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I maledetti toscani

Cosa succede in Toscana
di
Vanni Santoni

Cosa succede in Toscana? Parecchio, succede. Mi spiego. Ho cominciato a scrivere non troppi anni fa, su Mostro, una rivista letteraria fiorentina. Aveva contenuti buoni per una rivista autoprodotta, e tuttora considero cruciale per la mia formazione la prova del confronto immediato con autori con più esperienza di me; tuttavia erano – eravamo – ragazzi, e pativamo una mancanza di connessioni, di “scena”, in città; di gente con cui confrontarci, con cui stipulare alleanze o da tenere come pietra di paragone. La scena, a nostro vedere, eravamo noi stessi, più qualche unità, qualche scrittore più famoso che andava per la sua strada e con cui non avevamo contatti. Non si trattava di una nostra mispercezione: ricordo che, qualche tempo fa, intervistando per il Corriere Fiorentino Sergio Nelli, scrittore della generazione precedente alla nostra, egli lamentasse che negli anni ’80, all’epoca del suo trasferimento in città, non ci fosse scena letteraria, tanto che i primi sodali andò a trovarseli a Milano.

Oggi, invece, quella scena, a Firenze, c’è. In embrione, per certi versi; scollata, senza dubbio; ma esiste. Si è pian piano coagulata attorno a luoghi come la libreria La Cité, eventi come la prima e unica edizione del festival Ultra, riviste che hanno raccolto l’eredità di Mostro come Collettivomensa, serate “aperte” come Torino una sega, e si è riconosciuta e “contata” quando, l’anno scorso, c’è stato da lottare contro un “festival” assai discutibile che, in modo del tutto avulso proprio da tale embrionale comunità (o da qualunque altra istituzione culturale cittadina), veniva a speculare sopra le aspirazioni degli esordienti. Va da sé che dopo la battaglia il gruppo si è nuovamente sfilacciato – c’è stato, e c’è, un seguito, che si tradurrà magari in eventi e iniziative, ma di fatto ognuno ha ripreso la propria strada –, ma niente è più come prima, perché questa comunità di scrittori adesso esiste, e si collega anzi a una più ampia nuova scena regionale: di recente il critico Raoul Bruni, sempre attento alla contemporaneità e a quanto avviene nel nostro territorio, mi ha invitato a partecipare a un’antologia che documenterà questa nouvelle vague di autori toscani sotto i quaranta; va da sé che ho accettato, e il roster dei nomi è assai interessante: Simona Baldanzi, Diego Bertelli, Filippo Bologna, Silvia Dai Prà, Francesco D’Isa, Fabio Genovesi, Simone Ghelli, Ilaria Giannini, Pietro Grossi, Emiliano Gucci, Gregorio Magini, Paolo Mascheri, Francesca Matteoni, Ilaria Mavilla, Valerio Nardoni, Sacha Naspini, Federico Parlato, Flavia Piccinni, Alessandro Raveggi, Luca Ricci, (Vanni Santoni), Marco Simonelli. La nuova scena esiste, scrive e, da buon embrione, cresce rapidamente: a livello numerico, ma anche qualitativo. Sono infatti usciti di recente in libreria due romanzi, a firma di due scrittori inclusi nel gruppo succitato, che marcano una crescita decisa per loro e, più in generale, per la scena.

Il primo è I provinciali di Ilaria Giannini, uscito per Gaffi lo scorso novembre. Rispetto al suo esordio Facciamo finta che sia per sempre (Intermezzi 2009), ne I provinciali Giannini segna un cospicuo progresso stilistico, trovando nella lingua parlata il punto di forza del proprio registro. Lo dico con cognizione di causa: ho passato tante estati d’infanzia e di adolescenza in Versilia, e quando ho letto passaggi come

«Eh no, eh! Non rigira’ la frittata come sempre! Non m’hai nemmeno chiesto come sto e poi sono io lo stronzo! Mi fanno male le costole, devo farmi una radiografia, magari c’ho qualcosa di rotto e come al solito te ne freghi».
«Ma smettila, tante storie per du’ colpi! Sempre il solito esagerato, il solito piagnone, avevi a ridargliele, è la metà di te!».
«Ma se m’ha preso di spalle, quel codardo! Mi vuole ammazza’, te sei sposata con un pazzo!».
«Lo sapevi che ero sposata, ma finché c’era da scopare andava bene, eh? Dai, Emma, rilassati, non lo saprà nessuno, è il nostro segreto, ci penso io a te! Lo vedo come ci pensi a me, per fare i tuoi comodi e basta!».
«Ma falla finita, i miei comodi un cazzo, i tuoi comodi! Qui no, a quell’ora no, c’ho da badare alla bimba, mi’ ma’ sta male, il mi’ marito m’aspetta e io lì, come un bischero, è un mese che cambio tutti i turni per te! Ma basta eh, mi basta e mi avanza, scemo io a infilarmi in ‘sto casino per una come te!».
«Mi fai pena, te una come me a vent’anni te la potevi giusto sogna’ da lontano, ma guarda con chi mi so’ confusa io! Lasciamo perde’…».

