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Vita e opere di Enzo Siciliano

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di Gregorio Magini

Una fotografia risalente al Premio Strega del 2011
Una fotografia risalente al Premio Strega del 2011

“La creatività, che orrore.”
Enzo Siciliano

 

Una inquieta mattina bolognese del 1998, Enzo Siciliano, studente in legge di ventisei anni, ricevette una telefonata da Corrado.
– Corrado chi?
– Augias. Chi altro?
– Mi dica.
– Niente. Mi sono a complimentare per la vittoria… Finalmente…
– Ho vinto qualche cosa?
– Ma Enzo. Il Premio Strega. Mi prendi per i fondelli come al solito. Guido mi ha detto che stamane ha parlato con te. Che eri contento nonostante tutto.
La conversazione finì in fretta nell’imbarazzo. Enzo chiese consiglio agli amici. Lo scambio di omonimi fu l’interpretazione prevalente: una segretaria che cerca sull’elenco telefonico della città sbagliata. Corrado Augias, era proprio quel Corrado Augias, ma Enzo Siciliano era un altro: uno scrittore di cui nessuno aveva letto niente, ma qualcuno ricordava di aver visto in tv. Gli dissero: peccato che non eri tu.
Enzo, a ogni buon conto, telefonò alla segreteria del Premio.
– Buongiorno Strega Alberti dal 1860. Cosa posso fare lei?
– Buongiorno. Chiamo da Monza. Vorrei un’informazione.
– Mi dica.
– Chi ha vinto il Premio quest’anno?
– Ancora nessuno. La votazione avrà luogo domani.
– Andiamo. Faccia un’eccezione per me. È per una scommessa.
– Mi dispiace signor…?
– Siciliano.
– Signor Siciliano. Anche volendo non saprei dirle il vincitore, perché io stessa non lo so.
Nella voce della segretaria, sicuramente giovane, vibrava un’ilarità trattenuta o forse, addirittura, un istinto di simpatia. Quella sera, sottolineando passi del Codice Civile, si perse più volte immaginando l’aspetto della ragazza. Ora bionda, con i capelli riccioli come fusilli, piccole occhiaie che accentuavano la scaltrezza dello sguardo; ora bruna, i capelli lisci e lunghi fino a sfiorare l’osso sacro, ma gli occhi identici, stesse occhiaie, altrettanta malizia.
Telefonò a sua madre.
– Dormivi?
– Sì. Guardavo la tv.
– Che fanno?
– Pubblicità.
– Mamma. Mi fai un favore? C’è un raccoglitore verde nella libreria in camera mia. Sulla costola c’è scritto “1992”. Me lo spedisci? Non lo aprire.
Il giorno dopo si svegliò smarrito. Aveva fatto un sogno: la segretaria, che era una ragazzina con i capelli bianchi e il seno enorme, lo prendeva per mano e lo portava davanti alla porta della legge di Kafka, ma il guardiano non c’era e la porta era murata. Davanti al muro c’era la tomba dell’uomo di campagna e sulla stele che la segretaria gli indicava c’era scritto: “Lo hanno giustiziato perché non ha atteso il segnale acustico”.
Il significato della porta chiusa era limpido e profondo come un lago glaciale: non sarebbe mai riuscito a diventare avvocato, non per incapacità né per apatia, ma perché nessuno aveva bisogno del Dottor Siciliano, avvocato. Il mondo non poteva consentire a un avvocato in eccedenza. La porta era chiusa. L’epitaffio voleva dire che aveva perso l’unica occasione della sua vita.
Non aveva lezione. Salì direttamente in biblioteca, dove trovò il suo amico Carmelo Buccella che leggeva tre libri in parallelo e si mangiava le unghie. Lo trascinò fuori.
– Cosa c’è.
– Voglio fare lo scrittore.
– Ottimo.
– Non hai capito. Voglio fare lo scrittore. Non l’avvocato. Non il magistrato. Lo scrittore.
– Perfetto. Scrivi.
– Da pischello scrissi dei racconti. Poi smisi.
– Perché?
– Non lo so. Forse mi è solo passato di mente. Ci ripenso ora dopo tanto anni.
– Per via del Premio.
– Dici poco! Tu cosa faresti se ti dicessero che Carmelo Buccella ha vinto il Premio Strega?
Non datur. Carmelo Buccella non può vincere il Premio. Carmelo Buccella è un nome che non vince premi.
– Men che meno il mio. Enzo Siciliano è già preso. Devo trovare uno pseudonimo.
Tornò a casa, cucinò con cura una frittata agli asparagi. Il vincitore doveva essere già uscito. Ma non poteva saper niente, non aveva la tv né la radio, toccava aspettare l’indomani. Fu tentato di chiamare la segretaria, giusto per sentire la sua voce, ma non ebbe il coraggio. Studiò in po’, poi si rese conto che non era più necessario e giocò ad Age of Empires fino a notte fonda.
Mattino. Corse in edicola ed eccolo su Repubblica: Siciliano, vittoria scontata. Un articolo astioso, pieno di frecciate, dirette a chi, e per quale motivo, sfuggiva. Un passo lo colpì: “Fra i tavoli scivolavano tartine d’annata e vino bianco a temperatura ambiente, mentre la Bonaccorti prendeva a battibeccare con la Ripa di Meana alla quale citava un brano di Eliot invocando un parere. Ma neanche per idea, replicava la scrittrice, non si può fare a pezzetti il poeta inglese.” Me ne terrò  fuori, pensò, devo solo scrivere.
Scrisse, ma presto si accorse che il problema non era scrivere: in capo a una settimana, aveva già riempito il desktop di documenti e numerosi altri persi in sottocartelle. Il problema era che fare di quello che scriveva. Darlo in lettura agli amici, a sua madre, poi? Chiese a Carmelo.
– Prova coram populo: nei centri sociali.
– Haha. Simpatico.
– In alternativa, buttati su un newsgroup.
– Cos’è?
– Internet.
– E chi ci trovo?
– Chi ci trovi. Tutti. Gente.
Comprò un modem e si abbonò a Internet. Esplorò i newsgroup ma, intimidito dalle gare di insulti tra estimatori e detrattori di Baricco, non mandò niente.
C’era inoltre, non secondario, il problema dello pseudonimo. Non era giusto che lo si obbligasse a nascondersi. Il suo nome era il suo nome e, lo scopriva solo ora, ci teneva quanto ai suoi capelli. Per fortuna, poteva rinviare la scelta fino al momento della pubblicazione, ovvero sine die, e così fece.
Finì il suo primo racconto. Carmelo commentò:
– Non c’è male. Molto alla Céline. Un po’ meno cinico e un po’ più ironico di Céline. E meno bravo, va da sé.
– Céline? E chi è?
– Louis-Ferdinand Céline, medico dei poveri e antisemita. Viaggio al termine della notte. Capolavoro.
– Mai sentito nominare.
– Scrivi tale e quale a lui.
Si aprì con questo smacco il fronte problematico degli altri libri. Nella sua vita, di sua iniziativa, ne aveva letti pochi. Provò a ricordare. Il processo e i racconti di Kafka, quando si era iscritto a Giurisprudenza, perché aveva immaginato che fosse utile. Degli obbligatori del Liceo aveva apprezzato Uno nessuno centomila. Poco altro. I libri erano stati solo compiti, si trattasse del sussidiario, del Codice o dei romanzi che imponeva suo padre, una mano in tasca, l’altra sui baffi, dicendo:
– Chi non legge è un cretino o un figlio di maiala.
Iniziò da T. S. Eliot, And on the king my father’s death before him, e quelle zoccole a far le pose, e quel giornalista, frocio di sicuro, a ironizzare quando si doveva solo sparare. Ma non voleva poesie, voleva romanzi. Prese Céline, si annoiò, lo finì per dovere e il giorno dopo ripassò a mente il libro, non ricordava niente. Provò con Dostoevskij ma non riusciva a ricordare i nomi dei personaggi e ne estraeva solo angoscia. Si volse allora a Calvino, il libraio gli consigliò Marcovaldo, ne lesse dieci pagine e gli parve una pura idiozia. Col Il giovane Holden e Il ritratto di Dorian Gray andò meglio.
Arrivò il pacco con il raccoglitore verde e le ultime cose che aveva scritto prima di dimenticarsi di scrivere. Se ne era così scordato che era come se le avesse scritte qualcun altro. Le rilesse con curiosità: un’occasione rara e grata di guardarsi con occhio obiettivo. Ma scoprì che quasi tutti i suoi scritti erano così noiosi che poteva solo sperare di essere una persona molto diversa da allora. Erano infestati di giovanotti senz’arte né parte che si guardavano le scarpe, riflettevano sulla morte di Dio e poi morivano o si sposavano con una donna crudele che si chiamava sempre Vittoria. (Non ricordava di essere mai stato ossessionato da una femmina crudele). I rari accenni di narrazione erano strozzati da un tono lamentoso e pedante, poi gettati ad affogare in pletore di descrizioni sovrabbondanti di salotti, scrivanie e interni di automobile. Le descrizioni, in sé per sé, non erano male. L’unico che non era del tutto da buttare, infatti, a parte un paio in cui aveva abbozzato la vena céliniana che ora riscopriva, era uno in cui tutti i personaggi uscivano da una stanza, la stanza era descritta con fredda ossessione per dieci pagine, poi i personaggi rientravano ridendo e il racconto finiva.
Rispedì a casa il raccoglitore verde e andò in libreria per comprare cento libri, uno per autore. La selezione, in parte istintiva, in parte per sentito dire, impiegò tre giorni e la spesa fu di 900 mila lire.
Si mise a leggere. Dopo sei mesi, sua madre iniziò a chiedere:
– Quand’è il tuo prossimo esame?
– Il mese prossimo.
Una mattina del nono mese, era già primavera, finì il centesimo libro, Vittorini, Conversazioni in Sicilia (aveva proceduto in ordine alfabetico, ma si era dovuto rinunciare alla W e seguenti perché con Vittorini aveva finito i soldi). Nel mentre, aveva pure avuto cura di aggiornarsi sulla “contemporaneità” nelle pagine culturali dei giornali, dove si parlava di cose come la maturità di Umberto Eco, la freschezza giovane dei cannibali, il mistero di Luther Blissett, il cinismo simpatico di Stefano Benni e, fuori dal coro, Pontiggia… Tutte cose che per qualche motivo lo disgustavano automaticamente, anche se non ne sapeva nulla. Apprestò due nuovi piani di lettura: i “contemporanei”, per l’appunto, e la critica letteraria, ma l’idea di passare altri due anni a studiare era insopportabile e li accantonò.
Nel corso dell’anno, aveva impostato rapporti epistolari, con una procedura semplice: quando apprendeva l’esistenza di un attore della scena letteraria, scriveva una lettera o un’email in cui faceva domande a caso. Gli scrittori di fama non rispondevano, ma gli altri sì, lusingati dalle sue attenzioni, ma timorosi che volesse presentar loro un manoscritto in lettura, si presentavano innanzi tutto come indaffaratissimi. Enzo rispondeva con nuove domande, più specifiche e ancora più a caso.
Nel frattempo la sua vita sociale si era desertificata. I compagni di corso si erano dissolti. Restava Carmelo, ma non poteva tollerare la sua superiorità intellettuale più di una volta a settimana. Bologna era un carnaio incomprensibile che preferiva ignorare.
Decise di andare in ritiro. Affittò una casetta di pietra sull’Appennino emiliano, intaccata su una costa ripida di castagni. Più che una valle, tanto era stretta, pareva una montagna con davanti uno specchio. Ogni mattina usciva sul sentiero di pietre, svoltava dietro, si arrampicava tra ciuffi d’erba scivolosi e veniva a un rialzo sporgente, da dove si vedeva tutto intorno. Pensava: “In the mountains, there you feel free”. Cercava un segno di civiltà: la riga di una strada a tagliare il bosco, un’antenna, ma non c’era. Tornava sotto e si metteva a scrivere. A pranzo mangiava pane e prosciutto e ciliegie che gli portava la padrona di casa, che abitava col marito anzianissimo in una delle altre quattro case del villaggio, e aveva preso Enzo a benvolere, forse perché era giovane o forse solo perché prendeva a benvolere tutti gli inquilini. A sera scendeva al mulino, dove c’era un ristorante. Mangiava tortelli e bistecche, poi tornava su. Scriveva un’altra ora, si affacciava alla finestra ascoltando i richiami delle civette e i fruscii impacciati degli istrici, poi andava a dormire.
Dopo tre mesi tornò in città con un romanzo. Era la storia di uno studente di legge fascista che decide di fare vita da barbone per capire se la feccia della società merita o no la condizione in cui si trova. Dopo esperienze contraddittorie, lo studente decide che tutti meritano i peggiori soprusi e rovesci della sorte. Quella notte, si addormenta ubriaco in un canile ed è sbranato dagli animali.
Carmelo, che nel frattempo si era laureato con lode, menzione d’onore e complimenti personali del Rettore, disse che era buono ma era troppo breve e ci doveva lavorare. Enzo lo rilesse, selezionò i capitoli peggiori e li riscrisse, ma non aggiunse niente perché non aveva idea di cosa aggiungere. Carmelo disse che era meglio ma ci doveva lavorare ancora. Enzo lo rilesse e pensò che che non era in grado di migliorarlo.
– Scrivilo da capo, – disse Carmelo.
– Non ne ho voglia.
– Se ti risparmi non arrivi da nessuna parte.
– Perché, dove dovrei arrivare?
– Dipende. Di certo, se ti risparmi non arrivi né da una parte né dall’altra.
– Dipende da cosa?
– Da dove vuoi arrivare. Se vuoi diventare famoso o scrivere libri belli.
– Non mi interessa diventare famoso.
– E allora riscrivi da capo il libro.
– Farei prima a scriverne un altro.
– Allora perché hai perso tempo a scrivere questo?
– Cosa ne so? È tutto a caso. Come facevo a sapere quale sarebbe stato il risultato?
– Cosa c’entra il risultato. Se hai scritto questo è perché volevi scrivere questo e non un altro.
– Quello che dici non ha senso.
Carmelo si spazzò la camicia con la mano e impostò un sorrisone così forzato da sembrare genuino.
Enzo decise di non rileggere mai più il suo primo romanzo e dedicò il suo tempo a scritture passeggere, a sogni a occhi aperti e agli alcolici. Infatti i soldi che sua madre gli passava erano più che sufficienti per coprire il necessario. Con quelli che avanzavano pagava la birra e il vino che beveva la sera nel bar dove andava a scrivere con il suo quaderno. Imparò che stando in un angolo di bar con un quaderno la gente, fatto inusitato, lo trovava interessante. Quando seppe che era uno scrittore, il padrone iniziò pure a fargli gli sconti. Il via vai di uomini e donne gli insegnò molto di ciò che non aveva imparato prima e si trovò a desiderare ciò che adesso poteva immaginare e non aveva mai sperimentato.
Questo interferiva con la letteratura. Il quaderno si riempì di frammenti senza capo né coda, spesso scriveva così ubriaco che il giorno dopo non li poteva decifrare. Il suo nuovo interesse per gli altri si concentrò su una Giulia molto bassa, che fumava sempre in un angolo di strada fuori dal bar, e tanto sfacciata con lui quanto era timida con gli altri. Carmelo non poteva aiutarlo né capirlo, le donne erano uno dei pochi interessi che non aveva. Trascurando il dottorato, aveva lasciato Bologna per insediarsi nello studio notarile del nonno a Teramo, ma soprattutto era stato eletto consigliere comunale nella lista del CDU al suo paese, ed era il consigliere più giovane di tutto l’Abruzzo. Non faceva mistero dell’opportunismo del suo impegno politico e confessava privatamente che era solo funzionale a una carriera accademica.
Enzo cambiò modi e oggetti del pensiero, in una maniera disordinata che tuttavia sperava seguisse una segreta coerenza, tesa alla formazione di una mentalità da scrittore. Aveva letto in una nota all’Ulisse di Joyce che l’abitudine di Stephen Dedalus di ripetere fra sé quello che gli accadeva per fissarlo nella memoria, cercando insieme di trasformare le persone interessanti in personaggi e i fatti in storie, era un atteggiamento da scrittore, e la stessa cosa capitava a lui.
Prima, la maggior parte del tempo ripassava mentalmente gli studi del giorno, oppure cercava di indovinare che ore erano, quanto mancava all’ora di cena, tra quante ore doveva mettere la sveglia. Adesso se guardava l’orologio non riusciva più a leggerlo, ma pensava alla storia dell’uomo che pensava solo al tempo, a misurare il tempo, a distanziare e frammentare e organizzare il tempo, e facendone un personaggio non era più lui e smise di portare l’orologio. Poi gli venne in mente che poteva benissimo inventare la storia dello scrittore che trasformava tutto in storie, e che se lui era così era solo un personaggio di se stesso, un’invenzione, e che se mai gli fosse venuto in mente di scrivere la sua autobiografia sarebbe stata la storia dell’uomo che non era più niente.
Incapace di trovare uno pseudonimo, spedì il romanzo al Premio Calvino, a firma “Enzo Siciliano (pseudonimo)”. Sei mesi dopo, quando la lista dei finalisti era già uscita da tempo e lui non ne faceva parte, ricevette la scheda di lettura a firma Il Comitato di Lettura:

«Giudizio. Ho affrontato con interesse la lettura del suo romanzo, breve ma denso di umanità e a tratti percorso da una vena di ironia amara e cinica, reminiscente di certe prove céliniane. Tuttavia, la narrazione presto si perde nelle secche di un postmodernismo decadente asfittico e sconfortevole, il cui esito poetico non può che corrispondere al fallimento umano del protagonista, laddove la mimesi si risolve nell’adesione acritica alla crisi, incistandovisi. Da dove veniamo dove andiamo cosa stiamo a fare qui: siamo sempre allo stesso punto e francamente è “pressoché” impossibile per il lettore lasciarsi coinvolgere. Ogni tanto emerge una buona capacità di giocare con le parole e il linguaggio, sebbene ohimè al servizio di una tesi vivaddio fallace, o talora spaziando su territori francamente incomprensibili, viranti sul nonsenso demenziale, o sullo “splatter”. Le consiglio, per il futuro, un sano bagno di realismo e le porgo i miei più sinceri auguri eccetera.»

