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“Gli italiani sono bianchi?”

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balotelli

di Tatiana Petrovich Njegosh

Soltanto ci si confonde con chi ci assomiglia, da ciò la necessità di mantenere netta separazione fra le due razze bianca e nera.(Alessandro Lessona a Rodolfo Graziani, 5 agosto 1936)

Il razzismo fascista segna una svolta cruciale, sia per l’affermazione di un razzismo di stato, sia per la costruzione della ‘bianchezza’ e ‘arianità’ dell’uomo “nuovo” italiano, prima con il divieto della mescolanza razziale nelle colonie (il Regio decreto del 1937) e poi, dal 1938, con le leggi antisemite in Italia. Gli studi dedicati all’antisemitismo, all’antiebraismo e alle leggi razziali antisemite in Italia sono stati numerosi, e ai fenomeni di antisemitismo ancora ampiamente diffusi corrispondono, in una certa misura, rituali pubblici (come la Giornata della memoria, il 27 gennaio), nonché una opinione pubblica discretamente informata e reattiva. Nonostante i molti recenti studi sul colonialismo italiano, invece, poco è stato fatto per capire i rapporti tra antisemitismo e razzismo coloniale, nonché, più in generale, per illuminare i nessi tra la categoria di razza e quella di identità nazionale dall’Unità a oggi.

[…] il Regio decreto del 1937 è un esempio italiano di razzismo istituzionalizzato, la cui pressoché totale rimozione, nonché il mancato collegamento con le norme sul meticciato del colonialismo liberale e soprattutto con le successive leggi razziali del 1938-39 ne oscurano l’importanza e il significato. Nonostante la ‘brevità’ della sua storia coloniale e la ristrettezza del suo impero, l’Italia detiene il “triste primato” di “numerosi” “crimini di guerra”, e rappresenta inoltre un vero e proprio “caso” perché con le leggi del 1937 “la colonia anticipa la madrepatria” rispetto alla legislazione antisemita successiva, creando “sostegno di massa ad un progetto razzista, reazionario e totalitario” (Labanca 422, 420). La società coloniale italiana era di fatto una società segregata, ma la legislazione razzista introdotta nelle colonie nel 1937 segna un cambiamento, un’incongruenza. Come ribadito da Nicoletta Poidimani, le politiche razziali e sessuali del regime sono state sperimentate nelle colonie e poi attuate nell’Italia fascista a sostegno del progetto di costruzione di una nuova identità imperiale italiana. Quello che quindi sembra un’incongruenza, un impiego di risorse normative del diritto privato a ‘tutela’ di un esiguo numero di cittadini italiani in Africa, forma in realtà, come ha sostenuto e dimostrato Barbara Sòrgoni, il “cuore” del dibattito del colonialismo europeo, della schiavitù e della segregazione statunitensi. Il “cuore” del problema, con il carico di “desiderio e repressione”, è quello della “sessualità interrazziale”.

Il tema scottante della sessualità interrazziale è un problema cruciale, non certo di mero ordine pubblico o morale, ma identitario, ideologico e politico, come si ricava dalle direttive, precedenti al Regio Decreto, del ministro dell’Africa Italiana Lessona al viceré Graziani citate in epigrafe. A colpire non è la certezza della differenza, ma la paura della somiglianza e della confusione tra ‘bianchi’ italiani e ‘neri’ africani. La linea che separa le identità dei due gruppi e definisce i confini dell’identità italiana  è documentata, o meglio percepita, come frontiera permeabile e incerta. A partire dall’Unificazione, poi nei primi esperimenti coloniali, rappresentati come occasione per riscattare l’immagine negativa dell’identità italiana e provarne la bontà razziale, nella svolta impressa dal Fascismo (che smentirà con forza l’ipotesi di un’origine camitica, africana, degli italiani, Cassata 228), nel dopoguerra, e ancora oggi, l’identità italiana si forma e si definisce anche attraverso la categoria di razza. Se, per esempio, nell’opinione di alcuni osservatori contemporanei la sconfitta di Adua (1896) rivela la debolezza razziale italiana, la guerra di Libia (1911-12) offre viceversa un’occasione per mostrare la bontà e la ‘bianchezza’ degli italiani.

Il colonialismo – e ciò che sostengo credo serva ad aggiungere un motivo alle cause della sua rimozione dalla memoria pubblica – fornisce, in altre parole, uno spazio simbolico e un luogo concreto per provare la ‘bianchezza’ degli italiani, ma allo stesso tempo rappresenta una zona liminale e rischiosa, un terreno incerto dove lo status razziale indefinito degli italiani può rivelarsi ‘nero’ (con le sconfitte militari, nonché con i rapporti sessuali tra italiani e africani), o comunque non ‘bianco’. La questione dei rapporti sessuali tra italiani e africani porta infatti con sé quello che il ministro delle Colonia Emilio De Bono definisce, nel 1933, il problema “gravissimo” dei meticci (cit. in De Napoli 4), il possibile inquinamento di una razza incerta su cui grava l’ombra dell’origine africana. La teoria dell’origine camitica degli italiani, già diffusa prima che Sergi la riproponesse nel 1895, assurge a grande fama perché ripresa e ‘tradotta’ negli Stati Uniti agli inizi del Novecento. L’africanizzazione degli immigrati provenienti dal Sud Italia, e poi di tutti gli italiani, avviene sulla base dell’ipotesi sergiana della presenza di sangue africano in alcune comunità insulari italiane. Quell’ipotesi – che in Italia ebbe poca fortuna, fu duramente contestata e non sfociò nell’istituzione di uno stato razziale – incrementa il suo ‘valore’ e muta i suoi significati negli Stati Uniti, dove viene interpretata secondo la one drop rule nata durante la schiavitù. Il sangue africano dei discendenti dei camiti (per Sergi gli italiani e tutti gli europei) viene ‘tradotto’ nella goccia di sangue nero che dopo la sentenza della Corte Suprema del 1896 istituisce una rigida separazione tra ‘bianchi’ e ‘neri’.

Molto si è parlato, negli ultimi decenni, di convergenze atlantiche (di solito in contesto politico-diplomatico o letterario), e certo il 1896 e il 1911 sono date che tracciano nuove linee nei contatti circumatlantici tra Italia, Africa e Stati Uniti. Il 1896, l’anno della sconfitta di Adua, è l’anno di Plesssy vs Ferguson, la sentenza con cui la Corte suprema americana elimina la classificazione razziale precedente, altrettanto razzista ma più sfumata (mulatto; quadroon, quarto di sangue nero; octoroon, ottavo di sangue nero). Il 1911 è l’anno in cui inizia la ‘conquista’ della Libia e l’anno in cui viene pubblicato il Dictionary of Races or People a cura della US Immigration Commission istituita nel 1907 da Theodore Roosevelt, dove gli italiani, via Sergi e Niceforo, e grazia alla propaganda razzista diffusa a livello internazionale a partire da quel documento, esordiscono nella categoria delle ‘razze scure’ (cfr. D’Agostino).

[…]

In occasione della partita di calcio Juventus-Inter giocata allo stadio Olimpico di Torino il 18 aprile 2009, una parte della tifoseria juventina ha rivolto all’indirizzo dell’allora giocatore dell’Inter Mario Balotelli lo slogan “Non esistono negri italiani”. Lo slogan, poi destinato a sparire nel calderone del problema squisitamente settoriale del “razzismo nel calcio”, o peggio, ad essere archiviato con la sostanziale motivazione che è Balotelli, con il suo comportamento ‘eterodosso’ in campo e fuori, a calamitare le reazioni dei tifosi, ha segnato uno scarto e un ritorno che pochi hanno colto. L’impatto di quello slogan risultava potenziato, per me come per altri colleghi americanisti, da una doppia eco. Quelle parole da un lato ricordavano le parole di Du Bois sull’impossibilità, negli Stati Uniti moderni e democratici, di essere americani e neri. Dall’altro lato, quelle parole violente, che parafrasando Faso, “escludono”, riportavano nel presente la “difesa” dell’instabile “razza italiana”, confermando l’intreccio tra la costruzione dell’identità nazionale e le dinamiche di razzializzazione, tra africanizzazione dell’altro e sbiancamento di sé.

Uno dei limiti più forti degli studi sul razzismo oggi consiste nella premessa generale che il razzismo sia un’eccezione, che si manifesti e sia visibile solo nella sua fenomenologia violenta, e infine che dipenda dall’ignoranza. Se l’ignoranza e la rimozione sono certo ingredienti decisivi del problema, non bisogna dimenticare le fiere e ‘dotte’ rivendicazioni – vedi le centinaia di pagine in rete, in italiano, dedicate a topic sulla purezza razziale, sull’ ‘obbrobrio’ della mescolanza razziale, sui rischi di ‘estinzione’, sul fenotipo e il genotipo, o anche le pubbliche celebrazioni, su testate non certo secondarie della stampa nazionale, della legittimità e correttezza del termine ‘negro’.

[…] Lo slogan segna uno scarto rispetto agli slogan razzisti rivolti a giocatori stranieri dalla pelle scura, o africani dalla pelle scura, proprio perché mette in relazione l’identità italiana con la negazione della ‘blackness’ e con una indiretta affermazione di ‘bianchezza’. È uno slogan tutt’altro che ‘idiota’, confuso o generico, anzitutto perché quelle parole spostano l’attenzione dal livello fenomenologico a quello linguistico, rappresentativo e identitario. E poi perché segnano un ritorno, una ‘traduzione’, danno veste simbolica odierna alle dinamiche complesse, relazionali e razzializzanti che costruiscono, nel passato come nel presente, l’identità italiana. L’insulto a Balotelli non costituisce insomma un unicum, ma è una versione contemporanea di una narrazione più antica che non riconosciamo nella sua storicità grazie al mito dell’innocenza razziale degli italiani e per il vizio di relegare nel presente, nel nuovo, nella società globale e multiculturale, lo strano fenomeno dei neri italiani. […]

 

*

 

Estratti da Tatiana Petrovich Njegosh, “Gli italiani sono bianchi? Per una storia culturale della linea del colore in Italia”, in Parlare di razza. La lingua del colore tra Italia e Stati Uniti. A cura di T. P. Njegosh e A. Scacchi, Ombrecorte, Verona, 2012, pp. 20-22, 36-38.

 

Sulle chains di Django Unchained

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di Renata Morresi

Abbiamo visto Django. Finalmente sono riuscita ad organizzarmi con tutti gli altri e andare. Eravamo io, tre musicologi (classica, funk e remix post-mortem), il sociolinguista, la dialettologa, la storica dell’arte antica, il cinefilo fine conoscitore di macaroni Western, la Black feminist, lo studioso di Griffith, il laureando su Ford, gli eredi di Leone, il cultore di splatter-polizziottesco-gorno-peplum, la filologa di Black Vernacular English, l’istruttore di dressage, una piccola rappresentanza di ex-campioni olimpici di lotta greco-romana, l’esperto balistico, Demofilo Fidani, Spike Lee, gli immancabili tarantiniani doc che se ti sfugge un’allusione alla filmografia dell’ultimo secolo, come fai, dico, come, come puoi?? Io che in vita mia ho visto mezzo Spaghetti western e non so un beato nulla di Corbucci non avrei mai e poi mai – mi dicono – potuto godermi questo film con le sole mie forze.

