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La fuga di Anna

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Gianni Biondillo intervista Mattia Corrente

Mattia Corrente, La fuga di Anna, Sellerio, 2022

La fuga di Anna ha come protagonisti personaggi biograficamente lontani dalla tua età. Come mai questa scelta, al tuo esordio?

Mi affascinava la vecchiaia, per antonomasia considerata il tramonto della vita, un tempo governato da reminiscenze, nostalgie e rimorsi. E se invece diventasse un momento di riscatto? Se sulla soglia della fine ci si infatuasse della libertà, se tirate le somme ci si accorgesse che per una vita intera non si è davvero stati chi si voleva essere e si trovasse il coraggio di rincominciare? Il coraggio di cambiare, quando si è più saggi e consapevoli è un atto d’indescrivibile bellezza. Anche se è troppo tardi.

Il tuo è un romanzo che parla più che di una fuga, di una ricerca. Di cosa, esattamente?

Nel romanzo la fuga diventa una necessità per i personaggi: fuggire per non restare dove non si è mai stati bene. Fuggire per ricercare la libertà repressa per una vita intera. Una libertà che se arriva ti condanna allo spaesamento. Chi siamo davvero senza un destino dettato anche dalle scelte altrui? E che peso ha la libertà nelle vite di chi ci vuole bene? Ricercare la libertà può rivelarsi un atto di violenza per noi e per chi abbiamo a fianco. Egoisti o altruisti nella scelta o non scelta della libertà, comunque restiamo imperdonabili.

Metti in discussione, senza sconti, ruoli sociali all’apparenza indiscutibili: l’essere madri, padri, figli…

Viviamo in una dimensione sociale che ci vuole premeditati, in cui i ruoli familiari sono pretese e non sempre scelte libere. La maternità un destino biologico ineluttabile da portare a compimento, la paternità un dovere per garantire la prosecuzione della specie. Ma i figli possono sconfinare, infrangere i ruoli attraverso la disobbedienza. E rompere gli schemi. Il romanzo ce lo racconta.

Forse il tema è quello del rimpianto, del rimorso, della frustrazione per una vita che poteva essere “altra” da quella vissuta?

È un romanzo in cui le vite non vissute, nell’odissea al contrario del protagonista in cerca della moglie scomparsa, vengono disseppellite. Una estumulazione dei sé mancati che non porta rimorsi e frustrazione, ma consapevolezza: nessuno può liberarsi dalla versione di sé che ha scelto. O non ha scelto. Eppure c’è una speranza, dopo la scoperta di questa verità incontrovertibile: provare a fuggire con la versione di noi più coraggiosa e pericolosa di tutte, quando gli altri non ci fanno più paura, quando la vita che abbiamo davanti è più corta di quella che si siamo lasciati alle spalle.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, nel 2022)

Cose che accadono la notte

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di Francesco Ciuffoli

 

I. con il cervello in vasca
lungo queste rovine
urbane come detective tra le pianure
dispersi in una guerra senza colpe né responsabilità,
sono tornato a casa felice, sai
la scorsa notte
Giù per via Padova, in direzione Crescenzago
dove c’era rispettivamente: il sottopassaggio, il centro massaggi, l’alimentari,
il bar Simpon’s, il vicolo dove non ti vede nessuno e c’è sempre gente che scava nell’ombra
quando passa il treno.

Eccone uno, uno così, un altro poveraccio
giovane mezzo occupato da dentiera e braccio con l’alzabandiera
si tormenta le ossa. Ex lavoratore, ha 40 anni, per ora
Va, poi quando finisco i soldi
ti pago del risarcimento, intanto, ordina una Tennent’s.
Quest’altro gliela allunga.

In un ashram senza più speranze e vie di fuga
o vie che possano portare da qualche parte, deve essere bello qui, passare l’estate.
In questo inverno che sente per un po’ di Dio in questa ragazza
una fortuna incredibile, una donna incredibile
un rifugio, un buon posto, un luogo sicuro dove innamorarci perdutamente.

E checché se ne dica, questa mia compagna così fedele alla vita
anche se non sembra
per un libro e una gonna di jeans verrebbe a trovarti
anche domani
In direzione Loreto: dal quinto, dopo il sotto
passaggio del treno, benzinaio IP, l’alimentari, la Pam, il tabacchino…
dov’è c’è stato, con te a guardare
questo lento tornare dei camion pubblici sotto un cielo di rame e lana grigia
Per le ore di traffico «Hai per caso una sigaretta?
«Te la giro io, dai

*

II. Mentre al parco mi ricordo, un giorno di «Hai per caso
una sigaretta? Tipo
Diceva questo qui «quella industriale? se vuoi ho da girare «vabbene. grazie.
«vai – e gli ho dato tutto in mano
«non è che me la chiudi. io non posso. ho i chiodi,
i chiodi nelle mani, mi hanno operato, guarda. E fa vedere
i bozzi da macellaio, affiorano sottopelle. Era un ragazzo di colore
aveva le mani gialle,
era quello delle angurie, a detta sua, il migliore, «tu non sai,
quante ne sollevavo io
Poi l’incidente, mi ha raccontato «non dire niente, diceva
il padrone «ti aiuto io, ma tu, non dire niente, diceva
e lui voleva solo mangiare, «ci penso io in ospedale, non dico niente,
ma tu porta da mangiare. Solo mangiare, perché così non si poteva
lavorare e lui doveva, si,
mangiare. Una, due, tre volte. Poi più niente.
Lui queste cose non le fa perché è bravo, anche se non è giusto
Lui è bravo, se dice che non parla, non dice niente, lui non dice, non parla
Ma lui quando lo vede girare per Lecce con gli amici la moglie la gente…
«Io lo guardo così. e il padrone, lui si deve girare,
ma lui non lo fa, mi chiede pure e dice
«mi stai guardando? Mi stai guardando!? «Capisci?! Se io ti guardo
Tu Ti Devi Girare! solo questo.
perché io mi spacco la schiena, io mi sono fatto male
alla schiena. io non parlo, non dico, mi sono rotto le mani e io,
io non dico niente.
Solo agli amici ho parlato. io gli ho detto, lo dico, lui non è uno bravo, adesso
io lo dico a loro e poi vediamo.
Perché l’italiano non lavora, nelle campagne, ci siamo solo noi, io adesso lo dico
e poi vediamo.

*

III. Eppure potrei dirti con frasi equivalenti, trovandomi lì, per curiosità
chiederti se hai visto
Nella possibilità instancabile di edifici e torrette, per esempio
questa serie di
terra, vetro, scarpe e pelliccia. nel cemento, i chiodi nelle mani, il fumo,
le fiamme sopra i caschi, i lacrimogeni, durante le cariche della polizia,
gli occhi dentro la coppa d’argento, il cielo di marzo, il buio di via Padova,
la camicia appesa, insieme alla giacca, la città stanca e depressa, quest’inquietudine
senza trauma né attesa

E quanto pesa seppellirci tutti?
La testa di un re senza corona. Questa febbre, la poesia. Un deserto che resiste
al freddo.
Com’è sarebbe, bella la vita. Com’è bella la poesia. L’affitto di una camera, per una
vita.
La vita in nord Italia.

*

IV. In riferimento. È su quelle spiagge che ci abbiamo versato tutte
le lacrime, il sudore, la saliva e il sangue. Lo sperma, i cocci di bottiglia per terra
Per strada, con la macchina, passando davanti a una casa senza luci
Una coppia di anziani rimasta sveglia, guardare Sanremo, guardava la luce
azzurra del televisore, Amadeus.
In fondo, li capisco benissimo. Cambiano poche cose a 25 anni
è un quarto di secolo! Sei vecchio! Alla fine. Sei anni. in sei anni
cambiano poche cose, davvero.

*

V. perché «vivi allora? «non so
«perché aspettando la fine, anche se non arriva
e neanche passa, questo incredibile senso di sospensione
ogni giorno si rovescia e ci attraversa, finché un giorno
un giorno
un giorno ci conquisterà. Lo so
«sarà la cosa più triste «il giorno più bello
«l’ultima cosa felice
sulla faccia della Terra. Il fiammifero acceso che cade di mano.
Nel rogo, le fratture / la chimica più pura.

E tu dirai allora «cosa fare? cosa resta? «La città
questo spazio di sensazione e indeterminazione, che ci determina e dimentica
questa notte che passa pensando di sorgere anche domani, dopo che passerà
questo processo, questo sollievo da grande allucinazione che affonda su di noi
anche su di noi
la sua lama

qui
sulla Terra
con il cervello in vasca e quattro minuti di silenzio, una bella canzone, qualcosa
da raccontare sottovoce, una storia per esempio, senza intreccio né trama,
né colpi di scena, una giustificazione.

*

VI. E anche se uno sguardo d’altri su questi pazzi chiude a una a una tutte le porte
per noi, senza troppe smancerie
si sentirà il gemito di chi gioisce, soffre, e gode di vivere ancora su queste impossibili strade
e case e città e pianure
ogni singola notte. «Accendi i tergicristalli. Dai. Alza il volume. Vorrei sapere
come finisce.
da un momento all’altro. questo nostro mondo.
la geografia di un sogno. la mappa imperscrutabile di questo incubo.
Dove, per un buco di terra senza palazzi né ascensori, ci sarà sempre
un luogo utile per riposare,
quest’idea
di io e di te come raggi climaterici di questa catastrofe
perché nessuno riesce davvero a riposare, neanche noi
E si perde a guardarci
Ma prima di attaccare il turno
saremo per Lui giovani, adulti di nuovo, gli amanti del quinto piano,
l’ultima scena di un film, di un libro
in cui sia io che te abbiamo incastrato forse i nostri anni migliori
senza più pene né preoccupazioni
fino a domani.

