha chuesto trovo forza di dire
non imprecare o cara se dio con lui
mi vuole è perché lui mi vuole bene
e che mi ama e che non vuole che le mie
sofferenze siano delugate

rasegnati alla mia brutta sorte
consola i miei cari genitori
se un altro ideale per te è preparato
vogliale bene al pare del mio ma
ricordami sempre nelle tue preghiere

ora mia cara non posso derempermi
e guardo la didietro la sentenza
mi aspetta con gelido sudore
che sono circondato

ricordami sempre nelle tue preghiere

 

*

 

[sarà reo di tradimento e punito di morte il militare che avrà esposto con un fatto od omissione l’esercito od una parte di esso a qualche pericolo]

egli faceva da borghese
l’assistente cameriere
sui piroscafi della società
amburgo-america

allo scoppiare delle ostilità
aveva ritenuto suo dovere
ritornare in patria pure se
nato e residente in terra nemica

già nominato aspirante ufficiale
disse con toni poco deferenti
che il nostro esercito si trova
in assoluta inferiorità
e che ogni nostro sforzo sarà vano
e che la nostra guerra è ingiusta
e che il suo desiderio è il nemico
alle porte di milano

il fatto fu subito denunciato

nel suo operato si ravvisa il reato
di cui all’articolo settantadue
per la sottile e iniqua propaganda
intesa ad indebolire il coraggio
e la fede nel successo
delle nostre armi

il suo freddo e sistematico
svalorizzare l’esercito patrio
ha dato sostanza concreta
all’intenzione di tradire
insita nelle sue parole

non potendo in alcun modo
sotto alcun profilo
indulgere verso di lui
il collegio deve condannarlo
alla pena stabilita
dal predetto articolo

 

**

 

Tra le fonti:

Archivio Centrale dello Stato, Roma – sezione “Tribunali militari di guerra: Prima guerra mondiale”.
«Corriere della Sera», 6 agosto 1919.

 

***

 

Questi testi sono apparsi su «in pensiero», n. 6, luglio/dicembre 2011, pp. 44-57, e fanno parte di una raccolta inedita che ha vinto la settima edizione del Premio Mazzacurati-Russo delle edizioni d’if, con prossima pubblicazione nella collana miosotìs.

 

La norma effimera. Etica e caso nel cinema di Emidio Greco.

2

 di Stefano Gallerani


Gli facevo questo sorriso in questo vetro, che dietro si vedeva la strada con quelli che passavano e poi più indietro dall’altra parte della strada, nello scuro del parco Tiburtino, s’incominciavano pure a vedere questi articoli dietro la rete della serranda abbassata, che parevano pure qui tutte tazze, bicchieri, altri pezzi che non si capiva, e in mezzo a questi che pareva che eravamo noi che stavamo a guardare, ma che poi chi lo sa chi eravamo, e tutto quanto che era.

Franco Lucentini, Notizie degli scavi

 Siamo uomini, no? Ma per noi niente uomini-medicina a facilitarci le cose…ma l’amore, la morte, le sporcizie e le malattie dello Spirito.

 Paul Nizan, La cospirazione

«Io sono stato Omero; tra breve, sarò Nessuno, come Ulisse. Tra breve, sarò tutti: sarò morto». Volgendo il giro sintattico su stesso, mutando a più riprese senso e segno dell’espressione, nella frase con cui chiude il racconto L’immortale, Jorge Luis Borges fa sfoggio di una sua tipica distrazione concettuale: applica una falsa logica, cioè, a una sequenza astratta che pure sembra del tutto congrua e resistente anche alle prove di lettura più attente. A volerne studiare con un po’ di pazienza i movimenti, il processo reiterativo che produce questo effetto è accentuato e sottolineato dall’analogia, dall’equivalenza dei termini di paragone invocati. Non v’è soluzione di continuità tra Omero, Nessuno e Ulisse: se si finisce per diventare Omero – quello, insomma, che Omero rappresenta -, è naturale conseguenza essere anche Nessuno, cioè il suo alter ego, ovvero Ulisse. E ancor più evidente sarà, come Ulisse, cioè come prototipo dell’uomo, la metamorfosi in tutti gli uomini, in ciò che li accomuna, ovvero la morte, e dunque la scomparsa del soggetto. Oppure, a ritroso, quando si diventa, da uomini (Ulisse), finzione e funzione di un’esistenza (Omero o Nessuno), allora davvero non si sarà più un individuo, ma solo la sua possibilità, e comunque, in quanto tutti o ciascuno, nulla, e per questo morti. In qualsiasi direzione lo si percorra, nel cerchio borghesiano, però, non v’è soluzione di continuità se non per effetto dell’io narrante, della voce che si prepara a quell’ineluttabile quanto arbitrario destino. Il cerchio è perfetto, perché ininterrotto, solo all’apparenza. In realtà, una sottilissima rima di frattura arresta il tratto, ne spezza l’armonia: un’infrazione nascosta proprio lì, nel piccolo segno che separa una proposizione dall’altra, là dove sdrucciola il nome di Ulisse. L’uomo sa di meritare la stessa condizione di cui partecipano i suoi eroi (Omero, Nessuno, Ulisse) non in quanto tale ma in quanto essere umano. E a nulla conta che si tratti  di esseri umani reali o inventati. La realtà non si dà in termini antagonistici rispetto alla virtualità, ma la ricomprende in quanto frutto della ragione, ovvero dell’elemento complesso che distingue quella umana dalle altre forme di natura. Di più: ne mette in discussione lo stesso statuto naturale. In questi termini, il fantastico borghesiano, i suoi falsi movimenti, i piani illusori e gli slittamenti progressivi (da una tradizione all’altra, da un testo all’altro di quella biblioteca universale il cui fondamento si deve proprio allo scrittore argentino), non è che una forma spietata, a tratti insostenibile di astrazione psicologica che non nega la materialità, ma la filtra e la sublima, immune come resta alla sua apologia becera. È su questo punto, e non a caso, che l’etica borghesiana incontra e diventa quella di un giovane Emidio Greco, che in Uno, due e tre, il folgorante saggio d’esame con cui, nel 1966, si diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma  suggella con le parole da cui siamo partiti quei ventisette minuti di intrusione nel ménage à trois  tra la protagonista (una splendida Delia Broccardo) e i suoi due contendenti (interpretati da Claudio Trionfi e Oddo Bracci). Alternando in sequenza ritratti d’interni e passando dalla camera dell’uno a quella dell’altro, si gioca la partita della seduzione, ma il possesso concupito, che ne dovrebbe essere la posta in palio, non è possibile, sembra intendere Greco, se non con la partecipazione cosciente, con la complice volontà dell’oggetto posseduto. Sommariamente, la ragazza contesa non è affatto la posta della disputa tra due spasimanti: ne è piuttosto l’arbitro e il legislatore, colui che concede, elargisce e, una volta per tutte, fissa i termini e pone i confini dell’agone. Per questo è tanto più importante che, alla fine, sia proprio lei a decidere quale dei pretendenti godrà dei suoi favori lasciando ai dadi, ovvero al gioco, e per esso al Caso, di decretare il vincitore. Alzandosi e allontanandosi, ripresa da una carrellata d’antologia (vengono in mente, successive, le riprese a Oja Kodar in F for Fake, di Orson Welles), la ragazza mostra proprio come la sua intervenuta estraneità al triangolo amoroso renderà comunque vano, ammesso che ci sia, il risultato dell’eventuale tiro a sorte degli amanti. Non c’è possesso, si diceva, senza volontà del posseduto, eppure – ecco qual è il teorema critico di questa geometria sentimentale – l’incontro con colui che possiede non può essere determinato che dal Caso.