Ah, c’era anche la mia amica Maria, che di tanto in tanto rilasciava un “aah”, di solito al manifestarsi di un muscolo ignudo del bell’attore protagonista. Mancava solo qualcuno che raccapezzasse qualcosa di un tema, macché, di un temino, di un riferimento del tutto marginale e secondario rispetto alla vera essenza del film: la storia dello schiavismo. O no?

django on his knees

seal +flagellation

[Nelle immagini un fotogramma dal film, lo stemma di una associazione abolizionista (1837), e una incisione di fine ‘700 dalla biografia di tal J. G. Stedman, soldato olandese che racconta di come la ragazzina qui rappresentata fu scuoiata da due negrieri.]

 

Magari lo schiavismo non è un soggetto così irrilevante per Django come si direbbe a leggerne le recensioni. E forse Tarantino, che ovviamente non ha fatto un film storico sulla schiavitù, come già in Inglourious Basterds non ha fatto un film di guerra sulla resistenza al nazismo, come in Kill Bill non ha fatto un film femminista sulla ricerca di self-empowerment, auto-determinazione, bla-bla, forse Tarantino qualcosa di interessante su come funziona/va la schiavitù l’ha detto comunque.

Vi dico le 4 cose interessanti sullo schiavismo moderno che Tarantino riesce a far emergere dalla sua fantasmagoria di pasticciacci intertestuali e gorgoglianti flutti (più che schizzi) di sangue. Poi Insieme vi dico, in breve, come questo sta nella Storia (uh!) e perché gli/ci interessa. Infine Intanto vi dico dove avrebbe potuto fare ‘meglio’, ma forse non poteva proprio farlo di default, poiché Tarantino non ha né la formazione, né la vocazione di occuparsi di qualsiasi comunità identitaria, preferendo – per nostra fortuna – dedicarsi a un’altra questione (radicata nell’americanità, benché oramai trasversale): i limiti dell’individuo.

E per boicottare sin da subito questo procedere assai powerpointiano comincerò con una domanda, che molti càndidos si son senza dubbio chiesti nel corso della vita, e che Calvin Candie/Leonardo di Caprio pone in uno dei momenti cruciali del film: “Perché gli schiavi non ci ammazzano tutti?” La risposta di Tarantino è assai circostanziata [qui cominciano gli spoiler]: sì, in effetti tra poco Django li ammazzerà tutti. La risposta della Storia (uh!) la danno nel cinema accanto: come mostra il film di Spielberg, sì, in effetti Lincoln vinse la guerra civile aprendo l’esercito ai neri, che in massa si arruolarono dal Nord e in massa disertarono l’esercito sudista e gli Stati di confine per unirsi all’Unione ed ammazzarli tutti. La risposta dei neri presenti sulla scena è nella non-reazione, nel silenzio: Django prima dovrà assicurarsi di poter salvare la moglie e poi potrà ammazzarli tutti. Se gli schiavi non si sono ribellati per ammazzarli tutti è perché il sistema schiavistico era abbastanza intelligente da proibire loro legalmente, con gli Slave Codes, la possibilità di riunirsi, portare armi, imparare a leggere e scrivere, e così via, persino di guardare i bianchi negli occhi (un simpatico reato conosciuto col nome di “reckless eyeballing”, “sguardo impudente”). E così raffinato da sfruttare le famiglie divise e le comunità affettive, la concorrenza tra disgraziati, nonché il senso di inferiorità instillato sin dalla nascita nei sottoposti, per tenerne in pugno, con il ricatto e la minaccia, a volte le blandizie, le sorti. E poi, certo, c’erano i cani.

Ecco la ricetta del dominio, dunque: una abile miscela di regolamenti e burocrazie (quanti attestati, carte e certificati vediamo in Django? in mezzo al carnaio c’è sempre qualcuno che cerca il documento giusto) e di continua intimidazione emotiva (oltre, evidentemente, al vecchio vizietto delle sevizie).

 

runaway family

[Un volantino del 1847 mostra quale fosse la preda preferita dei cacciatori di taglie.]

 

Le 4 cose dello schiavismo che ho promesso. Una l’ho pensata nella piantagione di Spencer ‘Big Daddy’ Bennett/Don Johnson, il disgustoso di-bianco-vestito piantatore e datore di lavoro dei sadici Brittle Brothers, che sta lì lì per guidare la scorreria del proto-Ku-Klux-Klan (quello ufficiale fu fondato solo dopo la Guerra civile). Se ne sta in cima alla scalinata bianca della sua bianca magione, immerso nel suo harem di giovani schiave, servitori neri, domestici mulatti, lacché, dipendenti, staffieri di varie gradazioni, ineffabili ragazzine di chissà quale discendenza. Nel momento in cui scopre che Schultz e Django sono in realtà cacciatori di taglie che hanno legalmente ammazzato i tre sorveglianti lo vediamo circondato dalla sua corte variopinta. Il quadretto mi ricorda l’affanno con cui gli pseudo-scienziati illuministi computavano le razze, le loro inafferrabili classificazioni: da mulatto a meticcio a octoroon a sangue-misto e così via, un nome per il figlio di ogni stupro. Eccoli lì tutti assieme. Il confine tra bianco e nero continuamente smentito dall’abuso sessuale delle schiave, i cui figli, non importa il colore della pelle, sarebbero a loro volta divenuti proprietà. Il confine tra bianco e nero continuamente ribadito dal diritto e dalla ‘scienza’, che stabilivano (=INVENTAVANO) la diversità (e i metodi per ammansirla). Il meccanismo innescato da questo dispositivo sessual-scientifico-legislativo ne garantiva la ‘naturalezza’, l’invisibilità. [È poi così lontano da certe invocazioni odierne a “l’ordine naturale”?]

Due: il razzismo e lo schiavismo non sono esattamente la stessa cosa. Insomma, se si trattasse solo di mostrare che la schiavitù era brutta e cattiva a un pubblico che intuisce che la schiavitù è brutta e cattiva e vuole rallegrarsi di saperla giusta vedendo tutte quelle bruttezze e cattiverie, non ci sarebbe molto da dire. Se fosse solo lo schiavismo sarebbe (quasi) anacronistico. Il razzismo è altro, e già allora era lungi dal riguardare solamente alcuni bianchi cattivi perseguitanti alcuni neri buoni. Il maggiordomo Stephen/Samuel L.Jackson è forse il più ‘razzista’ della storia: per quanto Candie lo immagini inferiore e sottomesso, è lui ad intuire il gioco dei due compari, è lui che decifra la scena al padrone, è lui che suggerisce che il “campo” sia la punizione peggiore. Perché lo fa? Perché no? Ognuno si salva come può e il razzismo è una forza che va ben oltre l’idea di “razza”.

(Certo, Tarantino è molto interessato a questa affermazione individuale, assai meno alle qualità di resilienza di una comunità. È molto interessato allo “stato di eccezione” nelle sue manifestazioni singolari, a cosa fa Uno/a VS Rest of the World nell’omonimo videogioco, piuttosto che alla resistenza dei paria. Di solito, negli altri film, si intuisce che si comincia da capo: i nemici si rigenerano, Hans Landa diventa un bravo americano, e si passa allo schema successivo. Per questo Django risulta un po’ piatto: non c’è trucco non c’è inganno, alla fine l’eroe vince, i cattivi sono sconfitti. E tutti vissero… o non è andata così?)

 

iron mask

[In Django si vedono i collari, ma, se non ricordo male, non le maschere di ferro, all’interno delle quali era sistemata una piastra che andava a incastrarsi nella bocca per impedire di parlare. Questa è una incisione del 1807.]

 

Tre: Simone Weil scrive che vi è qualcosa in comune tra ignorare un grido di dolore e provare voluttà quando viene lanciato. Questo secondo stato d’animo è una forma attenuata del primo. Per questo si persevera con compiacenza nell’ignoranza: ignorare che un altro esista significa espandere i limiti dei propri desideri. “Ogni espansione immaginaria di quei limiti è voluttuosa”, scrive Weil, “[p]er questo la schiavitù è così piacevole per i padroni”. Che vuol dire? E perché penso che c’entri con la famigerata scena di lotta tra i Mandingo? Ce n’erano di torture e orrori da mostrare dritti dritti dall’ante-bellum Sud: perché inventarsi la storia delle battaglie all’ultimo sangue? Eh, Tarantino, geniaccio, quant’è vero il tuo gusto per il meta-spettacolo… quanto ti piace mostrarci una stanza chiusa, dentro cui va in scena uno spettacolo immondo, si intrecciano tante forze dichiarate e sottese, tanti livelli di lucidità e libidine, i sadici che urlano, l’amante che ammicca, il barista che lucida il bicchiere / quanto ti piace pensare a noi in una sala chiusa, che sgranocchiamo patatine, urliamo, ridiamo, tratteniamo il fiato, inorridiamo e, in sostanza, ci divertiamo un sacco alla scena del sopra detto immondo spettacolo. Non siamo complici, lo so, però lo capiamo. lo capiamo.

Quattro: forse l’ho già detto. Lo schiavismo fu una ingegnosa mescolanza di diritto e sopraffazione, di colore della pelle e status giuridico: non tutti i neri erano schiavi, per esempio, ma tutti gli schiavi erano ‘neri’, anche quelli che le unioni interrazziali avevano reso bianchissimi. È questo contratto civile ad aver reso lo schiavismo tale roccaforte nel bel mezzo della modernità. Mentre costruivano i metrò e scoprivano i pianeti, mentre Freud sgambettava bimbetto e Pasteur si dava da fare coi microbi, alcuni si prodigavano a dimostrare l’inferiorità di coloro che andavano martoriando. Non è una contraddizione tra progresso e barbarie, ma una delle versioni più diffuse del loro vicendevole radicamento nella ricerca dell’utile. I Big Daddy e i Candie sono comunque sempre mossi dai dollari favoleggiati dagli Schultz. Ai denti dei loro cani quello oppone il grande dente pubblicitario in cima alla sua carrozza. E tutti sparano allegramente, chi per “retribution” (=vendetta), chi per retribuzione.

Non è neanche una gran novità per noi venuti dopo Auschwitz. (Ormai per sempre, fino alla fine dei tempi, dopo.) Come Tarantino ci ricorda per bocca di Stephen, il peggio verrà nel “campo”. Ma perché questo ci piaccia tanto, perché questo ci faccia sentire vivi, è interessante. E non so bene se è perché la cosa ormai non ‘ci’ riguarda, o se è perché la troviamo stranamente famigliare, il lampo di un ammonimento.

 

***

 

Immagini tratte da:

The Atlantic Slave Trade and Slave Life in the Americas: A Visual Record.
http://hitchcock.itc.virginia.edu/Slavery/index.php

 

House Divided: The Civil War Research Engine at Dickinson College. http://housedivided.dickinson.edu”>http://housedivided.dickinson.edu

 

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Ci vuole molta classe nella lotta

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ursuladi
Chiara Di Domenico

Mi presento. Mi chiamo Chiara Di Domenico, sono la prima laureata della mia famiglia: una laurea in Lettere, vecchio ordinamento, che pensavo di utilizzare per insegnare, ma poi qualcuno ha deciso che ci voleva una specializzazione, e mi sembrava stupido ripetere gli stessi esami solo perché era stato deciso così.Sono diventata libraia alla libreria Martelli di Firenze (catena Edison, la stessa che ha appena messo in cassa integrazione tutti i suoi dipendenti), dove un incauto business plan ci ha sballottato fuori dalla libreria in 11 e sparpagliati nelle altre librerie, fino a lasciarci per strada.