*

 

[L’immagine in copertina è dal Flickr di Shaun Merritt]

Non si può essere troppo seri

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di Renzo Paris

Nei titoli dei romanzi di Paolo Marati si avvertono allusioni ad altri titoli. In Il giorno in cui Lorenzo morì (Ponte Sisto, 2018) il titolo alluso era Quando morì Jonathan, dello scrittore francese Tony Duvert. Nel romanzo appena uscito dalle Edizioni Il Foglio: Non si può essere troppo seri, Marati cita il verso di Arthur Rimbaud: “Non si è seri quando si hanno diciassette anni”. La protagonista Patrizia Mariani è una studentessa sedicenne del quinto ginnasio di un liceo della Capitale. A diciassette anni, frequenta il primo liceo. Il romanzo si svolge tra le vacanze a Lavinio con la madre vedova e l’appartamento di Roma nord, con le amiche del cuore: Anna e Letizia, e diversi ragazzi come Lollo e Nicola che finirà col licenziare bruscamente. Patrizia non è come loro, non beve, non fuma, non si droga, è astemia. Per distogliersi dal lutto di suo padre, si immerge nello studio, evitando anche i discorsi politici del collettivo. Gli anni del suo diario sono il 1981 e il 1982, quando gli anni Settanta sembrano finiti, nonostante gli strascichi. Legge Thomas Mann, Tozzi. Va con le amiche alle feste, in pizzeria, sempre ragionando sui suoi amori impulsivi e fallimentari. Il suo chiodo fisso è il professor Bellomo, che veste di nero e sembra a quelli del collettivo un fascista , anzi un vero e proprio Hitler. Ma Bellomo è in lutto per la moglie e i figli perduti durante un incidente automobilistico. La madre di Patrizia diventa dolce con lei quando le presenta il suo nuovo amore, disposta a lasciarla sola quando se ne va in gita con lui. Così Nicola tenta di farle perdere la verginità, dimostrandosi il fascista che è. La sua amica Letizia la ama e le scrive del lesbismo come liberazione dall’uomo. Lollo, il suo grande amore muore di infarto in Belgio dove si era trasferito con la sua famiglia. La paura della solitudine e il ricordo di suo padre la spingono nell’ultima vacanza a Lavinio a  frequentare un altro ragazzo. Paolo Marati è bravo nel seguire passo passo lo stato confusionale della sua protagonista, anche perché è un professore di liceo e di ragazze “secchione” come Patrizia deve averne incontrate diverse. Ho letto altri romanzi in cui i protagonisti, anche ventenni, sono indifferenti alla politica, presi dalle loro tragedie famigliari, ambientati proprio negli anni Ottanta-Novanta. Il mondo stava cambiando con il ritorno a casa dei giovani. Certo non è bella la vita dei diciassettenni con droghe o no, e noi lettori adulti faremmo bene a prestare loro attenzione, senza etichettarli, come se fossero tutti uguali. Marati, con questo romanzo diventa il cantore della gioventù di Roma nord. E noi vorremmo sapere oggi che ne è della sua studiosa Patrizia.

Buchi

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di Serena Barsottelli

La sensazione che provava non era simile ai brividi. Eppure spesso tremava. Non si trattava neppure dell’umidità, quel freddo capace di filtrare sotto il primo strato di pelle e poi sciogliersi nei cunicoli tra nervi e vene. Quel freddo, per capirci, che dicono scavare  e insediarsi per non uscire più. Quello che dimora dentro le ossa, e dallo scheletro poi si propaga, disperdendosi, dove i raggi non vedono, in un mare assoluto e nero.

Il dolore, invece, arrivava dopo.

 

La pianta appassiva lenta. Oppure sprofondava sotto la terra.

 

Si era convinto che la scarnificazione fosse parte del processo quando Melody, la ragazza dalle tette piccole e dai capelli verdi che lavorava sulle strade del primo anello di periferia, gli aveva fatto notare una certa somiglianza di suoni tra scarnificazione e sacrificio. Lui, un po’ per il rumore del traffico e del treno in transito sulla linea sopraelevata – il treno dei morti, così lo chiamavano i tossici come lui, ché barcollando alle sue fermate ci finivano sotto – , un po’ perché quella roba era fatta per rallentargli il cervello, aveva faticato a coglierne l’assonanza. Eppure, pensava, Melody era una che sapeva quello che diceva: un mezzino per un lavoretto con la bocca – rigorosamente senza denti, prometteva, giacché le erano caduti tutti. Per una cosa completa ci voleva una dose. Se le portavi quella buona o se le davi la quantità giusta di denaro per acquistarla, ti concedeva un piccolo extra. I suoi clienti preferiti non erano quelli che le offrivano un riparo per la notte o una doccia, ma quelli dell’extra. Lei diceva che erano amici su cui poteva sempre contare.

 

L’animale lavorava con le zampe anteriori e con quella bocca pelosa, facendosi strada dove gli altri insetti non osavano avventurarsi. Avevano paura di spingersi tanto in là: preferivano rinunciare alla prelibatezza e accontentarsi di ciò che la superficie offriva loro in ogni stagione dell’anno. Non si preoccupavano del freddo, gli altri, che in certi periodi dell’anno sembrava ucciderli. Il calore bruciante del sole estivo non procurava alcun fastidio, inebriati com’erano dal profumo dolce dei frutti appena maturi.

 

Lui di certo non aveva amici.

 

Incuranti del contadino, e degli uccelli in agguato, gli altri insetti si arrampicavano sulle foglie verdi e succhiavano.

 

Era più difficile per un uomo trovare qualcuno disponibile.

 

Avrebbero potuto contrastarlo con il veleno. Un tentativo di avvelenare la morte. Eppure era mosso solo dall’istinto, e l’istinto dalla fame. Alimentarsi, sopravvivere, nascondersi. Essere invisibile, e poi spogliarsi da preda per diventare a propria volta predatore.

 

Melody, dunque, gli aveva esposto quella strana teoria per cui ogni sofferenza fosse necessaria. Persino quella autoprodotta. I tatuaggi ormai verdi – tanto avevano perso l’intensità dell’antico nero, assumendo una sfumatura di colore simile a quella dei capelli e poi, quando qualcosa nel fegato aveva iniziato a fare i capricci, della pelle – erano al centro del suo petto. Dalla tetta sinistra spiccava il volo una fenice; sulla destra, invece, un uomo dalle ali sciolte precipitava nel nulla; aveva la testa all’altezza del cuore. Una volta le aveva chiesto se non fosse stato meglio invertire le immagini, rappresentando dapprima un sogno che si spezza e poi la volontà di risorgere. Melody aveva sorriso. Melody non gli aveva risposto. Gli aveva toccato il braccio, lui aveva sussultato.

È per i buchi, gli aveva detto.

Già, aveva annuito senza comprenderne il motivo.

 

L’animale era abituato all’oscurità del sottosuolo. Preferiva quello umido, più facile da scavare. Quello che accoglieva lombrichi e larve di altri insetti. Quello che lo rendeva affamato anche dei propri simili.

 

I buchi se li faceva sotto le unghie delle mani o, meglio, in quel sottilissimo filo di carne che resisteva. Se le mangiava, un tempo. Poi avevano iniziato a spezzarsi: si sfaldavano, strato dopo strato, dose dopo dose. Era perché gli mancava qualcosa, forse del calcio. Che cosa rende più forti le unghie? Ma chi se ne frega, pensava succhiando il sangue e lo sporco che si annidava lì. Chi se ne frega; c’è la roba.

 

I buchi dalla superficie portavano tutti al buio. Non tentava mai di risalire, anche se avrebbe potuto volare. La luce lo infastidiva e interrompeva la caccia. Quando ci si abitua alle tenebre, poi si fatica a vivere sotto il sole.

 

La prima volta aveva infilato un ago sotto la lunetta delle unghie nel tentativo di ripulirle: il nero della polvere, del sangue, del sudiciume grattato via dalla pelle. Lo sporco era rimasto al proprio posto, e a lui era venuta la geniale idea di provare a farsi lì. Mica semplice trovare dei flussi di sangue in cui far scorrere la roba. Così, di tanto in tanto, provava con lo strato di pelle tra le dita: quello tra il pollice e l’indice era il più grande e, messo controluce, rivelava il sottile vaso che lo attraversava. Quello, aveva compreso, era il punto perfetto.

 

E il sottosuolo era comodo da abitare se eri in grado di scavare. Costruire gallerie, e chi se ne frega se quello che è in superficie prima o poi cadrà e collasserà. All’animale interessano solo le radici.

 

La droga entrava nel corpo da quel minuscolo foro, sfondando la prima barriera della pelle, e poi gli altri strati, uno dopo l’altro. Era appena doloroso, e il dolore si ripeteva ogni volta, quasi fosse impossibile abituarvisi. Allo stesso tempo quel fastidio gli procurava una leggera scarica di piacere, come quel tipo di solletico che dura troppo a lungo e ti costringe a ridere, a piangere e a invocare pietà. Persistente, più che acuto, resisteva anche dopo, quando l’ago era stato estratto. Niente a che vedere con quella sensazione intensa che avrebbe provato poco dopo, ma una smussata, quasi impossibile da percepire se non ci si concentrava sulla zona di iniezione. Era questo l’effetto della roba: trovarsi al contempo dentro e fuori il proprio corpo. Attorcigliato su sé stesso e vuoto come un’ammonite di cui sia sopravvissuto solo il guscio.

Anche gli animali dovevano essere entrati in lui da quel buco.

 

Quando ne trovava una, poteva tagliarla per continuare a scavare. Accadeva se non aveva fame o se la radice non era particolarmente prelibata. Preferiva mangiare quelle dolci, gustando il contrasto con il sapore ferroso della terra che le sporcava. Era quello il connubio che lo rendeva vorace.

In superficie, intanto, il fiore chinava il capo, la foglia la punta affusolata.

 

Melody gli aveva suggerito di scegliere aghi più piccoli, così i buchi sarebbero stati troppo sottili e i parassiti non sarebbero riusciti a penetrare. Gli aveva anche detto di farsi in posti asciutti, lontano dall’umidità e dalla terra. Le pozzanghere erano una brutta cosa, anzi, la peggiore. Doveva evitare di calpestarle e non avvicinarsi alla strada quando l’asfalto era bagnato. L’ideale sarebbe stato non sostare all’aria aperta nelle giornate di pioggia. Gli animali, diceva Melody, dovevano venire da lì. Evitare umidità e sporcizia, aveva sottolineato, quasi lo reputasse un porco che si divertiva a razzolare nel fango.