Da allora, uno dei principali snodi del cinema di Emidio Greco ha riguardato esattamente il rapporto, l’attitudine deliberativa del soggetto di fronte all’intervento dell’imprevedibile: l’opportunità del suo agire e, semmai, la sua capacità di assumersi una responsabilità al cospetto a eventi che pure non possono, per loro statuto ontologico, appartenergli – non dipendono, cioè, da quanto egli è in ogni modo chiamato a fare. In altre parole, lo scacco originato dagli effetti annientanti del Caso (uno per tutti, la morte) espone al rischio di un tracollo di cui l’ “illusione etica” non è che un aspetto, e allo stesso tempo immette a un livello di coscienza, di consapevolezza, che difficilmente si raggiunge nel corso di un’esistenza.

Partendo da qui, la perfezione concettuale e l’estrema sintesi del lungometraggio d’esordio di Greco, L’invenzione di Morel (1974), non è completa – e dunque non è nemmeno del tutto comprensibile – se non viene messa in relazione di pressoché diretta dipendenza più che di complementarità con l’ultima regia, in senso cronologico, di Greco, ovvero L’uomo privato (2007). Rispetto alla prima, quest’ultima pellicola non si avvale di una sceneggiatura debitrice di un testo letterario (come, invece, Una storia semplice, del 1991, e Il consiglio d’Egitto, del 2002, tratti ambedue dai libri di Leonardo Sciascia adattati, rispettivamente, insieme ad Andrea Barbato e a Lorenzo Greco,  o Ehrengard, del 1982, ispirato al racconto omonimo di Karen Blixen “lavorato” dal regista con l’aiuto di Enrico Filippini) e in quanto tale si aggiunge a Un caso di incoscienza (1984) e Milonga (1998), anch’essi nati da soggetti originali di Greco.  Tuttavia, è pur sempre vero che L’uomo privato si alimenta dal suo universo letterario almeno tanto quanto i testi prediletti rifulgono della luce particolare che vi proietta lo scandaglio cinematografico della macchina da presa. Un’appendice dello sguardo cui Greco affida il compito di tradurre visivamente non deformazioni grottesche  o semplici trascrizioni – spesso nemmeno metaforiche – della realtà, bensì vere e proprie autopsie: di stati mentali, dimensioni della coscienza e rapporti personali. L’egida è sempre e comunque quella del punto di intersezione tra sentimento etico e Caso, poli che disegnano, nel tragitto dall’uno all’altro un’armonia paradossale e quasi impossibile da spezzare. Non vi sono arresti, si direbbe, nel diagramma dell’esistenza. Se così è, come sembra, diventa tanto più significativa l’intuizione di Greco, che nella sua traduzione – perché di questo si tratta, più che di trasposizione – del primo romanzo del quasi eteronimo borghesiano Adolfo Bioy Casares aggiunge, come una postilla decisiva, l’effrazione della circolarità. Nel finale del libro, pubblicato per la prima volta nel 1941, il protagonista, nonché voce narrante, si dispone a vivere di nuovo l’ennesima settimana di eternità che si perpetua sull’isola di Morel dove è naufragato, combattuto tra la rassegnazione e la speranza piegata in supplica all’uomo  che «inventerà una macchina capace di riunire le presenze disgregate», di entrare finalmente «nel cielo della coscienza» di Faustine, sua amata. «La mia anima non è passata, ancora, nell’immagine; altrimenti, io sarei morto, avrei smesso di vedere (forse) Faustine, per stare con lei in una visione che nessuno raccoglierà». Le ultime parole profferite nel romanzo non alludono solo a quella che potrebbe interpretarsi come una vera e propria metafora sul cinema, ma echeggiano anche quelle di Mircea Eliade, che questo fa dire al protagonista di Una breve giovinezza: «Non oso neppure dirle in quale anno siamo, noialtri, che viviamo al di fuori di questo sogno. Se facessi uno sforzo mi sveglierei». Come in Bioy Casares, così nello storico e scrittore rumeno, al fondo di una fede occulta nella trasmigrazione delle anime (ovvero delle coscienze, appunto) riposano un’etica dei sensi  ed un’allegoria della circolarità dell’esistenza che si coniugano, alfine, in una arresa pacificazione. Non altrettanto in Greco, che al naufrago, ora occhio osservante, fa distruggere la macchina inventata da Morel (il cui nome allude filialmente a un altro inventore isolano, Moreau) con lo scopo di replicare l’eterno-ritorno della settimana sempre uguale a se stessa. Per comprendere senso e porta dell’intuizione del regista, corre l’obbligo di due citazioni. La prima, dovuta, è dall’introduzione con cui Borges accompagnò al momento della sua uscita il romanzo casararesiano: «Le finzioni di natura polizesca – un altro genere tipico di questo secolo che non può inventare argomenti – raccontano fatti misteriosi che poi un fatto ragionevole giustifica. Adolfo Bioy Casares, in queste pagine, risolve felicemente un problema forse più difficile. Dispiega un’Odissea di prodigi che non sembrano ammettere altra chiave che l’allucinazione o il simbolo, e pienamente li decifra mediante un singolo postulato fantastico ma non soprannaturale […] Ho discusso con l’autore i particolari della sua trama, l’ho riletta; non mi sembra un’imprecisione o un’iperbole qualificarla di perfetta». La seconda citazione è da Guido Piovene, che firmò la prefazione della versione italiana de L’invenzione pubblicata nella collana “Il pesanervi” di Bompiani: «Non so se L’invenzione di Morel abbia una trama assolutamente perfetta, come giudica Borges; so che, essendo un’ottima trama, essa catalizza molte qualità di scrittore che Bioy Casares possiede. L’uso vuole che non si analizzi un libro come il suo, perché si sarebbe costretti a dire i casi che racconta e a privare il lettore di un seguito di sorprese. Mi limito a una delle tante osservazioni ricavate dalla vicenda. Se la vita di un uomo, con tutti i suoi ricordi e i suoi progetti sul futuro, s’interrompesse tutt’a un tratto e poi quell’uomo  ripetesse in eterno, come un disco portato continuamente indietro, con gli stessi ricordi e gli stessi progetti, l’ultima ora prima dell’interruzione, senza ricordare però di averla già vissuta; la sua vita sarebbe identica, altrettanto piena di attesa di un futuro che non verrà mai». Di fronte a questa possibilità, il protagonista di Greco (che ha il volto di Giulio Brogi) veste i panni non dell’homme machine (che tali ci appaiono quelli indossati dai simulacri di anime che popolano l’isola) ma dell’homme révolté. Dopo aver subito la condanna dell’immoto ripetersi delle medesime situazioni, si ribella, sebbene, come nel finale di Uno due e tre, non sia dato sapere quale sarà l’effetto della sua hybris.