Così ho continuato a lavorare, testardamente, nell’editoria. Ho fatto un master universitario, e senza passare per lo stage ho iniziato a lavorare con le edizioni Fernandel. Chi mi conosce sa la storia dei miei ultimi anni. Non vale la pena ricordarla nel dettaglio qui, perché non è che una delle tante. Proprio per quella storia, che è una storia vincente, visto che oggi posso permettermi di investire 600 dei miei 1.200 euro di stipendio in un monolocale a Roma, il Pd mi ha scelto giovedì per parlare di lavoro. Esordendo l’ho detto: «Sono la precaria ignota», rappresento una categoria che stringe i denti e sacrifica tempo e fatica nella speranza di un po’ di normale stabilità. Non sono tesserata Pd, non sono mai stata tesserata. Insieme ad altri precari da due anni organizziamo un festival, «Mal di Libri», che dà voce ai tanti (bravi) scrittori e lavoratori ignoti che hanno difficoltà a trovare spazi.

Oggi lavoro per una casa editrice che rispetta il mio contratto a progetto.Ieri ho parlato per 8 minuti del nostro lavoro. Di chi si è stancato di firmare un contratto a progetto senza obbligo di ore e si ritrova paradossalmente a fare straordinari che non gli verranno mai pagati. Di chi è costretto ad aprirsi la partita iva pur avendo un solo datore di lavoro. Di chi viene mandato a casa, sostituito da un apprendista, perché così è lo stato a pagare le tasse, e non il suo datore di lavoro. Per anni accetti. Ti metti in gioco. Poi ti accorgi che passano gli anni e niente cambia.

Per anni mandi lettere, come un San Girolamo dal deserto, ai giornalisti, ai direttori di testate, agli uomini e donne di spettacolo e di cultura. Alcune sono diventate note sul mio profilo facebook. Una volta ho invitato il direttore del Sole 24 Ore Roberto Napoletano a venire nel mio quartiere a conoscere i precari di cui parlava spesso. Ha voluto il mio numero, mi ha detto «La contatteranno». Silenzio.Ho scritto una lettera a Federico Fubini, giornalista del Corriere della Sera, che portando ad esempio Angelo Sraffa dice che siamo incapaci di farci sentire. L’ho invitato a una cena collettiva, lui mi ha proposto un incontro nella sua città. Allora ho deciso di farci sentire.

invasioni C’è un elefante, nel salotto letterario dove lavori ogni giorno. È davanti agli occhi di tutti, ma tutti fanno finta di niente. E quell’elefante è un ricco collage di ruoli e nomi noti. È forte a destra come a sinistra, e quella parte sinistra fa ancora più male. Io ieri ne ho fatto uno di questi nomi, non per attaccare, ma perché in questo paese, in un sistema di informazione ormai improntato solo sullo scandalismo, devi fare scandalo per fare sentire la voce tua e della classe che rappresenti. Ho fatto un nome che conosco, quello di Giulia Ichino, perché mi ha colpito leggere che è stata assunta da Mondadori negli stessi anni in cui in Italia si attuava la Legge Biagi. Mi ha colpito che fosse stata assunta a 23 anni quando molti di noi a quell’età hanno giusto la possibilità di uno stage non retribuito. In questo paese è ancora legittimo stupirsi e avere libertà di parola. Ho detto che c’era un elefante nel salotto letterario. E l’elefante finalmente si è accorto del topolino. Si è alzato, ha gridato «allo squadrismo».

Ha detto che ero strumentalizzata dal Pd, come se non sapessi leggere e pensare da sola. Non importa. Non sono una squadrista. La libertà di parola vale per me e per tutti. Ma è importante riportare l’attenzione sui precari, chè è il motivo di tutto questo rumore. Giovedì l’ho detto a Bersani e a tutto il gotha del Pd presente: chi ha potere ha responsabilità. Ha responsabilità Bersani, nel proporsi come prossimo Presidente del Consiglio, nel riformulare una legge sul lavoro che permetta un futuro, una casa, un’istruzione e una pensione agli italiani di oggi e di domani. Ma ha una responsabilità anche chi ricopre ruoli stabili nelle aziende, nel tutelare chi è più debole. In Mondadori non sono tutti assunti.

Molti lavorano a contratto a progetto, peggio a partita Iva. Chi è testimone di questa disuguaglianza deve intervenire. Ora che tutti guardano l’elefante bisogna intervenire, e occuparsi di chi è costretto a non partorire, a vedersi decurtare lo stipendio pur di avere un lavoro, a chi si ritrova a pagare migliaia di euro di tasse perché il suo datore di lavoro lo vuole ma non vuole prendersi i rischi di un’assunzione. Chi prende i tram, chi ascolta i discorsi per strada, lo sa quanto questo è diventato frequente. Troppo frequente. Io sono solo un topo, che ha osato guardare negli occhi un elefante. Mi hanno accusato di un «attacco ingiusto». Non ho mai alzato la voce. Non ha mai minacciato. Mi sono solo chiesta come si possa andare avanti a fare finta di niente. A guardare indifferenti chi non ce la fa più.

A vedere le differenze e dire che siamo uguali. Io sono uguale a V. a cui è stato proposto di licenziarsi dal suo tempo indeterminato per farsi riassumere quando avrà finito il periodo di maternità. Sono uguale a chi non dorme più. E tutta l’istruzione, tutta la cultura illuminista, e i diritti acquisiti negli ultimi cinquant’anni, mi dicono che anche il figlio di un tramviere ha diritto di fare, bene, e sereno, il lavoro per cui ha studiato. E se molte persone hanno la fortuna di crescere con una bella biblioteca in casa, anche altri hanno diritto di usufruire delle biblioteche e delle scuole pubbliche. Quelle che stanno cercando di toglierci, quelle per cui fino ad ora si è fatto troppo poco. È lotta di classe questa?

A me interessa solo che i diritti valgano per tutti. E che si regolamenti, finalmente, il mercato del lavoro, sui diritti, e non, come qualcuno ha detto, sulla fortuna. Facciamo delle nuove quote. Dopo le quote rosa, facciamo le «quote qualunque»: per ogni cognome eccellente assunto, due ignoti meritevoli assunti. Non è una provocazione, non è aggressione, forse sì, è lotta di classe.

Pubblicato sul Manifesto di oggi

Sulla querelle si veda il bell’articolo di Gennaro Carotenuto

Le dieci volte che ho incontrato Vincenzo Pardini

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di Carlo Mazza Galanti

Aquila con volpe, Antonio Ligabue, 1944
Aquila con volpe, Antonio Ligabue, 1944

Ho incontrato Vincenzo Pardini molte volte. La prima grazie a un suo estimatore, Carlo Carabba, che alla redazione di Nuovi Argomenti mi allungò un libretto pubblicato da Quiritta presentandomelo come “un grande”, e “uno scrittore di culto”. È stato subito culto, per me, in effetti.

La seconda, ma forse dovrebbe andare per prima, è stato un déjà vu: le prime impressioni ricevute leggendo i suoi racconti, come a volte succede, mi hanno rimandato ad autori del passato che amavo: certa letteratura sospesa in atmosfere impalpabili, e però perfettamente riconoscibili, prossime ai domini del fantastico ottocentesco (Natalia Ginzburg lo definì “il nostro Maupassant”), o all’asciuttezza narrativa di suoi conterranei: Tobino, che Pardini stima molto, e Tozzi, un autore che meriterebbe di essere molto più letto. E Silvio d’Arzo, anche.

La terza volta che ho incontrato Pardini è stato dopo averne letto un po’ di libri (ne ha scritti parecchi), ed essermi reso conto del valore e della ricchezza della sua opera: La mia storia di scrittore – mi ha raccontato via mail – inizia nella metà anni Settanta. Mandai due racconti a Enzo Siciliano, poi confluiti ne Il falco d’oro. Cominciai così. Il primo libro, La volpe bianca, uscì dalla Pilotta nel 1981, nel 1983 uscii col Il falco d’oro, Mondadori, nel 1987, sempre Mondadori, con Il racconto della Luna, poi con Jodo Cartamigli. E via di questo passo, finendo da Bompiani, Giunti, Quiritta, Laterza, con testi per ragazzi, Pequod e infine Fandango.

Ricordo lo stupore leggendo Il bilancio: un racconto di giovinezza credo compreso nel Falco d’oro, già limpido e misterioso come quelli che verranno, la storia di un inseguimento tra un ragazzo e una specie di avvoltoio, azzoppato. Anche quello è stato un incontro che mi piace considerare a parte.

Ma soprattutto quello con Segregazione, lungo racconto che apre un libro del ’95, Rasoio di guerra, ripubblicato da Pequod nel 2007, che mi sembrò uscito da un immaginario così estremo, al limite dell’intollerabile, da ossessionarmi per diversi giorni. Non sono sicuro che sia davvero rappresentativo della sua scrittura: racconta in soggettiva la storia di un freak, un essere umano indescrivibile, orripilante, e si legge come una potente allegoria di ogni forma possibile e immaginabile di emarginazione e isolamento. L’ho postato sul sito minima&moralia, dove chi vuole può ancora trovarlo.

Fu per me decisivo il mio incontro con Pardini mediato dagli amici animalisti e antispecisti: a loro che abbracciano battaglie che paiono fin troppo idealiste ma che possono aiutare molto, credo, a disinnescare un’atavica miopia dell’essere umano, quella di non considerarsi un animale; a loro ho provato a passare Pardini. Non è per nulla interessato a formulazioni filosofiche e teoriche ma potrebbe diventare una vostra icona, gli ho detto. Non credo esistano altri scrittori nella storia della letteratura che abbiano esplorato con tanta intensità, sensibiltà e ostinazione il mondo animale. Quasi ogni suo testo si sviluppa intorno alla presenza di un animale. Bisogna cercare nell’arte visiva per trovare qualcosa di simile: Franz Marc o Antonio Ligabue, per esempio. E bisognerebbe leggere quello che dice Debenedetti sugli animali nei racconti di Tozzi: “movimenti di vita, chiusi e complessi grumi di un divenire nel quale riconosciamo poi, ma solo in un momento ulteriore, la sagoma di un destino che ci riguarda” per scoprire come Pardini sia andato, su quella direzione, molto più avanti del suo nobile predecessore.

“Chiusi e complessi grumi di divenire” si accordano forse meglio a forme brevi che lunghe e per me Pardini resta uno dei maggiori novellisti della letteratura italiana. Non per questo rinuncerò ad annoverare trai miei incontri con lui (siamo al settimo credo) quello con i suoi romanzi, dal magmatico Lettera a Dio fino a Il postale, da poco uscito per Fandango: storia di un postiglione dalla fine dell’ottocento alla fine della prima guerra mondiale. La morte di una professione raccontata con straordinaria perizia descrittiva, minuzia di dettagli, cammei di importanti figure del passato (Pascoli, Baracca, Puccini, Bresci), l’emergere del fascismo dalle ceneri del vecchio mondo, il rilancio del complesso militare-industriale, le nuove tecnologie. La solita lingua pulita e precisissima, dove a “barcollare” non è un ubriacone ma una culla, o dove il Serchio “ruglia”. E naturalmente la storia di un cavallo, che si chiama come quello di Achille: Balio.

In occasione dell’uscita di questo libro, Fandango ha organizzato una serata, a Roma, il 13 dicembre, un vero e proprio omaggio a Pardini dove alcuni scrittori hanno letto parti della sua opera, in presenza dell’autore. Ecco un altro incontro. Non sono mai passato nè da segreterie, nè sacrestie – mi ha detto – indipendenza e solitudine hanno un prezzo alto. Sarà, ma ognuno ha il pubblico che si merita, e quello di Pardini, per quanto numericamente limitato, mi sembra un pubblico invidiabile. Tra i contemporanei ammiratori di questo scrittore ci sono Marco Lodoli, Valerio Magrelli, Emanuele Trevi, Aurelio Picca, Mario Desiati, Sandro Veronesi, Edoardo Albinati, Romana Petri.