Enzo riconobbe le ragioni del Comitato e giurò che un giorno avrebbe scoperto il nome del giudice e avrebbe messo la sua lettera in un libro. Decine e centinaia di migliaia di lettori lo avrebbero conosciuto come un intellettualucolo ottuso e rancoroso che non sapeva far di meglio per consolarsi dei fallimenti suoi e della sua generazione che scoraggiare giovani capaci e volenterosi incolpandoli dei mali di una condizione che avevano solo ereditato e con sofferenza tentavano di raccontare, testardamente sperando che potesse servire a migliorare di una frazione la propria vita, e quella di tutti, eccetera.
Ma il consiglio del bagno di sano realismo gli parve buono, nonostante l’errore di posizione dell’aggettivo. Decise di rompere gli indugi e prendersi una donna. Si ubriacò, andò da Giulia che fumava nell’angolo di strada e non disse niente per cinque minuti. Immaginò una storia d’amore tra due persone che non si rivolgevano mai la parola. Poi disse:
– Ti va se andiamo a casa?
Quella notte aggiunse:
– Pensa se andava a finire così: “Giulia tirò una spinta a Enzo e se ne andò”.
Giulia soffiò il fumo, come sempre, come se si liberasse di un fastidio interiore, poi rispose.
Fu un bagno di realismo, sano, ma breve: dopo tre mesi Enzo si accorse che tornava a vivere nel solito mondo indefinito e sognante di sempre, e Giulia era solo un nuovo muro di confine, della stessa materia di sua madre, degli esami e dei libri. Considerò l’idea di rompere con lei, con due argomenti a favore: sarebbe stato un gesto di sincerità verso se stesso e di onestà nei confronti della ragazza, che con tutti i suoi sbuffi di fumo sembrava del tutto all’oscuro dei suoi sentimenti, o forse del tutto priva di interesse verso di essi; e per compiere una specie di ritirata strategica dalla realtà, permettendole di asserragliarsi in una roccaforte di buon senso nel suo animo e così limitare il potere dell’assurdità che ormai vi regnava senza contrappeso. Ma gli venne il sospetto e poi la paura che allontanare una donna perché lo faceva sentire troppo strano lo avrebbe portato a valicare il confine tra la semplice stranezza e la demenza. Perciò non ne fece nulla e visse nell’angoscia, sentendosi allo stesso tempo ipocrita e in lotta contro la pazzia, finché non venne il Capodanno tra il 2000 e il 2001. Alle cinque del mattino scoppiò in lacrime e disse a Giulia che non l’aveva mai amata e l’aveva presa solo perché il Comitato gli aveva suggerito un sano bagno di realismo e aveva pensato che prendere una donna fosse il gesto più realistico che aveva a disposizione, ma si era sbagliato e aveva mancato il punto, perché aveva voluto spostare l’aggettivo per intendere a suo comodo, ma ora capiva che il realismo non era affatto sano, anzi era una pazzia e una depravazione, una corsa di cavalli morti, e l’unica cosa sana era il bagno, tuffarsi in acqua, rinfrescarsi e pulirsi e uscire, asciugarsi e andare per la propria strada.
Giulia si accese una sigaretta e se ne andò. Nel pomeriggio del primo di gennaio, al risveglio, Enzo trovò sul cellulare che Giulia gli aveva comprato per Natale il primo sms della sua vita. C’era scritto:
“Me ne fotto di te e delle tue seghe mentali sei solo una merda.”
Come a suo tempo quelle del Comitato, Enzo riconobbe le ragioni di Giulia e non insistette per spiegarsi ulteriormente, ben contento, al di là del dolore e della vergogna, di cavarsela così a buon mercato e potersi dedicare a capire cosa ne sarebbe stato di lui.
Dapprima non cambiò niente: solo, al posto della presenza di Giulia nella sua vita c’era l’assenza di Giulia dalla sua vita, ma erano più o meno la stessa cosa. Dopo un mese l’assenza di Giulia divenne l’assenza di chiunque. “Mi manca chiunque” era una frase di David Foster Wallace (credendo che il cognome fosse “Foster Wallace”, aveva letto i suoi libri alla F), o Joseph Heller, non ricordava. Comunque fosse, anche questa era più o meno la stessa cosa.
La cosa che cambiò fu che si rimise a leggere a scrivere e, secondo il suo desiderio, lesse da allora quello che gli capitava, senza piani prestabiliti, e scrisse una serie di racconti fantastici, con fantasmi, mostri e aporie spaziotemporali.
In sei mesi scrisse quindici racconti. Siccome non aveva mai smesso di mandare email pretestuose agli addetti al settore, come erano stati ribattezzati i letterati del nuovo millennio, ed era ormai in buoni rapporti con alcuni di essi, trovò modo di far pubblicare i racconti man mano che li completava, su riviste Web e cartacee dotate di un certo prestigio fra, appunto, gli addetti al settore. Non faceva alcuna distinzione tra i diversi indirizzi culturali, che del resto gli sembravano anch’essi del tutto pretestuosi, ma non mancò di notare che le pubblicazioni si dividevano in tre grandi categorie: i discepoli di Foucault, gli orfani di Pessoa e gli zombi del Situazionismo. Questi ultimi si distinguevano per l’orgoglio con cui proclamavano la loro condizione “underground” ed erano quelli che gli stavano più simpatici, perché erano i meno invidiosi delle cattedre di insegnamento che non avevano. Anche se, doveva riconoscere, i foucaultiani, pessimi prosatori, erano molto più solidi dal punto di vista teoretico e i pessoani, tonti come pecore, dal punto di vista poetico. Comunque, tutti pubblicavano con apparente piacere i suoi racconti, anche se poi nessuno si prendeva la briga di commentarli, né in critica né in lode.
Finché un giorno di giugno non apparve un commento in calce un ultimo racconto che aveva pubblicato qualche mese prima sul portale “Mostro Online”:
“Spezzamerda ha detto: Ti conosco pustolina sei quel coglione che spara cazzate sul nostro forum sono contento che non ti vergogni di mettere il tuo nome da terrone sotto le tue narrazioni vomitevoli, così tutti sapranno per sempre che fai schifo come scrittore e come uomo scrivi malissimo nasconditi perché non ti vai a seppellire?”
Enzo rispose:
“Ciao Spezzamerda, credo che hai sbagliato persona perché non so di cosa parli, dato che non frequento alcun forum. Inoltre, Enzo Siciliano è uno pseudonimo. Cordiali saluti Enzo Siciliano.”
Mezz’ora dopo:
“Continua pure a fare il finto tonto sfigato tanto tra poco tu e tutti i tuoi amichetti di Indymedia froci zecche comuniste farete la fine che meritate a Genova ve lo rompiamo nel culo e poi vi facciamo a pezzi viva il Duce viva il Nero Cavaliere.”
Ne fu così agitato che telefonò a sua madre.
– Mamma cosa c’è a Genova?
– L’acquario. E i genovesi.
– Mamma non ho voglia di scherzare.
– E io sì, uno pari. Non li leggi più i giornali?
– Ho smesso. Motivi professionali.
– E poi chiami tua madre per farti la rassegna stampa. A proposito, hai ricevuto il vaglia?
– Sì. Grazie mamma.
– Di niente. Dimmelo sempre se hai bisogno di soldi.
– Sì mamma.
– Per me è un piacere aiutarti quando ne hai bisogno.
– Sì mamma. Grazie.
– Quando hai l’esame?
– A settembre, credo. Mamma, cosa c’è a Genova.
– Il G8. I Capi dei Governi degli stati più importanti del mondo, non mi chiedere quali sono, si riuniranno per tre giorni a Genova con ordine del giorno: non ne ho idea. È prevista una manifestazione di protesta di grandi dimensioni. In conseguenza di ciò l’accesso al centro di Genova verrà chiuso con barriere e blindati e gli accessi protetti da migliaia di agenti delle forze dell’ordine.
– Migliaia. Perché?
– Perché si temono disordini.
– Si temono? Chi teme?
– I Governi. Noi. Tutti. C’è un timore diffuso di disordini. I manifestanti annunciano battaglia.
– Quali manifestanti? Perché?
– Ah non lo so. Io sono vecchia e tu sei giovane, lo saprai meglio tu. Piuttosto. Lo sai che settimana scorsa era l’anniversario della morte di tuo padre?
– No. Me ne sono dimenticato. Perché non me l’hai detto?
– Me ne sono dimenticata.
– Quanti anni sono?
– Ventuno.
– Tanti anni.
– No. Pochi.
Comprò una tv. Il giorno del G8 si mise sul divano e seguì gli eventi, dai primi scontri all’omicidio di Giuliani a Bruno Vespa alla spedizione della Diaz. Allora è vero, si disse, il Nero Cavaliere l’aveva con lui e con quelli come lui e spingeva tutti i neutrali dall’una o dall’altra parte. E i suoi nemici venivano sottomessi ed entravano in clandestinità, per decenni, forse per tutta la vita. Questo era eccitante, gli faceva piacere sentirsi dalla parte di qualcuno, anche se non sapeva di chi, né perché, e per la violenza incomprensibile di qualcun altro. Restava qualcosa però, un significato oscuro che bussava dietro la filigrana delle immagini grottesche e orribili della tv, che Enzo sentiva ma non riusciva a inquadrare, che lo gettava nella vertigine di uno spazio bianco senza confini, una bolla di saliva lattea nella bocca senza denti di un neonato urlante, finché due mesi più tardi con la distruzione delle Twin Towers tutto fu chiaro: il fantastico era un inganno del pensiero e tutto era possibile; la realtà era assai più vasta dell’immaginazione e procedeva da regole sconosciute, oggetto dimenticato della saggezza, mentre gli uomini generazione dopo generazione si assoggettavano alla sua parodia, il desiderio, alle sue leggi meschine, ai suoi traguardi insignificanti.
Enzo abbandonò Bologna per tornare a vivere con sua madre a Monza. Vi rimase dieci anni e in questo tempo non vide nessuno e lesse più di mille libri e scrisse un libro di mille pagine.
Quando ebbe completato la sua opera, prese un treno per Roma e là si impegnò perché qualcuno la leggesse e la pubblicasse. Trovò che gli addetti al settore erano rimasti gli stessi ed erano ancora ben disposti nei suoi confronti. Pochi mesi dopo concluse un contratto per la pubblicazione dell’opera con un editore di medie dimensioni, rispettato dalla comunità, senza anticipo ma con mille e cinquecento copie di tiratura per il primo volume e cinquecento per il secondo, un ottimo affare sotto tutti gli aspetti.
Nell’aprile del 2012 Enzo si presentò alla Fiera del Libro di Torino per firmare qualche copia. Vagò per gli stand senza darsi pensiero di niente, finché non venne a quello della massoneria, dove ricordò che si era ripromesso di leggere un libro di Crowley e pensò che poteva comprarlo lì. La donna dietro il banco aveva un rossetto rosso ed era piena di sorrisi.
– Se vuole abbiamo anche Moonchild.
Nella sua voce una vibrazione di ilarità trattenuta e una nota di stanchezza.
– Tu sei quella ragazza che rispondeva al telefono della segreteria del Premio Strega Alberti quindici anni fa.
– Ci conosciamo?
– Sì. Il mio vero nome è Enzo Siciliano e sei la donna più importante della mia vita.
– Sono sposata.
Apparve Carmelo con le braccia aperte e le strinse intorno a Enzo, un uomo in Armani, un sorriso lucidato dalle alogene, un sigaro spento in mano, niente capelli.
– Ti presenterei mia moglie ma non mi ricordo come si chiama. Ah, devi venire stasera alla festa. Sono un lettore della domenica e ti posso presentare qualcun altro così vediamo di dare una spintarella al tuo scartafaccio. Senza illusioni, chiaro. Io stesso, per la mia anima, non sono riuscito a leggere più di trenta pagine. Un capolavoro assoluto.
Il romanzo di Enzo narra in dettaglio minuzioso la vita e le opere del filosofo George Camilleri, nato nel 1970 in una comune del messinese da madre francese e padre siciliano. Nel corso dell’immensa opera, si alternano alle parti più propriamente biografiche esposizioni della filosofia di Camilleri (un tentativo di neoumanesimo egalitario e libertario, percorso tuttavia da una profonda sfiducia nelle possibilità morali dell’uomo, e accompagnato da un inquietante apprezzamento per il ruolo rigeneratore della violenza, che culmina nel concetto di “civiltà del massacro”; memorabili le pagine dedicate alla distinzione tra massacro, strage, ecatombe e sterminio). Oltre a queste, il romanzo presenta numerose digressioni storiche, sociologiche e di altro genere su periodi e temi che incrociano l’esistenza di Camilleri. La vita del filosofo, relativamente priva di eventi, è raccontata con scrupoloso dettaglio: da una gioventù nevrotica e reclusiva, all’amore di una vita per la famosa attrice americana Victoria Fair, non corrisposto, ai difficili rapporti con il padre culminanti nella morte di questi per infarto dopo un litigio, all’entusiasmo per la filosofia in seguito alla lettura di Kierkegaard, alle ossessioni riguardo al tempo e alla durata della vita, all’attività di insegnamento a Bologna, parallela a un’oscura ma copiosa produzione saggistica e letteraria.
Questa incompletissima rassegna non può rendere giustizia della profondità e caleidoscopica ricchezza del resoconto, che pur rimanendo compatto affronta con vigore una quantità di questioni che ha pochi eguali nella storia della letteratura mondiale. Il romanzo termina nel 2012 con l’apparente suicidio del protagonista.

[Questo racconto uscirà a marzo nell’antologia Selezione naturale. Storie di premi letterari edita da Effequ edizioni a cura di Gabriele Merlini]

Cecità o censura? L’ affaire Saramago

12

di

Paolo Valsecchi

saramago

Un blogger di nome Saramago

Nel settembre 2008 l’ottantacinquenne José Saramago, premio nobel per la letteratura, annuncia a tutti i suoi lettori l’apertura di un blog personale nel quale raccontare e riflettere, ma anche e soprattutto criticare e contestare il mondo contemporaneo e le sue assurde contraddizioni.Per Saramago, infatti, “Lo scrittore, se appartiene al suo tempo, se non è rimasto ancorato al passato, deve conoscere i problemi del tempo in cui gli è capitato di vivere. E quali sono questi problemi oggi? Che non ci troviamo in un mondo accettabile, anzi, al contrario, viviamo in un mondo che sta andando di male in peggio e che umanamente non serve»
Per il maestro portoghese, da sempre voce critica e controversa, il blog diventa un vero e proprio, “cahier de doléances”: «una raccolta di brani mordaci, intimi e polemici. Riflessioni in cui lo scrittore si permette di dire la sua sulle vicende di attualità politica, economica, culturale o sociale che più lo colpiscono. Ce n’è per tutti: da Bush a Blair, da Aznar al Papa e Fidel Castro, passando per Guantanamo, le colonie israeliane, Davos e Wallstreet» Le parole usate non possono che essere forti, dure e incisive, soprattutto quando il suo obiettivo sono i politici (per fare un esempio, George Bush è definito «un cowboy che avesse ereditato il mondo e lo confondesse con una mandria di buoi») o il sistema economico («Crimine contro l’umanità è anche ciò che i poteri finanziari ed economici, con la complicità effettiva o tacita dei governi, freddamente perpetrano contro milioni di persone in tutto il mondo […]» Chi conosce Saramago non sarà sorpreso da queste parole: non ha, infatti, mai fatto mistero della sua militanza nel partito comunista portoghese già a partire dal 1969 (quando ancora operava in clandestinità durante il regime salazarista). Un comunismo “impenitente” il suo, tanto che alla domanda se avesse ancora senso oggi continuare a esserlo rispose: «Il comunismo, per me, è di natura ormonale. Oltre all’ipofisi, io ho nel cervello una ghiandola che secerne ragioni affinché io sia stato e continui ad essere comunista.»