 

Che stupidi, pensava – se agli animali è concesso il dono del pensiero. Altrimenti sentiva, sentiva soltanto, insieme alla vibrazione delle proprie antenne e al movimento delle zampe anteriori che scavavano, scavavano, tagliavano, finché non arrivavano le lamelle dei denti, e il morso. Che stupidi, sentiva, che stupidi ad accontentarsi di quello che appare, di ciò che il vento smuove. Essere costretti ad aggrapparsi a un filo d’erba piegato dal vento o da passi degli uomini, anziché trovare il proprio riparo nel sottosuolo.

 

Osservandosi nel riflesso di una vetrina, aveva scoperto di avere ditate scure su entrambe le guance e uno strato profondo di nero sul mento, nel punto in cui ci si sarebbe aspettati la barba. Cercò una bottiglia vuota tra l’immondizia ai bordi della strada e vagò in cerca di una fontanella. La maglia era maculata di sudore, e per un attimo pensò di strizzarla, di bere tutto il liquido rimasto intrappolato nel tessuto. Oppure di farsi, di allungarlo insieme alla prossima dose. Forse non sarebbe stato poi tanto differente da quando dopo aver svuotato la siringa dalla miscela la riempiva del proprio sangue.

 

L’animale trascinava la parte posteriore del corpo sbilanciandosi in avanti.

 

Quei bastardi dovevano averle tolte tutte. Tutte le maledette fontanelle. In nome del decoro, forse. L’uomo tornò a camminare nelle strade, grattando le braccia. Un’unghia si spezzò nella foga e schizzò tra i guizzi delle auto, nel traffico.

 

Le antenne battevano contro il muro di terra, ma l’animale non provava dolore.

 

Forse era colpa di un filo, un filo che si era allentato, e stuzzicava la pelle come la coda di un topo. Fai smettere questo fastidio, pregava in silenzio, e la droga non gli rispondeva. Continuava a scorrere nelle sue vene, e dalle sue vene ai suoi organi.

 

Sapeva solo di dover scavare, più in profondità, e costruire una buca abbastanza grande da contenere le uova.

 

E dagli organi si propagava come i raggi di sole quando il tempo è velato dall’afa estiva. Intaccava il punto buio, quello sacro e antico, dell’uomo.

 

E quando le aveva deposte, riprendeva il viaggio.

 

L’uomo aveva iniziato a camminare sul lato della ferrovia. Le architetture antropiche lasciavano via via il posto a quelle naturali, e al deturpamento che la disperazione di certi uomini e di certe donne lasciava con il proprio passaggio: materassi tra il fogliame, fazzoletti ombreggiati di rosso o di marrone. Un assorbente, usato. Delle bottiglie, vuote. Sacchi, sacchi rotti e sacchi ridotti in brandelli. Sacchi che un tempo forse erano stati pieni, poi non più. Erano stati svuotati e non stavano più ritti.

 

C’erano ammaniti, ossa di qualche animale domestico sepolto, pochi spicci che avrebbero riflesso la luce del sole ma sottoterra no.

 

Ecco! Eccolo! Gridò. Osservava il suo braccio, le geometrie martoriate di vene, buchi, tatuaggi svaniti, ferite infette. Eccolo, gridò, puntando il dito sull’insetto che sbucava dall’unghia, nello strato di pelle così sottile che sembrava appartenere a nessun corpo. Eccolo.

 

Dal fittone si diramavano tante radici e radichette. Sembrava un albero al contrario. Questo avrebbe pensato l’animale se avesse avuto la capacità di elaborare un ragionamento. Ma sentì qualcosa di simile al calore del sole che da tempo non provava sul proprio corpo vellutato. Fece una capriola, poi allungò le zampe anteriori e staccò un frammento di radice. Aprì la bocca e si avvicinò.

 

Eccolo, sì, l’animale. E il treno? Melody gli aveva detto tante volte che ci sarebbe rimasto sotto come gli altri, e che come gli altri avrebbe continuato a viaggiare in eterno, da stazione a stazione, mendicando una dose o un po’ di amore.

 

Le foglie della pianta, sulla superficie, ondeggiavano. Non soffiava vento. Non cadeva pioggia.

 

Riuscì a evitare l’impatto per poco, perché quella Melody doveva aver tradito il caro principio per cui era bene tenersi alla larga da certi posti. Alcuni, diceva, puzzavano troppo di morte anche per una tossica come lei.

Che cazzo fai? Le urlò in faccia. L’hai fatto scappare!

Scusa se ti ho salvato la vita!

L’animale! Aveva messo la testa fuori dalla pelle un istante fa, ma tu_

 

Le foglie si piegarono fino ad accarezzare il terreno. Poi sprofondarono giù in un buco.

 

L’uomo guardò la ragazza con i capelli verdi di fronte a lui. Inclinò la testa avvicinandola al collo sul lato destro, poi sul sinistro. Cercò i suoi occhi; si perse tra le rughe della pelle che segnavano il viso dell’altra. Il treno corse alle loro spalle, incurante.

 

Il grillotalpa non era ancora sazio. Voleva altre radici.

 

 

Chi sei? le chiese.

Mi prendi per il culo?

Chi cazzo sei?

Le braccia segnate dai buchi e dalle vene non prudevano più. Sentiva ancora il bisogno di farsi. Tutto il resto l’aveva dimenticato.

La ragazza dai capelli verdi si tirò su la manica. Non era pronta a bucarsi. Era sicura che qualcosa le fosse appena entrato dentro, dalle unghie o dal naso, e la stesse uccidendo.

 

 

 

 

Soluzioni per ambienti

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di Antonio Francesco Perozzi

 

per ottenere una distanza
per costruire una distanza negli interni
e fare che le cose si distanzino
che prendano la forma della distanza
che si percepiscano distanti

 

 

inoltre possono essere prese in considerazione le scatole
quando una scatola è presa in considerazione
qualcosa si modifica nella scatola
e anche nella considerazione
le scatole e le considerazioni hanno a che fare con le idee
inoltre possono essere prese in considerazione le idee
conservandole in pratiche scatole

 

 

i materiali amano ispirarsi alle forme
garantiscono ordine e pulizia
avere un portascarpe pratico e comodo
che si ispira alla forma
rientrando a casa la sera
si ispira all’ordine

 

 

se si hanno delle sedie in più
nel caso ci siano ospiti
quando gli ospiti non ci sono
le sedie sono in più
sono delle sedie utili
non essendoci gli ospiti

 

 

di conseguenza una decorazione a parete
crea profondità nell’ambiente
grazie a una gola di luce nel soffitto
se nell’ambiente si crea profondità
nella gola dell’ambiente
è grazie a esili decorazioni

 

 

Da Soluzioni per ambienti, di Antonio Francesco Perozzi (Manufatti poetici di Zacinto Edizioni, 2024)

Alcune persone sono rigide come rettili

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di Marcello Ranieri

Anna conobbe Marta durante uno sciopero. Si erano notate, poi qualcuno le presentò. Er Matassa? Al bar passarono il tempo a cantare. Anna diceva “La conosci? Bombe, tombe, ombre. Solo in tanta polvere”. Marta continuava “Avanzo a duro muso. Cielo aperto e ora chiuso”. E così. Poi Marta la invitò a casa, al Nomentano. Chi organizza gli scioperi non pensa mai a quanta gente si incontri così, come un effetto collaterale, passando mattinate nei bar. Pensa a portare avanti la causa, o almeno a metterla in piazza. Chissà quante unioni di vite sono nate, chissà quante ne sono finite.

Dopo tanto andare, parlando, salirono in un quinto piano verso le due. Anna ebbe un intimidirsi, come per non profanare un rito. Marta girò la lunga chiave nella blindata e le fece cenno di fermarsi. Anna guardava il corridoio in penombra e i suoi arredi, ma la sua attenzione venne improvvisamente catturata da qualcosa che arrivò da una delle stanze, avanzando sul pavimento.

Un serpente procedeva divincolandosi in direzione dell’ingresso. Prima che Anna producesse l’urlo Marta chiese “C’hai paura?” e si chinò a prenderlo. Anna si rilassò e li guardò, ammirando la donna. Marta stette un po’ lì col serpentello avvolto in una mano ad accarezzarlo, sulla porta ma già dentro, mentre Anna rimaneva sul pianerottolo.

“Non entri?” la guardava infondendole coraggio. Anna procedette e si fermò nel corridoio, la porta venne chiusa dalla mano libera di Marta. “Lo vuoi tocca’?”. Anna avrebbe preferito che non glielo chiedesse, però aveva saputo subito che sarebbe successo. Gli appoggiò le dita sopra, temendo una reazione. Non ci fu. Era freddo e indifferente come alcuni esseri umani, che desiderò per associazione di idee non incontrare mai più. “Si chiama Mapetto. Me pare ‘n mapo. Eh? Mapetto!” Marta lo baciò sulla testa. Poi lo posò sul pavimento della stanza da letto di fianco a lei e invitò Anna a seguirla in cucina. Le disse di lasciare la borsa su una sedia. Anna si girò intorno e disse anche che era bello lì, ma stava guardinga. In effetti il panorama era bello. Prepararono le linguine con gli scampi, Mapetto venne, Anna gli dava un brandello ogni tanto, mentre cucinava. Poi mangiarono bevendoci un bianchetto freddo, Anna ritornò tranquilla.

Dopo andarono un po’ sul letto a farsi le carezze. Lì Mapetto non saliva. Poi era l’ora del cotral di Guidonia.

Foto di Tiffany da Pixabay

Autenticità e poesia contemporanea # 6

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di Antonio Francesco Perozzi

Dopo Roberto Cescon, Tommaso Di Dio, Marilena Renda, Andrea Inglese e Marco Pelliccioli, Antonio Francesco Perozzi si e ci interroga sul tema dell’autenticità, nell’ambito di un dibattito lanciato da un dialogo fra Maria Borio e Laura Di Corcia e sfociato in un questionario sottoposto a poete e poeti (che trovate qui), ospitato dai blog Nazione Indiana, Le parole e le cose e PordenoneLegge. Il dibattito registrerà anche una puntata dal vivo a PordenoneLegge – qui tutte le informazioni. 