L’unica volta, ad oggi, che ho incontrato Pardini nelle sue terre è stato un paio di anni fa, quando sono andato a trovarlo nella sua casa in mezzo alla campagna dell’oltre Serchio. Lui vive da sempre in quella parte della toscana, tra Garfagnana, Lunigiana, Media Valle del Serchio. Quasi ogni sua narrazione è ambientata lì: che si tratti dell’epoca degli etruschi, di quella dell’Ariosto, dell’ottocento o della contemporaneità. In questo senso la sua opera è uno spaccato verticale della storia del nostro paese, a partire da una geografia molto circoscritta. Pardini ha preferito l’intensità del “locale” all’estensione del “globale”. Una forma spontanea di resistenza. “Non vado mai in vacanza” mi ha detto, in quella circostanza. Nel senso che quasi mai si allontana dalle sue parti. Ne conosce il passato, il presente, le genti, gli animali: di cui ripete i versi in un modo particolarissimo, non una semplice imitazione ma uno stenogramma sonoro, per così dire, come se sapesse coglierne solo i tratti pertinenti, quelli che ne fanno un vero e proprio linguaggio.

[Questo articolo, con qualche variazione, è stato pubblicato su Orwell, un inserto culturale momentaneamente e suo malgrado uscito dalle edicole. Per sapere dove e come ritornerà, leggere qui]

Inedite

2
di Daniele Ventre
 
1.
 
Sarebbe dolce salpare seguendo i sussurri piani
tra fuochi lungo le rive d’oceani e cuori di palma:
cullati su un legno lieve abbandonarsi alla calma
piatta dell’onda tranquilla fra scie di sogni lontani.
 
Ma il gioco si chiuderebbe secondo il copione antico
degli albatri zoppicanti fra risa di marinai
fenici (alla fine muti fra allegri canti di lai
inghiottirebbe noi tutti ingordo il gorgo lubrico).

video arte #17 – fischli & weiss

2

Peter Fischli & David Weiss, Der lauf der dinge, 1988.

Camera straniera

1

camera-straniera di Fabrizio Scrivano

Marco Belpoliti, Camera straniera. Alberto Giacometti e lo spazio, Milano, Johan&Levi, 2012.

C’è chi sostiene che un incontro non sia mai casuale. Per conto mio ritengo che il caso sia ricco di ottime ragioni possibili, basta non stare troppo a sottilizzare tra causa ed effetto, passato e futuro. Questo però è un caso meno generale e con qualche valore di restituzione.

Tra il 1997 e il 1999, lavorando a una ricerca sull’attualità della scultura, o delle arti tridimensionali, avevo frequentato opere di e su Alberto Giacometti. C’era un motivo specifico per questo interesse: era incontestabile che fosse il più aptico – cioè otticamente tattile, secondo la definizione di Alois Riegl e di Gustav Schmarsow – degli scultori del Novecento. Gli occhi si aggrappano ai suoi oggetti, con tutta quella superficie abrasiva, che inoltre non sembrano mai stare fermi, forse perché indefiniti rispetto a un qualche contesto, quello che sia.

Non avevo in mente nulla di questa questione quando sono entrato, subito dopo il colloquio con uno dei professori di mio figlio al Liceo Virgilio di Roma, nella libreria d’arte & caffetteria Let’sArt in via del Pellegrino 132. Il luogo è piccolo e i libri molti, il caffè buono e qualcosa s’impara sempre. Con appena un po’ di sconto sul prezzo di copertina, su un piano, c’era questo librino azzurrino di Belpoliti su Giacometti, che sembrava un richiamo dal passato appena menzionato: irresistibile. La cosa che ho notato quasi subito è che il testo era stampato per la terza volta, a partire dal 1991, poi nel 1996, e io non l’avevo mai incrociato: ecco un’occasione riparatrice.

Non conoscere l’esistenza di questo testo mi aveva preclusa, o più semplicemente trovarlo mi ha permesso di guadagnare la consapevolezza che scrivere di Giacometti è un genere letterario, che appartiene al discorso della critica d’arte solo in parte, o addirittura non gli appartiene. Non mi riferisco tanto al fatto che le parole dei poeti e degli scrittori e dei filosofi dedicate agli artisti, meglio se morti, abbiano potuto in tanti casi dare degli accessi imprevisti alla percezione delle opere: queste operazioni, che pure su Giacometti non mancano, hanno a che fare con l’encomiastica. La narrazione giacomettistica ha un’altra qualità e un’altra funzione: appartiene a quel genere di narrazione che permette di riuscire a raccontare l’esperienza di un altro attraverso il racconto della propria esperienza. Che la giacomettistica abbia fatto genere nel genere si deve all’eccellenza del suo precursore, Jean Genet, che nel 1958 ha impostato alcune caratteristiche: brevità, forte richiamo all’esperienza diretta, concentrazione su un tema o figura da sviluppare, ripresa dei tratti cruciali degli atteggiamenti artistici e personali; l’utilizzazione del materiale d’archivio, soprattutto testi di o su Giacometti, si è aggiunto successivamente.

giacomettipometCamera straniera risponde ottimamente a questa prassi. Il suo tema privilegiato è la morte, luogo/tempo invisibile per eccellenza, destinazione di altri miti (narrati e figurati) che i soggetti di Giacometti incarnano (dire ingessano farebbe tutt’altro effetto). Belpoliti ne attraversa alcuni, facendo riferimento a opere precise davanti alle quali sosta e fa sostare il lettore: non “in assorta meditazione” bensì con grande intensità espressiva. Ho detto sujets ma intendevo figure, perché Giacometti non rappresenta oggetti e spazi che rispondano a qualche criterio di verificabilità empirica; quanto piuttosto produce immagini appena allusive al mondo che siamo in grado di rappresentare. Nelle sue figure scorgiamo cose ben riconoscibili: la mela, la testa, la donna, l’uomo, il cane, la casa; ma lo spazio in cui stanno è straniante, forse appunto straniero come lo dice Belpoliti; in altre parole lo spazio delle figure di Giacometti è irriconoscibile. I corpi filiformi e altissimi, o allungati orizzontalmente se di quadrupedi, i loro gesti infiniti – camminare, sostare, posare, urlare – sembrano alludere a uno spazio immateriale, letteralmente non incontrabile (se non nelle opere di Giacometti). Il passaggio di queste forme dentro il mare del Surrealismo è ancora e sempre molto evidente, ma di passaggio appunto si tratta e ora quelle immagini in lotta con la banalità del reale – supponiamo di non sapere ancora sia apparenza o cosa – si sono asciugate, seccate, divenute infine profondamente simili a se stesse. Se il demone di Giacometti fu lo spazio, come sostiene giustamente Belpoliti, la ricerca di assoluto, di spazio assoluto, sta forse nell’abolire otticamente il rapporto tra figura e sfondo, una relazione necessaria, in genere, alla produzione di contesto. Le figure non sono in rapporto a qualcosa che si vede (e che condividerebbe il medesimo spazio) ma a qualcosa che da esse è espulso, cancellato, abolito, neutralizzato. Come in altri scultori, per esempio Constantin Brâncuși, la statua tende ad mostrarsi come un oggetto irrelato (da lì a qualche anno Donald Judd avrebbe parlato di specific object) e non come un corredo ambientale.

Questo sfinimento dello spazio degli oggetti, nella poetica di Giacometti, come mostrano tutti i suoi scritti sempre puntualmente richiamati, è bisogno di realtà, mai trovata nell’apparenza ma sempre palesata in quel che resta dopo la manipolazione, portata sempre al limite della scomparsa. Cogliendo con nitidezza questo spostarsi dell’occhio-mano verso l’annullamento della figura, Belpoliti lo attribuisce a una continua tensione verso la morte: è il motivo per cui queste pagine si costruiscono completamente sull’intreccio tra lo spazio e la non esperienza che è la morte.

Giacometti skulptur. Gia_091007 012. Foto: Finn Brøndum/LouisianaUn secondo elemento di fedeltà a quel genere che si diceva, sta nel fatto che l’analisi delle opere di Giacometti restituiscono vivamente l’esperienza dell’osservatore e del ricercatore, concentrata sulle opere come sul “brusio” vastissimo che le circonda; e rispettando l’assunto tematico del suo racconto si spinge e ci porta effettivamente in visita lì dove ci sono le soglie materiali di quello spazio in bilico tra la vita e la morte, che è la tomba di Giacometti nel cimitero di Stampa. In questo modo, va notato, Belpoliti inserisce una variante significativa nel genere, che è più legato alla visita al laboratorio dell’artista.

Tra i vari libri di giacomettistica, per esempio, va ricordato quello assai raffinato di Tahar Ben Jelloun, La via di uno soltanto, anch’esso del 1991, e che nella bella edizione italiana (Milano, Libri Scheiwiller, 2009) si arricchiva di un testo del 2006, Visita fantasma all’atelier di Giacometti, postumo tentativo di conquistare un’impossibile fisicità e prossimità. Il racconto di Ben Jelloun si concentrava invece sul tema della solitudine. Iniziava incrociando due immagini, cioè le immagini di due diverse persone: quella della statua Uomo che cammina con una propria immagine di gioventù, la via stretta di Fez (ma così stretta da non concedere che il passaggio di una persona per volta, purché magra). Il riconoscimento di un’immagine interiore in un’immagine esteriore, gli permetteva non solo di giustificare l’incontro e la sintonia tra due anime, forniva anche un’altra figura su cui continuare la narrazione. Giocando sulla relazione dentro/fuori, ora non più spazi antitetici bensì luoghi di continuità, faceva emergere l’immagine del deserto, che caratterizzato come uno spazio indefinito nei margini ed equivoco rispetto alla direzione da prendere per attraversarlo, si offriva molto bene a illustrare questa marcia infinita dell’Uomo di Giacometti, che era in grado di attraversare integro ogni pellicola, ogni involucro, ogni pelle, ogni corazza del suo corpo (del corpo dell’artista), tuttavia mostrandone la desertica, tragica solitudine.

Il bello di queste narrazioni, che insieme utilizzano e offrono argomenti non estranei alla critica d’arte, sta nel saper proporre un approccio caldo all’esperienza artistica. E se il rischio è quello di sovrapporsi all’opera e ancor più agli artisti, è un rischio che vale la pena di correre.

La geologia di Valerio Magrelli

3

di Franco Buffoni

Vale le perle della dama di Heaney in North lo chignon della nonna ciociara, conservatosi intatto per lunghi decenni nella tomba di famiglia a Pofi. E in una saga famigliare – in apparenza – consiste Geologia di un padre, la nuova proposta narrativa di Valerio Magrelli per Einaudi, che “chiude” – come precisa l’autore nella nota finale – la serie iniziata nel 2003 con Nel condominio di carne, e proseguita con La vicevita e Addio al calcio.

Ad una lettura attenta, tuttavia, Geologia di un padre si rivela essere non solo il libro di narrativa più profondo e complesso del poeta di Nature e venature, ma anche in qualche misura il suo “testamento”. Tra le righe si può cogliere questo semplice pensiero: se io, Valerio, sono così oggi, è perché sono figlio suo. Io, che con il passare degli anni vado sempre più assomigliandogli anche fisicamente, sono sempre di più “lui”, anche perché ho saputo trasmettere a mio figlio, studente di architettura, la dote più grande del nonno ingegnere: quella capacità di disegnare ponti viadotti monumenti e interni con tratto sicuro e sensibile.