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Chi scrive sul blog non è, infatti, il Saramago narratore, intellettuale e premio nobel: ma è anzitutto l’uomo e cittadino immerso nella contemporaneità che osserva, descrive, analizza e critica, spinto dal suo estremo senso della denuncia sociale, gli valse numerose critiche e accuse di essere un pedante pessimista e incappare in “eccessi di indignazione”.
Polemiche queste, che come illustrerò in seguito troveranno terreno fertile anche nel nostro paese, cui il Nobel portoghese non esiterà a controbattere con la sua solita forza espressiva: «Dicono che sono un pessimista. Io ribatto dicendo che sono i pessimisti a cambiare le cose. Chi è ottimista è felice e soddisfatto, quindi non ha nessun motivo per cercare di modificare lo status quo» o ancora: «Mi riferisco ai miei addotti eccessi di indignazione. […] La mia domanda sarà dunque altrettanto semplice delle mie analisi: ci sono limiti all’indignazione?»


Un caso tutto italiano: la (mancata) pubblicazione

Scritti dunque controversi, pungenti e provocatori, come sono spesso state le opere e gli interventi dello scrittore portoghese. Tant’è che la pubblicazione libraria della raccolta dei primi sei mesi di interventi sul blog, sarà al centro di polemiche tutte italiane tra rifiuti editoriali e accuse di censura.
Ad aprile 2009 era infatti uscito in Portogallo e poi in Spagna O Caderno, la raccolta in volume dei post apparsi tra settembre 2008 e marzo 2009: tutti si aspettavano anche la pubblicazione in Italia da parte di Einaudi, che da circa vent’anni era la casa editrice del Nobel lusitano. Ma a sorpresa il libro verrà rifiutato.
Il motivo è rappresentato dai duri attacchi rivolti in alcuni scritti contro Silvio Berlusconi, capo del governo nonché proprietario della casa editrice. Saramago non lesina parole e non usa mezzi termini nei suoi confronti, definendolo in uno dei passaggi più contestati “un delinquente” e un mafioso.

«In effetti, nel paese della mafia e della camorra, che importanza potrà mai avere il fatto provato che il primo ministro sia un delinquente? In un paese in cui la giustizia non ha mai goduto di buona reputazione, che cosa cambia se il primo ministro fa approvare leggi a misura dei suoi interessi, tutelandosi contro qualsiasi tentativo di punizione dei suoi eccessi e abusi di autorità? O ancora: «Un voto che, con sommo gaudio di una maggioranza di destra sempre più insolente, ha finito per fare di Berlusconi il padrone e signore assoluto dell’Italia e della coscienza di milioni di italiani..»

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Il primo giornale a dare la notizia del rifiuto di pubblicazione da parte della Casa dello Struzzo, il 28 maggio 2009, è L’Espresso (subito ripreso da L’Unità) con l’articolo di Mario Portanova intitolato «Al rogo Saramago» che si interroga sulle motivazioni di una tale decisione:
«(Einaudi) ha fatto una scelta di mercato o ha imposto una censura? La nuova opera, infatti, contiene giudizi a dir poco trancianti su Silvio Berlusconi, che di Einaudi è il proprietario.[…]Dall’’entourage dello scrittore filtra soltanto la conferma che Einaudi ha rifiutato il testo, dicendosi interessata solamente alle opere narrative di Saramago e non ai suoi saggi. Nell’ambiente editoriale, invece, viene citato esplicitamente il brano sui “vizi” berlusconiani come pietra dello scandalo».
Ovviamente le risposte dei diretti interessati non si fanno attendere. Il giorno seguente l’editore, tramite un comunicato stampa ripreso da molti giornali, difende la legittimità della sua scelta:
«Einaudi – si legge – ha deciso di non pubblicare O Caderno di Saramago perché fra molte altre cose si dice che Berlusconi è un delinquente. Si tratti di lui o di qualsiasi altro esponente politico, di qualsiasi parte o partito, l’Einaudi si ritiene libera nella critica ma rifiuta di far sua un’accusa che qualsiasi giudizio condannerebbe. […]Sarebbe allora grottesco che la casa editrice si facesse convocare un giudizio per diffamazione della sua proprietà con la certezza di venire condannata»

Da parte sua anche l’autore, intervistato dal Corriere interviene senza mezzi termini, ribadendo di aver rifiutato la richiesta di “edulcorare” le pagine più scottanti: «Ho conosciuto la censura durante la dittatura portoghese, l’ho sofferta e combattuta e nessuno in una situazione di apparente normalità democratica mi potrebbe chiedere di amputare una mia opera»
Ci sono tutti gli elementi affinché la polemica scoppi immediatamente: da un lato chi vi vede un vero e proprio atto di censura e dall’altro chi difende la legittima libertà di un’azienda nel seguire la linea editoriale che meglio crede e di non pubblicare un libro che ne diffama il proprietario.
Ad alimentare ulteriormente il dibattito contribuiscono anche alcune ulteriori pagine di Saramago comparse proprio in quelle settimane sul quotidiano spagnolo El Pais e sul blog, contenenti parole ancora più forti e attacchi diretti a quella che viene chiamata “la cosa Berlusconi”: un nuovo e peggiore “Catilina” che «non ha bisogno di dare l’assalto al potere perché è già suo, ha abbastanza soldi per comprare tutti i complici che siano necessari, compresi giudici, deputati e senatori» , un «virus che mi minaccia di essere la causa della morte morale del paese di Verdi» Commenti che dunque, sebbene non siano direttamente implicati nella questione editoriale de Il Quaderno, godono comunque di enorme eco in Italia, presso una stampa sempre più schierata e che guarda con estrema attenzione agli interventi del maestro portoghese. Non è un caso dunque, proprio perché è anzitutto politico il piano su cui si dibatte, che sia soprattutto la stampa più vicina al governo quella che difende l’operato e la legittimità della casa editrice. In questo senso, emblematico delle varie argomentazioni addotte è il titolo dell’articolo de Il Giornale firmato da Caterina Soffici «Se scrivo in un libro che l’editore è un delinquente, lui è obbligato a pubblicarlo?»

Alcune riflessioni

La controversia, che si concluderà con l’abbandono di Einaudi da parte dello scrittore portoghese c con la pubblicazione de Il Quaderno presso Bollati Boringhieri, ha avuto il merito di fare emergere una serie di dati strutturali sulla situazione del nostro paese e in particolar modo sullo “stato di salute” del sistema editoriale. Saramago infatti, non “insulta il proprio editore” come hanno scritto alcuni commentatori filo-einaudiani (e filogovernativi?) ma critica anzitutto il capo del governo italiano. Ed è un certo senso “l’anomalia” del sistema italiano che fa si che le due figure si sovrappongano nella persona di Silvio Berlusconi. Questa, che può anche essere vista come una differenza pretenziosa e solo formale, credo sia invece un dato assolutamente importante per poter comprendere la vicenda, che si lega strettamente con il decennale dibattito sull’esistenza – o meno – di conflitto d’interessi. Il merito che certamente ha avuto Il Quaderno è stato quello di riaprire l’eterna questione del rapporto tra stampa e potere, dibattito che in Italia, proprio per le singolarità di cui sopra, ha un’importanza assolutamente maggiore rispetto ad altri paesi. Si spiega cosi il motivo di un tale interesse e di una tale eco suscitato dalla vicenda. E’ infatti un dato che il sistema editoriale italiano sia sempre più monopolizzato dai grandi gruppi editoriali, a discapito quindi del pluralismo. Situazione, a mio parere, già di per sé pericolosa e che nel nostro paese è aggravata dallo stretto legame tra media e politica.

Secondo i dati dell’Associazione Italiana Editori, infatti, i 3 più grandi gruppi editoriali (Mondadori, Rcs, GeMS) pubblicano il 50% della produzione libraria nazionale e in particolare il Gruppo Mondadori sfiora da solo il 28%. E cosi, può persino capitare uno dei più amati, letti e venduti scrittori, premio Nobel per la letteratura, venga rifiutato.
Concluderei con l’amaro commento alla vicenda, che è anche invito alla riflessione lasciato da Vincenzo Consolo: «Mi è sembrata una storia davvero sgradevole, un caso di censura bella e buona, particolarmente grave visto che colpiva un autore della sua statura. E mi ha spinto a riflettere su come un’attività come la letteratura, per molti versi oggi considerata marginale, abbia evidentemente ancora la capacità di disturbare i poteri forti.» Il risultato più forte ottenuto da Saramago con questi interventi è stato infatti la forte e intransigente rivendicazione della necessità, e della legittimità, del ruolo dell’intellettuale di essere vera e propria coscienza attiva della società civile.
Scrittore controcorrente, radicale, “eretico”: Saramago è uno scrittore che non ha mai avuto paura di schierarsi e che “obbliga” il lettore a fare lo stesso. Perché se anche non si dovessero condividere le sue idee, certamente bisogna riconoscerne il grande coraggio e la totale libertà di pensiero, il suo essere sempre contro ogni ortodossia e contro ogni “pensiero unico”. «Dissentire è uno dei diritti che mancano nella Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. L’altro è il diritto all’eresia.»

Da “Parti di un’autobiografia”

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di Alberto Casadei

 

Era normale soffrire nella camera in cui già tanti erano passati. I vestiti neri, come quelle scarpe, gli occhi atteggiati alla circostanza e altri meno abili. Continuavano a stringergli la mano. Poi si chiedevano se era un figlio onesto, se non avrebbe dovuto piangere o mostrarsi diverso, se i familiari tenevano un contegno degno fino al giusto segno.

Camera con vista : Frames e Poiesis

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La “videopoesia” appare nella ricerca artistica nell’ambito della neonata, fertile, sperimentale videoarte, e quasi subito si manifesta una linea di ricerca che percorre le relazioni, associazioni, fusioni tra il nuovo linguaggio video e il linguaggio poetico, anch’esso attraversato e scardinato da sperimentazioni e rovesciamenti.
Da allora, la videopoesia, così come la videoarte, si moltiplica in opere, generi, ricerche, forme linguistiche, mezzi tecnici, pratiche creative ecc. Sotto il termine-ombrello si trova caoticamente e fecondamene di tutto: documentari di reading poetici, animazioni video, computer grafica, ecc.

La ricognizione idealmente inizia con due opere “storiche”, assunte quasi simbolicamente come collegamento al passato, dal futurismo in poi, e come premesse dell’oggi: “the enemy” di Caterina Davinio del 1997 e ”il punto sulla situazione poetica” di Paolo Albani. Seguono 14 opere scelte, tenendo conto anche di caratteristiche di durata e fruizione in una mostra, tra quelle ritenute più significative in due sensi. Innanzitutto, come opere in sé, nel proprio interesse specifico frutto di interrelazione stimolante (per contrasto, equilibrio, scarto etc) tra il linguaggio della poesia (parola, ritmo…) e quello del video (immagine, montaggio, elaborazioni elettroniche….). Ma anche come esempi notevoli di una ricchezza di linguaggio praticata e possibile, delle differenze di oggetto (dall’interiorità alla denuncia sociale), di utilizzo della tecnologia (dalla più sofisticata alla più semplice), di elaborazioni creative (dalla poesia al video o viceversa), di responsabilità autoriale (collaborazione tra poeta e videomaker ).

Ecco allora il melting pixel di Elena Chiesa, la video cell di Giacomo Verde, le riprese col net book di Biagio Cepollaro, l’animazione in Flash di Paolo Gentiluomo, la mistura di blog, youtube, face book ecc. di Francesco Forlani, la citazione cinematografica di Matilde Tortora, le tecniche di basso livello di Bortolotti, il piano sequenza di Dedenaro, la dissolvenza di Dome Bulfaro,le citazioni scientifiche di Giusi Drago, le sovrapposizioni di Marco Giovenale, il crudo realismo di Alberto

La relazione stretta tra il testo poetico e il video (l’eguale rilevanza che i due specifici rivestano per l’opera di poesiavideo) può anche essere considerata una sorta di isotopia. Occorre poter riscontrare lo stesso elemento strutturale e formale con eguale valore semantico in entrambi gli ambiti per poter definire come opera di poesiavideo un determinato lavoro.
Ad esemplificare tale discorso consideriamo soltanto tre casi tra le opere che abbiamo scelto.
Nel caso di Chiesa il testo poetico dice di unione e separazione a livello sintattico e fonosimbolico oltre che propriamente semantico, mentre il video propone contemporaneamente proprio questo tema dell’unione e della separazione attraverso le immagini animate.
Nel caso di Dedenaro il testo poetico consiste in un flusso costante di pensieri esattamente come le immagini del camminare. L’andamento ritmico dei piedi nella camminata ripete l’andamento costante di una sorta di monologo interiore che si manifesta nello scorrere di una scritta che appare in basso sullo schermo.
Nel caso di Bulfaro la tecnica della dissolvenza ripete ciò che il testo poetico dice a proposito del proprio dissolversi, della propria cancellazione.

In definitiva, il rapporto tra video e testo poetico non è all’insegna della mimesi, dell’illustrazione del ‘contenuto’ ma della ripetizione di un elemento formale proprio allo specifico sia del testo poetico che del video, tesa ad arricchire semanticamente lo stesso tema. Il contributo che le due arti si offrono reciprocamente riguarda essenzialmente il proprio piano formale che viene indagato per stimolazione reciproca. Tale contributo formale poi, avendo rilevanza semantica e arricchendo il tema della composizione complessiva, genera un prodotto finale del tutto nuovo. In questo caso il tutto è superiore alla somma delle sue parti.

Nel DVD della mostra, organizzato non per ordine alfabetico o cronologico ma ritmico,sono presenti oltre a due omaggi a opere storiche, quelle di Davinio e Albani,
esempi di proficua collaborazione tra poeta e filmaker
esempi di sconfinamenti che hanno portato poeti ad avvicinarsi al linguaggio video
esempi di filmaker che hanno fatto altrettanto col linguaggio poetico
esempi di perfetto bilanciamento tra le due anime.
In questa mostra ai primi cinque è dedicato un approfondimento attraverso delle postazioni video. Nei prossimi appuntamenti proporremo altri autori e altri ne approfondiremo con postazioni dedicate. Altre due postazioni sono dedicate ai festival “Trevigliopoesia” con i vincitori di questi sei anni. E a Doctorclip di Romapoesia.

Elena Chiesa Metà e metà Durata: 0’59’’

Giacomo Verde  Alle rotaie Poetry Video cell: Pisa 28-01-2011) Durata 3’00”

Biagio Cepollaro.  Poesia in net-book  Durata: 1’

Paolo Gentiluomo, Emanuele Magri, Teo Telloli
Da “Botanico botanizzato”: Ermaphroditus Etruscus  Durata : 1’.

Francesco Forlani Paysages  2012 Durata: 2’12’’

Matilde Tortora, O. Garofalo (Montaggio)
Alla ricerca della scarpa perduta, 2012 Durata:6’30’’

Paolo Albani  La situazione poetica Durata 1’41”

Gherardo Bortolotti, Andrea Cavalleri
Bgmole nell’infraordinario (1-12) 2008 Durata: 4’28’’

Caterina Davinio The Enemy da Videopoesie terminali. 1997

Roberto Dedenaro, Meri Gorni,  Raffaele Maria Dolci
vocabolario, alla voce : parola settembre  1998  Durata 2′ 00″

Dome Bulfaro, Alessandro Leone (riprese e montaggio)
Sfumato in punta di piedi contatto n.23 18 aprile 2008 Durata 2’23

Giusi Drago Biagio Cepollaro
Trittico di nessuna profondità 2012 vide Durata: 2’43

Marco Giovenale, Asia Nemchenok Il segno meno  Durata: 4’58’’

Alberto Mori, Gino Ginel Montaggio Eterotopòs ottobre 2005 Durata 3’ 23

Alessandro Broggi, Giuliano Guatta disegni, Codeghini  (editing)
Dirittura.  Durata 2’32”

Mireille Saliba Autoritratto Durata 1’44

3 prose brevi (Ollivùd 2)

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di Andrea Inglese

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Agente immobiliare

 Capurro era sicuro di non avercela con le donne. Non sempre le cose erano andate bene, anzi dopo Anita malissimo, o per meglio dire nulla. Non s’innamorava più, non destava in loro alcun interesse, aveva smesso persino di scopare. Di notte sognava di essere accanto ad Anita, nel bagno della vecchia casa dei nonni. Entrambi guardavano una fila di post-it incollati contro lo specchio con le date degli anni passati assieme.