Il pensiero debole e il conseguente ragionamento sul soggetto debole ha messo in crisi il concetto di verità. Ma a partire dal crollo delle Torri Gemelle questa prospettiva è stata posta notevolmente in discussione: l’idea di essere al di là della storia, dei conflitti fra superpotenze o schieramenti, si è frantumata di fronte alla certezza, oggi ancora più evidente, che la tragedia può esistere davvero sulla scena del mondo e rompere la cortina fra noi – occidentali – e gli altri. Da questi assunti sono partite una serie di riflessioni, fra cui quelle di Maurizio Ferraris e Walter Siti, che postulavano breviter l’impossibilità delle poetiche del realismo e della fiction in un momento in cui la vita sembra superare la finzione. Tutto ciò chiama in causa una responsabilità rispetto ad alcuni fenomeni storici verso i quali il pensiero debole sembrerebbe non fornire più le risposte adeguate per la decodificazione della realtà. Questi fenomeni avrebbero portato l’attenzione anche sull’importanza dell’autenticità. Cosa ne pensi? E come pensi che questi ragionamenti possano o debbano essere integrati in una riflessione sulla poesia?

Mi sembra – potrei partire da qui – che l’idea che la storia irrompa nella quotidianità e quella di esserne invece pienamente svincolati, siano in realtà la stessa idea. Dal mio punto di vista, già questa opposizione si regge su una serie di taciuti ideologici. L’immagine della storia che riappare violentemente nel presente, del resto, funziona solo se si presuppone proprio la capacità di staccarsene. È un paradosso: la cultura umana coincide esattamente con la storia, dunque l’espressione “la storia irrompe nel presente” equivale a “la storia irrompe nella storia”. Ecco, questo paradosso si origina a partire dalla tendenza, semmai, a interpretare come naturale (dunque neutro) un preciso contesto storico e culturale – quello capitalistico – in maniera funzionale alla sua sopravvivenza. Non è un caso che si torni a parlare di storia – come è successo allo scoppio della guerra in Ucraina – solo in caso di macro-fenomeni violenti, che sono la parte più spettacolare, ma non la totalità, della storia.

Tutto questo per dire che l’aspetto deteriore delle prospettive postmoderniste, cui il pensiero debole è legato, sta proprio in questa scissione ideologica tra cultura e storia. Per contro, l’aspetto che io ritengo più interessante del postmodernismo è la rilevazione della pervasività e molteplicità dei linguaggi e dei media. I due aspetti sono naturalmente legati, e questa matassa di linguaggi è proprio ciò che permette al postmodernismo di tentare la fuga dalla storia. Ma se smontiamo l’ideologia su cui si basa la scissione, ecco che il mondo dei linguaggi torna a essere un (iper-)oggetto della storia. Su questa base, anche la dicotomia tra fiction e realismo mi pare una semplificazione: la finzione come alternativa alla realtà, come alternativa escapista, soprattutto, bypassa il problema delle radici materiali della finzione. Detta così può sembrare paradossale, ma non più di quanto lo sia l’idea di una finzione totalmente scollata dal reale. Siamo ancora lì, in un sistema di decurtazioni ideologiche. Invece: la finzione è reale. L’apparato intricatissimo e multiplanare delle finzioni può essere reinquadrato e inteso, più che come un extra-, come un infra-mondo: è coinvolto nella realtà, ne è sintomo, ma ne amplia anche i confini come un doppio fondo, come un Nether. Nello stato di cose presenti, la nostra azione non può che compiersi all’interno di questa commistione tra realtà e finzione. E il discorso sull’autenticità in poesia – che approfondisco nella risposta successiva – soffre a mio avviso di un vizio simile a questo non vedere una compromissione tra reale e finzionale, storico e “non-storico”. La finzione non sostituisce la realtà, come si illudeva molto postmodernismo, ma ne partecipa, spezza l’unità delle cose. È la cultura, in fin dei conti, benché accelerata dai media. Ed è la cultura, ma in senso latouriano: è un ibrido tra materia e linguaggio, natura e cultura, come lo sono tutti prodotti umani, e gli umani.

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L’autenticità – dall’età romantica all’esistenzialismo – è stata cruciale per la formazione dell’individualità moderna: il mondo interiore diventava imprescindibile nella comprensione del reale al posto dei sistemi generali aprioristici del passato. Giacomo Leopardi distingueva il “vero” dall’“affettazione”. La letteratura ha progressivamente abbandonato la rappresentazione della vita secondo forme fisse universali, concentrandosi su quella, complessa e variegata, della coscienza. L’autenticità è stata un ideale: avrebbe dato senso all’esistenza, sarebbe stata una via d’accesso alla verità o quanto meno ci avrebbe aiutato a individuare dei significati per l’umanità nella storia. Questo suo carattere, come ha notato fra gli altri Charles Taylor, si è perso. Essere autentici avrebbe portato a giustificare solo le scelte e l’espressione dei singoli, a guardare prevalentemente al proprio interesse esasperandolo, a dimenticare che l’orizzonte della storia è importante e non aleatorio, così come un’etica nella società. Ci avrebbe chiuso, in modo nichilista, nelle nostre monadi, nella prigione di noi stessi, mentre i rapporti sociali sarebbero degenerati in una neutralità relativistica. Anche la letteratura, allora, è arrivata al punto di non poter più credere al valore dell’autenticità. Ma per chi fa letteratura oggi è importante interrogare l’autenticità come un problema?

Per me, ripeto, non sono trascurabili i sottotesti culturali. Sono quindi d’accordo con il collocare il paradigma dell’autenticità in una precisa fase storica, cioè in legame allo sviluppo dell’identità moderna: dopo l’illuminismo, sicuramente (in Occidente) la dimensione individuale assume una posizione culturalmente primaria. Non solo: realizza progressivamente quel passaggio da autobiografismo trascendentale ad autobiografismo empirico di cui parlava Mazzoni in Sulla poesia moderna. Su questa linea, è impossibile non vedere l’intrecciarsi del processo di “individuazione” con l’ascesa della borghesia e lo sviluppo del cattolicesimo. L’autenticità, quindi, contribuisce a fondare l’individualità moderna sulla base di: 1) la trasformazione dell’individuo in produttore/consumatore; 2) un’interpretazione morale e religiosa della vita. Il problema del discorso sull’autenticità è che spesso viene approcciato omettendo queste due elementi fondamentali. Il primo definisce in maniera pratica e storicamente rintracciabile ciò che possiamo chiamare l’individuo moderno. Nella modernità l’individuo viene promosso a soggetto anche in virtù del fatto che acquisisce un ruolo diverso (rispetto al feudalesimo) all’interno dell’economia. La soggettività – la rilevanza socio-culturale dell’attore individuale – è anche la capacità imprenditoriale del borghese. Saltare questo passaggio rischia di svincolare l’individualità dalla sua definizione storica ed economica, dunque assolutizzarla a-storicamente. Quanto al secondo punto: che l’individualità sia sottoposta a un giudizio morale (agire nel bene o nel male) e a un programma dualistico di salvezza o dannazione rafforza (se non determina) il paradigma su cui si regge l’autenticità. Ciò che non riesce a convincermi del valore dell’autenticità è il suo platonismo di fondo: c’è la verità, da una parte, che si annida nella profondità dell’individuo, e la falsità, dall’altra, che equivale a una serie di barriere poste tra individuo e mondo. La vedrei quindi anche in maniera inversa: l’autenticità che fonda l’individuo romantico, ma anche il romanticismo fichtiano, Io-centrato, che costruisce le condizioni culturali per pensare l’idea di autenticità. Da questa prospettiva è facile declassare la storia ad accidente della Vita, parco di duplicazioni fallaci delle Idee; così come è facile intendere la lirica (il cui sviluppo coincide, ancora con Mazzoni, con il processo culturale di individuazione) a strumento attraverso il quale ricongiungersi a una verità/individualità pura e astorica. Mi interessa problematizzare questi paradigmi. Il nichilismo per me non è una degenerazione morale, ma una coerente evoluzione dell’individuo moderno: indebolita la giustificazione religiosa, a un certo punto della storia, il “platonismo” descritto prima rimane monco e fa emergere gli aspetti distruttivi dell’individuo-consumatore-dominatore. Il punto però non è reiniettare un freno religioso in questa dinamica; si tratta di cambiare dinamica.

Che rapporto c’è tra scrittura confessionale e autenticità? L’autenticità può essere connessa solo alla lirica, concentrata quindi intensivamente sul soggetto, oppure ad altro? L’etimologia di autentico, d’altra parte, deriva dal greco αὐϑέντης, composto autos (me stesso) e hentes (colui che agisce): autentico è chi agisce secondo il suo vero sé. Ma l’azione, per realizzarsi, presuppone un contesto e la possibilità di interazione con gli altri, senza i quali nemmeno la nostra identità riuscirebbe a costituirsi. La prova dell’autenticità, alla fine, avverrebbe comunque in un orizzonte intersoggettivo… – e, quindi, l’espressione (autentica) di sé, da parte del poeta, come può interessare la collettività?

Senza dubbio la lirica, almeno in linea di massima, si regge su un’interpretazione della soggettività che più facilmente può integrare l’aspirazione all’autenticità. Se la lirica ha come obiettivo – ancora semplificando – una tensione verticale a partire dall’esperienza del singolo, l’autenticità può essere intesa come banco di prova della forza veritativa di questo slancio. Detto altrimenti: per verticalizzarsi, la lirica tende a esigere un’autenticità dell’esperienza, quindi della scrittura che la accoglie, finendo spesso per identificarsi, almeno nelle aspirazioni e nei meccanismi di senso, con l’idea stessa di autenticità. Le criticità che ravviso in molta lirica – parlo di un problema culturale e ideologico, che può anche prescindere dal giudizio estetico, da ciò che mi piace leggere – sostanzialmente coincidono con quelle del paradigma dell’autenticità: proprio se consideriamo l’etimologia della parola, si capisce come al centro del paradigma ci siano degli assunti filosofici per niente pacifici. Tanto l’autenticità che la lirica attribuiscono un valore veritativo all’esperienza individuale, tendono a evidenziare l’unità di questa esperienza (anche quando è esposta in maniera frammentaria, fin da Petrarca: permane un’istanza soggetto-autore forte, centripeta e dominante la materia verbale) e ad avere fiducia nel distinguere in maniera netta un’esperienza vera da una falsa. Ancora la storia, però, ci dice che questa prospettiva è figlia di una certa epoca e l’esperienza contemporanea spinge a rileggerla completamente, in direzione di una connessione più intricata tra ciò che è “vero” e ciò che è “falso”, e di una difficoltà a riconoscersi nella gerarchia tra un profondo autentico e una superficie inautentica.