Convincere un gatto a curare la sua sinistra e NON la sua destra

18

a Cat

di Davide Orecchio

Apri gli occhi e ascoltami. Scendi dal morbido dove riposi. Sospendi gli oltraggi domestici, le unghie sul limone, la mascella aperta per il fiato che sa di latte. Avvicinati e resta in piedi. Se vuoi, poggia le natiche sulla coda. Non intendo parlarti dell’evaporazione e dello scoloramento di noialtri ma di te, delle tue scelte sbagliate e false convinzioni, di una coscienza miope che non asseconda la tua vera natura e condizione sociale e rotola ingenuamente negli atteggiamenti politici del gatto che sei tu.

Da “Primo romanzo morto”

5

[Puoi sostenere la pubblicazione di Primo romanzo morto di Guido Caserza prenotando il libro sul sito di Produzioni Dal Basso a questo link: http://www.produzionidalbasso.com/pdb_1892.html#]

di Guido Caserza

In breve

L’ispettore Polibio indaga su un caso enigmatico. Il cadavere di un eminente uomo politico è scomparso. La sua indagine lo porta a scoprire complotti massonici e segreti di Stato. Fra apparizioni fantasmatiche e ricordi di vita coniugale, l’inchiesta si trasforma in una delirante anamnesi famigliare: un nesso oscuro collega i delitti di una famiglia a quelli della nostra storia repubblicana.

Qualcosa di nuovo sul fronte occidentale

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bd

 

E’ nato, da un’idea di Alessandro Bertante e Giuseppe Genna, Book Detector.

A me pare proprio una bella notizia, no?

Callimaco – Aitia – Prologo dei Telchini

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Sempre i Telchini, che mai della Musa furono amici,
rozzi che sono, sul mio canto rimuginano,
solo perché non lo tesso continuo un poema che narri,
lungo migliaia di versi, o delle imprese dei re
o degli eroi primigenii, ma in piccolo spazio mi volgo,
come un bambino -e non ho pochi decenni d’età.

Presentazione “Commiato da Andromeda” a Milano

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piero di cosimo

Milano – venerdì 8 febbraio – ore 21.00

Presentazione del volume

Andrea Inglese Commiato da Andromeda (Valigie Rosse, premio Ciampi 2011)

presso la Libreria Popolare via Tadino, 18 a Milano

coordina Alessandro Broggi

 intervengono Vincenzo Frungillo e Paolo Zublena

lettura dell’Autore

Do you remember Nicolas Bouvier?

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Bouvier - Copertina

Ritrovare il vento delle strade
di
Luigi Marfè

“Eterni viandanti sono i giorni e i mesi, e gli anni, che vanno e vengono. Chi trascorre una vita fluttuante su una barca e chi accoglie la vecchiaia con in mano la briglia di un cavallo fa del viaggiare la sua dimora
”, ha scritto Matsuo Bashō, poeta e viaggiatore giapponese, instancabile maestro di haikai, percorrendo a piedi il sentiero del nord, verso l’allora remota regione dell’Oku.
Immaginate nei luoghi più improbabili – sotto la neve di un inverno trascorso a Tabriz, in un letto infestato d’insetti a Galle, dentro la boutique di un barbiere di Kyoto, tra le sabbie del Taklamakan, deserto d’Asia il cui nome vuol dire: “non ne uscirai vivo” – le poesie di Nicolas Bouvier, scrittore, viaggiatore e fotografo svizzero scomparso quindici anni fa, devono molto alla tradizione giapponese, capace di raccontare con scrittura scabra ed enigmatica l’impermanenza dell’essere e lo stupore per la fragilità di tutte le cose.

07
Da qualche tempo i libri di Bouvier – autore molto noto nella cultura francese, dov’è considerato l’ultimo degli écrivains voyageurs, erede di Segalen e Michaux – sono diventati anche in Italia l’oggetto di un culto segreto e disperso, frutto di un destino editoriale tormentato, fatto di troppe sedi diverse, ma anche di edizioni andate ogni volta esaurite.
Un nuovo libro, ospitato in una collana curata dall’Associazione alleoPoesia per le Edizioni ETS, offre ora in traduzione italiana anche le poesie di Bouvier. Si intitola Il doppio sguardo. Le dehors et le dedans ed è la sua unica raccolta, il canzoniere portatile di un’intera vita. Quarantaquattro testi, in perfetto equilibrio tra le dehors e le dedans del poeta: il fuori dei paesaggi incontrati lungo la strada e il dentro delle più remote stanze dell’anima.

Dalle opere precedenti di Bouvier – La polvere del mondo, Il pesce-scorpione, Cronache giapponesi – emergeva l’immagine di un maestro della sparizione, che nella deriva cercava un mezzo di scoperta di sé. Esperienza che tuttavia non era conquistata in virtù di un’accumulazione di saperi, quanto semmai, al contrario, per sottrazione: il viaggio inteso come faticoso travaglio (stessa etimologia di to travel…) che mette a repentaglio tutto per liberarsi dagli abiti troppo stretti dell’abitudine, per aprirsi all’incontro con l’altro.
Queste poesie mostrano come la scrittura consistesse per lui nel lento apprendistato di un’analoga arte del levare, con cui ripulire dal superfluo la voce essenziale dell’io.
Ogni passo verso il meno, amava dire Bouvier, è un passo verso il meglio.

03

§

Bruce Chatwin, che di viaggi se ne intendeva, si trovò una volta a distinguere tra due gruppi antitetici di scrittori: quelli che per scrivere hanno bisogno di abitudini e orari fissi, e quelli che invece, quando sono a casa, non sanno nemmeno da dove cominciare, come se l’immaginazione potesse innescarsi soltanto cambiando d’orizzonte, mettendosi in cammino.
Non è difficile immaginare che tipo fosse Bouvier.
Un giorno del 1953 un amico lo invitò in Bosnia, dove si guadagnava da vivere come pittore. Bouvier, che aveva allora 24 anni, ma già lunghe scorribande alle spalle, partì su una Fiat Topolino per un viaggio senza altre mete se non quella di spingersi il più lontano possibile. Ne sarebbe tornato quattro anni più tardi, dopo essere giunto fino in Giappone, con il vanto non da poco di aver vagato per l’Oriente più lentamente di Marco Polo.

Proprio in quegli anni, dall’altra parte del mondo, Kerouac iniziava a girare in lungo e in largo l’America. Anche nei libri di Bouvier si respira un’aria beat, battuta e felice. Ma c’è dell’altro. C’è una poesia che si ostina a tessere ombre, a sottrarre peso alla lingua, per meglio lasciar presagire luci e volteggiare voci altrimenti impercettibili. Una poesia chagalliana, esile e fioca, ma sempre pronta a spiccare il volo.
La poesia, ha scritto Bouvier, è fatta di “parole del mistero, dell’affanno e dell’ombra” che ci vengono ogni tanto a visitare, come uno sciame d’api, insieme a qualche frammento dimenticato di mondo. Il silenzio si allarga così fino a diventare uno spazio da traversare, da eludere, da interrogare, “come un segno o come un presagio / di cui non si è certi di aver trovato il senso”.

§

Mi sono imbattuto in questo libro quando i viaggi dei vent’anni erano ormai finiti da un pezzo. Ma ho avuto la fortuna di viaggiare tra i suoi versi, di abitarli per qualche tempo come traduttore, lasciando che passassero lentamente da una lingua all’altra.
Tradurre i libri di Bouvier, è stato detto, non è semplice, poiché la sua fedeltà a un’idea di letteratura come ostinato esercizio di “ravvivare le parole per dar loro colore” lo ha spinto verso un dizionario dell’impoverimento che non ha riscontro nella lingua di altri poeti.
È quello che accade anche in questo libro, scritto – secondo il precetto di Vladimír Holan, il poeta boemo di cui Bouvier portò con sé i versi durante il viaggio in Oriente – lungo quella sottile soglia mentale in cui si tiene “un piede ancora nel linguaggio e l’altro già nel silenzio”.
A questo linguaggio che rovescia e confonde le comuni coordinate del fuori e del dentro, del vuoto e del pieno, Bouvier attribuiva il potere di far vibrare la “musica ininterrotta” di ciò che è inatteso, imprevisto, appeso a un filo.
Queste poesie erano intese come “canzoni di un compagno di viaggio”, mediante cui trasmutare in regalo l’inverno del cuore, la malinconia, “il peso inesorabile dell’esistenza”.
Ho cercato una traduzione che fosse soprattutto un ausilio alla lettura, o meglio all’ascolto, del loro ritmo. Può darsi che la bellezza dei versi originali lasci talvolta trasparire anche in italiano un’ombra della loro melodia, della loro leggerezza.

Bouvier - cover - 4

 

 

§

POESIE
di
Nicolas Bouvier

§

Novembre

Le melagrane aperte che sanguinano
sotto un’esile e pura coltre di neve
il blu delle moschee sotto la neve
i camion rugginosi sotto la neve
le faraone bianche ancor più bianche
i lunghi muri rosso persia
le voci smarrite
camminano a tentoni sotto la neve
tutta la città, fino all’enorme fortezza
se ne vola via nel cielo striato

Tabriz, 1953

***

Le Indie galanti

Ombelico del continente
Lieve polmone del mondo e polvere dolce ai piedi

Questa strada ha molto dalla sua
in tutte le direzioni della bussola
è spazio e eternità
savane color cuoio
avvoltoi in tondo nel cielo cannella
villaggi verdi intorno a una pozza
ritti dèi coperti di minio
e di carta argentata
città cadenti, arzigogolate
e sguardi che incrociano il tuo
fino alla nausea

Ti spingi avanti lentamente
un mese passa come niente
consulti la mappa
per vedere dove ti ha portato la deriva del viaggio
foci verde acqua aperti come palmi
bruni corrugamenti degli altipiani
i sigaretti legati a un filo rosso
costano appena cinque annas al mazzo
dove andremo domani?

Alla stazione di Bezwada
hai dormito su una panca
sentivi nelle reni il peso della giornata
dai quattro angoli della notte le locomotive
arrivavano
mugghiando come mercantili
svolazzi di madreperla sugli eucalipti

La luna salendo era così piena
e la vita così sottile
che non c’era quella sera
altra perfezione che nella morte

Sholapur, India centrale – Ginevra, 1978

***

Love Song III

Quando ravvivare le parole per dar loro colore
non sarà più affar tuo
quando il rosso del sorbo e il profilo delle ragazze
non ti faranno più rimpiangere la giovinezza
quando un nuovo volto tutto sbreccato d’assenza
non farà più tremare ciò che credevi saldo
quando il freddo avrà preso congedo dal freddo
e l’oblio detto addio all’oblio
quando tutto sarà foderato
dal silenzio opaco dell’agrifoglio

quel giorno
qualcuno ti aspetterà sul bordo della strada
per dirti che è andata bene così
che dovevi concludere il tuo viaggio
spoglio
del tutto spoglio

allora forse…
ma la neve caduta questa notte
sia come un dito sulla tua bocca

Ginevra, dicembre 1977

Quattro poesie

25

immagine di Pietro D'Agostino

di Marco Giovenale

Da Delvaux
(raccolta di prossima pubblicazione per Oèdipus)

 


Porgere l’incostanza
– suggerisce. Quasi cade.

Soltanto variare vale
– sogna nel doppio
sogno, la
domenica è lunedì, è
l’inizio, del respiro.


Per il resto – chiodatura, talco, tarma,
il contrario dell’acqua,
orma al contrario nell’acqua, e il dondolio
(mite) dell’asse (onesto)
certo dell’impiccatino



*



La casa è di un
altro adesso: l’architetto
ha consigliato come
girare murare
stanze finestre – aprirne
di migliori.