Storia per Enrique Vila-Matas, scrittore

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di Giovanni Dozzini

Ho come l’impressione che a Enrique Vila-Matas, il vertiginoso scrittore spagnolo, la storia che sto per raccontare, con i suoi molteplici intrecci tra letteratura e vita, piacerebbe moltissimo. Intendiamoci, non è che significhi molto. E con ciò intendo dire che non si tratta di una di quelle vicende che reclamano attenzione per il semplice fatto di apparire così come appaiono alla totalità della gente, vicende fatte di accadimenti che si susseguono e trambusti ed eclatanti passioni o sentimenti. Questa storia, che è una storia vera, ha un suo valore solo nel momento in cui le si dà una lettura determinata, dipendente da chi la dà e da come sia arrivato ad avere a che fare con essa. Insomma, caro Enrique, autore amato e guardato sempre con un po’ di sospetto, io te la vorrei dedicare. Anzi, raccontare.

Impegno chiarito

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di Antonio Sparzani

va bene, mi rendo conto che il mio programma enunciato l’altro giorno, presenta ancora dei punti oscuri, dei nodi non risolti, qualche fustillo fuori posto e anche dei chiossetti non bene esplicitati. Per cui mi decido a entrare nel merito della bulicanza e a dichiarare ormai esplicitamente dove stanno le mie preferenze, che del resto, come tutti ormai sapete, si concentrano sulla magica e mitica Serdàna,

“E se il mondo non imparerà la lezione che queste immagini insegnano, la notte tornerà a cadere.”

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[ Bergen Belsen – Aprile 1945 – liberazione del campo ]

BENJAMIN BRITTEN
Requiem Aeternam and Requiescant in Pace
WAR REQUIEM [1962]

 

 

di Orsola Puecher

Ogni anno il ⇨ 27 Gennaio Giorno della Memoria, volenti o nolenti, si presenta una motivazione forte e contingente per scrivere, documentare e ricordare agli smemorati e ai negazionisti di turno la ⇨ Memoria dei Campi, titolo del documentario incompiuto sulla liberazione dei campi di concentramento nazisti, in cui ho vissuto fotogramma per fotogramma quest’ultima settimana, traducendone i sottotitoli:

Nell’Aprile del 1945 alcune troupe televisive con gli eserciti inglese e americano entrarono nei campi di sterminio nazisti e filmarono l’orrore che vi trovarono. Per decenni questo film e’ stato conservato negli archivi dell’Imperial War Museum di Londra. Il documentario e’ rimasto incompiuto, con le tracce audio mancanti. Ma i registi, tra cui Alfred Hitchcock, avevano elaborato un testo per accompagnare le immagini…

Forse non è facile da comprendere, ma per chi ha nella sua famiglia le vittime di questa memoria, ripercorrerla è sempre un’esperienza da cui è difficile uscire indenni. Il passare degli anni, con le sue lontananze, le sue nuove perdite, acuisce questa sofferenza così particolare. Essa non è mai solo un lutto individuale, che ha sempre un suo termine di elaborazione, in cui al dolore vivo si sostituisce piano la dolcezza dei ricordi, ma si estende, si espande in spazi e tempi vasti e sempre più risonanti delle singole voci, delle storie personali che diventano epica e storia. Il corpo di chi non è tornato è tutti quei corpi ammucchiati, anonimi, irriconoscibili nella comune consunzione e diventa un grande corpo comune. Il dolore per uno si moltiplica milioni di volte nel dolore per tutti.
La pietà facile e l’edulcorazione dei fatti, l’approssimazione dei dati storici ad usum letterario, poetico o cinematografico, una certa estetica del dolore e la retorica a cui questo porta, inevitabilmente e forse involontariamente, non devono essere confuse con un’operazione di ricordo oggettivo dei fatti.
Memory of the Camps, montato a caldo a pochissima distanza da avvenimenti di cui ancora si sapeva poco o nulla, non fu portato a termine di sicuro perché avrebbe avuto un impatto molto forte a livello emotivo per la crudezza dei filmati, che perdura ancora anche oggi, che con certe immagini abbiamo un vissuto di già visto, che ne potrebbe stemperare l’atrocità, ma sopratutto a livello politico avrebbe scompigliato un certo clima di ripresa a tutti i costi, di euforia del dopoguerra che indusse per molti anni non voler riprendere in mano le fila di un momento storico tanto cruciale
Le lunghe sequenze silenziose della liberazione del campo di Bergen Belsen, che mostrano le SS costrette per contrappasso al pietoso lavoro di sepoltura, a mani nude, i Borgomastri dei paesi limitrofi e i loro abitanti costretti a capo chino ai bordi delle fosse comuni, le floride SS donne, ben pettinate, nelle divise impeccabili dagli stivali lustri, che ascoltano con visi impenetrabili il discorso in tedesco diffuso dall’altoparlante di un furgone, che le inchioda alle loro responsabilità, non hanno nulla a che vedere con la partecipazione generica al dolore delle vittime, con la pietà indistinta delle commemorazioni.
La convinzione forte che i Tedeschi non potessero non sapere quello che accadeva a pochi chilometri dai frutteti in fiore nella primavera e dalle linde fattorie, e che ne fossero complici, insieme alla definizione del sistema economico di sfruttamento legato ai campi di concentramento, erano sicuramente ai tempi un taglio molte forte, che sconsigliò, anche per motivi di opportunismo diplomatico, la diffusione e l’ultimazione del documentario.
Un dato sorprendente è la scelta, forse consapevole o forse dettata dalla mancanza in quel momento di informazioni precise sulle cifre delle vittime, di non focalizzare lo sterminio sulla Shoah ebraica, ma su tutti i deportati, quasi che universalizzando il male e non attribuendogli precise motivazioni razziali o ideologiche, esso fosse ancora più evidente e riprovevole. Oggi si tende facilmente a dimenticare il sacrificio di oppositori politici, omosessuali, zingari, persone con handicap fisici o mentali.
Questa sensazione di tragedia corale di uomini di tutte la nazionalità, idee politiche e religioni guancia a guancia in una tomba comune, dalla fredda elencazione di numeri ci riporta a una folla di visi, di sguardi, di maschere congelate nel momento del trapasso, di corpi morti per cui finalmente avere pietà e cura nei sette terribili giorni di funerali, ma anche vivi, esausti, barcollanti, nei sorrisi, nella rabbia, nella dignità ritrovata nell’indossare di nuovo vestiti umani. Di corpi che si sciolgono in gioia sotto il miracolo dell’acqua calda.
L’occhio della cinepresa sceglie di non nascondere nulla dei vivi e dei morti, dei sommersi e dei salvati.

Mio nonno Giorgio Puecher era uno di questi “politici”. Fu ⇨ deportato a Mauthausen dopo la fucilazione del figlio ⇨ Giancarlo, per estensione di colpa, per pura ritorsione e fu tra quelli che non riuscirono a tornare, annientato del tifo, pochi giorni prima della liberazione del campo.
La sua morte è descritta nelle pagine di un piccolo libro, uscito nel 1967, scritto da un suo compagno di prigionia, il militante socialista Mino Micheli, uno dei pochi sopravvissuti. Mi era sempre stato risparmiato di leggerlo. Ma ho vivo il ricordo delle lacrime di mio padre, del suo mutismo per giorni dopo averlo avuto fra le mani. Le lacrime di un adulto per un bambino sono sempre qualcosa di inaspettato e di indelebile. Riordinando le biblioteca l’ho trovato per caso, qualche tempo fa, nascosto dietro ad altri libri. Si è aperto da solo al punto esatto. Le pagine del breve capitolo XIII, da 122 a 128, sono staccate e spiegazzate, sfrangiate ai bordi e segnano una frattura nella rilegatura fragile del libro. Cosi ingiallite da sembrare quelle di un incunabolo. L’odore di fumo delle mille sigarette, misto a smog, cera del parquet di legno dello studio di mio padre, ancora lo impregnano così intensamente che, se chiudo gli occhi, rivedo la stanza nei minimi particolari, con lui seduto alla scrivania, concentrato e inavvicinabile, e ricordo persino la disposizione dei libri sugli scaffali a gruppi tematici.
Micheli scrive per ricordare i compagni, mantenendo una promessa fatta a loro, con una prosa viva e semplice, in certi punti anche molto profonda e apre sui campi una prospettiva inedita di umanità e di solidarietà.

L’educazione politica ha un grande peso nel comportamento dei singoli. Il politico vero, puro, qualunque sia la sua fede, anche nel fango di questa grande miseria, ti stende la sua mano pulita. [pag.28]

Per cercare di sopravvivere e di aiutare i compagni non ha nessuna difficoltà ad affermare di

passare le sue giornate rubando.

Arraffa con rischi enormi tutto quello che può, quando può, approfitta della miopia di chi distribuisce le zuppe per ripassare molte volte con la scodella per i più deboli, come una specie di folletto buono del campo, reagisce e lotta in tutti i modi, con le luminose figure dei medici deportati, che cercano di alleviare come possono, con pochissimi mezzi, le sofferenze dei compagni.

Le sue parole su Giorgio Puecher restituiscono una piccola ma importantissima parte di ciò che è stato tolto per sempre.

Pensai che Puecher fosse più ammalato di quanto sembrava e ne parlai con il professor Vallardi che lo visitò. Fisicamente era come la maggior parte dei deportati, sui quali oscillava la spada di Damocle; ma vi era in lui una sconcertante passività. Nella maggior parte di noi era evidente il desiderio di aggrapparsi tenacemente ad una speranza fatta, magari, di nuvole. Tanto per poter vivere ancora, o almeno per poter sopravvivere il più a lungo possibile. In Puecher invece colpiva soprattutto la sua natura impenetrabile. Vi era qualcosa in quest’uomo che non traspariva, ma che si sentiva, direi quasi si vedeva, tanto era palese il suo sforzo di non volersi esprimere. Tutto ormai gli appariva falso ora, i rapporti umani, le leggi, la morale. Si sentiva spogliato dai valori umani più elementari e più sacri.
Una volta sola si sfogò, d’improvviso, con poche frasi violente. Credo di aver tenuto a mente con una certa fedeltà le parole:
“Il genere umano non vive più la sua vita, qualcosa è scoppiato nel mondo, qualcosa che ne ha infranto lo spirito. La storia dirà che questo nostro tempo fu uno dei più tristi e tribolati che l’umanità abbia vissuto: perché essa è stata investita da un’ondata di pazzia frenetica. Quando la guerra sarà finita, nessuno l’avrà voluta, e pochi avranno interesse a ricordarla. In questo momento i “saggi di dopo” dove sono? Cosa fanno? Sentono oggi l’eco della scarica di piombo che ha fulminato il mio ragazzo? Capiranno cosa v’è qui, qui…”
E battendosi il petto con foga, ci voltò le spalle curve e andò a sfogare, da solo , la sua disperazione.
Questo era il male di Puecher, un’angoscia che non gli dava pace.

[…]
Eccolo là. Lo guardo, ha il viso nascosto nelle mani, la schiena sussulta per il singhiozzo. Ma come si potrà dimenticare?
Puecher non vuole che ci si curi di lui, ha il pudore dei suoi sentimenti: non vuole essere confortato; anche il dolore ha diritto alla libertà e lui il suo lo vuole per sé.
E fu passivo in tutto, indifferente a tutto. Senza un lamento. Senza una imprecazione. Più i giorni passavano, più si affievoliva, assieme al suo spirito, anche la resistenza fisica.
Un giorno mi disse: “Qui hanno inventato la morte in serie, non c’e scampo, se qualcuno tornerà e avrà voce per farsi intendere provi a dire, provi a raccontare queste pazzie, queste infamie, queste negazioni, provi. Dubito che possa essere compreso. Io sono certo di non tornare, trovo più ragionevole cedere che resistere.”

Avere letto queste ultime parole, raccolte con fedeltà e affetto, chiude per me un cerchio ideale, aggiunge un’ultima tessera ai lunghi racconti dell’infanzia sulla storia di queste figure della mia famiglia, che non ho mai potuto conoscere. Ascoltati per lunghe ore in braccio a mio padre, che solo in quei momenti ci apriva completmente la sua anima sensibile e tormentata. Il nonno Giorgio ritorna a me nella sua moralità estrema di uomo di legge e di giustizia che non accettò di fuggire dopo la morte del figlio, così dignitoso in quel suo abbandonarsi, nel cedere al rovesciarsi di tutte le sue convinzioni più profonde, allo svanire di quel mondo pulito è morale in cui educò i suoi figli al rigore, di quel mondo tenero della villa di campagna in cui allevava conigli d’angora per farne maglioni ai suoi tre bambini, e del curatissimo frutteto i cui frutti si seccavano al sole per l’inverno, mele, pere albicocche prugne… di quel mondo che tengo nel mio cuore per sempre.

Quando Micheli parla della passività e dell’apatia come cause dell’accelerazione verso il decadimento:

Quando il fisico cede, la coscienza ha un certo oscuramento.

riassume in poche parole il succo di un piccolo ma importante libro di ⇨ Viktor E. Frankl Uno psicologo nei lager ARES [2012], la cui rilettura può ancora dare delle indicazioni preziose sulla capacità dell’uomo di resistere a qualsiasi privazione, sulla forza spirituale e sulla dignità per affrontare qualsiasi dolore, per trovare il senso della vita proprio dove viene negato. Da psicologo, da uomo di scienza, Frankl analizza dall’interno i delicati meccanismi spezzati dalla detenzione. C’è un punto in cui paragona la sensazione di annientamento provocata dalla mancanza di una scadenza precisa alla prigionia, a quella provocata dalla disoccupazione:

Quando i nuovi prigionieri arrivavano in un Lager, di regola non sapevano esattamente quali fossero le condizioni vigenti nel campo di concentramneto. I reduci dovevano tacere e da certi Lager non era ancora tornato nessuno… Tuttavia non appena i neofiti entravano nel Lager, lo scenario interiore mutava: con la fine dell’incertezza giungeva presto anche l’incertezza della fine. Non era possibile prevedere se questa forma di vita sarebbe mai finita e quando ciò sarebbe avvenuto.
Com’è noto la parola latina “finis” ha due significati: fine e scopo. Quando un uomo non è in grado di prevedere la fine di un’esistenza (provvisoria), non può neppure vivere per uno scopo. Non può neppure, come l’uomo nella vita normale, esistere guardando al futuro. Di conseguenza cambia anche tutta la struttura della sua vita interiore. Si arriva a fenomeni di decadimento interiore, sul genere di quelli già noti in altri settori della vita. In una situazione psicologica assai simile, ad esempio, si trova il disoccupato. Anche la sua esistenza è diventata provvisoria; in un certo senso neppure lui può vivere volgendosi al futuro, verso uno scopo situato nel futuro.

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Un monito agli attuali metodi di annientamento sempre in agguato nelle nostre civili democrazie, che stanno evolvendo verso una dittatura economica tanto più strisciante, tanto più pericolosa.

Nelle parole di dolore e di speranza di questa ⇨ canzone della Resistenza tedesca nata nel Campo di concentramento statale prussiano di Börgermoor-Papenburg nel 1934, che si diffuse poi con misterioso passaparola negli altri campi, un ultimo pensiero agli uomini e donne, ai bambini e al loro sacrificio.

DIE MOORSOLDATEN

DIE MOORSOLDATEN
Wohin auch das Auge blicket,
Moor und Heide nur ringsum.
Vogelsang uns nicht erquicket,
Eichen stehen kahl und krumm.
Wir sind die Moorsoldaten
und ziehen mit dem Spaten
ins Moor!
Hier in dieser öden Heide
ist das Lager aufgebaut,
wo wir fern von jeder Freude
hinter Stacheldraht verstaut.
Refrain
Morgens ziehen die Kolonnen
in das Moor zur Arbeit hin.
Graben bei dem Brand der Sonne,
doch zur Heimat steht der Sinn.
Refrain
Heimwärts, heimwärts jeder sehnet,
zu den Eltern, Weib und Kind.
Manche Brust ein Seufzer dehnet,
weil wir hier gefangen sind.
Refrain
Auf und nieder gehn die Posten,
keiner, keiner kann hindurch.
Flucht wird nur das Leben kosten,
vierfach ist umzäunt die Burg.
Refrain
Doch für uns gibt es kein Klagen,
ewig kann’s nicht Winter sein.
Einmal werden froh wir sagen:
Heimat, du bist wieder mein.
Dann ziehn die Moorsoldaten
nicht mehr

I SOLDATI DELLA PALUDE
Dovunque si volga lo sguardo
tutt’intorno vi sono solo lande e paludi.
Il canto dell’uccello non ci rallegra,
le querce sono spoglie e storte.
Siamo i soldati della palude
e partiamo con la vanga
verso la palude!
Qui in questa landa desolata
è costruito il Lager,
qui dove, lontani da ogni gioia,
siamo stipati dietro il filo spinato
Rit.
Ogni mattina in colonna
andiamo nella palude a lavorare.
Scaviamo sotto il sole cocente
ma è alla patria che il pensiero è diretto.
Rit.
A casa, a casa ognuno anela
dai genitori, dalla moglie e dai figli.
Qualche petto è rigonfio di un sospiro
perché siamo qui prigionieri.
Rit.
Su e giù vanno le sentinelle,
nessuno, nessuno può passare.
Fuggire costerà solo la vita,
la fortezza è quattro volte cintata.
Rit.
Ma da noi non viene nessun lamento,
l’inverno non può durare in eterno.
Un giorno diremo felici:
patria, sei di nuovo mia.
Allora i soldati della palude
non partiranno più con la vanga
verso la palude!