Agli antipodi è invece il ritratto dell’uomo privato, laddove ogni suo gesto, ogni suo movimento è un atto che informa la realtà della sua presenza immobile e della sua intenzione di rendersi impermeabile a quanto gli succede intorno. Trasmigrazione delle coscienze equivale, dunque, a trasmigrazione delle anime. Un processo ingannevole e oscuro. E se il dilemma del naufrago di Morel è quello di entrare – per Bioy Casares – o infrangere – per Greco – l’arco dell’eternità, per il protagonista de L’uomo privato (che ha il volto di Tommaso Ragno), la massima aspirazione è quella di allestire una parvenza di eternità in cui ogni cosa si svolga senza scalfire l’abito impenetrabile che si è cucito addosso come una corazza. Detto altrimenti, è come se tra i due film si registrasse un’ “inversione” narrativa nel segno di una continuità tematica. L’una perché mentre il personaggio di Morel è presentato da subito in una situazione di straniamento fuori dalla storia, il professore de L’uomo tanta invano di mettersi fuori dalla storia cui, ciononostante, appartiene; l’altra perché, come il naufrago finisce per distruggere l’invenzione di Morel (chiara metafora del rifiuto di un’illusoria consolazione), così l’uomo “privato” (privato di sé, del proprio disegno, della propria speranza) non può che assistere al fallimento degli sforzi che strenuamente profonde per realizzare un’invariabilità in aperta contraddizione con l’intercessione del caso. Una dinamica psichica e un dilemma esistenziale che si riflettono e si ripropongono in tutte le strutture narrative di Greco, artefice in massimo grado elusivo di architetture che inscenano passioni implicite e dolori antichi con la precisione implacabile dell’entomologo. Se alla circolarità (che rappresenta, s’è detto, l’eterno e l’immutabile) è improntato un particolare svolgimento delle vicende (dalla loro esposizione oggettiva alla definitiva messa in abisso), questa geometria impossibile è sempre pervertita dal correttivo tipicamente anticircolare per mezzo del quale il relativo dialoga con l’assoluto: la legge, e per essa il rito che la scandisce o il diritto stesso che la invera. Ed è esattamente quello che accade nell’Uomo privato, dove la norma resta l’itinerario di qualcosa che sfugge alla visione del protagonista e pur sempre lo attrae, unica alternativa per mantenere vivo l’abbaglio di un ideale di vita. «Forse qualcuno di voi ricorderà – dice il professore ai suoi alunni – che l’ultima volta l’abbiamo presa, non senza un briciolo di ironia, mi auguro, alquanto alla larga. Il diritto è la vita, nientemeno. Alla larga, ma non senza fondamento. E infatti, vedete, il diritto non esiste in sé, è inafferrabile se si astrae dalla vita. Eppure il diritto non è la vita. Il viandante che raccoglie la conchiglia sulla spiaggia del mare o il vagabondo che getta il mozzicone del suo sigaro – lo scriveva un mio maestro – compiono gesti sbadati, in apparenza senza norma. Eppure il diritto imprime a questi gesti, per mezzo di una regola, una forma sua propria. Il giurista chiama questi gesti atti giuridici. Gesti che diventano, così, l’acquisto della proprietà della conchiglia, la perdita della proprietà del mozzicone. La norma giuridica getta un fascio di luce sulla vita. E la vita è l’ombra che resta oltre il cono di quella luce». Sono parole che Greco prende in prestito dal diritto per illustrare nel miglior modo possibile la contraddizione del suo protagonista, convinto di essere al centro di quel cono di luce che la legge, e perciò la regola, getta sulle cose, mentre già non è più in tempo per accorgersi di essere fuori di quel cono, senza possibilità di redenzione.

Così, tutti gli eventi  lo investiranno tramortendolo, ma non sfinendolo: semplicemente, lo spingeranno ancora più a fondo di quanto lui non sappia di essere arrivato.

Ma è anche – la scansione rituale della legge – il ritmo che detta i tempi del secondo aperçu sciasciano di Greco, Il consiglio d’Egitto (protagonisti, ancora una volta, Tommaso Ragno e un formidabile Silvio Orlando, qui in una delle sue migliori interpretazioni cinematografiche). La trama, che si riporta dal risvolto di copertina della prima edizione Einaudi del romanzo (1971), è la seguente: «Palermo 1783. I baroni, pur fremendo di sdegno  per le tentate riforme del viceré Caracciolo,m continuano a giocare interi feudi al “biribissi”; le nobildonne leggono romanzi francesi proibiti; il quarantenne pacioso abate Vella sensibile alle dolcezze di questa società, coltiva speranze di vedersi assegnata una pingue abbazia che gli assicuri l’agiatezza, per ingraziarsi la Sacra Real Maestà di Napoli, Vella “inventa” ex novo, con gusto di narratore e umanista, un antico codice arabo, appunto Il Consiglio d’Egitto, che fa giustizia di tutti i privilegi baronali e restituisce al Regno la piena potestà dell’isola. Le prime indiscrezioni gettano lo scompiglio nella città. La risonanza è enorme.