Datteri, damasco, ossi ribruciati. Vede.
Per ogni vuoto che la lingua avverte in bocca
stanno medie fami che incoccano
altro
– segno di mancanza. Proiettato.

Nel costo irreale (irrealizzabile)
delle parole i propri
conti piccoli reali alzati
sollevati, musi chiusi fuori



*



             mentre aspettano,
già che sono lì sono
fucilati. Quelli fuori
vivi vanno avanti ad aspettare



*



Le feritoie (duomo, Alba) loro
segnano: mattina.
Agli stalli (al coro) sono
gli intarsi arancio
e di piazze vuote e di fontane; rive e frutta
sono altre
meridiane – mute. Donne
dominate dai
grani che falciano
loro



[Immagine di Pietro D'Agostino]

Il numero degli angeli

0

di
Benny Nonasky
numeri-sparsi

Il turno va dalle 7 alle 15 o dalle 15 alle 23. Restiamo seduti sulla sabbia perennemente umida. Scrutiamo l’orizzonte. Si parla poco. I nostri occhi non si incontrano quasi mai. Sono troppo impegnati a non perdere la linea dove si scatena un niente così asfissiante da restituire una tranquillità omicida. Ci assalgono troppi ricordi, troppi sogni. E questo è proibito. “Nessuno può avere più o meno degli altri. Nessuno deve soffrire o crearsi illusioni e precarie felicità maggiori o minori degl’altri”. Così cita il Manuale dell’Amore e della Perfetta Convivenza. Così c’è stato insegnato. Così noi rispondiamo e agiamo. Però l’orizzonte è meschino. E’ uno schermo vuoto dove la tua mente crea e crea e crea miriadi di scene che forse mai hai vissuto o che qualcosa ha cancellato. Magari solo rifiuto forzato di un passato ormai espresso in algoritmi e pillole rosse, sapor lampone. Non ho modo di rispondere. Anche se le domande qui sono mostri che divorano, spezzano, ingoiano. Deridono. Anche fare metafore lo è. “La realtà è una, espressa con parole consone e stabilite. Il linguaggio non può essere alterato né reso simbolico. Suddetto atto è reato.”

Per questo ognuno guarda fisso verso quel filo impastato di nuvole, cielo, mare. Dentro si piange dal dolore. Se i nostri occhi si incrociassero, si baciassero per un solo istante, le lacrime non avrebbero più prigione e scaturirebbero dalle orbite come cascate alte chilometri, infinito diluvio di amara acqua repressa da ancestrale istante quando tutto ebbe inizio. O fine. O intermezzo. E tutto salterebbe in aria. Carcere. Torture. Rieducazione chissà in quale luogo. Quindi: morte. Quindi: evitare ogni contatto. Restare fissi verso il compito assegnatoci. Aspettare. Aspettare fino alla fine del turno. Poi il cambio e rientro a casa. Primo passo oltre il cancello di ingresso: salutare e sorridere verso la telecamera sopra all’ananasso sulla destra. Prendere la chiave dalla tasca. Fare tutto in modo chiaro, senza movimenti bruschi che possono insospettire. Arrivato davanti alla porta di casa, citare il proprio nome. Riconosciuto, la porta si apre. Salutare e sorridere alla propria famiglia, mentre le telecamere poste nei quattro angoli di ogni stanza della casa seguono ogni spostamento. E così per tutti gli appartamenti, i luoghi di lavoro, i parchi giochi. Per le strade, invece, nulla è chiaro. Si dice che le telecamere siano nascoste dentro i lampioni. C’è chi dice che siano quei moscerini giallo-verde che sostano, miliardi, sopra le nostre teste. Qualcuno è arrivato a supporre che non ci sono telecamere sparse per le strade, che tutta questa improbabilità non confermata dal Governo è unicamente una scusa per vedere, per stabilire la tua fiducia verso di Esso. E’ solo un terrore intrinseco nel tuo cervello. Ormai una prassi. “Qualsiasi comportamento ECCESSIVAMENTE errato, non aderente alle Leggi comunicate quotidianamente dalla TV o scritte sulla magnifica carta del Manuale dell’Amore e della Perfetta Convivenza, conduce a uccisione istantanea da parte dei Servizi D’ordine.”

Il mare è traditore. Tu lo conosci bene. Da anni sfiori la sua spuma opalina riversarsi sulla spiaggia come caduca carcassa d’uccello in balìa del vento. Avanti indietro. Ritmo ripetuto all’infinito. Tempo che scorre. Mormorii, brontolii. Stomaco sempre pieno. Non hai mai capito se la voce del mare è un dolore o una soddisfazione. Arriva al punto di dirti: Tu pensi troppo amico mio. E non sai se sei tu a crearti questo limite o è il mare a importelo. Le domande sono effimere quando le risposte sono già servite su plasma e satelliti sparsi un po’ ovunque in quel terso cielo che ti copre dal buio insormontabile dell’universo. Il mare non ha voce. Il mare è un oggetto. Il mare è insensibile, vittima della luna e del firmamento. Ma il mare, e tu lo sai, è anche un assassino. Forse involontariamente. Forse con meschina consapevolezza. Tu che sei il guardiano, tu che sei il raccoglitore, non puoi non sentirti soggiogato e rapito dalla sua cattiveria e dall’ossessione impulsiva di porti delle domande. E’ un perché iniziale che ti accompagna fino all’obitorio, fino al portone di casa e al solito sorriso. Fin sotto le coperte. Nei sogni. Negl’incubi. Nel giorno successivo e quelli dopo. Non potrai mai terminare. Loro non finiscono mai di raggiungere la costa e sai e non sai cosa sono. Sono diversi da te, ma hanno la tua identica forma. Una testa, due gambe, due braccia, un torace. Ma sono diversi. Da dove vengono? Perché arrivano qui? Perché sono morti, morti, morti? Le Pattuglie d’Ordine le vedi lì in fondo al blu scuro, tra le onde. Le loro luci rasentano l’acqua. Cercano, ma sembra che non trovino mai nulla. La loro risposta al mondo è: “Controlliamo. Puliamo”.

Ma cosa vogliono dire? E cosa sono loro? Questi cadaveri mangiucchiati da pesci e sale acido, da dove vengono? Dallo stomaco poroso del mare? Qual è il loro obiettivo? “Tu sei stato progettato per proteggere i tuoi confini. Uomo: tu sei una macchina di pelle al servizio della società. La società ha le sue regole, le sue norme, la sua struttura mediatica e politica. Tu non devi fare altro che seguire i canoni prescelti. Tutto è fatto per il tuo bene. Per essere felice. Per non sbagliare. Per vivere in eterno.” E loro? Loro di quale sistema fanno parte? “Hai un lavoro. Sei parte di questa società. Contribuisci alla sua crescita. Giochi un ruolo fondamentale. Sei tu che manipoli il tuo destino. Noi costruiamo solo la base e demarchiamo la strada. Noi ripieghiamo agli errori del passato per farti avere un percorso orizzontale senza intoppi o ferite che ti condurrebbero a futili malie mentali e fisiche. Non ti porre domande. Noi abbiamo già tutte le risposte. Chiedi, ti sarà dato. Ogni giorno, ti è sempre dato.” Tu non sai se anche i tuoi compagni hanno questi pensieri, questi punti interrogativi. Parlate del tempo, del mare in burrasca, della cena di ieri sera, della partita a calcio nel parco vicino al Ministero dell’Informazione. Mai di lavoro. In silenzio si prende il cadavere, lo si mette su di una barella di ghisa azzurrognola, lo si deposita nella macchina funebre, ci si siede ai lati davanti al morto coperto da un telo verde scuro e si parte alla volta dell’obitorio.

Lui cammina per la via principale. Le mani in tasca. Deve recitare una parte. Quindi fischietta un motivo con le labbra tirate in avanti. La sua mente deve essere sempre impegnata. Questo alleggerisce la tensione. Menefreghismo. Mai un pensiero serio. Solo superficialità, spensieratezza. Sta andando al campo di golf a vedere suo figlio allenarsi. Domani ha una partita importante contro quell’odioso di Micheal Sum, campione cittadino da ormai più di un decennio. Un vecchio che si diverte a innalzare coppe e stringere mani davanti alla testa china dei suoi rivali. Bambini o adulti che siano. E’ bravo, forse un campione, ma c’è di mezzo anche l’altra faccia della medaglia. Non è solo un vecchio stronzo, veterano di quei campi verdissimi e pulitissimi; è anche il magnate dell’unica fabbrica di cemento della città. Chi ha il coraggio di farlo perdere? Lui offre lavoro, cemento, manodopera per tutto quello che c’è in questa città. Dalle piazze alle case, dagl’alberi ai lampioni. Non esisterebbe questa città senza la sua fabbrica. Lo sanno tutti. Bisogna prenderla come un onore, cioè un onore giocare contro di lui, il magnifico Micheal Sum. Un ossequioso passatempo che convoglia in una foto con stretta di mano e un autografo sghembo da poggiare in salotto o sulla scrivania da lavoro. Ora tocca a suo figlio. Ama quello sport. Lo pratica da quando ha sette anni. Una passione intrinseca al suo corpo, alle sue mani, nel suo cuore. Si allena ogni giorno. Dalle 15 alle 20. Con vera passione. Ora, a 17 anni, ha battuto tutti i suoi coetanei, tutti gli adulti e professionisti. E’ seduto sull’apice. Manca solo lui. Michael Sum. Gli dispiace per suo figlio. Gli dispiace sapere che fine farà la sua gioia e la sua passione. In una foto. Mentre cammina in una via, dopo aver svoltato all’incrocio tra via Sogni e via Libertà, abbassa un po’ la testa e volta gli occhi a sinistra, in direzione della strada. Sulla destra degl’uomini vestiti di nero con strisce rosse fluorescenti, chiamati Squadroni di Recupero, stanno picchiando e violentando moralmente, con subdole imprecazioni e papelli di leggi da seguire rimarcate nel libro dell’Ordine e Giustizia, una famiglia nuda, prona sul prato. Una donna, un uomo, forse due o tre bambini. Non ha fatto in tempo a vedere. Fischia più forte per dimostrarsi indifferente, per mostrarsi impegnato nei fatti propri. Menefreghista. Forse un litigio che ha portato a qualche parola di troppo. Forse una lacrima. Chi lo potrà mai sapere?