La lucidità è il risultato di uno sfregamento continuo – Un’intervista a Christian Raimo su Il peso della grazia

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di Giuseppe Zucco

Giuseppe del Moro è il protagonista di questo romanzo. Dottorando, assegnista, ricercatore, alla fine un perfetto esemplare di precarietà sociale e esistenziale – soprattutto una persona distratta, ma distratta a livelli epici. Com’è nato e si è sviluppato durante la scrittura del romanzo questo personaggio?

Giuseppe prima di essere un personaggio è la voce narrante del libro. Ho capito che volevo un personaggio che fosse al tempo stesso una voce narrante molto presente, al limite dell’invadente, che cercasse da subito un rapporto di complicità con il lettore, dicendogli: ma non lo vedi anche tu il mondo così? La caratteristica fondamentale di Giuseppe è un pensiero ansioso, vibratile, mai fermo, che Giuseppe definisce “perennemente distratto”. Credo che l’ansia, questa distrazione perenne sia un modo nuovo e centrale di conoscenza della realtà oggi. Non è né una cosa bella né una cosa brutta. Alle volte sembra avvicinarci, coinvolgerci, alle volte sembra allontanarci, proteggerci rispetto al mondo.

 

Alla formidabile capacità di distrarsi, Giuseppe affianca anche una memoria prodigiosa, se non maniacale, una memoria concentrata su i dettagli, i più minuti, i più trascurabili. A un certo punto, come un Funes redivivo, Giuseppe dice di se stesso: Ero sempre io a fare il filologo: a riportare a uno a uno tutti i dettagli. Ma questo tipo di memoria, oltre a ovviare e entrare in cortocircuito con la distrazione, in un personaggio così aderente alla fede religiosa, finisce per avvicinare qualcosa di sacro: Dovrei farci più caso, alle facce delle persone, quelle sulla banchina, quelle che incontro sul treno, me le devo ricordare quando prego, dice Giuseppe. Se Giuseppe ricordasse ogni cosa sarebbe Dio, un santo o un semplice hard disk, distraendosi continuamente conferma i suoi limiti umani. È così?

Ho detto che volevo raccontare di una psiche secondo me un po’ inedita nella narrativa. Ossia: una psiche in multitasking cognitivo. Quel tipo di attenzione, intelligenza e memoria crea un continuo overload di informazioni. Che cosa ne facciamo di questa massa enorme di informazioni quando ci sono dei sentimenti come l’amore o una relazione con Dio che ci chiedono una forma, se non di semplificazione, di intensità? Se penso agli scrittori con cui sono cresciuto durante l’adolescenza e la gioventù – da De Carlo a Ellis a Coupland a Wallace a De Lillo – riconosco una serie di personaggi che reagivano alla crescita della capacità comunicativa, dei mezzi di comunicazione con una specie di malinconia, di chiusura in sé, di anedonia, o a un’evocazione di una civiltà o di un tempo in cui tutto questa iperfetazione di comunicazione non c’era e i rapporti erano più semplici e coinvolgenti. Il mondo in cui è Giuseppe non ha questa nostalgia: lui ha accettato che i sentimenti, la percezione del mondo, la multipolarità sono la norma e che in questo mondo mutato ci può comunque essere amore, relazione, gioia.

 

Quando scrivi La lucidità, la lucidità è soltanto il risultato di uno sfregamento continuo sembri ricapitolare la distrazione, la memoria, la vita quotidiana, il dolore sottile di questa condizione, quindi un certo modo – un modo molto contemporaneo – di stare al mondo. Quanto c’entra tutto questo con quello che noi oggi potremmo definire “realismo”?

Sono realista in senso kantiano e gadameriano e wittgensteiniano e foucaultiano forse. Ossia, la realtà è il risultato dei modi in cui vediamo la realtà. E i nostri sguardi sono la storia dei nostri sguardi. E le nostre parole sono il risultato del linguaggio che ci parla. E le nostre scelte sono date dalla forza dei nostri corpi. Dire realismo per me vuol dire cercare di capire cos’è l’anima dei personaggi, non come è fatto il mondo – per come lo potrebbe raccontare la sociologia.

 

Lubomir Zamalek – per tutto il romanzo, Lubo – è l’unico amico di Giuseppe. Lubo è polacco, fa mille lavori, è paranoico, se la cava sempre, si arrangia come può, ha degli attacchi di delirio, spasmi incontrollati in tutto il corpo, gli viene la bava alla bocca e si caca addosso. Sembra la descrizione di uno scarto umano – eppure, se non ci fosse, Giuseppe avrebbe un’esperienza del mondo più ridotta, soprattutto non avrebbe o avrebbe molto più in ritardo accesso all’amore (è proprio Lubo a permettere l’incontro tra Giuseppe e Fiora). Com’è nato invece questo personaggio, e quanto conta per te il fatto che incarni uno straniero, e dei più emarginati e/o emarginabili?

Lubomir era il nome di un uomo polacco che conobbi vent’anni fa. Era venuto in Italia in bicicletta dopo la dissoluzione della cortina di ferro. Dopo un po’ che era in Italia, lavoro zero, si ritrovò a bere e chiedere la carità davanti alla chiesa. Con il prete della parrocchia, riuscimmo a trovare i soldi per pagargli un biglietto per la Polonia, dove aveva moglie e figli. Stette qualche mese in Polonia a lavorare per pochissimi soldi per un lavoro massacrante, e poi tornò in Italia. La moglie, credo, l’avesse lasciato. Di nuovo davanti alla chiesa e a bere. Dopo qualche mese morì, seduto su una panchina davanti alla chiesa, per una febbre petecchiale. Andai insieme a questo prete a riconoscere il cadavere all’obitorio. Il personaggio di Lubo è un omaggio allo sconfitto e al povero che c’è in ognuno di noi. Ma è anche un modo per parlare dell’immigrazione provando a inventarmi un personaggio che andasse al di là degli stereotipi che si trovano nelle narrazioni italiani. Questa complessità di Lubo, la sua ambiguità, la sua innocenza che forse è ipocrisia, questa generosità che forse è autolesionismo, ho cercato di renderla innanzitutto con la lingua. Mi sono dovuto inventare una lingua che fosse un pidgin di polacco, italiano storpiato e romanaccio: questo tipo di lingua sghemba poteva dare corpo a un personaggio da commedia. Uno Zanni del 2012.

 

Lubo permette che accadano le cose (un deus ex machina), sparisce quando Giuseppe sembra autonomo e inserito nel mondo, ritorna provvidenzialmente quando intorno a Giuseppe il mondo collassa (un angelo). Ma stranamente Lubo sembra una seconda personalità, o una parte della personalità di Giuseppe: se in alcuni momenti le due figure si sovrappongono (In questi non-giorni confondo me stesso con Lubo), in altri, ricordando qualcosa di molto freudiano, l’una sembra prevalere razionalmente sull’altra (Mi tocca convincere Lubo, lui si ricorda a malapena chi è la vecchia. Però è un uomo disposto ad accettare che qualcuno gli faccia da super-io). Quanto sono complementari questi due personaggi?

Lubo è anche l’angelo custode di Giuseppe, il tramite attraverso il quale si manifesta la volontà di Dio in maniera più diretta, quindi comica alle volte. Ma Lubo è anche il tentativo di descrivere un essere umano per cui un declino non corrisponde a una forma di “precarietà”, di disagio sociologico. Quello che volevo mostrare con l’amicizia, la fusione alle volte di Lubo e Giuseppe è un cammino di empatia con l’altro che ci accade quando le cose vanno male, molto male. Se Il peso della grazia è un romanzo che parla di precarietà, lo è nel solo senso in cui la precarietà può diventare una condizione non solo provvisoria, ma permanente, o meglio una condizione di irreversibile declino. Cosa accade quando diventi veramente povero? Senza soldi per mangiare? Senza amici? Senza una direzione nel mondo?

 

Fiora Olivetti, un’oculista, è l’amore della vita di Giuseppe. Accanto a lei, Giuseppe sembra meno portato a distrarsi, e i dettagli, da isolati che sono nel suo campo visivo e quindi nella sua memoria, diventano parte di un tutto, di una visione d’insieme. È questa la tua idea dell’amore? L’amore come possibilità di redimere il senso evanescente della vita nella forma sensata di un racconto o di un discorso?

Fiora serve a Peppe per concentrarsi, e alla narrazione per trovare un centro. Quando lei compare, tutto il mondo si calma. Per questo Giuseppe ha così bisogno di lei da subito. Questa non è la mia idea dell’amore ma l’idea di un innamoramento, ossia di uno di quei momenti in cui ci sembra di trovare una persona che quasi magicamente riesce a disinnescare con pochissimo tutto quello che sembra metterci in pericolo: l’insicurezza, la solitudine, o cos’altro.

 

Giuseppe è un ricercatore, in un passo del romanzo spiega molto bene cosa faccia tutto il tempo: L’oggetto su cui la mia ricerca si va a incentrare è una fiamma premiscelata turbolenta, o meglio, il suo fronte di fiamma, che in una fiamma premiscelata turbolenta si comporta come un’onda: prendi un’onda che esplode, che si sposta attraverso la miscela… Io, da anni, sto cercando di ingabbiare quest’onda. Quello che faccio è questo. D’altro canto però: l’idea opposta alla mia, quella che buona parte (possiamo dire la totalità) dei fisici che si occupano di questa materia sostiene da sempre, è che cercare di stabilizzare fiamme turbolente sia un controsenso, un obiettivo impossibile, o meglio, addirittura, un problema posto male. Ecco, quest’idea della stabilizzazione di una fiamma turbolenta mi è parsa subito una metafora non dichiarata tanto delle azioni del protagonista davanti a una storia d’amore che poco per volta si sgretola, quanto del tuo lavoro di scrittore che deve governare un romanzo onnivoro e dall’andamento centrifugo e dispersivo. Ti ci ritrovi?

Il piano metaforico di “trovare una forma al fuoco” era il cuore del romanzo fin da quando l’ho concepito. Del resto, che cos’è la nostra esistenza in fondo se non cercare un ordine nella molteplicità, un cosmos nel caos? All’inizio il personaggio era un matematico fossato con l’equazione di Riemann, che in fondo pone una questione simile: come trovare una regolarità nell’irregolarità. Poi questa metafora del fuoco mi ha convinto di più. E il personaggio è diventato un fisico. Cosa questo abbia a che fare con la letteratura? Per me molto. Nel senso che non soltanto un romanzo uno lo scrive, ma ne viene scritto. Scopre attraverso la scrittura qualcosa della propria identità e qualcosa del mondo che non sapeva all’inizio. Pubblicare un romanzo è condividere in un certo senso questo processo di conoscenza.

 

Un altro personaggio fondamentale di questo libro è la città di Roma. Forse è una delle prime volte in cui trovo delle descrizioni di questa città così puntuali, dove non esiste più una divisione così netta tra centro e periferia, tra quartieri bene e quartieri popolari. In fondo, tutto sembra votato al collasso, come se il tempo fosse riazzerato, e il territorio su cui Roma è stata fondata riemergesse nella sua forma originaria: una palude, una palude in cui si sopravvive sempre ma da cui è difficile se non impossibile tirarsi fuori. Tra l’altro, parli della città come di una specie di oggetto esterno che però fa parte del tuo corpo. Dato che sei romano, vivi a Roma da sempre, quanto fa parte questo della tua esperienza personale?

Avevo quattro nemici all’inizio, quando mi sono messo a scrivere questo romanzo. Quattro stereotipi da volere eliminare: le storie d’amore poco credibili irrazionali stupide semplicistiche, un’immagine dell’immigrazione buonista o sociologica (e di questo abbiamo detto), e poi il rapporto con la fede, e l’immagine di Roma. Mi faceva schifo come veniva rappresentata Roma in tante narrazioni contemporanee: in un modo che esiste solo nelle cartoline dei telegiornali, nel pasolinismo d’accatto, nelle sceneggiature dei Cesaroni… Roma è una città bellissima e feroce: è difficile viverci, ma è facile sopravviverci.

 

Ma il romanzo, già dal titolo, già dal nome del suo protagonista, è caratterizzato dalla continua sfida e confronto con il sentimento religioso, con il sacro, il trascendente. Per tutto il romanzo però sfila soprattutto questa idea: Dobbiamo smetterla di pensare la vita del prete, ma anche dei cristiani in generale, di tutti, come un luogo pacificato. A chi o cosa ti riferivi quando scrivevi queste parole? E in particolare, è questa non pacificazione il peso della grazia che ogni fedele deve reggere sulle proprie spalle?

Anche qui la sfida era quella di trattare la dimensione della fede, del rapporto con il trascendente e con il cattolicesimo in un modo non stereotipato. Con i miei amici scrittori cattolici, come Carola Susani, Francesco Longo o Francesco Pacifico, spesso ci chiediamo perché nel mondo anglosassone si sia potuta affermare una tradizione di narrativa ebraica, con Roth, Jakobson, Singer, Safran Foer, e in Italia l’immaginario simbolico cattolico non abbia prodotto la stessa proliferazione di storie. In più mi ponevo il problema che si pone Flannery O’ Connor quando scrive i suoi saggi sulla narrativa e il rapporto con la fede. In sostanza: che farne di una dimensione trascendente in un racconto? Per rispondere alla questione per me è stato fondamentale un saggio che ho tradotto una decina di anni fa: Lo stile trascendentale nel cinema, la tesi di dottorato di Paul Schrader diventato poi un libro. Paul Schrader, il regista di American gigolo Autofocus, lo sceneggiatore di Taxi driver, analizzava l’opera di tre registi: uno cattolico, Bresson, l’altro protestante, Dreyer, il terzo shintoista, Ozu, cercando di mostrare come attraverso la costruzione narrativa si potesse pensare di evocare la dimensione trascendente, lo spirituale, l’invisibile, senza far ricorso agli effetti speciali, a un’espressione miracolosa, prodigiosa: era quello che mi interessava fare parlando della fenomenologia del cattolicesimo oggi. Una pratica minoritaria, ma centrale per raccontare non solo l’Italia, ma l’intera condizione umana.

 

Sei cristiano in un modo consumista, lo sai? E questo è uno dei motivi per cui io non riesco a esserlo più, – dice lei. Essere cristiani diventa una roba d’identità, tipo avere il Mac o il pc. Se ti appassioni, sei cristiano. Se ti annoi, smetti di esserlo. Da questo dialogo emerge una critica severissima ai cristiani. Eppure avere un’identità, possederla, non farsela sfuggire, è uno dei maggiori problemi, oggi. Secondo te come potrebbero andare insieme le due cose, fede e identità, senza per questo dare forma a fenomeni di integralismo religioso?

È un problema questo per me cruciale. Il pontificato di Benedetto XVI da subito ha messo l’accento maggiormente sulle pratiche identitarie piuttosto che sull’ecumenismo. Non so se tutto questo sia una volontà dello Spirito Santo che guida la chiesa o una visione culturale conservatrice da cui Ratzinger non riesce a emanciparsi. Fatto sta che ci sono stati nella recente storia dei rapporti tra Chiesa e politica tre momenti critici tra 2008 e 2009 che hanno segnato per me una frattura: il Family Day, la vicenda di Piergiorgio Welby e quella di Eluana Englaro. Perché non possiamo essere cattolici e non ripartire da questo tipo di questioni, ponendoci diversamente le domande? Ossia: che senso ha il male? Dov’è Dio in un mondo che stenta a riconoscere il peccato?

 

Nell’ultima parte del romanzo, Giuseppe, lasciato da Fiora, oltre a allontanarsi da tutto e tutti, si rifugia nel porno, soprattutto nei filmati porno amatoriali. Due descrizioni mi hanno dato da pensare, questa (Inseguo una traccia di autenticità dove forse non c’è. Non riesco a fissarmi a lungo sui corpi, cerco la rabbia dei movimenti, la vertigine delle ragazze che hanno orgasmi allo sfinimento su un Sybian) e questa (In certi momenti mi trovo a ringraziare, a lodare Dio perché su internet si può trovare una quantità di video potenzialemente infinita). Riattualizzando Guy Debord, è come se tu avessi scritto tra le righe non solo che oggi il vero è un momento del falso, ma che anche il sacro è un momento del falso. Cosa ne pensi?