L’abate diventa “il grande Vella”, il Papa in persona si interessa alla sua salute. Una delle più straordinarie imposture che la storia della cultura ricordi ha così inizio nel bel mezzo dell’ “epoca delle riforme” e la sua vicenda si lega a quella di una congiura giacobina: quella che il giocane avvocato Di Blasi, spinto dall’esempio dei rivoluzionari di Francia a rinnovare secondo ragione gli ordinamenti del Regno, tenta invano di condurre a termine, contro le usurpazioni e gli arbitri dell’aristocrazia». Il fascino della storia dell’abate Vella, è facile intuire, ha anch’esso un elemento borghesiano, e cioè la finzione che determina e corrompe la Storia. Ancora una volta dobbiamo fare ricorso ad una citazione, questa volta dal corpo del testo parzialmente riportato nella sceneggiatura di Greco: «c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso ci voleva più lavoro, ad inventarla: e dunque, onestamente, la loro fatica meritava più ingente compenso di uno storico vero e proprio, di uno storiografo che godeva di qualifica, di stipendio, di prebende. – Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quell’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le foglie nuove; poi anche queste foglie se ne andranno; a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere. L a storia delle foglie, la storia dell’albero. Fesserie! Se ogni foglia scrivesse la sua storia, se quell’albero scrivesse la sua, allora diremmo: eh sì, la storia…Vostro nonno ha scritto la sua storia? E vostro padre? E il mio? E i nostri avoli e trisavoli?…Sono discesi a marcire nella terra né più né meno che come foglie, senza lasciare storia…C’è ancora l’albero, sì, ci siamo noi come foglie nuove…E ce ne andremo anche noi…L’albero che resterà, se resterà, può anche essere segato ramo a ramo: i re, i viceré, i papi, i capitani; i grandi, insomma…Facciamone un po’ di fuoco, un po’ di fumo: ad illudere i popoli, la nazioni, l’umanità vivente…La storia! E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle loro viscere vuote? E la voce della loro fame? Credete che si sentirà nella storia? Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fine da sentirlo?». Dunque, nulla resta se non per una accidente del caso, beffardamente, belluinamente, come a farsi scherno, con un ghigno, delle migliori intenzioni di chi pensa di viverla, parteciparvi, farne parte, della Storia. Il massimo grado della ragione incontra, anzi collima, col massimo grado dell’astrazione. Eppure non esiste, per i posteri, per la loro memoria, che la realtà di questa astrazione più vera del vero: la verità di ciò che non è, al postutto, che un imbroglio. Difatti, anche una volta svelata, la beffa di Vella è opportuno, ma anche giusto, per le regole degli annali, che sia e resti l’unica versione dei fatti possibile; tanto più se a ciò si aggiunge che, nonostante il suo deliberato inganno produca notevoli effetti, il gesto di segno contrario, ovvero il disvelamento della menzogna, non è ugualmente efficace: Vella si illude di determinare le sorti di un mondo, ma questo non fa che seguire regole sue proprie, estranee alla ragione dell’abate. Ed è esattamente su questa scoperta che fa leva Emidio Greco, su questo stallo dell’abate, mostrato, esposto, è il caso di dirlo, in contrapposizione alla sorte di quel suo del tutto particolare alter ego che è il giacobino Di Blasi, lui sì vero paladino della ragione che non è più di Stato – e per questo, dallo Stato (cioè dal potere), condannato e giustiziato. Il giudizio, insomma, ciecamente come cieca è proprio la giustizia nelle sue raffigurazioni allegoriche, colpisce e s’abbatte non solo sul colpevole (che l’unica colpa, peraltro confessata, è quella di Vella) ma su di chi fa comodo ritenere responsabile (e tale non è nemmeno disposto a riconoscersi). Sono emblematiche, in tal senso, le scene della tortura, ove Di Blasi, abbandonato ai carnefici come un cristo del Mantegna (ma è solo uno dei molteplici riferimenti iconografici del film), è torturato non già perché parli, è chiaro che non lo farà, ma proforma, per ottemperare al rituale che lo impone. «Tra poco sarà nel mondo della verità» pensa Vella di Di Blasi al patibolo, ma presto gli sorge, «a sgomentarlo, il pensiero che il mondo della verità sia questo: degli uomini vivi, della storia, dei libri».

Ancora, come in Uno, due e tre, v’è un duplice movimento verso un unico fine eversivo; fine che, però, sfugge ad ogni calcolo piegandolo, imponderabilmente, a suo piacere. Il silenzio di Di Blasi e la confessione di Vella mettono in sospetto i fondamenti stessi dello stato di diritto che proprio nel Settecento si andava delineando come poi modernamente s’è inteso. Al punto che non è più possibile distinguere, o discernere, la verità vera dalla vera finzione. Esse risiedono in egual misura, indistintamente, vuoi nel giacobinismo di Di Blasi che nel gattopardesco atteggiamento di Vella: l’uomo che dice la verità resta inascoltato, mentre un peso mortale viene riconosciuto alla reticenza dell’avvocato che, pur affine – o maggiormente per questo – è anche il primo e l’unico a riconoscere l’impostura nel momento in cui, durante la confutazione testuale dei suoi avversari, Vella vince le più accanite resistenze alla presunta originalità dei codici da lui contraffatti.