Detto questo sulla lirica, non vorrei tuttavia riportare tutto a una questione di fazioni, che banalizza davvero troppo il discorso. Anche per questo ho svincolato il giudizio estetico sulla lirica da una sua lettura storica e antropologica: ci sono poeti lirici che a me piace leggere, e anche molto, ma questo non esclude la possibilità di criticarli su un piano culturale o politico. Dipende anche dal fatto che, appunto, le nostre esperienze sono intersoggettive, e che l’egemonia culturale, quindi le istituzioni che educano il nostro gusto, sono di matrice borghese. È in un’ottica né calcistica né democristiana, semmai critica e analitica, quindi, che mi pare possibile dire che le prospettive non liriche sfidino più chiaramente il criterio dell’autenticità, inteso come misura di una verità esperienziale o ontologica: si tratta di non riuscire più – storicamente – ad avere fiducia in un soggetto unitario, in un suo dominio assoluto della materia verbale, in un criterio valutativo basato sull’aderenza dell’esperienza alla verità e della lingua all’esperienza, in una coerenza di senso monolitica. In questo caso, la dimensione intersoggettiva mi pare si faccia più realistica, perché permette di far entrare nel testo nuovi meccanismi e attori (non solo umani, non solo animati e non solo materici), riducendo la centralità del soggetto-mondo di matrice romantica e presupposta dal paradigma dell’autenticità. Se intendiamo la poesia (solo) come espressione, mi sembra lineare che la sfera della collettività rimanga poco toccata: stiamo ragionando ancora sul poeta come versione speciale, appunto “autentica”, di una Soggettività padrona della storia e del linguaggio. Al contrario, il lavoro del poeta può interessare la sfera collettiva non come portatore di verità ma come luogo pragmatico di manipolazione e interrogazione del senso, che è sempre una costruzione collettiva. Questo si può fare anche liricamente, nel momento in cui viene mantenuto un margine di presenza soggettiva, di soggetto che si domanda. Ma è storicamente rintracciabile che lirica e paradigma dell’autenticità siano prodotti della stessa cultura.

*

Quando scrivi, nel momento in cui prende spazio l’elaborazione del testo, hai di fronte queste prospettive? E se sì, in che modo influenzano il tuo lavoro?

Credo sia inevitabile averle presenti nel momento in cui si scrive. A prescindere dalla propria opinione, si tratta di questioni molto dibattute nella poesia contemporanea e quindi per forza di cose attraversate. Ciò a cui bisogna stare attenti, a mio parere, è evitare che il discorso sulla scrittura colonizzi la scrittura e la determini in maniera matematica. Sono scettico verso l’idea di ispirazione (se la intendiamo in una forma pura e metafisica come spesso si fa), perché la scrittura è dentro, inevitabilmente, le altre scritture, poetiche e non. Di conseguenza non credo affatto che il dibattito intellettuale “sporchi” la scrittura poetica, e, anzi, sappiamo che dagli anni ’60 la poesia ha convogliato al suo interno molto discorso intellettuale o scientifico. Allo stesso tempo, anche nelle scritture più programmate (che frequento), mi pare che il gesto funzioni se si lascia al suo interno una certa dose di imprevisto, di rivolta al programma. Niente di umorale, o soggettivismo di ritorno; è lasciare, entro un tot, le briglie della macchina, proprio in virtù di un soggetto che non si controlla pienamente, non controlla pienamente la lingua che usa e il luogo in cui gli si costruisce. Quando scrivo mi pare interferiscano – e mi sta bene così – una parte studiata e razionale e una indeterminata, il retro di ciò che scrivo nella corteccia cerebrale. È fondamentale questo retro, proprio per come intendo la questione dell’autenticità. In bottom text, ad esempio, contenuto nel XVI Quaderno, credo di aver ottenuto una cosa del genere. Un’istanza soggettiva che agisce, che dice io, anche, e nomina i suoi luoghi e i suoi oggetti, ma lo fa cinque passi indietro rispetto alla “verità”; lo fa solo in parte, mentre da un’altra zona la sua lingua e la sua esperienza risultano guidate da qualcos’altro, o almeno spinte a collocarsi in una terra di mezzo, in un livello dislocato impossibile da definire, in fin dei conti, come autentico o meno.

*

Immagine: Matthew Barney – Water Cast 12: White Dwarf, 2015

(cast bronze, bronze chain and polycaprolactone)

Tre poesie

1

di Silvano Panella

Tre Poesie da: “POESIE DI MARGARET MARY” (SPedizioni, 2024)

Ricami dorati
Ricami dorati
Per nulla infiniti
Come li immaginerei
Continuano nel risvolto
Dove tutto combacia
– In segreto
Le nostre faccende
Non sono insormontabili
Però ci estraniano
Dovrei limitarmi
– Stai al tuo posto
Mi ripetono gli adulti
Li compatisco
La loro esperienza
Parla senza riflettere
– Non hanno più bisogno
Di riflettere

Pare che tu possa
Pare che tu possa
Limare le conclusioni
– Uno sgradevole stridio
Quando gli altri si toccano
– Per errore, sicuramente
Appiattiscono le idee
Per riposare le teste
– Non aspetta altro
La gente in affanno
Nella metropoli prosciugata
Da ogni tradizione
– Mi hanno riferito
Strane usanze
Credevo esistessero
Soltanto nelle lezioni
Di storia, a scuola
– Corsi di studio
Non toccati
Dall’irrazionalità
Della gente

Io avevo una bambola
Io avevo una bambola
Di pezza slavata
Consunta da abbracci
Ricambiati a forza
Fingevo di non comandare
Sui corpi altrui
– Quelli di pezza
Non quelli di carne
La mia bambola
Non parlava
– Era orgogliosa
Ascoltava
Domande e risposte
– I miei suggerimenti
Erano tutta la sua voce

Silvano Panella. Autore e editore. Fondatore della casa editrice SPedizioni, con la quale pubblica le raccolte di racconti “Il Cantiere Narrativo” (2018) e “Viaggi al Centro del Racconto” (2019), i romanzi “Le Spedizioni” (2020) e “I Cercatori” (2023), la raccolta “Poesie di Margaret Mary” (2024). Ha scritto assieme a Massimiliano Governi il libro “L’Istrice” (2022). Ha curato la versione italiana di alcuni discorsi di capi nativi americani.

Overbooking: Carla Stroppa

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Da un mondo mediano

di

Lucio Saviani

Nota su La magia del ritorno. Sulle tracce del Mago di Oz di Frank Baum

 di Carla Stroppa

 

Sono tornato al mio paese abbandonato
dal quale fui lontano otto anni
 Ma chi chiamare?
Con chi dividere la triste gioia
di essere ancora vivo?
Nessuno qui mi conosce
e mi ha dimenticato da tempo chi mi ricordava
*
In ogni cosa viva
c’è un’impronta segnata a fondo
dalla prima infanzia
Sergej  Esenin- Poesie

 

 

La magia, l’astrologia, l’alchimia e la mistica neoplatonica varcano la soglia di quella casa comune che è la cultura del Moderno proprio attraverso la nascita della scienza moderna. Keplero e Copernico erano anche astrologi, così come anche maghi furono Bruno e Campanella. La stessa rinascenza umanistica aveva ripreso molto più l’ermetismo che l’antichità classica.

Come, cinquant’anni fa, già Giorgio Agamben ebbe a segnalare in Infanzia e storia, è solo perché l’astrologia e l’alchimia avevano stretto insieme il “cielo” dell’Intelligenza e la “terra” dell’esperienza individuale e la mistica neoplatonica ed ermetica aveva annullato la separazione aristotelica di noūs e psyché, solo per questo, che la nuova scienza moderna poté porre a proprio fondamento un soggetto unico, quell’ego sostantivato che riuniva in sé l’Intelletto separato e il soggetto dell’esperienza e che avrebbe sostituito l’anima della psicologia cristiana e il noūs della metafisica greca.

Individuo questa questione come centrale nel libro di Carla Stroppa, soprattutto nelle pagine in cui essa emerge in modo tale da poter essere posta nei termini più rigorosi: una critica della Magia (e dell’astrologia) non può che implicare anche una critica della scienza.

Ma è naturalmente uno soltanto dei molteplici temi che Carla Stroppa come sempre lascia emergere dalla sua scrittura, e nelle dense pagine di questo suo ultimo lavoro essi si incrociano in percorsi lineari quanto chiaramente labirintici.

Il mio dialogare con il pensiero di Carla Stroppa (attraverso libri, seminari, dialoghi) e la lettura dei suoi testi sono per me ogni volta esperienza di reticolo e lampeggìo, di rimando e individuazione, di sonda e avanzamento. L’abitare la soglia, il ritorno a casa, o il tornare dell’immagine della casa (la “medesima casa” dell’anima e del cervello, il ritorno alla “casa del Sé”, come già nelle primissime pagine di questo libro), l’essere fuori-posto, i fantasmi all’opera, l’illusione: ritornano e si affacciano i temi di altri lavori di Carla Stroppa, insieme a quello su cui negli ultimi tempi ci confrontiamo con passione e grande vicinanza: il dis-sentire.

Ma qui ho iniziato proprio con la questione della magia, così presente già nel titolo e nel sottotitolo del libro. Continuo dunque con il genitivo presente nel titolo. Un genitivo soggettivo o oggettivo? O entrambi? La magia che è propria del ritorno o il ritorno come oggetto di magia? Qui “magia” per Carla Stroppa (la cui analisi del racconto di Baum è, per me, in tutto solidale con la questione magia/scienza moderna da cui siamo partiti) è un nome par parlare di un particolare quanto preciso mondo ‘mediano’: un “mondo intermedio, a dire quello spazio psichico di continua transizione tra sensibile e intelligibile, immaginazione e realtà” – spazio intermedio dell’anima è, per Henri Corbin, il “magico” – e, scrive ancora Stroppa, “il mondo intermedio, ossia il mondo simbolico”.