Non lo so, credo che ribalterei Debord, in modo ottimistico si può dire. Scherzando anni fa un mio amico definì la mia scrittura e quella di Francesco Pacifico “porno-cattolica”. Ci sono molte scene di sesso nel mio libro, descritte in modo molto esplicito. Ma il porno, credo, mi serva a questo: a mostrare come non possa esistere un’oggettivazione totale, come anche nelle forme di riduzione del corpo a oggetto, resta sempre un qualcosa che sfugge a questo processo e chiede relazione. Faccio un esempio stupido: mettiamo che guardo un porno. C’è una ragazza di cui non conosco il nome di cui vedo solo la fica penetrata da un cazzo che non so a chi appartenga. Per me per quanto tutto questo mostri una spersonalizzazione, io cerco di cogliere tutto quello che invece resta personale: chi è questa ragazza che si vede nel video, perché ha accettato di girare questo filmato, si sta divertendo, che tipo di desiderio provava chi ha visto questo filmato… Immaginiamo che un giorno io incontrassi questa ragazza in un bar, cosa accadrebbe? Per quanto la rete tenda a spersonalizzare i rapporti, continuiamo a essere umani, e fin quando siamo umani, c’è un evidente bisogno di sacro che ci riguarda.

 

In un romanzo così aperto al trascendete, il cui correlativo oggettivo è il cielo, il cielo che ritorna sempre, anche nella versione 2.0 di pop-up tra le nuvole, il cielo che in una bellissima pagina crolla in forma di nuvole sulla terra estinguendo ogni essere vivente, un peso della grazia insostenibile, se vogliamo, il corpo umano è descritto moltissimo, in maniera letterale, in ogni suo dettaglio, i denti soprattutto, per non parlare della materia di cui sono composti gli oggetti di uso comune. A un certo punto scrivi: Non lo so, ero convinto che se avessi voluto cambiare delle cose veramente, in politica anche, nel mondo, avrei dovuto sapere com’era fatta la materia. In che modo stanno insieme le due cose?

Credo che anche questo faccia parte di una visione cattolica del mondo, che associa i processi immaginativi a dei processi creativi veri e propri. È una lezione che ho imparato da scrittori cristiani come Flannery O’ Connor o John Cheever, il loro amore per il creato, e quando ho cominciato a scrivere il libro cercavo una metafora che mi facesse associare una forma di desiderio un po’ schizoide di proiezione con un’idea di palingenesi vera e propria, di nuova realtà. Mi ha aiutato in questo senso il film di Audiard, Il profeta, in cui il protagonista vive una sorta di continua doppia realtà: una specie di sogno laterale. Ho capito che volevo che anche per Peppe fosse così. Che esprimesse il suo stato d’animo sempre con una crescita enorme dell’immaginazione, della visione. Queste visioni per me rappresentano la forza della nostra anima, l’incredibile capacità di creazione che abbiamo, quello che in fondo ci rende fatti a immagine e somiglianza di Dio da una parte, e dall’altra degli esseri sempre un po’ alienati.

 

Oltre al tuo libro, ho notato che per esempio anche Francesco Pacifico in Storia della mia purezza (Mondadori, 2010) ha riportato questioni religiose all’interno di un romanzo, e guardando oltreoceano, Jeffrey Eugenides, con La trama del matrimonio (Mondadori, 2011), ha fatto la stessa cosa. Come mai un tema del genere, finora così desueto, un tema per molti versi ritenuto anche imbarazzante da affrontare, sta ritornando a essere battuto con così piena consapevolezza?

Con Francesco Pacifico discutiamo da anni su cosa voglia dire scrivere di persone che credono, quali simbologie usare, che tipo di sguardo avere. Credo che Francesco sia lo scrittore con cui – al di là di tutto – mi devo confrontare di più come narratore, perché parte da una ricerca molto simile alla mia. Quando l’inverno scorso ho letto l’ultimo libro di Eugenides ho detto: cazzo, ha scritto il mio stesso libro, ed è uscito prima di me. Non era così ovviamente, ma c’erano molti elementi comuni. Sia come erano poste alcune questioni, sia come erano risolte. La religione cattolica dal mio punto di vista era tanto per me quanto per Eugenides centrale per parlare di personaggi che cercano una forma di assoluto. E poi tutti e tre ci rifacciamo e in modo esplicito direi a una modellizzazione narrativa, quella di René Girard, del suo mimetismo triangolare, della sua Verità romanzesca e menzogna romantica.

 

Smart, ciechi famosi, raccolta differenziata, aspartame, aids, Unabomber, uranio impoverito, You Tube, Obama, Banksy, bambini sequestrati degli anni ’80, chat, iphone, navigatore satellitare, google, free press: questa è una piccola sezione dei miti d’oggi che brillano dentro le frasi del romanzo. Quando hai iniziato a scrivere questo libro avevi anche intenzione di fare un catalogo ragionato degli oggetti su cui segretamente si deposita lo spirito del tempo?

No, nessun amore per i cataloghi ragionati. Ma volevo scrivere un libro contemporaneo, e non potevo farlo se non capendo come gli esseri umani reagiscono al mondo culturale in cui sono immersi. Il nostro cervello oggi vive una strana forma di enciclopedismo, in cui le informazioni importanti sono mescolate a quelle inutili: questo produce dei cortocircuiti niente male. Mi ricordo come Andrea De Carlo negli anni ’80 fu il primo scrittore italiano a far penetrare questo rumore bianco nell’emotività personale. Ma quando leggemmo il Douglas Coupland di Generation X o il Bret Easton Ellis di American Psycho capimmo che l’imene era rotto per sempre: le amenità da trivial pursuit avevano lo stesso peso di un sentimento eterno.

 

Tutto il romanzo è continuamente punteggiato dalle domande che Giuseppe pone da una parte a se stesso e dall’altra al lettore, come se volessi mimare un discorso interiore. Come mai?

Qui i modelli sono Shakespeare, inconsciamente, o insomma il teatro, quei personaggi che si appartano e fanno dei monologhi amletici. E poi, consapevolmente, Coetzee. Amo i personaggi che riflettono su quello che fanno, e amo quando lo fanno in modo interrogativo, anche se questo corre il rischio di diventare stucchevole, perché al contrario di quello che sembra non sono personaggi immobili. Ma sono personaggi che si trasformano sotto i nostri occhi, i pensieri riescono a mettere in scena una sorta di teatro dell’io, e a me questa drammaturgia piace da morire.

 

Rispetto alle tue due precedenti raccolte di racconti, Latte (minimum fax, 2001) e Dov’eri tu quando le stelle del mattino giovano in coro? (minimum fax, 2004), lo stile che adotti qui è meno pirotecnico, meno volutamente sorprendente. Nonostante ogni pagina sia ricca di invenzioni e soluzioni formali, è come se tu avessi preferito che la sperimentazione cedesse il passo a una scrittura più compatta, una scrittura che garantisse una propria intensità emotiva senza ricorrere troppo ai trucchi del mestiere, all’effetto che David Foster Wallace aveva tradotto con “guarda, mamma, senza mani”. Com’è venuto fuori questo stile? C’è qualche altra opera e/o esperienza che ti ha spinto in questa direzione?

Volevo che fosse un romanzo leggibile e con un’intensità emotiva a ogni pagina, come tu dici. Non avendo dalla mia una trama piena di colpi di scena, volevo che il lettore si appassionasse ai sentimenti dei protagonisti. Quello che ho cercato di fare è allora, utilizzare tutti i modelli letterari che mi venivano in mente che riuscissero a aiutarmi a costruire questo stile caldo. Il Foster Wallace più emotivo, più trasparente, meno virtuosistico, quello di racconti come È tutto verde, per capirci, ma il Rick Moody di Demonology, il Bellow di Herzog, il Roth della Macchia umana, l’Eugenides che hai citato, Walter Siti di Scuola di nudo (essenziale per i dialoghi), Veronica Tommasini di Sangue di cane (che mi è stata utile per capire come modellare la voce di Lubo), Richard Ford dello Stato delle cose per il tono delle descrizioni, Richard Powers del Dilemma del prigioniero o del Fabbricante di eco per la capacità di descrivere le questioni scientifiche all’interno di relazioni sentimentali credibili, l’Aldo Busi dei due primi suoi romanzi per la modulazione sonora delle frasi, l’Arbasino di Fratelli d’Italia per il ritmo della paginee Tondelli per la costruzione ipotattica, Charles Bukowski che mi ha dato da adulto un enorme aiuto nel riconoscere la narratibilità di ogni frammento quotidiano… tutte cose forse scontate. Ci sono degli scrittori che però vorrei citare perché sono meno scontati: Helen Dewitt e Giovanni Guareschi. La prima scrisse qualche anno fa un romanzo che mi folgorò per la capacità di mescolare insieme una visione cerebrotica e una visione sentimentale: L’ultimo samurai, il secondo è uno scrittore che ho divorato da adolescente, e che ha avuto per me la capacità di affinare il mio sguardo in un senso preciso: quel tono famigliare dello scrivere che riesce a creare intorno ai personaggi una specie di affettuosità concreta, di vicinanza, di complicità, attraverso la descrizioni dei loro piccoli tic. Credo che molta della mia formazione letteraria e sentimentale debba qualcosa ai Jefferson e al Corrierino delle famiglie di Guareschi.

video arte #16 – zbynek baladran

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Zbynek Baladran, A Model of the Universe, 2009.

Luigi Protopapa: Una storia del Novecento

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Genesi di un artista

di

Lidia Riviello

La realtà è una superficie molto tenue che va toccata con cura, lavorata più volte affinché  la materia possa risultare tessitura forte e resistente nel tempo. Una scelta straniante e miracolosa, che è quello che fa dell’artista un fuggitivo dal proprio tempo, ma pronto a misurarsi con la precarietà della materia
Il collage, le opere o come distaccarsi dalla ripetizione e dal timore della morte senza abbandonare il luogo di partenza, lavoro continuo sui frammenti, segni di un’unità e un’età perduta, avventura del dettaglio, possibilità di riconfigurare la realtà e l’immagine fino a prova contraria, per poi ricominciare.
Qui, nelle resine, nel cuoio, nell’olio, nel collage, nella stratificazione, nella sfumatura , nella lacerazione  abitò e si esiliò Luigi Protopapa, artista pugliese, commerciante e imprenditore di scarpe, figlio di artigiani e di una Martano cuore della Grecia Salentina, in provincia di Lecce sulla punta della civiltà magno greca, protagonista e testimone di una “civiltà delle macchine” dove l’artista sta nel limite e deflagra nella ricerca totale delle identità.
Affatto “esotico” a proposito di identità è  l’origine storico simbolica del luogo di nascita,  Martano, che fa comprendere come Protopapa così legato alla sua terra abbia custodito una presenza originaria senza per questo naufragare nel mito di una civiltà perduta.
Lo studio delle origini del luogo ( il mito di Pegaso, l’uomo di pietra, il dio Marte) non è affatto ozioso né motivo di semplici suggestioni ma trame archetipiche, elaborate e riprodotte con straordinaria naturalezza e precisione quelle dell’ arte di Protopapa: la maschera, il rito, la terra con i suoi oggetti, l’identità e le sue stratificazioni e a volte l’utopia di un mondo parallelo al nostro di cui la pelle, il cuoio come vedremo, sono la grande metafora.

L’olio rende duttile e morbido il paesaggio, mentre il ritratto, lavorato a cuoio definisce la materia rendendola concreta.
L’artista non dimentica le stanze del proprio risveglio, quindi della propria origine e questo è ben evidenziato dal risultato ottenuto con la tempera, mentre l’olio e la pelle impediscono la perdita del senso del futuro: grafiche sonore, perturbanti, decise a incidere con gli oggetti del mito e della quotidianità  la parabola di noi viventi.
L’arte per l’autore  è una disciplina, contro la corrosione del tempo, una lotta con l’oscurità, con l’assenza, con la dissociazione, con la figurazione facile, con l’idillio, con la paura del soggetto e la crisi dell’oggetto. L’inquietudine è dentro ognuno di noi e l’artista dunque ne sperimenta ogni fase con le armi del segno, del  colore,  e della  luce,  scudi posti oltre i confini di una “trama” lineare, giungendo dunque fino alla somma di tutte le trame.
Nella introduzione  al libro “Protopapa” di Pietro Mandrillo, prefato da Carlo Belli, che l’editore Schena pubblicò negli anni ottanta, e che giunge a un bilancio della figura dell’artista,  fornendo uno strumento prezioso anche se parziale di analisi critica, Carlo Belli parla, di travisamento e trasfigurazione,  e questa ci pare  una chiave in grado di entrare nella dinamica delle scelte e delle direzioni intraprese da Protopapa fin dal suo nascere.
Travisamento dunque procedere per errore, condurre il punto di vista sulla ricostruzione di una storia sbagliata dell’opera di Luigi sul confine fra vero e falso, e qui l’utilizzo di un materiale così corposo e singolare come la pelle, sembra avvalorare un’ ipotesi di arte travisata.

Nessun infingimento, né falsificazione d’opera, semmai una  fiducia nella materia tale da condurla a  diventare più vera del vero.
Il travisamento nell’arte  è stato affrontato molto bene ad esempio da Giacomo Di Marco nel libro  “Identità e travisamento” che va a fondo al problema artistico del ritratto e dell’autoritratto ( modalità che nell’opera di Luigi  sono sempre presenti) anche se sembra pertinente, ed è ancora una intuizione di Belli, parlare, nel caso di Protopapa, di trasfigurazione. che significa  mutare, prendere il corpo di,  in questo caso  la materia di.
E’ a quel punto che l’arte di Protopapa si fa trasfigurazione perpetua  che non resta tale,  oggetto attraversato dal mutamento bensì si muta in una sovrapposizione continua, accettando di diventare modello e archetipo delle identità in divenire.
Un esempio di opera che rende evidente la difficoltà e la rarità della pelle di diventare composizione integrata, totale, è “Terra di Puglia” del 1963, un collage manifesto dove il paesaggio occupa l’intero spazio della tela definendosi per gradi, strati e livelli e dove la pelle viene sfumata al millimetro con una perizia che commuove, ancora una volta.
Come rendere la ruvidezza, l’ostacolo, l’attrito superficie accogliente e narrativa se non attraverso una lavorazione meticolosa e paziente così da ottenere dei rosa di carne e terra, degli azzurri che increspano le dimensioni ottenendo questo costante effetto pluridimensionale che caratterizza tutte le opere di Protopapa.
L’addensarsi del cielo sovrastante, la stratificazione dei piani del paesaggio, la teatralità delle forme, la faticosa e miracolosa scalata dello sguardo lungo i piani e i rilievi del dipinto.
La critica ufficiale, quella molto spesso conservatrice e dalle facili interpretazioni abbia letto trattenuta il disturbante procedimento artistico di Protopapa ci fa riflettere su come i contemporanei non sempre siano all’altezza della propria contemporaneità  e di quanto la ricerca personale e la condizione di battitore libero attraversi tutto l’arco della vita di un artista, a maggior ragione in periodi di cambiamenti, quando l’aspirazione è  quella di raggiungere un pubblico più vasto, una critica che pretende certi risultati, ed un mercato, che per l’arte è sempre stato il grande spauracchio.
Spesso, artisti non ritenuti attuali per la moda del momento vengono rimossi e sottovalutati e dopo la morte, spesso se ne scopre la portata.
Forse solo Pitigrilli nelle sue brevi e fulminanti dichiarazioni ha rilasciato quella  considerazione  che riassume in un colpo solo l’essenza dell’espressione di Protopapa:
“Indipendentemente dai mezzi d’espressione, è un’artista geniale, perché il sortilegio della sua arte non lo realizza né col cuoio, né con i colori, né con i mezzi tecnici, ma con i prodigi della sua anima”.
Interessante è riportare un paio  di valutazioni che vennero date in quel periodo e successivamente, diverse fra  loro e che sono indicative di un modo di  scrivere critica in quegli anni e di uno stile spesso sobrio e formale, raramente fuori dagli schemi, tranne che in alcuni casi.
Chiaramente questo per riaprire oggi  “il caso Protopapa” e per domandare alla critica d’arte attuale e agli storici una attenzione, per riavviare lo studio organico delle opere dell’autore.
Ad esempio Piero Zanotto, fornisce indicazioni sui tentativi della critica ufficiale di inquadrare l’opera di Protopapa, ammettendo infine quanto la critica allora fosse sprovvista o poco abituata a maneggiare un artista difficilmente collocabile in una scuola precisa.
Sostiene infatti che “si è tentato di trovare per i leccese Protopapa…una collocazione storica. La critica più avanzata, meno impressionabile dai fattori commerciali che compongono l’opera d’arte ( In questo caso le pelli) ha tirato fuori in ballo per Protopapa il post impressionismo e l’ha inserito nella più pura tradizione macchiaiola. Ma finendo per dichiarare poi senza mezzi termini che nei suoi quadri si respira il profumo di sentimenti genuini odierni. In essa si trova sostanziato il ricordo di un’infanzia, un’adolescenza vissuta con penetrante candore…”
Invece è un critico tedesco, J. Trupke, ad adoperare il termine “miracoloso” e ad entrare nel merito della lavorazione, liberando così la genialità di Protopapa e riconducendo il suo “doppio” registro di pittore ed inventore in un quadro esaustivo.
“Un pittore senza pennelli che incolla sul compensato le sue opere ricavate da pezzi di cuoio colorati strappati a mano. La tecnica è talmente abile che soltanto dalla vicinanza si riesce a scoprire gli artifici di questo artista che lavora in modo assolutamente pittorico ed in questo sta il miracolo…”