..ho avuto un immediato déjà-vu dei genitori di un mio amico, i quali, ogni volta che andavo a giocare da lui, sentivo litigare nell’altra stanza. Quelli del passo riportato sono amanti, non coniugi, ma la parlata, il taglio, il modo di inserire la risposta sulla frase precedente, sono quelli. Non so quanto, viste da fuori, le diverse declinazioni del toscano si assomiglino; viste da dentro sono molto diverse tra loro, e il “basso versiliese” di Giannini è di un’esattezza indiscutibile. Il romanzo è infatti ambientato a Bozzano, frazione di Massarosa, piccolo centro della Versilia “profonda”, quella senza Twiga, “Forte”, Bussola né Principe di Piemonte, e la virtù principale dell’autrice è quella di cogliere la lingua della propria terra (e riprodurla, perché quando si va a trasferire un parlato innervato di dialetto sulla pagina scritta, non basta la fedeltà: va ritrovato un equilibrio nella rappresentazione, che è differente da quello “reale”) e usarla per raccontare, attraverso un continuo dialogare, che avviene sovente attorno al fulcro della cucina di casa, un micromondo magari odiato dai suoi personaggi, ma irrinunciabile, perché lì fuori davvero non c’è più niente, e questa famiglia, sfibrata, disfatta, disprezzabile, fonte più di pensieri e dolore che altro, resta comunque l’unica cosa che possiedono.

Il secondo romanzo è Nel vento di Emiliano Gucci, in libreria da pochi giorni. Gucci, veterano delle lettere locali – è il suo quinto romanzo, dopo pubblicazioni con Fazi, Guanda, Elliot – esce per Feltrinelli con un romanzo esistenzialista di grande pregio: sotto la patina apparente del concept book – vi si racconta infatti la vita di un centometrista, presumibilmente di rango internazionale, attraverso i pensieri che si manifestano nella sua mente lungo i soli dieci secondi della gara –, Nel vento si rivela subito come un libro potente, e lo fa innanzitutto attraverso lo stile. Gucci raggiunge infatti un’economia e una precisione notevolissime, e scaraventa il lettore all’interno delle stanze mentali del protagonista – perché più che dedali sono stanze, ricolme di immagini, traumi, frustrazioni, istanti di chiarezza percettiva (brillanti quelli sul “puzzo di atletica” e sul rumore dei polmoni dei piccioni), tutti sempre visibili sul palcoscenico del ricordo, come installazioni permanenti e terribili – delineandolo come se si trovasse, lui, frutto di quelle esperienze, frutto di quei ricordi, a essere parte di un gioco cosmico nel quale non esistono ormai che dieci elementi: la pista, la folla sugli spalti e gli otto centometristi – lui stesso e gli altri sette, definiti nella sua mente solo da numeri, e pronti a buttare, come lui, tutta una vita in quei dieci secondi. E tuttavia non siamo di fronte a un romanzo sull’atletica: si parla di atletica, si corre in una pista di atletica, c’è il pubblico dell’atletica, si parla anche di sponsor, allenamenti, doping, ma Gucci riesce a far essere Nel vento un libro su qualunque sport. Di più: su tutti quegli sforzi umani nei quali una lunga e dolorosa preparazione viene spesa in un attimo brevissimo.

Questa assolutezza di visione è il punto di forza del romanzo, tanto che tramite di essa Gucci riesce a centrare un secondo obiettivo, quello di “uscire dal giardino di casa” senza cadere nel vizio opposto, ovvero l’esterofilia forzata: se alcuni nomi che si incontrano lungo la narrazione suggeriscono che il protagonista sia italiano, non lo sono ovviamente i suoi avversari, ma soprattutto tutto il libro si svolge in uno scenario sospeso dove non c’è traccia di specificità locali; anche il vissuto del protagonista è costituito dai soli snodi traumatici, omettendo quell’esistenza di provincia che con ogni probabilità ha fatto da contorno alla crescita di un uomo che oggi è arrivato a giocarsela in una finale importante, forse addirittura olimpica – forse, di nuovo, perché molti sono i non detti nel testo, che contribuiscono a trascinare il lettore in un mondo fatto esclusivamente di elaborazione mentale – il cui racconto però non ci parla di lui, dello sport o dell’agonismo, ma del dramma di essere vivi, e in scena, nostro malgrado.