Questo mondo intermedio è, come Carla e io abbiamo indagato in altri nostri lavori, il mondo del Gioco, dove realtà e irrealtà trapassano una nell’altra, e dello Pseudos. Quest’ultimo può significare sia “menzogna” che “falsità”, o anche “inganno” e “frode”, così come “invenzione poetica”. È proprio nella complessa dimensione dello pseudologico che si è alle prese con lo sfuggente, reciproco attraversamento di reale e irreale, con lo spostamento ripetuto dei confini tra realtà e apparenza, con incursioni a sorpresa tra il visibile e l’invisibile, e dunque con il mondo del Meraviglioso.

Un mondo mediano fatto di cielo e di terra, carico di sostanze leggere e volatili, abitato da esseri umani e da spiriti, a volte anche da esseri bizzarri caduti dal cielo ma solo perché erano lì sospesi su una mongolfiera.

Alba e crepuscolo insieme, a farsi interprete di questo mondo è Hermes, messaggero ma anche ladro, bugiardo e truffatore (come lo Pseudos). Dio intermedio e sempre transitorio, instabile, Hermes è seduttore in quanto attrae, svia, allontana e confonde. Dio delle soglie, dei margini e dei limiti, non è inflessibile e non è autoritario, bensì giocoso e, unico nel suo genere, non è violento.

Hermes è l’omologo greco del dio egizio Theuth. Nella Farmacia di Platone Derrida parla di Theuth come archetipo di Hermes: “egli non si lascia assegnare un posto fisso nel gioco delle differenze. Astuto, inafferrabile, mascherato, cospiratore, buffone, come Hermes, non è un re né un servo; una specie di joker piuttosto, un significante disponibile, una carta neutra, che dà il gioco al gioco (—) È il dio delle formule magiche che pacificano il mare” (il corsivo è mio).

È infatti Hermes ad essere evocato da Carla Stroppa e ad aleggiare in queste pagine, anche nelle sembianze parodiche del mago/illusionista di Oz: “Mitologicamente il mago è un figlio del dio greco Hermes, il più imprendibile, contraddittorio e inventivo fra gli dèi. Il mito lo evoca come dio della magia nel bene e nel male è il grande mentitore capace di inganni distruttivi o sublimi. Illusionista per antonomasia, grande conoscitore di passaggi segreti, custode di tutte le soglie e delle analogie di senso Hermes si colloca all’origine dell’arte e della poesia che si manifestano sempre sulla soglia tra realtà e finzione. Il Mago di Oz è una sua umile e grottesca raffigurazione”.

È estremamente significativo che Carla Stroppa evochi Hermes proprio nella pagina in cui sta parlando del “meraviglioso” e del fare ritorno a casa, del ritorno a Sé. Ricordiamo qui la sottile ma decisiva differenza tra i significati di “meraviglia” e “stupore”: la meraviglia è una reazione improntata a incredulità, mentre lo stupore è uno stato d’animo provocato da qualcosa di inatteso che lascia increduli e disorientati. Stupore è anche arresto della motilità volontaria, associato a torpore dell’attività ideativa e a distacco dalla realtà esterna. Così, meraviglia fa riferimento al sorprendente, al mirabile e al prodigio, mentre stupore indica sbalordimento e torpore, assenza di capacità ricettiva, quindi stupidità e insensatezza.

“Meraviglioso” è proprio l’aggettivo sparito come d’incanto nelle numerose edizioni e successive trasposizioni ma presente nel titolo originario della fiaba di Baum Il meraviglioso Mago di Oz, aggettivo che Carla Stroppa riporta in primo piano chiamandoci ad interpretare come kairòs da cogliere il fare ritorno a casa e ad esperire, di quel ritorno, la vera e autentica magia.

 

 

Una vita dolce

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Gianni Biondillo intervista Beppe Sebaste

Beppe Sebaste, Una vita dolce, Neri Pozza, 214 pag., 2022

Il tuo romanzo parla di istanti e di eternità, di mistica e metafisica orientale. Sei consapevole della tua atipicità?

Sono piuttosto consapevole che molto di ciò che scrivo è lontanissimo dal trionfalismo della narrazione occidentale… E nel mio libro è citato dall’inizio anche il contrario del romanzo a trama: quella forma lieve con cui lei (poiché c’è una lei), si affaccia a “disturbare” nel primo capitolo con l’inermità dell’haiku, l’attestazione di una definitiva innocenza, quell’epifania poetica di diciassette sillabe chiamata haiku. L’arte di descrivere l’evidenza che è nascosta dall’evidenza stessa.

Il tuo è un libro che vuole rompere il ricatto della trama. E del cronotipo: è un raccontare il raccontare.

“Rompere il ricatto della trama”: credo di non avere mai fatto altro da quando ero un ragazzo. Da una parte perché sono sempre stato dalla parte di chi trasgredisce, e la trama è sempre, anche graficamente, un’uniforme e una messa in ordine, un ordine del discorso. E oggi, ancora di più, si assiste a una progressiva riduzione della letteratura alla narrativa – e della narrativa al genere poliziesco, quest’ultimo ormai solo un abbozzo di telefilm con ambientazione criminale. E tutto il resto? Il resto sarebbe l’esperienza, non solo interiore, che scrivere e raccontare avrebbero il compito di trasmettere. Quello che Amitav Gosh chiama “guardare una tigre negli occhi”. È chiaro che le esperienze possibili sono tante e diverse, e anche quel legame tra il piangere e il dire la verità (avventura ben nota per secoli ai filosofi) che tu chiami “mistica”, e in tutti i casi atipica. (Qualcuno ha detto che Una vita dolce è un romanzo inclassificabile, fuori da ogni genere. Meno male, mi sono detto, ci sono riuscito anche stavolta).

Questo inganno del tempo è forse il tuo modo di non abbandonare “S.”, la tua compagna che per una malattia stava abbandonando il mondo, giorno dopo giorno?

Confesso che con questa scrittura io mi sono curato (ciò avveniva già prima della silenziosa pandemia). E sono stato felice della citazione di un brano di Una vita dolce che su un social un lettore ha proposto a un altro lettore del mio libro, come invito a una lettura condivisa. La frase è la seguente: “Ritrovo la pacatezza di scrivere senza trama, senza oggetto, senza per forza costruire impalcature che trasformino parole e frasi in utensili, mattoni, pezzi di ricambio per costruire chissà cosa, e che comunque sia sbriciolerà in un finale più o meno riuscito Chi mi concede e assegna questa libertà? La mia compagna, affetta da malattia di Alzheimer “precoce”, per la quale i deittici, i punti di riferimento spaziali e temporali, le trame, non hanno più nessun senso…. Senza trama vuol dire che tutto, per noi, è storia e narrazione, tutto è già prologo e finale, tutto è eterno. Non è questa l’essenza della letteratura?”

(pubblicato in forma leggermente differente su Cooperazione, nel 2022)

Personal Jesus

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di Filippo Polenchi

Terra, fuoco, legno, acqua (fluviale, se è di mare è di un mare extra, un Oceano), tempesta. Le myricae di Andrea Dei Castaldi scoppiano nel fragore orchestrale delle sue storie. Sono storie come gherigli di noci, dentro a gusci concavi – ma non vuoti – che descrivono il profilo del cielo, delle eclissi. Ci si perde a guardare dal basso verso l’alto, una forma di vertigine agorafobica – seppure nella misura contenuta delle narrazioni, misurate, classiche – che ti prende quando l’asse di rotazione del proprio corpo è disassato, ebbro. Ci sono segni, nel cielo, grandi transiti di carovane stellari. E poi c’è il mondo terrestre, dove, in maniera democratica dentro a tutto quello che potremmo chiamare l’allestimento della geografia, c’è un altro elemento, decisivo, che gioca la sua partita scissa, la sua lotta (senza però quella retorica sdrucciola dello struggle for life): l’umano.

«Il pensiero che sono scalcia più forte perché ora pensa il cielo».

Ci sono dèi e ci sono demoni: passano dal proprio regno a quello dell’altro, si mescolano, diffrangono la voce, il logos. Nel suo ultimo romanzo Le parole d’ordine (Barta, 2024) si legge «ognuno ha il suo dio personale». Un dio per ogni forma morale con la quale si vuol accompagnare un’esistenza, perché è ovvio che, hemingwayanamente, non abbiamo che la forma morale a condurci. Del Dio maiuscolo: le vociferazioni lontane, ecolalia.

Il demone moltiplica gli spazi di visione, le voci. Il demone parla in una camera ecoica, non si riesce a capire bene da dove proviene la voce. La moltiplicazione dei punti di vista – che è una cifra formale di Dei Castaldi, fin dal suo esordio nel 2013 con Finisterre (Barta) – non produce una sommatoria comprensiva, la soluzione sul piano dell’enigmistica del dramma. L’ampliamento delle voci, in qualche modo, svia, conduce altrove, lascia intendere più che esprimersi con chiarezza. Perché se Dei Castaldi scrive ogni volta una inchiesta mascherata da dramma classico è proprio perché il dramma stesso è, spesso, un romanzo greco e perché la detection che si deve fare (le ragioni di una scomparsa, un piccolo equivoco cimiteriale, cito in ordine sparso tra i romanzi Finisterre, La cesura e Anime brevi) è perché la si è fatta in illo tempore, accade qui e ora perché è accaduta nell’Edipo Re del V secolo a.C.

La forma morale di questa narrativa attraversa la Grecia classica. Ce n’eravamo accorti dieci anni fa, quando in Finisterre faceva la sua apparizione una scena-limite, una svolta nell’intreccio, certo, ma una rivelazione di quelle capaci di cambiare la direzione della storia – e anche in quel caso si era incerti, la parola non poteva essere definitiva, si era nel forse. Lo capivamo anche nella Cesura (2015, Barta): la coabitazione di spoglie diverse è sacrilegio, è sacer appunto, qualcosa che deve rimanere ‘separato’ dalla comunità: e da lì cominciavano le ipotesi, le investigazioni…

Anche in quest’ultimo romanzo le ‘fonti’, per così dire, non potrebbero essere più chiare. La vicenda del libro è molto semplice: nel 1978 Olga, la nipote di Oreste Casaro, un veterano della guerra d’Africa (1941), assediato dalle tragedie dell’esistenza ma inspiegabilmente sempre sorridente, chiama a raccolta alcuni vecchi commilitoni e ‘compagni’ dell’esperienza bellica perché 1) lo zio sta morendo 2) lo zio riceverà una tardiva medaglia al valore. L’assemblea dei testimoni – e dei curatori della memoria – è composta da: Domenico Buzzati (ex giornalista ed ex fascista), Stefano Casadei (nomen-omen: è un prete spretato), John William Abbott (medico inglese della prigionia). Ogni capitolo è affidato a una voce, ogni voce – eccezion fatta per ovvie ragioni per Olga – può spostarsi liberamente a parlare di un periodo compreso appunto fra il 1931 e il ’78. Veglia e incornicia il contrappunto dell’intreccio l’elezione al soglio pontificio di Albino Luciani, che vive e muore nel tempo di questa storia.