Luigi Protopapa ( Martano 1908- Taranto 1969)  è  un pittore, artista e imprenditore di pelli  e cuoio fra i più significativi e innovatori del novecento .Le sue opere nel tempo sono state ammirate, esposte, acquistate e si trovano presso molti Istituti come l’Istituto di Ricerche Chimiche  di Monaco di Baviera, il  Centro Studi e Scambi Internazionali  di Roma, il Circolo Cittadino di Martano (Lecce), le collezioni C.I.R (Torino) e del museo di Offenbach  in Baviera,  presso la redazione di “Ecomond Press”  di Roma e le collezioni private di Giovanni Agnelli a Torino,  di Pittigrilli  a Parigi, e inoltre nella Pinacoteca comunale Luigi Protopapa Martano (Lecce), Protopapa (Taranto), Occhinegro (Taranto), Lamanna (Taranto), Protopapa(Roma), Pantaleo (Fasano) e trovano sede in numerose collezioni private

 

Inaugurazione della mostra di Luigi Protopapa

LA PELLE L’ARTE IL GESTO

Palazzo Valentini, Sala Egon von Fürstenberg

Venerdì 25 gennaio 2013 ore 18.00

Via IV Novembre 119/A – Roma
www.provincia.roma.it

Quello che vampiri, lupi mannari e mutanti non dicono – Prima di scomparire, di Xabi Molia

3

di Carlo Mazza Galanti

Xabi Molia fotografato da Nolwenn Brod

Distopie, utopie, ucronie, qualunque sia il taglio, tonale e formale, che si voglia dare alle diverse interpretazioni immaginarie della storia umana, quello della fantapolitica è forse il genere più “perturbante” oggi a disposizione degli scrittori, quello meglio capace di riprodurre la fertile e angosciosa convivenza di famigliarità e straniamento che Freud riconosceva nella grande letteratura fantastica dell’ottocento. Come se soltanto la trasposizione del presente sul binario di una cronologia parallela potesse liberarci dal peso soffocante di un realtà riprodotta e moltiplicata in maniera esponenziale, dal sovraccarico d”informazione, dall’esposizione continua al resoconto dell’attualità. Non riusciamo più a volare in mondi arcani, perderci in labirinti metafisici, dialogare con creature oltremondane: ma manipolare leggermente il calendario è uno stratagemma sufficiente a mescolare le carte di questa bruta fattualità per farne emergere ideologie, contraddizioni, punti ciechi.

Certo, ci vuole molto talento per immaginarsi una Roma senza papa o un mondo completamente in mano ai nazisti. Molti autori di fantascienza e fantapolitica oggi in voga scivolano facilmente nel didascalico (o nel moralistico: in Italia, dove pure il genere non manca, pare un difetto abbastanza diffuso), in una complessità tendenzialmente cervellotica e involuta (è il caso del polacco Jacek Duckaj, di cui non ho però letto il libro più apprezzato, La cattedrale, prossimamente in uscita per Voland; o anche, in modo diverso, di Volodine, la cui trilogia post-apocalittica uscita in Francia nel 2011 è in corso di pubblicazione presso Clichy, erede di Barbès edizioni), infine nella parodia un po’ frivola e superficiale, come succede al belga Quiriny de Le assetate, pubblicato quest’anno da Transeuropa.

Nulla di tutto ciò in Prima di scomparire (L’Orma, trad. di Stefano Lazzarin, pp. 300, E. 14,50) del francese Xabi Molia, libro che inaugura la collana franco-tedesca “kreutzville” della neonata casa editrice L’Orma. Che si presenta bene con questo giovane autore (classe ’77) capace di manipolare un immaginario tra i più inflazionati e però (perciò) potenti (vampiri, zombie, mutanti) in un contesto appunto fantapolitico, senza indulgere minimamente a schemi narrativi prevedibili o semplicistici e senza rinunciare, allo stesso tempo, a una scrittura estremamente avvincente, buona per tutti i palati.

La storia si svolge nella Parigi di un futuro prossimo, la Francia è appena uscita da una violenta guerra civile succeduta alla crisi economica che ha visto il riemergere di numerosi gruppi politici, di diversa matrice, pronti alla lotta armata. Ristabilito l’ordine, eletto un presidente capace di accontentare se non tutti molti, attivato un programma di riconciliazione nazionale, esplode una misteriosa epidemia: un male sessualmente (ma non solo) trasmissibile che trasforma le persone in ominidi dotati di grande forza fisica a metà strada tra i mostri di I’am legend (quelli dell’ultima trasposizione filmica, del 2007) e i mutanti di Black Hole (il fumetto di Charles Burns) o i vampiri esistenzialisti di Abel Ferrara, a seconda dello stato di avanzamento dell’alterazione. Parigi diventa una cittadella dove gli umani arroccati lottano contro questi nuovi barbari decisi a prendere il sopravvento, capaci di utilizzare mezzi militari e già padroni di diverse città francesi. Non tutti i sani, però, riconoscono la causa del governo: circola un testo clandestino, un trattato filosofico dal sapore millenaristico intitolato “Il progetto umano” che proclama la fine necessaria dell’umanità. Nuovi schieramenti si formano e attraversano i due campi in maniera caotica, tra la superficie di una città semidistrutta e i labirintici cunicoli della Parigi sotterranea. In tutto questo, un funzionario addetto all’identificazione degli infettati viene improvvisamente catapultato sul campo di battaglia, alla ricerca della moglie scomparsa, una sceneggiatrice di fumetti presa di mira dalla censura durante il periodo della crisi per il contenuto controverso delle sue storie.

Il risultato è un romanzo complesso, stratificato, ma godibilissimo, capace di mischiare contenuti pop e filosofici, spaccati visionari e interni di domestica quotidianità senza alcuna ambizione “postmoderna” e senza che la struttura del racconto ne risenta mai, né sul piano della tensione narrativa né su quella della riflessione, estremamente meditata, attivata dall’assemblaggio degli eventi e dei personaggi. La barbarie, la fine dell’umano, il ritorno violento del rimosso animale (tra i gruppi che difendono gli infettati ce n’è uno che si definisce “animalista”), sono le questioni affrontate da Molia. I finale è aperto: non c’è risposta ma solo la formulazione radicale e accurata di un dubbio, anzi di un complesso sistema di dubbi che attraversa il nostro tempo e il nostro immaginario con un’insistenza ossessiva, a cui la maggior parte delle fantasmagorie di vampiri, lupi mannari e mutanti oggi in circolazione non offrono che un confuso, inerme, tentativo di espressione.

[Questo articolo è stato pubblicato su Alias]

Impegno

15

di Antonio Sparzani

Ebbene sì, non ve lo aspettavate, ma alla mia veneranda età ho deciso di impegnarmi in politica, non si può più — lo sento — esimersi da un così pressante dovere. E per chi non volesse crederci ecco qua il mio programma, chiaro e dettagliato, vedete un po’.

Dove ho lasciato l’anima

1

di Gianni Biondillo

Jérôme Ferrari, Dove ho lasciato l’anima, Fazi Editore, 170 pag., traduzione di Maurizio Ferrara

Cinquant’anni ci separano dalla fine della guerra di indipendenza dell’Algeria, ferita ancora aperta nella coscienza del popolo francese, che si scoprì, nella sua cieca visione colonialista, feroce tanto quanto i “terroristi” – “patrioti”, visti dall’altra parte – che credeva di combattere.  Jérôme Ferrari la ferita non la sutura in Dove ho lasciato l’anima, semmai la incide nuovamente, la lascia sanguinare, affinché nessuno dimentichi.

Il romanzo si può leggere su due livelli: uno è quello degli avvenimenti della storia francese riletti a ciglio asciutto. André Degorce è un capitano dell’esercito che cerca, senza ormai cederci più, di arginare una rivoluzione inevitabile, utilizzando tecniche che non rispettano alcuna convenzione internazionale. I suoi metodi sono condivisi dal tenente Andreani, discepolo accecato dalla figura epica del capitano. Ma l’arresto di Tahar, inflessibile capo della resistenza algerina, rimette in gioco le certezze di tutti: Degorce ha conosciuto in gioventù la follia dei campi nazisti e la prigionia in Indocina. Un eroe, che da vittima non ha mai perso la sua dignità d’uomo. Ma la condizione vittimale – ecco il secondo livello di lettura, più esistenziale e profondo – può per assurdo essere migliore di quella di carnefice, quello che Degorce è diventato in Algeria.  Di fronte alla dignità di Tahar di attendere la sua fine, tutta la retorica militare del capitano si sfa, lasciandolo solo con l’orrore che ha saputo procurare per raggiungere i suoi scopi.

Questi due livelli del discorso si ritrovano nelle due forme di scrittura di Ferrari: quello dei nudi fatti, con un linguaggio spoglio che lascia spazio ai dialoghi e alle descrizioni, e quello del tormento psicologico, identificabile dagli ininterrotti monologhi interiori di Andreani, che dichiarano di continuo l’odio verso chi ha ammirato per anni, come di fronte ad uno specchio che non esclude alcuna mostruosità dell’anima. Quella perduta per sempre da chi ha accettato la disumanità della violenza per la violenza.

 

(pubblicato su Cooperazione, n.42 del 16 ottobre 2012) 

Donne sull’orlo di un’invisibile urgenza

31

di Helena Janeczek

Nell’avventura de Gli Incredibili, la “normale famiglia di supereroi” creata dal genio inventivo della Pixar, il dono dell’invisibilità è attribuito alla più giovane componente femminile. Violetta Parr ha un occhio coperto da una chioma nera, veste sempre di nero-emo, è una tipica adolescente che sconta l’infelicità di non sentirsi abbastanza uguale agli altri. Solo che quando vorrebbe scomparire, ci riesce. Anche sua madre detiene un superpotere che rispecchia il desiderio di molte donne adulte. Helen, in missione Elastigirl, non nutre più alcuna velleità supereroica, però la facoltà di allungare gli arti a dismisura le resta utile come madre di famiglia.

Otto poesie

5

di Stefano Raimondi


Da “Per restare fedeli” (Transeuropa-Nuova poetica, 2013)

[4 marzo 2003]

Hai ragione tu:
bisogna onorare la gioia.

E allora stammi vicino, così
fino alla penombra, al buco rosso
del passaggio colato via, per terra
vicino al mare. Tra poco saranno
le sirene a darci corde, tappi di cera
paura. Da una città all’altra si inizierà
a morire per caso. L’acqua la prenderemo
finché ci basta, finché la sete la riconosceremo
ancora, dagli occhi e dalle labbra, nei baci.

[19 marzo 2003]

La guerra e l’abbandono stanno facendo opere.
Quali riconoscere?
Si tengono lontani i bambini dai confini:
fanno paura ai sogni, alle trincee bruciate
ai sì. Ci sono vicende umane che partono
da qui, storie che sanno cosa prevedere.
Fanno trincee i bambini: le fanno con gli stracci
e le tengono, le lavano come ci fossero
solo madri da coprire.

[26 marzo 2003]

Ci sono giorni dove correre è
l’unico modo per salvarsi
altri dove è l’immobilità
e l’aria spessa del rifugio
a farci stare fermi con gli occhi
dentro a un cuore puntato
dalle sirene, per la notte.
Poche cose vicino dicono
l’angolo dove ci si siede ad aspettare
lo stesso che potrebbe non farci
vedere più da nessuno.
Si tengono a galla i topi:
uno sull’altro passano da qui.
Vedessi, amore, come sono fieri.
Hanno la tragedia negli occhi: quella
delle fogne perlustrate durante i matrimoni
che saziano le macchine e i futuri.

«Siediti qui» mi dice un bambino
«i miei giochi li ho tolti ieri dal cesto.
La mamma mi dice che presto
finirà tutto.»

Non ho saputo nulla dopo lo scoppio
dopo che mi ha lasciato con la sua trottola
che gli girava ancora tra le mani.

Lo spettacolo più raccapricciante lo riservano le corsie
dei piani superiori.

Si dissanguano le luci tolte
dalle lampade, dalle cucine,
dai vetri tramortiti per ricordare
la calma, il conto, gli anniversari
le date livellate dai compleanni.
Sono queste le trasparenti discariche
che frantumano carezze e angeli: facce
sbalordite e insonni, scalmanate e piante.

Le bacinelle d’acqua vibrano
come placente piene, come
un baccano d’ossa che pregano
che vogliono cordoglio.

Un vecchio con un braccio fasciato tossisce insistentemente […].

Stiamo vicino come in un mattatoio.
L’amore lo facciamo da qui dove
i sessi sono esposti sugli uncini.
Ogni massacro ha la sua pulizia.

I continui bombardamenti tengono la maggior parte della gente
chiusa in casa. Uscire è sempre un rischio anche se nemmeno il
tetto di casa è più sicuro.

[4 aprile 2003]

È il mattino che fa incoscienti e sani.

C’è una dolcezza sotto questo tetto
che non sa dell’abbandono, neppure
tra la spellatura, i disastri.
Si sentono i rumori, fuori
che circondano, che continuano a cadere
e il nostro buio vicino continua a costruire.
Chi abiterà per primo la stanza, tu o io?
È la paura e la grazia di una tenda
– spostata vicino alle macerie, vicino
a chi cerca qualcosa, qualcuno con le mani
tagliate, bendate – a scavare.

Non si riesce a seppellirli tutti, i morti stivati dentro camion
frigo. I saccheggiatori non risparmiano gli ospedali, le case e
i musei. Rapine, linciaggi.

Pensavamo di essere unici, indivisibili
e per sempre. Invece siamo qui trascinati
portati a braccia, schiaffeggiati.
Non ti riconosco più amore.
Non ho paragoni da farti vedere, né ricordi
uncinati di bene da sollevare a bandiera.
Siamo preziosi per poco respiro, per poco
fiato risparmiato piano.
Mi hai lasciato nell’antro del buio
per non accompagnarmi più. Fino a qui
sapevamo il nostro nome intero.

Tutto verrà riconosciuto per amore
o per quello strano respiro sporto
fino alla fine del nulla impigliato
nelle trincee, tenuto in serbo
per non morire

 

Do you remember Osvaldo Lamborghini?

9

di
Massimo Rizzante

In questi giorni sta per andare in libreria Osvaldo Lamborghini, Il dottor Hartz e altre poesie (Scheiwiller Libri). Oltre al mio saggio introduttivo sarà possibile leggere la Postilla di Alan Pauls. È la prima volta che in Italia viene pubblicata un’opera di Osvaldo Lamborghini, poeta e prosatore argentino. I lettori italiani non si devono sentire in colpa. Lamborghini è un maestro, anzi un classico segreto, anche in patria. Dopo Borges, è difficile trovare negli ultimi decenni un’opera poetica così originale e inclassificabile. Fatali e generose, violente e allo stesso tempo sentite come «disgrazie passeggere», disobbedienti a qualsiasi metrica e a qualsiasi genere letterario, le sue poesie incorporano mitologie personali, la psicoanalisi, la storia politica argentina degli anni ’60 e ’70, il surrealismo, l’epica gauchesca, il parlato con tutte le sue eresie popolari e tutti i suoi tic intellettuali. Siamo lontani dai simboli e dalla metafisica di Borges. Il mondo di Lamborghini è materiale, violento e crudele come un coltello domestico che una volta preso in mano si trasforma in uno strumento di tortura. Parlando della letteratura argentina contemporanea come di una casa, Roberto Bolaño ha detto una volta che Lamborghini è una scatola dimenticata sulla credenza della cantina: una scatola piccola e piena di polvere. Ma se uno la apre ci trova l’inferno.
Ecco alcune poesie precedute da un frammento della mia introduzione, intitolata Come un coltello domestico che si trasforma in uno strumento di tortura…

§

Ci sono molte leggende sulla vita di Osvaldo Lamborghini, poeta e prosatore argentino nato nel 1940 e morto a Barcellona nel 1985.
Una di queste afferma che fin da ragazzo avesse avuto nostalgia di un lignaggio aristocratico il cui blasone in realtà non riuscì mai a ricostruire. Soprattutto dopo che il padre, ritiratosi prematuramente dall’esercito, fallì in tutte le sue imprese, portando alla rovina l’intera famiglia.
Un’altra è che lesse sempre e solo nella sua lingua: Rimbaud, Kafka, Dostoevskij, Hegel, L’ideologia tedesca di Marx e Engels, L’estrememismo, malattia infantile del comunismo di Lenin, Broch, Musil, Gombrowicz, Freud, Lacan… Sembra che già a vent’anni, dopo alcuni tentativi, avesse rinunciato a imparare qualsiasi idioma. L’epica gauchesca del Martín Fierro, Arlt, Leopoldo Marechal, Girondo, Borges, il lunfardo gli bastavano per crearsi una lingua originale? Probabilmente.
Tuttavia, un’altra leggenda, diffusa da molti amici, riporta che Lamborghini fosse incapace di apprendere.
Non si trattava solo del fatto che l’impazienza e l’incostanza gli facevano abbandonare rapidamente ogni proposito di studio. Lamborghini, come ha detto qualcuno, amava soprattutto una cosa: non far nulla.