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28 Commenti

  1. No Comment Experiment

    Le città si organizzano? Dopo Bologna, Roma, Milano, Torino, Genova, Napoli, anche a Firenze che poi significa Toscana, gli scrittori si federano. Una strategia comunicativa o una ricognizione a posteriori delle energie in campo, sul modello della MIE (New Italian Epic) ? E se ci trovassimo, nel mondo delle lettere in una piena rinascita dell’età dei Comuni? Ai Post eri l’arduo commento. effeffe

    • Solo una cosa, Francesco. Io non so nelle altre città, e forse non dovrei neppure parlare della mia, ma che a Milano gli scrittori si siamo organizzati è per me una novità. Qui si naviga a vista, in perfetta solitudine, isole di un arcipelago disperso, incapace di costruire ponti, di fare massa critica. Poi, certo, forse anche per pudore, per evitare le derive inciuciste che ho visto, per dire, nella Capitale, però, porca miseria, ci sarà pure una via di mezzo, no?
      Detto ciò, non credo che la condizione geografica mi federi automaticamente ad un gruppo o chichessia. Mi sento, spesso, più vicino a scrittori geograficamente lontani.

      • (OT) sai Gianni (ciao!), esiste la geografia dell’anima. Con la sua propria ridefinizione di territorio. Forse bisogna apprendere per molto tempo a non appartenere per sentire che cos’è davvero un radicamento, che può esistere – un luogo radicato in noi e viceversa – malgrado la partecipazione sociale, vera, presunta o frammentaria.

      • Gianni certamente esiste una terza via, perfino una quarta, a ben vedere. Vero è che le comunità letterarie con le relative pratiche si vivono soprattutto attraverso la condivisione di un territorio, il “fare” cose insieme. Non è un caso che la pratica dei caffé letterari o di certe librerie “militanti” continui ancora oggi. Poi per carità esistono i social network, la rete, i telefoni, i fax ecc ecc. ma l’uno non esclude l’altro, e Vanni il Santoni ne è un ottimo esempio. Ho girato abbastanza l’Italia in questi ultimi anni da non solo capire ma anche apprezzare delle dinamiche di incontro e di costruzione collettiva sul territorio. Certo la mia è un’idea della letteratura influenzata dall’esperienza delle riviste a cui ho partecipato in cui però, l’appartenza a una lingua, a una cultura, in un territorio altro da quello dell’origine non erano un ostacolo ma il punto di forza. Per il resto la penso come un amico romanziere che mi diceva di credere soltanto alla geografia dei talenti. effeffe

  2. Ringrazio Vanni, che mi chiama in causa come curatore di un’antologia della nuova narrativa toscana, che in effetti sto preparando per l’editore pratese Piano B. Per correttezza, devo precisare che due o tre dei nomi citati forse non ci saranno (per vari motivi) e saranno sostituiti da altrettanti autori non citati, ma il roster è sostanzialmente quello indicato.

  3. Domanda che non vuole essere provocatoria. Sono nato in una zona del Nord Italia dove i giovani non parlano con cadenza dialettale. Non sono mai stato nella Versilia profonda. Come faccio a capire che Giannini traspone fedelmente il parlato toscano? Più in generale, non è pericoloso se nel 2013 ognuno continua a ripiegare sulla propria parlata locale?

  4. Ciao Damiano, ti ringrazio per la domanda che è interessante, anche se non capisco molto bene cosa intendi per “pericoloso”.
    L’unico pericolo di cui credo di dovermi fare carico come scrittrice è la possibilità che chi legge non capisca il testo. Per evitare questo rischio, ho escluso le parole che potevano essere davvero fuori dalla portata di chi non è toscano e ho scelto una lingua che riproducesse più che altro la musicalità e la cadenza di quella che si parla in Versilia.
    Ho usato questo dialetto ripulito perché è funzionale alla storia, che non a caso si intitola “I provinciali”. I dialoghi in dialetto sono un tassello di quello spirito della provincia versiliese che ho cercato di infondere al libro: se suonano bene a chi legge vuol dire che ho raggiunto il mio scopo, altrimenti no, ma credo che a questa domanda possa rispondere solo il lettore non una presunta giuria di veridicità.
    Per il resto, non sono un difensore del dialetto a tutti i costi e non lo utilizzo in tutto quello che scrivo, ma solo quando ha un senso farlo.