Allo schema dello sdoppiamento del soggetto, della specularità che meglio dovrebbe illustrare il cruccio dell’uomo per la partecipazione alle sorti del mondo, Greco aveva già fatto ricorso, nel 1984, per girare il suo film “maledetto” (per le condizioni produttive della RAI  e l’invisibilità distributiva che gli è spettata): il delbuoniano, nel titolo ma non solo, Un caso d’incoscienza.  Questa volta sono due mostri sacri del cinema europeo, Erland Josephson e Rüdiger Vogler, ad animare un calco evidente fin dall’assonanza onomastica dei due personaggi principali: Erik Sander, l’industriale svedese misteriosamente scomparso dopo aver organizzato, quasi celebrasse il funerale di un’epoca, una lussuosa crociera nel ’32, quando ancora si irradiava l’onda lunga della crisi economica del ’29; e Anderson, il giornalista che partendo dalla notizia della presunta morte del magnate, si determina a scoprire cosa sia veramente successo. Allo stesso modo che nel Consiglio, però, la diversione dal sentiero più prevedibile (che in questo caso è quello battuto dal ricorso al genere investigativo) determina la singolarità della vicenda. L’uomo, Sander, che stava per essere sconfitto da una società che non poteva più reggere l’urto pesante del suo paleocapitalismo si sottrae al mondo per meglio studiarne la fisica: diventa un esperto di insetti, più precisamente di locuste migratorie. Memorabile e violentissimo il suo ultimo monologo: «Quelle che lei vede qui non sono cavallette qualsiasi. Sono locuste migratorie. Di solito conducono una pacifica esistenza solitaria, ma se aumentano troppo di numero sono spinte verso lo stato sociale […] la formazione dei grandi sciami si compie in regioni ricche di nutrimento. Tutto nasce dal numero e dall’imitazione. È quando si incontrano troppo spesso tra loro che questi insetti si trasformano in animali gregari [..] Naturale, e perciò diabolico. Nulla è più sbalorditivo delle trasformazioni di questi piccoli animali nel passaggio dallo stato solitario a quello sociale: cambiano di colore e di forma, le proporzioni del corpo si alterano, le differenze tra i sessi si attenuano, le larve diventano più scure. Il loro sviluppo si fa più rapido, tutti diventano più attivi: si incontrano, si attraggono, si raggruppano un nervosismo incessante serpeggia dappertutto. Attraverso l’imitazione reciproca il contagio sociale dell’azione si diffonde nel gruppo come un’onda. A questo punto il gruppo è pronto per partire. In un primo tempo è una marcia al suolo. Raramente gli ostacoli vengono aggirati. Di solito, essi sono affrontati direttamente. Fossi e corsi d’acqua vengono superati con grandi perdite, ma la marcia continua. E quando finalmente ogni locusta ha le sue ali, il grande sciame è pronto per il grande volo. Un volo, com’è noto, devastante. Vede a cosa porta l’entusiasmo collettivo». Una grandiosa e disperata critica antropologica cui Anderson non può che opporre la complessità e l’insondabilità della natura umana. Nuovamente Greco mette lo spettatore a nudo di fronte a una contraddizione che in nessun modo pretende di sanare. Tutto il suo cinema, con la chiarezza e, insieme, la complessità di senso di  immagini nitide e implacabili come lastre è centrato sulla “biforcazione”. Le sue mura poggiano su fondamenta metafisiche. Come metafisica è la “favola” del pittore Cazotte (Jean-Pierre Cassel), in Ehrengard, che si illude (in questo, tragico ascendente del protagonista de L’uomo privato) che i suoi meccanismi mentali, le perversioni del suo pensiero riescano, attraverso il formalismo dell’arte ottocentesca,  attraverso le seduzioni della tela (o, oggi, dello schermo, che ne è il rovescio) a produrre effetti sulla coscienza della vergine guerriera eponima (Audrey Matson). Ideale e reale sono ancora in opposizione sotto la direzione di uno sguardo, quello del regista, che ha la peculiarità di scindere i più saldi gherigli non per distinguere, in modo manicheo, una sezione dall’altra, ma per illuminare il complesso gioco di rifrazioni che s’anima nella ferita tra le due metà. Come due, stavolta declinati nei termini della sfera pubblica e privata, sono i luoghi percorsi in Niente da vedere niente da nascondere, il film realizzato da Greco nel 1978 sull’opera dell’artista e amico fraterno Alighiero Boetti. Lo studio privato di Boetti è, insieme a Piazza Santa Maria in Trastevere, il foglio su cui Greco stende il suo ritratto di Alighiero in una relazione che Eraldo Affinati ha giustamente ricondotto al rapporto tra Bioy Casares e il protagonista de L’invenzione di Morel: per lo scrittore romano, «il rovello classificatorio dell’artista concettuale torinese, sebbene confortato dall’ironia, esprime la medesima supplica che Bioy Casares aveva rivolto a tutti noi lasciando il suo personaggio inerme davanti alla macchina di Morel: è come se anche Alighiero, impegnato a giocare sull’orlo del baratro, avesse chiesto, per poter sopravvivere, di entrare nel cielo della nostra coscienza; e l’amico regista, inquadrandolo, si fosse deciso a esaudire tale desiderio. La pietà assomiglia così a un sentimento superstite: non deriva da un atto di volizione individuale, logica conseguenza di un sistema di valori, ma affonda le sue radici nel dramma ermeneutico. Se l’uomo resta prigioniero dentro il labirinto, la macchina da presa che, amica silenziosa, ne proclama lo stallo ci farà sentire un rumore di fondo, privo di illusioni armoniche: l’occhio tecnico dell’illuminismo pronto a riemergere, simile a un cartone fantasmatico, nei manichini di Samuel Beckett». In un colpo solo, Affinati risale alle radici del cinema di Greco, ne scorge le intenzioni e la natura, lo riporta alla dimensione sua propria, quella che più gli spetta. Che Emidio Greco sia un regista che non si è peritato di raccogliere la sfida lanciatagli, poco più che trentenne, dal sodale di Borges; che abbia così dato corpo a una visione che è una convinzione; che abbia difeso così strenuamente un’idea di cinema (la media quinquennale, kubrickiana, delle sue uscite nelle sale lo conferma) in cui al pensiero è riconosciuta la dignità naturale dell’essenza umana; e che lo abbia fatto senza cedere ai trucchi grossolani del prestigiatore o alle mode corrive dei parvenu, ma come osservando, da una prospettiva partecipe e privilegiata, la catastrofe della ragione ridotta a mero strumento per il perseguimento dei fini meno nobili…Posto tutto ciò, insomma, dell’opera di Emidio Greco si può dire, senza incorrere in imprecisioni o iperboli, che si tratta di una delle più importanti che il cinema italiano degli ultimi trent’anni vanti. Questa tutt’altro che semplice asserzione è il riconoscimento migliore, e il più onesto, che si possa tributare a un regista, e ad uomo, cui non stonerebbe riportare, fatta la debita tara sul contesto e in polemica con certa vulgata critica che lo riguarda, le parole che nel 1949 Ezio Comparoni, alias Silvio D’Arzo, dedicò al poeta Francois Villon: «per tenere l’occhio sull’uomo, Villon non vide nemmeno la natura e non riuscì a trovare mai il tempo di regalare un mezzo aggettivo a una siepe, a un prato, a un fiume di campagna, a due dita di cielo sulla testa. Non cantò che di creature di una folla cenciosa, chiassosa, pittoresca, matta, peccatrice e violenta, piena di sangue e di vita, nel cuore di una città; e di se stesso nel cuore di questa folla gaglioffa: non tutto pazzo e non tutto saggio, bevitore di tutte le sue infamie, abitatore del mondo come altri di una locanda».

Stefano Gallerani

[da: XIX Courmayeur Noir in Festival, Museo del Cinema di Torino Edizioni, 2009.]

[Per Emidio Greco (Leporano, 20 ottobre 1938 – Roma, 22 dicembre 2012)]

No Transmission No Poetry

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Per maggiori informazioni sulla sospensione del blog di poesia, diretto da Francesco Marotta si legga qui.
Nota Post
Avevo programmato questo post ieri mattina e in serata, grazie alla mobilitazione che c’è stata in rete e fuori, il guasto “tecnico” è stato superato. Qui Effeemme dice la sua, la nostra forse, sicuramente anche la mia. effeffe

Strappare la pagina (al libro di Satana)

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James Williamson, The Big Swallow (1901)

di Enrico Camporesi

 

Paolo Cherchi Usai, La storia del cinema in 1000 parole (Il Castoro, Milano, 2012)

La restriction est inventive au moins autant de fois que la surabondance des libertés peut l’être. Je n’irai pas jusqu’à dire avec Joseph de Maistre que tout ce qui gêne l’homme le fortifie. De Maistre ne songeait peut-être pas qu’il est des chaussures trop étroites. Mais, s’agissant des arts, il me répondrait assez bien, sans doute, que des chaussures trop étroites nous feraient inventer des danses toutes nouvelles.