Ma c’era dell’altro: un’inadeguatezza a svolgere una qualunque attività pratica. Lamborghini era ontologicamente incapace di assicurarsi le più elementari condizioni di sopravvivenza. Per questo non riuscì mai a trovare un impiego per più di qualche mese – nel sindacato, in una redazione di giornale, in un’agenzia pubblicitaria. Per questo tutta la sua vita fu un errare di casa in casa – genitori, sorella, amanti, amici – e di hotel in hotel, tra Buenos Aires, Mar de Plata, Pringles e, infine, Barcellona. E odiava star solo. In ragione forse del suo antico e disperso lignaggio, non si capacitava del perché qualcuno non dovesse prendersi cura della sua persona, visto che egli era completamente assorbito dal suo destino di scrittore. In fondo non chiedeva molto: un tetto, un letto, un po’ di cibo, una teiera di mate. Ma la modestia di tali richieste era immancabilmente accompagnata da un uso pantagruelico di alcol, sigarette, psicofarmaci («Per me non c’è che una maniera di bere: continuamente, o non mi interessa»). In questo regno Lamborghini era un monarca assoluto. E, per quanto consapevole dei guasti e dei disastri che provocava a se stesso e agli altri, non riuscì mai a smettere.
In realtà, non poteva smettere né di bere né di leggere né di scrivere perché non aveva mai appreso. In altre parole, non aveva mai scelto.

Chi è che non può scegliere? Chi è che non conosce la libertà in quanto responsabilità di una scelta? Il bambino, questo essere polimorfo il cui corpo non è ancora separato dalla mente; che perciò è al di qua di ogni differenza sessuale, di ogni esibizionismo, di ogni perversione; che ama giocare, provare godimento; che lascia il piacere agli adulti, questi esseri retrospettivi che per tutta la vita cercano inutilmente di ritornare bambini, di godere come bambini: «la cultura occidental consiste en matar un niño, todos pensando todo el tiempo cómo matar al niño».

O, al massimo, colui a cui le porte dell’età adulta sono state ostruite, l’eterno adolescente, «el bebé muy viejo» (Hector Libertella): per il quale la sola autorità è la propria esperienza; l’unica umiltà il «delirio de grandeza»; che riproduce come un sismografo tutte i registri dell’espressione linguistica: la psicoanalisi, il gergo filosofico, il parlato con le sue eresie plebee e i suoi tic intellettuali; che li ripete, li nega, li spezza non tanto per accentuarne il realismo o il colore locale quanto per farne cogliere meglio l’artificio, la rappresentazione; i cui confini sessuali sono incerti; che mostra irriverenza nei confronti del mondo degli adulti: «tutta la letteratura può essere definita come irriverente. Lo scrittore non dice mai banalità»; che è sempre pronto a lanciarsi nelle braccia scheletriche della Storia, nei suoi senza nome (operai, sindacalisti), nelle cadenze del popolo; che come il popolo, a differenza dei suoi ideologhi, non guarda indietro: «L’estetica del populismo è la malinconia»; che ama le rivoluzioni, le discussioni nei caffé…
Allorché Lamborghini, a causa di qualche disavventura notturna o per una lite con un’amante, che non ne poteva più delle sue esagerazioni alcoliche, era costretto a trovare rifugio in un hotel o in una stanza d’ospedale, oltre ai suoi quaderni a righe non mancava mai di portare con sé l’essenziale: il Martín Fierro, Kafka e Rimbaud, le sue letture di sempre. In una di queste occasioni, nel 1981, scrive a un amico, qualcosa che assomiglia a una perfetta dichiarazione di poetica:

La mia opera è un brutto scherzo dell’insufficienza, non l’esibizione di non so quale superiorità o audacia nei confronti delle forme “tradizionali”. Il suo scenario è l’identificazione profonda in un segno: el pibe Rimbaud, il ragazzo Rimbaud, liceale premiato in versificazione latina che a Charleville (Pergamino) riceve la notizia della Comune di Parigi e parte in quella direzione, non verso la follia, ma piuttosto verso “l’inadeguatezza”.

Solo un anno prima, in una delle sue rare interviste, il quadro era già in piena luce:

Rimbaud dice me ne vado, bisogna intendere che viene; dalla prospettiva francese uno pensa che Rimbaud se ne vada e immedesimandosi se ne va con lui. No, tu non te ne vai con lui, te ne stai qui ad aspettarlo. Il fatto che se ne vada vuol dire che se ne viene da queste parti; in Africa, nelle pampa argentina, per Rimbaud è la stessa cosa.

Come el pibe Rimbaud, così el pibe Lamborghini, l’ultimo dei moderni… La sorte gli gioca un «brutto scherzo»: quello di appartenere a una generazione in cui, come scrive in una delle sue poesie più esemplari, Prosa cortada, regna «il Manierismo/Protervo, l’occultamento dalle gambe/Corte della mancanza di talento». E da questa «insufficienza» che è l’Argentina storica e immaginaria della sua opera («Proprio perché l’Argentina non è né una razza né una nazionalità, ma uno stile e una lingua, non si deve rinunciarvi»), l’ultimo dei moderni attende il suo capostipite in fuga da Charleville, in fuga dalla poesia. Da qui «l’inadeguatezza», non «la follia» che non è altro che «una segunda juventud», di Lamborghini. Come, infatti, far coincidere la poesia con la Comune di Parigi, con il traffico d’armi a Harrar, senza cadere nella trappola del compromesso politico («La historia no tiene autor») o nel silenzio? Che cosa significa scrivere poesia tra la fine degli anni Sessanta e gli inizi degli anni Ottanta del secolo scorso, aspettando Rimbaud in una stanza d’hotel di Buenos Aires?

§

POESIE
di
Osvaldo Lamborghini

La perdizione, un pullover chiaro…

La perdizione, un pullover chiaro
con lo stemma dell’Università:
ma,
la perdizione non è universale.
È un sapere esclusivo per esseri
delicatamente e abiettamente particolari.
Io sono quello che ieri parlava e basta.
Ma ora è il silenzio:
il silenzio, disse lui come un prigioniero.
Di fronte a una solitudine troppo popolata
le sirene si trasformano in pietre
e gli uomini
gli uomini in sabbia iniqua.

Così il canto vibra in un abisso di promesse.

Le navi ancora una volta
e ancora una volta le lettere.
Chiglie nell’acqua che pulsa
come la corda più certa di una cetra.

Scaltra.

Ti amo Elena
consapevole della mia ignoranza.
Mi resta la cetra
mi resta l’acqua
l’asfissia di chi non ha nulla e canta
per far arrossire gli dei.

Nell’ebbrezza tutti i leopardi
si alimentano e nutrono, con latte di donna.
E le donne stralunano gli occhi
(tutto è detto).
Menzogna: io volevo dirle.

2

Ma mi sono interrotto perché
(questo perché!) siamo entrati in un fiume d’acqua
d’acqua scura
che invitava alla miserabile loquacità dei mercanti ubriachi
e alla gravidanza delle nobildonne
specialiste in patrimoni e dipinti, e
e niente. Una era mia madre
felice di incontrarmi di nuovo e io felice
di poterle dire: «Là nel mare ho sempre
sentito la moneta della tua mano sulla mia testa, il tuo peso leggero,
e invece ora che mi guardi, qui nel fiume,
mi spoglio del sale, dell’Eden del sale,
ed è il tuo corpo
il tuo corpo che m’inonda».

Pausa.
Respiro.

Parentesi.

Perché mento?
Se quel che desidero è che il tuo corpo mi avvolga
come un mozzo che contemplando le sartie
crolli sulla coperta della nave
per un innocente tremito di paura.
E tu, perfetta, te la ridi
e cammini
cammini per Buenos Aires
senza eresia sulle labbra
senza mai
dico mai
pronunciare la frase
«L’imbecille di tuo padre»

3

Ritorno dal mare e desidero
desidero
con i polpastrelli delle mie dita abituate alle corde
accarezzare il volto imbecille di mio padre.
Raggiante si volta verso di me,
per un istante abbandona lo splendore delle sue armi
e decide
pronunciamento
di non pronunciarsi
di procrastinare l’ultima eterna guerra
(solo per un istante)
per dirmi solo per un istante
«come stai, come stai e perché
da codardo hai interrotto il tuo viaggio?»
«Il fatto è, papà, padre, che sono omosessuale»

«Bah, figlio mio, questo
fra uomini non ha importanza».

4

Quanti fiori in un cuore avvizzito!

***

Juana Blanco davanti a un bicchiere di whisky…

Juana Blanco davanti a un bicchiere di whisky
Giocando come sapeva giocare lei
con l’intatta possibilità di non berlo:
Vergine lo svuotava in un sorso.
Poi sorrideva e poi ancora
Faceva tintinnare il ghiaccio nel cristallo.
Sono cose fondamentali:
Perciò prendemmo la decisione di parlarci –
Come una fiala di droga
Con cui lei sapeva giocare
A lasciar intatta, si osservi la nuance,
fino a domani o mai:
C’era a quei tempi
la certezza di nessun dopo,
Di sorridere a ciò che eravamo,
Tombe contigue e baci, baci illesi,
Palpabili fino all’estinzione.

Ora lo spazio volteggia lento,
È venuto il tempo e quel che rimane
di un perfetto dopo sentimentale.

Ce n’è ancora, ce n’è ancora molto
Ora non è né domani né mai.
Semplice,
è il passatempo, la poesia e la verità.
L’imene che canticchia una canzone
come se stesse davvero cantando.

***

Ancora palline di mercurio

1

Nella posizione di cantare, nella posizione di morire, perché vantarsi della morte, nella posizione di sottoscrivere il mio testamento mentre la pioggia scrosciante di imprudenza inonda il patio, mentre non riesco a comporre ma neppure dispero
vediamo un po’ questo coraggio
no: capisco, ma mi dispiace; la prossima volta sarò, come ho detto in passato, allorché posavo da espressionista nella metropoli peccati
malgrado questo andiamo, mondialmente e ancora
questa paura
perché? – mi piacerebbe che me lo dicessero, sebbene mi neghino un bacio, con le labbra – perché non sottomettersi a questa paura, a questo panico vero?
la pioggia continua
sono malato
sto aspettando il mio pasto (stratagemmi), il ritorno del carissimo, dell’affettuoso Sebas, che ho offeso per alcune miserabili pagine di quaderno, che ho trascinato nelle mie avventure cliniche, sottoposto a prove di suggestione e ipnosi, affidato alle cure dello Psichiatra Korps, e: vulcanizzato con una cascata di farmaci anali e: anche ai traduttori
pervertendo la sua essenza

Piove molto

Mi si chiedeva di scrivere, semplicemente questo: che scrivessi
e non ho potuto farlo
perché oltre
oltre
oltre
Bene, è così – già – quasi la slealtà di un’indecenza
affamato di teorie
come tutti i casi limite
l’orrore di aver tradito il patto (non ho scritto) e la logica violenta
del castigo che mi attende
essere letto
sarò ugualmente letto…
sebbene non abbia scritto!

2

Continua il dogma delle mie apparizioni

Su tutti i pulpiti di cedro
oggi sono cresciute le rose
suonano le campane
e si stampano annunci di nozze avventate.
Per quanto il semicerchio si trasformi in cerchio e il poeta in teologo
siamo una sola corruzione
ho detto a mia moglie
e ora verrà la pace dell’odio calmo
in camere a priori separate
Padre Carlo mi aveva confidato
che infliggendoci questo matrimonio
ci saremmo nutriti di una carogna
ma gli ho risposto che l’odio
l’odio è un sacramento
e che non posso permettermi il lusso di non scrivere versi
limando l’opera con l’innocenza di un monaco
stanco dei fallimenti pagani
Padre Carlo fuma
Anch’io fumo
Entrambi abbiamo le dita gialle di nicotina
L’arte doveva finire così
Come una gallina a cui un prete e uno psicologo hanno tirato il collo
E con l’aiuto del sesso
poi
la gente se ne va confusa
come…
bah! le epoche che precedono le guerre offrono questo genere di problemi
e se l’arte è sempre un happy end
il sacrestano alleluia! ha già preso le sue precauzioni
A Treblinka tutto filava alla perfezione: secondo giustizia
come Cristo indica dalla croce

Cristo fuma
Getta il mozzicone e un centurione
lo raccoglie per un’ultima tirata
Tra il calcagno e il miracolo

3

A causa della mia angelica incapacità di pregare
sono finito per diventare il trickster della poesia argentina (Argentina!)
sono finito anche se non mi annoio
vivo in famiglia e ho sperperato
tutto fino all’ultimo soldo
per quel cazzo di funerale di mio padre.
Sto pensando anche di sposarmi e di scrivere
(«O preferisco ritornare all’ospedale?»)
avanguardie di romanzi come ordina il mio medico e amante.
Chi si annoia è la Divinità
proprio lei
che mi ha costretto a scrivere auto da fé.

Certo, riderò bene e per ultimo
ma quando prenderò i voti
poterò l’albero
questo è un frammento
anche se i puntini di sospensione
– li detesto

Sarò lo
Lo Sposo Esemplare
Generosamente mi dissocio
Lascio il sesso ai retori

 §

 

Osvaldo Lamborghini nasce a Buenos Aires nel 1940. Nel 1969 pubblica il suo primo libro, El fiord, un racconto in prosa che circola di mano in mano, sebbene si venda solo in una libreria della capitale. César Aira, amico, scrittore e curatore dell’opus di Lamborghini ha scritto che «anche se non fu mai ripubblicato, fece un lungo cammino ed ebbe il destino dei grandi libri: fondare un mito». Nel 1973 esce un secondo libro: Sebregondi retrocede, che ha la stessa sorte del primo. Sempre nel 1973 Lamborghini si lancia con alcuni amici scrittori in un’altra avventura: Revista Literal (1973-1977) che, come tutte le riviste che segnano un’epoca, dura pochissimo, due o tre numeri. In Literal pubblica alcuni saggi e diverse poesie. Nel corso degli anni settanta, di Lamborghini, se si esclude qualche edizione artigianale e stravagante, si perdono editorialmente le tracce. Le sue poesie e i suoi racconti calamitano tuttavia molti aficionados, diventando oggetto di culto. Nel 1980 esce il suo terzo e ultimo libro pubblicato in vita, Poemas. Dopo una breve stagione tra Mar de Plata (dove fonda una Scuola freudiana di Psicoanalisi) e Pringles, decide di andare a vivere a Barcellona. Malato, torna in Argentina nel 1982. Nel 1983 è di nuovo a Barcellona, dove morirà due anni dopo, nel 1985. Gli anni catalani, trascorsi in volontario isolamento, saranno per Lamborghini estremamente fertili e culmineranno nella creazione di un’ampia opera prosastica, il ciclo Tadeys, e nell’elaborazione del Teatro proletario de cámara, un’opera allo stesso tempo poetica, prosastica e grafica.

Da “Previsioni e lapsus”

6

di Luciano Mazziotta

maturità berlinese I. errori per una riconciliazione

.

*questo si chiama l’errore, che ruota attorno a una cosa e quando la centra, la cosa o invischia o risucchia. si tratta di una dispersione, attenuata, un pezzo per volta, ma che prima o poi viene fuori, quando non è più possibile mimarne l’integrità. e c’è di più o così si direbbe. c’era un di più che non appaga tuttora, nella berlino che ovunque l’occhio si giri le vede, la siegessäule e la turm. ma lì, da quella vasistdas, a neukölln, non c’era che un albero due turchi e un io che fumava e che quasi cadeva, senza orientarsi tra l’ovest e l’est.  e allora provava a rientrare, per poco, almeno