  5. Bene per la segnalazione e per la ricognizione sui due autori. Sarebbe interessante poi in futuro leggere qualcosa della prefazione all’antologia di Bruni. Credo infatti sarà necessario non solo segnalare la Santa Maria Nouvelle vague ;) ma delimitare ascendenze e influenze di autori toscani di breve o larga distanza. Nel mio caso potrei segnalare da Veronesi, fino (andato a ritroso) a Malaparte e Coccioli, senza dimenticare ovviamente Collodi – e per il racconto anche l’ottimo Vigevani. Credo che ci sia una linea della narrativa toscana che viene da lontano e lontano è andata.

  6. Ringrazio Vanni Santoni per la generosità con cui ha recensito il mio romanzo e gli faccio i complimenti per quanto bene gli è venuto il pezzo intero. A mio avviso già stare qua, in questa consapevolezza di rete, di conoscenza e attenzioni reciproche, è sintomo di “scena”; altrove (nel senso più lato, di coscienze e geografie umane, più che territoriali) quando non c’è invidia c’è perlomeno indifferenza, ed episodi come questi (il pezzo stesso, ma il discorso vale per le varie iniziative elencate in testa, e per l’antologia citata) sono impensabili.

  7. Un discorso è l’opera impossibile, un altro è la visione cruda, anche se morigerata dell’occhio del volatile. Il canto vede castelli, il piede cammina calli fangose e infide. Del turbamento siamo fieri, finchè non si placa. Poi si scorre, come schermi, con un appetito indicibile per gli occhi.

  8. Cara Ilaria, mi sembra che tu abbia le idee chiare rispetto al tuo libro. Il “pericolo” a cui mi riferivo è più generale. I linguisti chiamano idioletto la varietà di lingua individuale, quella caratteristica di ogni singolo parlante. Se tanti si mettono a scrivere pensando alla propria regione, al proprio idioletto, non si perde di vista quell’obiettivo un po’ chimerico che è l’italiano orale degli anni Duemila?
    Il discorso è ampio, lo faccio solo perché in un articolo di scrittori corregionali parlare solo della lingua orale è limitativo. Santoni non lo dice, ma il tuo romanzo avrà anche altri pregi, immagino…

  9. Caro Damiano quello che dici è interessante però al contrario di te credo che la dimensione “rivoluzionista” dell’idioletto, penso per esempio a quello che qualche anno fa si definiva la creolizzazione delle lingue dominanti, possa essere un’apertura e non una chiusura rispetto alla vocazione della letteratura ovvero di inventare o inventariare nuovi linguaggi. Si tratta ovviamente di una considerazione che esula dallo scambio che avete avuto tu e Ilaria, ma che la tua riflessione ha provocato. effeffe

  10. e a noi piace Filippo Bologna perché è così schivo da firmarsi Effebì anche a margine un post che parla di lui ;)

  11. mi piace molto quello che scrive francesca matteoni: la propria origine è indelebile, ma alle volte, scrivendo, non solo percepisci un nuovo territorio al quale appartenere – un territorio tanto vero quanto ideale – ma addirittura avverti che la tradizione che ti sta alle spalle, quella che omaggi o rinverdisci o sfidi, è una tua personale costruzione.

    la letteratura – leggendo e scrivendo – dà modo di transcendere i limiti ristretti della propria origine. la letteratura dà modo di fare esperienza della propria origine come se non ci appartenesse. la letteratura, per come la vedo io, è insieme la causa e la cura di un certo senso di inappartenenza e di continuo sdradicamento.

    del resto, la scena che tratteggia vanni credo sia un fenomeno naturale: prima che i più maligni ci vedano dentro la solita consorteria votate all’accaparazione di qualche fantomatico potere nel ridotto recinto della cultura italiana, tutti coloro che scrivono sanno che c’è un tempo per la composizione, per la solitudine e il riserbo, e un tempo per la condivisione, per leggere e farsi leggere, specie dai più vicini di età o di provenienza. una volpe è sempre la più veloce finché corre da sola: correndo con altri esemplari, si ha sempre la possibilità di individuare nuove andature e nuove passi, e di mettere alla prova e rodare tutte le proprie certezze.

    che poi, se vogliamo dirla tutta, internet è una manna, dai punti più disparati d’italia si può leggere e farsi leggere – ma vedersi davvero e parlare per ore di quello o quell’altro libro, di come funziona quella pagina o di quale eleganza e potenza dispieghi quello stile, è tutt’altra cosa rispetto a quella specie di solitudine collettiva on-line che riempe certe sere invernali.