Paul Valéry, Discours prononcé au deuxième congrès international d’esthétique et de science de l’art, 1937.

È un libriccino agile e snello questo nuovo volume di Paolo Cherchi Usai. Vedendolo adagiato fra i ripiani delle librerie si potrebbe pensare che non si tratti che di una strenna natalizia, un pensiero da offrire all’amico cinefilo o allo studente novizio di storia del cinema, come una sorta di incoraggiamento divertito o malizioso. Eppure La storia del cinema in 1000 parole (Il Castoro, Milano 2012) già dal titolo mette in evidenza qualcosa di estremamente avvincente, la sfida occasionata da una costrizione.

L’arco di tempo è ampio, scandito per decenni – e a ritroso (dal 2020 al 1891). La scatola degli attrezzi per comporre questa storia è al contrario estremamente minuta: mille parole e un’ immagine per anno, ma a partire dal 2010 giacché l’avvenire è cieco. Così se Cherchi Usai inforca in principio gli occhiali dello spettatore di Avatar (J. Cameron, 2009) è per ripercorrere un tempo trascorso. La constatazione che chiude il paragrafo sul decennio 2010-2001, senza essere sofferta, è nondimeno straziante: «muore la pellicola, lo spettacolo continua. Il pubblico non bada alla differenza». L’autore, che nel cinema andato vede il proprio oggetto di elezione (attualmente direttore della collezione film alla George Eastman House di Rochester), guarda al passato senza alcuna velleità nostalgica. Piuttosto si ha l’impressione che egli sia mosso da una pulsione “apocalittica”, nell’accezione etimologica originaria: si tratta infatti di un disvelamento. Sfogliando le pagine del libro è la storia dell’immagine in movimento a mostrarsi, rischiarata dalla luce della catastrofe digitale, che si fa qui non abbacinante, ma condizione di visibilità.

Cherchi Usai aveva già abituato i suoi lettori a qualcosa del genere nell’imprescindibile volume di aforismi che in Italia venne pubblicato con il titolo L’ultimo spettatore (Il Castoro, Milano 1999), per poi circolare in un’edizione rivista e aggiornata in inglese (The Death of Cinema, BFI, London 2005). All’epoca della prima pubblicazione in rivista – la bolognese Cinegrafie, diretta da Michele Canosa – c’era già chi gridava allo scandalo. A essere preso di mira nello scritto era il tono, considerato saccente, oracolare. Come accettare inoltre che qualcuno dell’ambiente cinetecario si spingesse a dire che «il cinema è l’arte di distruggere le immagini»?

Questa Storia del cinema in 1000 parole, sebbene più trattenuta, ci pare coerente con l’impostazione del suo libro più provocatorio, e per due motivi almeno. Da un lato vi è infatti la tensione “apocalittica”, sulla quale ci siamo già intrattenuti brevemente; dall’altro vi è la concisione della scrittura. Laddove L’ultimo spettatore procedeva per aforismi, a volte vere e proprie schegge di pensiero non più lunghe di una riga, qui è la concezione intera del libro a trovarsi costretta entro il numero di parole da impiegare. Rinunciando alla tentazione di Sheherazade, l’autore sceglie una cifra piena: 1000, non una di più – cioè non 1000 e una, parole. Nonostante i limiti imposti, l’ultimo aggettivo che si vorrebbe impiegare per descrivere il libro è “secco”. Al massimo ci si potrebbe concedere di presentarlo come “asciutto”, quasi una pellicola in nitrato che abbia perso la sua tinta di imbibizione. Non perché al volume faccia difetto il “colore”, beninteso, ma perché la storia del cinema ci è presentata come un resto: come una pagina, facendo appello a Dreyer, strappata al libro di Satana.

In queste pagine svolazzanti cosa troviamo? Più che il taccuino di uno spettatore, una sintesi che abbraccia un decennio intero. Sebbene più volte ricorra alla strategia della lista, per ovviare alla legge di una composizione serrata, Cherchi Usai non manca di inserirvi annotazioni brillanti e divertite. Citiamo qui almeno l’ultima riga dal decennio post-maggio ’68 (1980-1971): «l’immaginazione al potere genera Spielberg e Guerre Stellari, poi contempla se stessa in Effetto notte». O ancora l’incipit che riguarda gli anni Sessanta: «da allora i registi si proclamano “autori”; forse lo sono sempre stati. Niente compromessi: Antonioni, Bresson, , Bergman e Il mucchio selvaggio rivendicano la libertà di creare. Jacques Tati approva, pur standosene zitto». Si tratta di accostamenti folgoranti, suscitati dalla costrizione imposta, impensabili altrimenti. Intellegibili dal lettore meno avvertito, che comunque può trattenere il canone di riferimento, le rapide asserzioni dell’autore non mancano di sedurre anche il connoisseur.

È a costui che forse si rivolgono più specificamente le ultime pagine (diciamo dal 1920 fino al 1891), nelle quali il corpus filmico permane tuttora meno conosciuto. Ed è qui che si ravvisa la maggior libertà anche nella selezione dell’iconografia, che altrove è purtroppo solo in parte punteggiata da casi più eccentrici e che privilegia altrimenti opere più istituzionali (citiamo però almeno l’inclusione dello straordinario What’s Opera, Doc? di Chuck Jones per l’anno 1957). Quanto più il volume volge al passato, tanto più esso ci attrae irresistibilmente. È qui che troviamo immagini da Malombra (C. Gallone, 1917), Émile Cohl, La leggenda di San Nicola (Itala Film, 1907), The Big Swallow (J. Williamson, 1901) scendendo fino a The Kiss di Edison, Robert William Paul, Émile Reynaud e Georges Demenÿ. Un piccolo disappunto ci coglie: vedere il 63mm di The Corbett-Fitzimmons Fight (1897) così tristemente mutilato. Ma forse, riflettiamo, non è altro che l’ennesima costrizione – questa volta dettata da esigenze di impaginazione.