Guerra e ritorno a casa. A me pare ovvio che Dei Castaldi, qui, abbia voluto assemblare Iliade (la Libia al posto di Troia, l’assedio, la fuga, i diavoli ubriachi dei soldati scatenati, le mutilazioni, la sofferenza) e Odissea (il nostos dei tre amici intorno al corpo limitare di Oreste). Tuttavia a questa Eneide manca una figura di sintesi, un eroe, Enea giustappunto, perché a presentarsi fin dalla prima scena è semmai un puer, un bambino che «ha dodici anni» e, all’inizio del libro, sembra che li avrà anche domani, che ne avrà dodici per sempre, una figura cristologica che, crescendo, colmerà la distanza fra terra e cielo chiamando a sé, anzitutto sul proprio corpo, il patimento universale del corpo. Oreste (nome da tragedia greca, naturalmente) è una figura di sintesi, certo, ma biblica.

E in fondo il mondo di Dei Castaldi è questo: la drammaturgia attica e l’immaginario biblico: un deserto, il fuoco, la rivelazione, l’innesco di un personaggio catartico. Il mondo di Dei Castaldi, anche per la vocazione alla polifonia e alla struttura che si fa essa stessa storia, è quello di Faulkner. Un mondo pre-contemporaneo, verrebbe da dire, un mondo semplicemente moderno.

Nel 1979 esce La cultura del narcisismo di Christopher Lasch: l’autore americano radiografa la società statunitense all’alba di Reagan, del postfordismo, dell’insistente – e oggi è la quotidianità – guerra di tutti contro tutti. In modo folgorante, nell’introduzione, Lasch scolpisce una formula per determinare la genesi dell’uomo narcisista, il quale «è perseguitato dall’ansia, non dalla colpa». L’ansia di non piacere agli altri, di non essere apprezzati, di non essere amati, di non essere riconosciuti, di non coincidere con l’immagine (grandiosa) che abbiamo di noi, l’ansia di fallire, la performance continua tra vincitori e perdenti: tutto nasce dallo sgretolamento comunitario delle fondamenta tradizionali (per Lasch).

Le parole d’ordine si svolgono nel 1978, un anno prima della Cultura del narcisismo. Nel mondo di questo romanzo – e della narrativa di Dei Castaldi – la colpa, invece, è ancora viva, operante, perché l’autore non vuol raccontare il come siamo, ma il come eravamo, perché solo nell’effetto distanziante della memoria si ha la possibilità di dire qualcosa; lo scriveva anche Giorgio Agamben: per essere davvero contemporanei bisogna posizionare fuori dal tempo.

Le parole d’ordine rivela in maniera più pura – per chi ha letto l’intera opera di Dei Castaldi – il gheriglio tanto duro quanto il guscio che lo contiene e ben poco conciliante: è un nucleo abramitico, remoto, dove la terra e il fuoco parlano agli umani, dove morire è un rito di passaggio. Si respira davvero la graniglia tossica del deserto africano, non come effetto scenografico, ma come impasto delle parole. La storia prima delle storie di Andrea Dei Castaldi viene da queste piane aride, è oltranzista anche nella sua scelta di fare un romanzo faulkneriano oggi, di farlo da sempre e per sempre, perché non è tanto la fede nella parola letteraria, quanto l’impossibilità di fare altrimenti. E come nelle profezie, come negli antichi salmi, nella distorsione della Fata Morgana la parola vacilla, il pensiero di obnubila, la voce trema e diventa un periodare lungo, semi-ipotattico, interminabile.

I Poeti Appartati: Alessio Clinker Mischianti

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Trilogia del Capitale

di

Alessio Clinker Mischianti

Alexa

Nelle didascalie
viviamo
comprando pezzi di esistenza al miglior prezzo possibile
e bestemmiando contro
i dispositivi elettronici
quando non funzionano
contro gli esseri umani
e a volte,
anche contro Dio
(nel sistema di oggi, gli istinti sessuali possono essere molto spesso sostituiti
dalla speculazione finanziaria).

*

Yacht

Le onde
parlano tedesco
e s’infrangono nei pixel
le si può ritrovare serigrafate
lungo le portiere dei furgoni
in un deserto senza sabbia
raccogliamo i frutti, le erbe aromatiche
simbolo di un’indipendenza che dipende
dalle recensioni dei ristoranti
dalle imbarcazioni attraccate
dagli yacht
su cui in cima i ricchi sventolano
così come le loro bandiere
di fronte ai turisti
che li osservano incuriositi
tremendamente ancorati a terra.

*

Proprietà privata

Nuotiamo
sopra una pellicola di plastica bio-compost
che protegge il moto ondulatorio
dei flussi di denaro
In fondo all’ecosistema
liquefatto, subcutaneo, di un blu geologico
scambi economici di rumori,
riverberi di suoni emessi senza antenne
Si combatte e si sopravvive
ci si arrende e si muore
come sempre
come dovunque
Per entrare è obbligatorio indossare delle maschere
così da avere accesso all’atmosfera,
diritto alla respirazione
e test psico-attitudinali per riemergere
Mentre l’ombra morde i sassi
si tenta di rimanere aggrappati
agli ultimi ricordi di riflessi
trapassati in acqua
Avvolti da stracci genuflessi,
con la paura di non poter vedere ad occhi aperti
veniamo buttati in mezzo,
senza dispositivi
Impotenti
è odiando tutto quello che non conosce che l’ignorante impara ad amare
Boccagli dispersi inghiottiti
contengono aliti di niente spezzati
e continuiamo a nuotare su di un letto
la notte si sente l’ecosistema comunicare
E il cielo è iniettato nel mare
a cinque metri dalla riva si resiste
a cinque metri dalla riva
la proprietà privata non sussiste.

Tutto il resto è letteratura

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di Pasquale Vitagliano

La prima domanda che mi faccio accingendomi alla lettura dell’ultima opera di Vittorino Curci, Tutto il resto è letteratura (Musicaos, 2024), è se all’interno troverò questo “resto” o altro. E, dunque, sono anche curioso di sapere cos’è l’altro. Cosa rimane oltre la Letteratura? Si sente allora la formazione musicale dell’autore che scrive poesie come una partitura, che lui saprebbe anche accompagnare col suo sax. Se per Pessoa si scrive quando la vita non basta, per Curci l’una è controcanto dell’altra. Anzi, mi trovo di fronte ad un contrappunto in cui l’una insegue l’altra imitandola. Tuttavia, se l’effetto melodico è musicale, quello armonico è pienamente letterario. Per te, lettore, che resti solo/ con la verità del libro, il senso compiuto/ ha sperato un’altra notte di quiete.

La prima notte di quiete è quella mortale, nella quale si dorme senza sogni. La poesia ci consente di morire più volte? Beneficio, e privilegio, concesso anche all’amore fisico. E perché dobbiamo sperare in un’altra notte senza sogno? Il sogno, forse, ci addolora. Ci priva della consapevolezza della vita reale, quella senza Letteratura. Eternizzare stanca e se non pensi ad altro/ vieni tra queste righe che slegano il ricordo/ qui c’è un teatro di anime morte/ che tramuta in sogno quelle giornate. Sin dal titolo si ha l’impressione che in questa fase l’autore abbia provato ad abdicare alla funzione poetica della parola. Per esempio, come un’onda la prosa rifrange contro i versi che sembrano ritirarsi, ma senza cedere troppo spazio. Resistono, anzi, quasi per sfida, diventano radi, talvolta si spezzano, eppure sopravvengono. Vogliono riprendersi il tono principale dell’opera. La poesia assume il profilo di uno spettro che si aggira per un territorio che l’autore ha provato a liberare dalla Letteratura per (ri)consegnarlo intonso alla vita vera. E come si fa? È un’aporia. Infatti, la poesia si fa sentire come un arto fantasma che continua a dolere per la sua amputazione. In questo supplemento di vita/ sei cieco, ascolti i rumori/ della strada, sai cose/ che prima non sapevi.

Perché Vittorino Curci ha voluto fare questa esperienza? Penso di capirlo, come tutti coloro che non si rassegnano al sentimento di perdita che si prova in un’epoca storica come la nostra affetta da una forma sociale di alzheimer. Le cose che non ricordo non sono mai esistite. È un’affermazione terrificante. Specie se aggiungo il mio corollario che ciò che resta alla fine ne costituisce l’anima. Pertanto, senza memoria non solo perdiamo la nostra coscienza, addirittura, azzeriamo la nostra realtà. Non siamo più nulla, né siamo mai esistiti. Neanche la realtà social ci può salvare, perché nessuno saprà più riconoscere le immagini. Di fronte, a questa perdita la tentazione di chiudere gli occhi è forte. L’orfanezza della parola è inconsolabile.

A questo punto, quello che l’autore ci propone è di azzerare col mezzo della parola. Resettare il peso semantico e il frastuono verbale con la poesia. Emulare il silenzio con l’armonia musicale della scrittura. Credo che ci sia riuscito proprio grazie alla sua vocazione musicale. Infatti, i versi di questo libro sono essenziali senza essere necessari, non più di un gesto, un saluto, un atto della nostra vita. I bambini tracciavano con le braccia/ ampi cerchi nell’aria. era l’estasi/ della loro momentanea immortalità. Parafrasando l’indimenticabile canzone di Ivano Fossati, Una notte in Italia, la lettura dei versi di Vittorino Curci ci motivano a non arrenderci, senza retorica, perché è tutta Letteratura, ma come vedi la dobbiamo cantare; è solo Letteratura, ma la dobbiamo imparare.