    • Étranger dans sa propre langue

      « Ce que font [les grands écrivains] c’est plutôt un usage mineur de la langue majeure dans laquelle ils s’expriment entièrement : ils minorent cette langue, comme en musique, où le mode mineur désigne des combinaisons dynamiques en perpétuel déséquilibre. Ils sont grands à force de minorer : ils font fuir la langue, ils la font filer sur une ligne de sorcière, et ne cessent de la mettre en déséquilibre, de la faire bifurquer et varier dans chacun de ses termes, suivant une incessante modulation. Cela excède les possibilités de la parole pour atteindre au pouvoir de la langue et même du langage. Autant dire qu’un grand écrivain est toujours comme un étranger dans la langue où il s’exprime, même si c’est sa langue natale. À la limite, il prend ses forces dans une minorité muette inconnue, qui n’appartient qu’à lui. C’est un étranger dans sa propre langue, il taille dans sa langue une langue étrangère et qui ne préexiste pas. »

      Gilles Deleuze, Critique et Clinique, Éd. de Minuit, Paris, 1993, p. 138.

  12. I “maledetti” toscani, dopo le orge selvagge con i “guerriglieri” romani, si preparino ad accoppiarsi con “ripugnanti” marchigiani, che, attorno a due o tre case editrici che si ostinano ad esistere, fanno sentire la loro cadenza: scoperta da Massimo Canalini di Cattedrale il 15 gennaio è approdata in libreria con la mostruosa Mondadori la ventenne jesina Gaia Coltorti, autrice dello shakespeariano romanzo “Le affinità alchemiche”; stanato dall’avventuriera Francesca Chiappa di Hacca, il ventenne sanbenedettese trapiantato a Milano Alcide Pierantozzi è già al secondo romanzo “cattivo” con Rizzoli (“Ivan il terribile”); scoutato da Marco Monina di Pequod il trentenne urbinate Alessio Torino, dopo l’ottimo esordio con l’etilico “Undici decimi”, si è confermato talento puro con “Tetano” per minimum fax nel 2011.
    Non è marketing territoriale, è la necessaria testimonianza di una impossibile vitalità dei luoghi, dove, lontano da tutti gli indifferenti e vicino ai pochi resistenti, esistono macchine animali ancora capaci di ascoltare e far risuonare. Che queste effervescenze regionali si parlino, comunichino, cooperino tra loro e con gli altri fuori dal recinto italiota è fatalità augurabile per la letteratura italiana contemporanea!

  13. Abbino l’articolo di Santoni a quello di Giulio Mozzi “Dieci buone ragioni per non leggere la letteratura italian contemporanea” (in Vibrisse). Scena toscana da una parte, scena italiana dall’altra. Per quanto mi riguarda, i miei punti di riferimento sono Michele Mari, mio idolo assoluto, Walter Siti e pochi altri. Se facciano “scena” insieme non so. Mi auguro solo che il Trota non organizzi una scena padana…

  14. più che una “scena” quella di Torino una sega era un baccanale….mai visto niente del genere per un evento letterario, una calca come quando ai grandi festival c’è l’ospite “big”, tifo da stadio per gli “eroi locali”, gente a confrontarsi testi alla mano….c’era il “respiro” delle avanguardie

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francesco forlani
francesco forlani
Vivo e lavoro a Parigi. Fondatore delle riviste internazionali Paso Doble e Sud, collaboratore dell’Atelier du Roman . Attualmente direttore artistico della rivista italo-francese Focus-in. Spettacoli teatrali: Do you remember revolution, Patrioska, Cave canem, Zazà et tuti l’ati sturiellet, Miss Take. È redattore del blog letterario Nazione Indiana e gioca nella nazionale di calcio scrittori Osvaldo Soriano Football Club, Era l’anno dei mondiali e Racconti in bottiglia (Rizzoli/Corriere della Sera). Métromorphoses, Autoreverse, Blu di Prussia, Manifesto del Comunista Dandy, Le Chat Noir, Manhattan Experiment, 1997 Fuga da New York, edizioni La Camera Verde, Chiunque cerca chiunque, Il peso del Ciao, Parigi, senza passare dal via, Il manifesto del comunista dandy, Peli, Penultimi, Par-delà la forêt. , L'estate corsa   Traduttore dal francese, L'insegnamento dell'ignoranza di Jean-Claude Michéa, Immediatamente di Dominique De Roux
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