Leggendo e rileggendo il libriccino non può non ritornare alla mente la celebre osservazione di Paul Valéry riguardo alla possibilità di creare nuove danze indossando scarpe troppo strette. Così procede Paolo Cherchi Usai, costringendo la penna in mille parole, concedendosi in più una manciata di immagini. Di certo fuoriesce un oggetto singolare e affascinante, un minuto appiglio per ripensare una disciplina (la storiografia del cinema) necessariamente dinamica, mutevole: una storia che non si può fare a meno di riscrivere, non fosse che per il piacere del racconto. Guizza anche in chiusura, fulminante, una splendida riga capace di sintetizzare da sola l’epopea che il libro si propone di ricapitolare. Qui la riportiamo: «fotografie intermittenti, la seduzione meccanica di un battito di palpebre, il cinema».

Nuovi Autismi 30 – I vecchi

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di Giacomo Sartori


I vecchi sono ingombranti, e spesso anche molto costosi. Bisogna farli accudire da una badante, e le badanti costano. La paga oraria non è certo alta, anzi spesso è da fame, ma considerando che un vecchio bavoso lo è ventiquattro ore al giorno sette giorni in settimana, viene fuori un patrimonio. A far bene bisognerebbe poterli rottamare. Ma sarebbe un repulisti un po’ di cattivo gusto: siamo diventati molto egoisti, e per soddisfare le nostre voglie e ubbie siamo pronti a qualsiasi cosa, ma non siamo cruenti, non siamo sanguinari. Senza contare che a qualcuno ricorderebbe forse certi eccessi del passato, e verrebbero fuori mille polemiche. Siamo squali buonisti e inclini ai sentimentalismi, amiamo avere buona coscienza. E poi a trucidare i vecchi fuori uso si abbasserebbe l’età media, mentre noi teniamo molto all’età media. Se per esempio abbiamo cinquantaquattro anni e siamo italiani e di sesso maschile, faccio un esempio a caso, ci fa piacere pensare che statisticamente vivremo fino a settantanove anni. Magari rincoglioniti, e con una badante straniera, ammesso e non concesso che qualcuno ce la pagherà (chi?), però insomma abbiamo qualche probabilità di vivere fino a settantanove anni. Ci scoccerebbe pensare che a causa dello sterminio di tutti i vecchi rincoglioniti vivremo solo fino a settantatre anni, o addirittura fino a settantuno, tanto per dire. E allora bisogna sopportarli, e mettere mano al portafoglio.

Una volta si pensava che i vecchi a dispetto dell’apparenza avessero molto da insegnare: invece di guardarli con sconcerto gli si chiedevano delle cose, nelle famiglie e nei villaggi li si ingaggiava come consulenti nei campi più disparati. Venivano riveriti e rispettati come preziosi reperti archeologici, coccolati peggio di cagnolini. Si pensava che detenessero la verità, o insomma che detenessero un grado superiore di verità rispetto alle persone più giovani. Era una credenza illogica e delirante, ma in fondo sul piano personale anche consolante: uno si diceva che con l’età la salute e le facoltà sensoriali e intellettive scemavano, e spesso anche l’umore si degradava, ma aumentava la saggezza, lievitavano la stima e l’apprezzamento. C’era insomma una sorta di compensazione. Adesso non ci sono attenuanti, si va verso una degradazione a tutto campo. La demenza senile, così diffusa, è la metafora di inettitudini e inutilità non più occultabili.

Quando uno comincia a non essere più tanto giovane si imbruttisce e le sue prestazioni si fanno meno efficienti, si pensa ora: come un aggeggio elettronico più che superato, come un telefonino di una generazione ormai obsoleta. Poi il processo di obsolescenza va avanti, fino a diventare imbarazzante, grottesco. Nessuno si sognerebbe di mostrarsi con un computer di venti anni fa, mentre certi vecchi impresentabili vanno ancora in giro come se niente fosse, ci si dice. È un nuovo sistema di pensare, e la storia ci ha insegnato che le nuove visioni hanno sempre ragione, o comunque finiscono per fare piazza pulita delle vecchie. Va quindi considerato un progresso, una nuova tappa nella parabola gloriosa dell’umanità. I primi a capirlo sono i vecchi stessi: nel tentativo di mimetizzarsi indossano scarpe da ginnastica e felpe con il cappuccio, fanno in tutti i modi i giovani. Il che agli occhi dei veri giovani è ancora più sconveniente.

Il mondo evolve, è normale. Le difficoltà sono per quelli che sono un po’ rimasti attaccati al passato e un po’ no, quelle vie di mezzo che per nostalgia o altro fanno fatica a incenerire le vecchie credenze, pur avendole sempre osteggiate. Come per esempio il sottoscritto. Diciamo la verità, io di fronte a molti giovani che frequento (tutta la mia cosiddetta giovinezza l’ho passata con persone più anziane di me, ora attorno a me ci sono solo individui più giovani: forse proprio per questo faccio fatica a attribuirmi una precisa età sociologica), penso di avere una marcia in più. Riconosco nel loro agire una maggiore coerenza coi tempi, e rinvengo in loro plaghe di mistero, sintomo indubbio del mio progressivo anacronismo, però mi sembra pur sempre di sapere come finiranno le frasi, come si gratteranno, come si tumefaranno col tempo le loro facce. Nei loro occhi vedo che mi considerano un relitto ormai fuori competizione, ma a me paiono quegli orologi nei quali si può ammirare il meccanismo interno, prevedibili nel loro atemporale ticchettare. È un’illusione ottica, un’allucinazione, però non riesco a liberarmene. Mi dico anzi che loro stessi dovrebbero manifestarmi che trovano in me tesori di cui difettano: dovrebbero farmi domande, chiedermi consigli. Sono fantasmagorie surreali, ma dure a morire come idre con sette teste che ricacciano appena mozzate. Dentro di me chiamo questo mio ipotetico surplus più geologico – sedimentario – che gnoseologico “esperienza della vita”, una locuzione che non ha più corso, e che probabilmente tra non molto verrà bandita dai dizionari.

I vecchi si vendicano del resto della detronizzazione che hanno subito, è normale. La contropartita del rispetto immeritato che li ammantava era la benevolenza: sorridevano, e il loro ghigno sdentato era un’accettazione indulgente (solo nelle periferie degli occhi baluginavano a tratti guizzi di ironia), un incoraggiamento a perseverare. Come tutti i despoti detentori di un potere prevaricante vedevano di buon occhio i loro sudditi, vale a dire i giovani: li scusavano se sbagliavano, li riprendevano con liquidi gorgheggiamenti di gola. Ora invece gli anziani, come dicevo travestiti ormai da adolescenti, si sogguardano alle spalle con occhi incattiviti. Sentono fiati ostili sul collo, e quindi sputano saliva, si aggrappano al potere politico o finanziario, diventano dure e sorde cozze. Se potessero sterminerebbero tutti i giovani, si infilerebbero come ostinati sommozzatori nelle loro pelli elastiche. Terrorizzati di perdere il cosiddetto senno.