Lui deve passare oltre. Nessun aiuto. Mai. E’ già complicato gestire i propri sentimenti, il proprio impulso. Si salva solo chi ha la forza di non interferire. Il potere è stato scelto ed ha il compito di far rispettare le regole. “Questa non è violenza, è salvezza dell’anima e della vivibilità reciproca. La vera violenza è la libertà di gesti, azioni, impulsi, sentimenti allo sbaraglio del vuoto che la vita ha come pilastri delle sue fondamenta. La vita senza rigore e leggi da seguire è come un auto senza freni. Corre, corre e presto andrà a sbattere per frenare la sua discesa.” Tutto è destinato ad una fine. Disastrosa o piacevole che sia. Si può scegliere. Estremo nord o estremo sud. Non ci sono vie di mezzo. Sono già state superate. Chi trasgredisce viene deportato. Nessuno può sapere dove. C’è chi dice in campi di recupero. C’è chi afferma di averne visti alcuni in Tv, camminare in altri paesi limitrofi. C’è chi addirittura ipotizza che vengono gettati in mare. Il suo lavoro quindi è l’ultimo pezzo della macchina? Gli è balenato molto spesso questo pensiero in testa, fino a quando non è successa una cosa che lo tormenta tutt’oggi. Soprattutto tormenta il suo stomaco. Lui lo chiama “deposito di immagini”, ma anche “custodia di vita”. Oltrepassa via Fraternità e incrocia una bambina seduta sul ciglio della strada. Potrà avere 8 anni. Ha in mano un foglio e una penna. Appena lo vede, alza i suoi occhi verdi e li punta sui suoi castano scuro. La osserva con curiosità. Lei ricambia con un sorriso. Appena lui giunge a pochi passi da dal suo corpicino, lei si alza di scatto e dice:

– Undicimilaseicentoquarantasei. Guarda quanta è lunga questa parola una volta scritta!
Stupito, legge e risponde:
Vero. Ma cosa vuol dire questo numero?, e la bambina toltosi un ricciolo biondo cadutole sul naso mentre alza la testa dal foglio verso il volto di lui: – Sono tutti quei cadaveri che vengono raccolti sulla spiaggia.
Lui, sbiancato e indurito in volto come un pezzo di gesso al sole, con voce tremante e irosa, dice: – Chi ti ha dato questa informazione?
La bambina invece di rispondere, inizia a danzare girando su se stessa, cantando quel numero con voce dolce e sottile. Lui, terrorizzato, strappa il foglio dalle sue piccole mani e, riducendolo in piccoli pezzettini, lo ingurgita con velocità, senza pensare a nulla. La bambina osserva inorridita la sua fronte piena di nervi rialzati e le sue guance viola dall’ira e dallo sforzo di inghiottire tutta quella carta sulla quale c’è solo scritto un lungo numero nero. E’ spaventata. Immobile. Balbetta:
– Li ho contati…
Lui alza lo sguardo tetro su di lei: – E’ impossibile.

Si sentono già le sirene. Vorrebbe che non succedesse. Ma o lui o lei. Bisogna sopravvivere. Il sue gesto non è passato inosservato. Deve spiegare. Deve salvarsi. Impulso. Paura. Prassi. L’afferra e la tiene stretta a se. Un paio di secondi dopo lo Squadrone è sul posto. Lui spiega. Loro sanno già tutto. Lui offre una scusa per il suo gesto: sicurezza. Loro non hanno niente da dire. Prendono la bambina e la caricano in auto. Senza una lacrima o un grido. La vede dal finestrino guardarlo con dispiacere. Salutarlo lentamente. Lui vorrebbe gridare. Strapparsi le budella e schiacciarle fino a vederle una poltiglia schifosa su un marciapiede schifoso, in una città schifosa. Lui vorrebbe dire la verità. “Sono un mostro, dice, sono un vigliacco. Sono come loro mi vogliono. La paura perché ci rende così bastardi? E’ solo una bambina. E io sono solo un altro buon cittadino che vive avendo paura di vivere.” Si guarda intorno. Sicurezza. Prassi. Nessuno in strada. Nessuno alle finestre. Certamente hanno visto ogni cosa. Anche la famiglia della piccola dai riccioli biondi. Silenzio, solo e sempre silenzio. Senza scomporsi, anche se le lacrime gli bruciano le pupille rosse, prosegue lungo la via. Dal luogo dove si trova adesso, fino al campo di golf, ci sono solo due isolati di distanza. Due isolati. Li percorre in fretta, fischiando forte e guardando dritto verso di se, come se mirando verso un punto fisso il passato potesse cancellarsi. Sa la risposta: perché? Un’altra domanda. Sempre, ovunque un’altra domanda. Divoratrice.

Quel giorno di luglio eravamo al solito posto. Turno di mattina. Tempo uggioso. Il mare un po’ agitato. Si stava fermi ad aspettare. Ci avevano avvertiti che quel giorno, sicuro, avremmo ricevuto qualche dono. Arrivò poco prima dell’ora di pranzo. Era messo meglio degl’altri del giorno prima. Aveva ancora i pantaloni e un sandalo nero. Aveva pochi morsi sul corpo, anche se gli mancava un orbita. Solita procedura: barella, auto, telo e via verso l’obitorio. Quel giorno non so come successe, ma avvenne. Mentre lo stavo depositando nella sala frigorifera, nella quale venivano riposti prima di essere smistati nei vari cimiteri denominati “X” (visto l’anonimato di quei corpi), infilai una mano nella tasca destra dei suoi pantaloni bagnati e incollati alla pelle. Fu un attimo. La mia mano toccò una cosa fina e liscia; resa morbida dall’acqua. La riposi veloce nella tasca della mia tuta arancione. Poi chiusi lo sportello e con gli altri andai a mensa. Sudavo. Lanciavo sguardi furtivi di qua e di là, ma lenti per evitare troppi sospetti (non dai miei colleghi, ma dalle telecamere). Finito il pranzo e il turno, tornai a casa. Dovetti aspettare che giungesse la notte e il buio ricoprisse il mio volto, nascosto fino alla tempia dalle coperte. Davo le spalle a mia moglie, poggiato sul fianco sinistro. In mano tenevo quel foglio e non vedevo niente. Lo toccavo, lo rigiravo e mi chiedevo: “Cosa diavolo sei?”.

La curiosità era troppa. Non riuscì a dormire. Decisi di aspettare l’alba e con le prime luci del giorno, prima che suonasse la sveglia, vedere, capire, scoprire. Fu un tempo interminabile. Di bruciore al petto e di sogni che non ho potuto né fermare né comprendere alla perfezione tanto erano vaghi e surreali. Il sole sbocciò verso le sei e io tenevo quella reliquia come uno scettro. E vidi. Vidi un uomo in piedi, accanto ad una donna e un bambino, con una cosa nera, pelosa, naso arcuato, sulle sue braccia. Dietro di loro c’era una casa di legno e una distesa immensa con alberi verdi, gialli e rossi. E come sfondo una montagna anch’essa dipinta di quei colori, ma con le punte bianche, splendenti. Furono dieci, forse venti secondi, poi suonò la sveglia e non mi restò che ingoiare quel ritratto, quel mondo nuovo e inverosimile.

Ti hanno detto che non esiste più l’erba verde o le piante. Che tutto è cemento, ferro, rame. Ti hanno detto che gli animali si sono estinti molto tempo fa. Come quel cane in braccio a quel bambino esile nella foto. Ti hanno anche detto che le montagne non sono mai esistite. Che sono un’invenzione dei pittori per riempire il vuoto della profondità. Un muro per ricordarci i nostri confini. Tutto viene insegnato. Tutto è quello che vedi. Il reale è quello che i tuoi occhi affermano, afferrano, scrutano. Tu sei cresciuto nell’era del Successo, nell’era dove già tutto è stato programmato e sistemato. I vecchi raccontano di una volta. Ma era una volta. Tu ormai sei vaccinato. Nato in quest’epoca di perfezione e obbligata felicità. I vecchi dicono che siamo stati cattivi un tempo con la nostra terra e questo è il pegno da pagare. La nostra sottomissione. Noi siamo costretti a questo per la nostra incapacità di gestire le nostre voglie di essere sempre i migliori, i primi. Oggi, giungendo sulla sommità di questa scala, tutto si è solidificato e regolarizzato. I vecchi lo dicono, i pochi rimasti. Ormai se ne vedono pochi in giro. Ognuno, a suo modo, è scomparso. Tu non puoi credergli. Tu sei come tutti gli altri. Tu hai la tua razione di sorrisi, di lavoro, di fischiettio, di svago. Tu sei una macchina. Questa verità ti può uccidere. Dimentica. Non cominciare a porti domande. Stai bene. Vivi quel che c’è. Non paragonarti, non sentirti raggirato. E’ anche colpa tua. E’ colpa di tutti. Nessuno è innocente, e la scala non si può ripercorrere a ritroso. Vivi e “non ti porre domande. Noi abbiamo già tutte le risposte. Chiedi, ti sarà dato. Ogni giorno, ti è sempre dato.”

Ogni volta che può, lui fruga nelle tasche di chi arriva. Ormai è pieno di ricordi o di un mondo che non è suo, ma che in qualche modo conosce e sente vicino. Il suo stomaco è la cassaforte di queste immagini, di questo passato (o presente?). Per questo, quella sera, prima di giungere al campo di golf, ha sentito un rimpianto per quell’azione di spionaggio, di verità (la loro) confessata. Per questo l’orizzonte lo spinge a riflettere, a pensare, a porsi odiose domande. Ma è solo e lui lo sa. Ormai sa tutto. Ormai sa di essere una menzogna vivente, di camminare in una menzognera strada, di parlare con gente menzognera. Di fare un lavoro menzognero. Di servire un governo menzognero. Ormai sa che oltre l’orizzonte esiste qualcosa di diverso. Di quel passato che è stato cancellato. Esiste un luogo dove la scala ancora è percorribile. Forse lì non conoscono neppure la storia della scala. Però sanno che oltre il mare, oltre la linea dell’orizzonte, c’è terra. Lo ha letto dietro ad una di quelle foto. “Verso mondo nuovo”. Data e firma. La foto ritraeva un uomo con le braccia conserte che sorridendo guardava verso l’obiettivo della macchina fotografica. Tra tutte quelle che ha ingoiato, questa era la meno messa peggio e l’unica con un testamento scritto. “Ma allora cosa fanno le pattuglie sulle onde? Li uccidono? Perché non li lasciano raggiungere le nostre coste, se è questo il loro desiderio? Forse pensano di inquinarci con le loro storie, con le loro confessioni? Pazzi, non hanno capito nulla. Qui ormai tutto è finito. Nessuno crede a nessuno. Nessuno crede più a niente. Solo alle TV e alla paura. Assassini. Schifosi assassini.” Lui pensa questo mentre osserva la luce giallastra delle navi in perlustrazione. Lui, sapendo la verità, non si sente migliore, ma sconfitto. Un inutile pezzo del grande ingranaggio che conosce e non può essere felice. Mai.

Non so se sono comprensibile. Se la mia voce ti giunga anche se il tuo cuore da poco o lungo tempo non ti batte più. Ma questa è la mia storia e tu sei solo un morto che non può parlare. E forse è meglio così. Molto spesso ho pensato: “E se tutti voi foste giunti su questa nostra argentata terra, io sarei potuto essere uno di voi?” Avremmo combattuto. Ci saremmo liberati da queste funi invisibili che ci comandano. Ma siamo morti. Tu ucciso dal mare o dalle imbarcazioni di perlustrazione, io dalla verità. Muoio ogni giorno di più. Ti racconto anche questo perché presto sarò costretto a scappare, scappare da me stesso, da loro, da questa falsità. Mi tradirò, sono debole. Io non sono nessuno. Tu neppure. Sei una X. Io un numero. 345888. Con questo numero posso fare tutto quello che voglio (vogliono). Ma ieri ho trovato una foto con su scritto “Amira”. Un nome? Esistono ancora? Vi chiamate così? Lo sento nell’aria: Amira dove vai? Amira cosa fai? Amira Amira Amira. Io non ho nessuna identità. Io non ho nessuna missione. Pensavo fosse quella di dire la verità, ma poi ho pensato ai miei figli, a mia moglie, ai miei colleghi. Ho pensato alla punizione che, per colpa mia, tutti dovranno pagare. Come quella bambina. Io non voglio essere complice di nessun’altro delitto commesso da questo sistema tutto sorrisi e telecamere. Solo con voi mi sento sicuro e con voi io voglio restare. Il mio stomaco è la vostra dimora e il mare sarà la mia. Mia casa e mia zattera di salvataggio. Voglio piangere. Non penso di averlo mai fatto. Solo dentro, ma non credo sia la stessa cosa. Ora devo chiudere la porta. Ne sta arrivando un altro. Ora tocca a lui. Domani dicono che il mare è calmo. C’è festa in paese. Ci saranno i fuochi d’artificio. Ho poco tempo. Forse dirò tutto a qualcuno vicino a me o lo griderò nel centro della piazza davanti a tutti. Nessun innocente. Sono già mare e già traditore. Ma non saprò nulla di quello che rimarrà. Cosa succederà. Sarò già lontano. Forse in cielo, forse ricoperto di bollicine e di sale. Io penso di fuggire. Io penso, pongo domande, rifletto. E oramai lo sai: questo è un reato. Tipo: e se quella bambina avesse ragione? Se davvero li avesse contati? Da sola? Con chi? Sono in tanti? Sanno la verità come la conosco io?