(l’immagine: Mary Tillman Smith, “Intitled”)

Amianto

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(Pubblico qui di seguito una nota critica di Marco Rovelli su un’opera importante, Amianto, e di seguito un estratto dal libro di Alberto Prunetti. Libro, che, ovviamente, consiglio anch’io di leggere. G.B.)

 

Marco Rovelli su l’Unità del 5/1/2013:

“Amianto. Una storia operaia”. Titolo e sottotitolo secchi, asciutti, precisi. E’ l’ultimo libro (“terribile e bellissimo”, come ha scritto Valerio Evangelisti nella prefazione) di Alberto Prunetti, edito da Agenzia X. La storia di Renato Prunetti, padre di Alberto, operaio dall’età di quattordici anni, che ha respirato amianto fino a morirne. Renato lo vediamo nei capannoni di Piombino e in quelli dell’Ilva di Taranto, o a Casale Monferrato, ovunque c’era da respirare quella vita che si faceva morte. E vediamo anche l’autore stesso, che rammemora la propria infanzia, “operaia” anch’essa. Nella storia di Renato Prunetti c’è la storia di un materiale che ha fatto schiere di morti, nel silenzio più assoluto (ne scrissi in passato, e approfondirne le vicende lascia davvero sgomenti: per iniziare, vedete il sito amiantomaipiù). Era dagli anni Trenta che si conoscevano gli effetti letali dell’amianto, ma fino agli anni Ottanta nulla cambiò: una vicenda paradigmatica di come gli interessi delle grande industrie prevalgano su tutto il resto. Ma il libro di Prunetti – oltre a essere una vera e propria inchiesta sul campo, che ci fa vedere la materialità delle fabbriche, che ci mostra il lavoro vivo negli stabilimenti – è anche una vera e propria opera letteraria. La scrittura di questo libro, nella suo dato scabro, secco, nel suo andare dritta al cuore materico del reale, ci fa sentire, e sentire veramente, i suoni profondi di quella storia operaia. Si sente che quella storia è cresciuta tra le mani dell’autore suo malgrado, che lo ha preso e coinvolto fino al cuore: in questo sta la letterarietà del libro, non nell’artificiosità, ma nella necessità, nell’urgenza, nella sua verità (termine così equivoco, ma a sua volta così necessario, se declinato al singolare).

 

Da Alberto Prunetti, Amianto, una storia operaia, Agenzia X, 2012, pp. 160

Questa è la storia operaia di un tipo qualsiasi, una storia come tante, di quelli che sono cresciuti nel dopoguerra, hanno fatto un pezzo del boom economico italiano sulla loro pelle, hanno vissuto la crisi petrolifera del ’73 sulle proprie tasche e sono morti all’inizio del nuovo secolo, ammalati dopo avere smesso di lavorare. Uccisi da un serial killer micidiale che agiva a Casale Monferrato, a Taranto, a Piombino e in decine d’altri posti. Un uomo che ha iniziato a guadagnarsi il pane a quattordici anni, che è entrato in fabbrica senza mai uscirne davvero, perché il cantiere industriale aveva nidificato nelle sue cellule il proprio carico di negatività. Uno che è stato costretto per ragioni professionali a esporre il proprio corpo a ogni tipo di metalli pesanti. Un lavoratore che ha visto le condizioni di sicurezza nei cantieri precipitare ogni giorno di più. Un padre che ha fatto studiare i propri figli con la convinzione ingannevole che mandarli all’università fosse un modo per farli uscire dalla subordinazione di classe. Uno che si infilava guanti d’amianto, e tute d’amianto, e si metteva lui stesso sotto un telone d’amianto, perché scioglieva elettrodi che rilasciavano scintille di fuoco a pochi passi da gigantesche cisterne piene di petrolio e che sotto quel telone respirava zinco e piombo, fino a tatuarsi un bel pezzo della tavola degli elementi di Mendeleev nei polmoni. Fino a quando una fibra d’amianto, che lo circondava come una gabbia, ha trovato la strada verso il suo torace ed è rimasta lì per anni. E poi, chiuso il suo libretto di lavoro, quella fibra ha cominciato a colorare di nero le sue cellule, corrodendo materia neurale dalla spina dorsale fino al cervello. Una ruggine che non poteva smerigliare. Lesioni cerebrali che non poteva saldare. Guarnizioni che hanno iniziato a perdere, nel tono dell’umore, nella memoria, nella deambulazione, nell’orientamento. Tante volte mi sono chiesto se avesse sofferto. Se avessimo dovuto dargli più morfina. Quella droga – a lui che parlava male dei “drogati”, tra un bicchiere e l’altro di Tavernello – deve avergli regalato gli ultimi momenti felici. Qualcosa di più dell’anestesia. Finalmente era libero di dimenticare quella scimmia che gli era salita sulla schiena. Sognava felice: cavalcava nelle celesti praterie, come gli eroi dei nostri fumetti western. Le sue ultime ore per noi furono pesanti, ma lui neanche se ne accorse: era con Capitan Miki e Blek Macigno, con il comandante Mark, con Gufo Triste e Mister Bluff, con Chico e Tiger Jack e con Kit Carson, galoppavano assieme nelle celesti praterie e nelle foreste di Darkwood, senza più la zavorra dell’acciaio e della ruggine a bloccarlo a terra.

 

L’Unione Europea e la sovranità popolare perduta

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di Giampiero Marano

“Voi non potete immaginare quale angoscia e quale rabbia invada l’animo vostro, quando degli inetti si impadroniscono di una grande idea, che voi da gran tempo venerate, e la danno in pasto ad altri imbecilli uguali a loro, in mezzo a una strada, e voi la ritrovate al mercato della roba vecchia, irriconoscibile, infangata, messa a gambe all’aria, assurdamente, senza proporzione, senza armonia, ridotta a giocattolo per bambini stupidi!”. Queste parole piene di amarezza che Stepan, nei Demoni di Dostoevskij, pronuncia tra i sospiri (non sappiamo quanto sinceri) sono, proprio perché così amare, sempre veritiere e attuali. Oggi, per esempio, offrono una descrizione perfetta dell’Unione Europea. L’antica e alta aspirazione a unire i popoli d’Europa superando rivalità secolari ha avuto sostenitori come Dante, Novalis, Mazzini, Hugo; poi però la “grande idea” è finita nelle mani di uomini spiritualmente “inetti” che l’hanno uccisa e sfigurata: i burocrati e i tecnocrati dell’UE, vuoti e arroganti come il premier non eletto Mario Monti.

“L’altissimo merito di quest’ultimo”, chiariva Piergiorgio Odifreddi