La porta si aprì bruscamente.
Addio lui disse. E la cella si chiuse.

Leporeambo

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di Daniele Ventre
 
Intanto che le mani si rimboccano,
la strada non si scopre divinabile,
per nebulose dal futuro labile
che per lancette sterili rintoccano.
I giorni lungo fiumi che non sboccano
dal flusso d’una sorte poco amabile
si piegano a quel dio minore e inabile
che giochi d’usurai ti infilastroccano.
E dopo, se li senti, si stupiscono,
se il mondo si disintegra e va a rotoli
non già per qualche volvolo astronomico.
In tanto borbottio diseconomico
i giorni della fine si intristiscono
ai fanatismi lividi dei botoli.

Memoria identità luogo

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Copertina_Borsa_fronte (E’ da poco in libreria un voluminoso tomo – Memoria, identità, luogo, Maggioli editore, 930 pag. – dove architetti, storici, critici del restauro e dell’architettura, urbanisti e paesaggisti, storici dell’arte, restauratori, filosofi, critici letterari e dell’arte insieme a scrittori e poeti, un regista, un food designer, un archeologo, un geografo scrittore di viaggi, un artista fonopittore, fotografi, teorici e critici di design e new media si interrogano e scrivono su temi legati alla memoria, all’identità, al luogo. Ho chiesto a chi ha coordinato il tutto, il “direttore d’orchestra”, alcune pagine della sua introduzione a questa collettanea che ovviamente consiglio. G.B.)

di Davide Borsa

L’idea che è all’origine di questo libro risale a una conversazione con un poeta, Stefano Raimondi, sul tema della relazione tra linguaggio e luogo. Per alcune fortunate circostanze, il progetto iniziale è andato in seguito sviluppandosi fino alla sua attuale configurazione con una ricchezza e profondità che sarebbe stato difficile, se non impossibile, immaginare all’inizio. La raccolta di saggi che compongono questo libro è infatti frutto di un work in progress, di un progetto partecipato e condiviso per il quale sono aumentati nel tempo i termini della riflessione – memoria, identità, luogo – e gli interlocutori che con le loro voci hanno offerto un contributo prezioso e originale. Ritrovarsi raccolti intorno alle “parole guida” che compongono il titolo del volume ha consentito agli autori assoluta libertà nella scelta dei temi di cui scrivere, a partire dalla propria formazione intellettuale e dall’identità disciplinare, spingendosi oltre confini artificiosi e rigide compartimentazioni tecnocratiche e proponendo ai lettori analoga libertà di approccio. Dalle trame che si sono delineate nei nostri dialoghi è emersa l’opportunità di richiamare le testimonianze di alcuni maestri (Ricoeur, Brandi, Brioschi, Torraca), chiamati a confrontarsi con i temi e le realtà dei loro tempi e che costituiscono per noi fondamentali termini di confronto e analisi. Maestri e allievi, testimonianze diverse ed eterogenee per identità generazionale e culturale, per formazione, ambiti di ricerca ed esperienze professionali hanno delineato un quadro multiforme che testimonia e conferma come dalla molteplicità e dal confronto di punti di vista e sensibilità anche distanti tra loro possa nascere l’occasione per sfide appassionanti e nuove prospettive di analisi e di ricerca per la cultura del progetto.

L’esito finale di questo lavoro riafferma il valore del progetto, non esclusivamente d’architettura, come catalizzatore di quelle risorse che si basano sulla centralità dell’uomo e dell’umano e sul compito di testimonianza di civiltà che il pensiero umanistico gli aveva affidato. È indispensabile riportare il progetto al suo specifico alveo culturale, celebrandone l’interdipendenza con le altre forme dell’espressione come la figura e il discorso e in primis con la parola e con la riflessione critica: il fine, come ricorda Paul Ricoeur, “non è quello di cominciare, ma, nel mezzo della parola, di ricordarsi: ricordarsi per poter cominciare”. Ripensare il progetto della memoria suggerisce che questa non sia destino né nemesi, ma che, al di fuori dell’obbligo imposto, del marketing scaltro, dell’opportunismo e della retorica, la memoria diventi matrice di storia operativa nel presente come progetto per il futuro, come dovere e responsabilità critica e, come ci ha insegnato ancora Paul Ricoeur, anche il frutto di una consapevole scelta etica. Ogni indagine, ogni esplorazione che ambisca a essere scientifica parte da una scommessa, da un’ipotesi da verificare. Ci siamo chiesti se, nonostante l’apertura e la varietà dei contributi, la diversità dei percorsi di studio e degli ambiti di ricerca sarebbero emerse tracce, affiorati significanti con cui disegnare i contorni di una mappa cognitiva che potesse intrecciare il senso della produzione del luogo, dell’identità e della memoria a una dimensione dinamica della cultura, non più intesa come sostanza immutabile, ma come dimensione della differenza. Una simile, ipotetica cartografia sarebbe sufficiente per considerare acquisita l’idea secondo cui la cultura, come ha scritto Arjun Appadurai, sia un processo di naturalizzazione di un sottoinsieme di differenze mobilitate per articolare l’identità.  La sfida di un pensiero critico della complessità deve considerarsi acquisizione perennemente in fieri, specie contro quanti sono ancora disposti a essere incantati dalle sirene dell’oltrepassamento e degli improbabili eterni ritorni, come quello oggi particolarmente in voga del “neo-post” realismo.  Viviamo nell’incessante scommessa di riuscire a emanciparci criticamente dall’eredità e dagli strascichi ideologici del secolo scorso,  che deve essere assimilata senza il conforto di ammiccanti scorciatoie come il presunto “pensiero debole”, combattendo per conquistare, oltre al lavoro, anche gli strumenti  metodologici per affrontare le nuove condizioni di produzione culturale del presente. In questo lavoro ci siamo aperti alla prospettiva del vicinato contestuale, lasciando affiorare nessi, esiti e potenzialità espressive possibili solo a partire da una radicale autosottrazione alle logiche strutturali – e dunque riproduttive – di reificazione e gerarchizzazione del sapere, privilegiando la componente nomadica senza rinunciare allo specifico e alla specificità, in una prospettiva di rieducazione al gusto della lettura, della scoperta o della riscoperta attraverso il recupero di esemplari testimonianze dirette e indirette che sono anche una suggestiva galleria di stili di scrittura e modelli di argomentazione. Un repertorio aperto delle forme del saggio, che oggi pensiamo seriamente a rischio di estinzione, sia perché si discosta dalle semplificazioni del dilagante approccio tecnico-informativo sempre più in voga, sia per il grottesco e delirante travisamento della lezione americana di Italo Calvino, spesso contrabbandato con le nuove possibilità aperte dalla multimedialità e dalle opportunità create dall’uso colto e creativo dell’innovazione tecnologica. Il rapporto della scrittura con la rappresentazione e con la memoria si rivela sempre cruciale, anche fuori dai limiti di un approccio esclusivamente e specificatamente autoriale. La scelta della metafora del luogo, organizzata intorno alla stretta relazione del testo con l’esperienza, è l’occasione di una verifica dell’idea di progetto, sia nella prospettiva dell’inventio (nella quale spesso designer, architettura e architetti vengono identificati in modo non sempre corretto), sia in quella della traditio; consente inoltre di esplicitare i legami trasversali costituiti dalle metaforizzazioni del luogo a livello simbolico e nei processi di ricodificazione e riproduzione in altri linguaggi e media. È  forse questo il dovere oggi più complesso e delicato di fronte al quale si trova la critica nella sua funzione essenziale di interpretazione, traduzione, commento e trasmissione dell’esperienza estetica, trasformando ad esempio le immagini in concetti e i concetti in immagini, come il pennello del pittore che fissa per sempre la sintesi materiale e spirituale di un momento nell’impressione sulla tela di una specifica forma, altrimenti perduta per sempre.

Creazione (ex nihilo, come preteso dall’avanguardia) o riproduzione, invenzione o comunicazione, l’avvenuta incarnazione poetica e artistica nella forma-sintesi materiale e la sua relazione con la cultura del progetto richiamano sempre i rapporti e le relazioni tra sapere – scientifico e non solo – e ricerca artistica. La memoria (come il suo contrario negativo, la rimozione) assume nella produzione dell’oggetto un ruolo centrale, si fa transfert emozionale nella sua relazione con la natura biologica e antropica, entrambe attraversate dalle nostre pratiche discorsive ed eidetiche. Su questi piani la relazione tra memoria, identità e luogo rappresenta per il sapere progettuale la base cognitiva di quel lavoro indispensabile di costruzione della cultura dell’immaginazione e della elaborazione prefigurativa indispensabile all’inventio progettuale.

Il postmoderno (al netto di mode, abusi, eccessi e distorsioni) ha senz’altro avuto nell’ambito della critica il merito di reimmaginare i rapporti con la storia e di riallacciare il tema dell’umano nella sua relazione con l’ambiente, la tecnologia e la scienza: ne ha problematizzato i confini e sottolineato i punti di crisi, contribuendo anche a costruire una rilettura critica del Moderno (e della tradizione nel suo complesso) che ne mettesse finalmente in luce le discontinuità e le incoerenze, infrangendo la falsa consequenzialità teleologica del suo ordine discorsivo. Entro questo orizzonte, le relazioni tra saperi specifici acquisiscono nuove profondità, generate da un quadro epistemologico mutato e aperto alle ibridazioni. All’interno delle specifiche declinazioni, delle proprie personali vocazioni poetiche, la cura e la tutela del patrimonio e della conservazione dell’opera-manufatto costituiscono il luogo per eccellenza della costruzione di un linguaggio che ambisce a non essere alienato né reificato e a farsi strumento di un nuovo progetto di costruzione di identità transculturale sovranazionale, lo stesso che è alla base del concetto di patrimonio dell’umanità.

 

Davide Borsa, architetto, dottore di ricerca in Conservazione dell’Architettura, è stato professore a contratto di Storia e critica del restauro al Politecnico di Milano. Collabora con «’Ananke», quadrimestrale di cultura, storia e tecniche della conservazione per il progetto e «Archphoto», rivista digitale di architettura e arti visive. Dal 2005 scrive per “Il Giornale dell’Architettura” e «Il Giornale dell’Arte». Ha pubblicato Le radici della critica di Cesare Brandi  per Guerini e Associati.

Il trecentista da riporto

20

di Andy Violet

Per te risulto antico e medievale
un vate con in mano piume d’oca
che scrive nottetempo a luce fioca
sulle pelli essiccate d’animale
 
non come te, scrittore minimale
anarchico poeta che disloca
i versi come vuole e per sé invoca
la morte di ogni regola formale.
 
Ristagno nei lirismi primitivi
un vezzo che al tuo gusto appare sciapo
nient’altro che conati compulsivi
 
di trasformare un testo in rompicapo
mentre tu hai conquistato quando scrivi
la sacra libertà di andare a capo.