 

“Memoria dimenticata”: a 50 anni dalla strage nel carcere di Alessandria

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di Daniele Ruini

Le origini di Alessandria, sonnacchioso capoluogo di provincia che ha dato i natali a Umberto Eco e ai cappelli Borsalino, sono ben iscritte nell’odonomastica del suo centro storico: Piazzetta della Lega Lombarda, via Pontida, via Legnano, via Alessandro III (il papa da cui la città prende il nome); e ancora: via Modena, via Parma, via Bergamo, via Piacenza, via Cremona: località alleate nella Lega lombarda che, come sfida aperta all’imperatore Federico Barbarossa, nel 1168 patrocinarono la fondazione di una nuova città pensata come baluardo contro le forze imperiali.

A custodire invece le tracce di una storia più recente è un quartiere periferico che la ferrovia separa dal centro: è qui, tra i palazzoni costruiti durante l’espansione urbanistica degli anni ’70, che troviamo via Gandolfi, via Pier Luigi Campi, via Vassallo Giarola, via Gaeta e via Cantiello. Sono i nomi di cinque vittime, nomi dimenticati che ci parlano di violenza, di carcere, di anni di piombo, e della decisa fermezza dello Stato a non scendere a compromessi con chi voleva ribellarsi alle istituzioni.

Ma torniamo nei pressi del centro storico, nel luogo in cui il 9 e 10 maggio 1974 la città visse due giorni di ansia e tragedia che lasciarono sul campo 7 morti e decine di ferite. Siamo in piazza don Sorìa (all’epoca piazza Goito), sulla quale si affaccia il carcere cittadino, la casa circondariale oggi intitolata agli agenti di custodia Gennaro Cantiello e Sebastiano Gaeta. Già nei mesi precedenti il carcere alessandrino era stato attraversato da momenti di tensione, con uno sciopero dei detenuti che protestavano per richiedere condizioni di detenzione migliori: in tutta Italia i carcerati si battevano infatti per una riforma in grado di promuovere trattamenti più umani per i prigionieri, speranzosi di trovare un interlocutore nel socialista ed ex partigiano Mario Zagari, da poco nominato Ministro di Grazia e Giustizia.

Fino a quel momento, tuttavia, tali speranze erano state del tutto disattese, come dimostrò la protesta al carcere fiorentino delle Murate del febbraio ’74, durante la quale gli agenti spararono sui detenuti ferendo a morte il ventenne Giancarlo Del Padrone (per l’occasione i detenuti alessandrini organizzarono uno sciopero di due giorni e una raccolta fondi per la famiglia della vittima).

Tali contestazioni s’inseriscono in un più ampio contesto storico nel quale rientrava anche la politicizzazione dei detenuti: un processo maturato in seguito alle proteste studentesche del ’68 e innestato dall’incontro tra gli studenti e il mondo del carcere[1].

E non andrà dimenticato che nella primavera del 1974 l’Italia viveva i momenti febbrili della campagna referendaria sul divorzio, con la forte contrapposizione tra DC e MSI, da un lato, e il resto dell’arco costituzionale, dall’altro. Fu proprio nel pieno di questa campagna che le Brigate Rosse decisero di uscire dall’ambito delle fabbriche e di prendere di mira un esponente dello Stato: il 18 aprile del ’74 a Genova viene infatti rapito Mario Sossi, sostituto procuratore della Repubblica dalle note simpatie di destra (e PM nel processo contro il gruppo anarco-comunista “XXII ottobre”, responsabile di una rapina conclusasi, nel marzo ’71, con l’uccisione del portavalori Alessandro Floris)[2].

È al crocevia di questi sommovimenti che i sospetti sull’organizzazione di una possibile rivolta nel carcere di Alessandria diventano realtà nella mattinata di giovedì 9 maggio: alle 9:30 i detenuti Cesare Concu (vicino alla sinistra extraparlamentare), Domenico Di Bona e Everardo Levrero, entrati in possesso di due pistole e quattro coltelli, prendono in ostaggio alcune guardie carcerarie e alcuni insegnanti nelle aule scolastiche del penitenziario. L’obiettivo dei tre è molto concreto: vogliono evadere e, per farlo, approfittano dell’opportunità riservata ai detenuti di frequentare le lezioni per il conseguimento del diploma di geometra[3].

Trasferitisi nell’infermeria, dove si trovano altri detenuti, sequestrano anche il medico del carcere, Roberto Gandolfi. Nel frattempo giungono le autorità locali e si apre la trattativa: a fare da intermediari alcuni giornalisti e l’assistente sociale Graziella Vassallo Giarola, la quale per facilitare il dialogo si offre come ostaggio, una scelta coraggiosa che le sarà fatale. I tre detenuti avanzano le loro richieste attraverso un comunicato nel quale, oltre a protestare contro il Governo reo di non aver concesso la riforma del sistema penitenziario e del codice penale, chiedono un pulmino schermato e una scorta che permetta loro di allontanarsi dal carcere.

Mentre la trattativa va avanti, a rompere gli indugi è l’arrivo sul posto del Procuratore generale del Piemonte, Carlo Reviglio della Veneria, e del generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Gli ordini provenienti dal Ministero dell’Interno sono chiari: lo Stato non può accettare nessuna negoziazione e la vertenza dev’essere chiusa al più presto (a maggior ragione a due giorni dal referendum abrogativo sul divorzio). Nonostante la contrarietà del sindaco e di altri esponenti delle istituzioni alessandrine, a prevalere è la linea della fermezza e della forza: la sera del 9 maggio viene deciso un primo assalto, nel quale rimarrà ucciso il dottor Gandolfi e gravemente ferito il professor Pier Luigi Campi (il quale morirà in ospedale dieci giorni dopo). Il giorno seguente, nonostante il tentativo delle autorità locali di riaprire la strada del dialogo per evitare altro spargimento di sangue, ci sarà una seconda offensiva, che avrà conseguenze ancora più gravi: Di Bona sparerà mortalmente a Vassallo Giarola e agli agenti Cantiello e Gaeta, prima di togliersi la vita; Concu rimarrà invece ucciso dalla polizia; Levrero uscirà illeso e 4 anni dopo sarà condannato dalla Corte d’Assise di Genova. Questo l’esecrabile commento del procuratore Carlo Reviglio della Veneria a operazione conclusa: «La nostra è stata un’azione meravigliosa, condotta in modo magistrale».

A seguito di questi fatti la città rimane come stordita: oltre all’immenso dolore dei parenti delle vittime, a dominare è un senso di incredulità per quanto successo e di rabbia per la condotta delle forze dell’ordine comandata dall’alto. È evidente che ogni opzione guidata dal buon senso è stata accantonata in favore di un’iniziativa sciagurata che chiudesse la vicenda nel più breve tempo possibile, in dispregio di ogni costo umano. La giunta comunale, guidata dal giovane sindaco Felice Borgoglio, oltre ad esprimere totale dissenso rispetto al giudizio di Reviglio della Veneria e ad aver ottenuto il trasferimento da Torino a Genova del processo a carico dell’unico rivoltoso sopravvissuto, Everardo Levrero, guidò la costituzione del “Comitato 10 maggio”: l’obiettivo era quello di denunciare in maniera dettagliata il modo in cui era stata gestita la rivolta carceraria e di «arrivare a un accertamento imparziale della verità e delle responsabilità» (iniziativa che porterà ad un esposto che sarà archiviato dalla procura generale di Genova e alla pubblicazione del volume di controinchiesta La strage nel carcere: Alessandria, maggio 1974).

A ripercorrere questa tragedia, a 50 anni di distanza, è oggi la bella docuserie in 6 puntate “Memoria dimenticata”, realizzata da Alessandro Venticinque e prodotta dalla diocesi di Alessandria. Oltre alla ricostruzione dei fatti e alla riproposizione delle tante ombre che avvolgono questa vicenda (dallo scarso livello di controllo nei confronti dei detenuti che facilitò l’ingresso delle armi in carcere, a come le indagini che portarono alla condanna di Levrero non aggiunsero alcun elemento di chiarezza su quanto avvenne davvero in quelle ore concitate), a impreziosire questo lavoro è la testimonianza di alcuni dei protagonisti dell’epoca (compreso lo stesso Levrero, raggiunto telefonicamente) e dei parenti delle vittime.

Il titolo stesso della docuserie vuole valorizzare il ruolo della memoria: se la strage di Alessandria venne avvolta rapidamente da una cappa di silenzio (complice anche l’indolenza della maggior parte della cittadinanza), la ricorrenza del cinquantennale può rappresentare una preziosa occasione per “fare memoria” di fatti che appaiono –anche localmente– quasi del tutto dimenticati.

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[1] Cfr. Cesare Manganelli, La strage del carcere di Alessandria, la lotta armata e la strategia politica dei Nuclei armati proletari (1975-1975) in «Quaderno di storia contemporanea» LXVI, 2014, pp. 105-115. Come ricorda l’autore, l’istituzione di una commissione indipendente di inchiesta sulla strage di Alessandria fu una delle richieste contenute nei due volantini del settembre-ottobre ’74 con cui si annunciava la fondazione dei Nuclei armati proletari, la cui nascita è strettamente legata alla politicizzazione dei detenuti.

La vicinanza del mondo operaio ai detenuti è stata immortalata nel film di Marco Bellocchio Sbatti il mostro in prima pagina (1972), in cui sono intercalate immagini del passaggio del corteo degli operai in sciopero di Philips, Alfa Romeo e Pirelli davanti al carcere milanese di San Vittore: alle bandiere dei Cobas si mescolano slogan come «Fuori i compagni, dentro i padroni!» e «Compagni carcerati sarete liberati! L’unica giustizia è quella proletaria!». Nello stesso 1972 Lotta Continua pubblicò il volume Liberare tutti i dannati della terra, una densa inchiesta sulle carceri italiane costruita con le testimonianze e le denunce dei detenuti stessi (tra cui diversi militanti).

[2] Nel volantino di rivendicazione del sequestro le BR parlano della necessità di «portare l’attacco al cuore dello Stato». Sossi verrà liberato il 23 maggio, nell’attesa che lo stesso accada agli 8 detenuti della “XXII ottobre”, ai quali è stata concessa la libertà provvisoria; ma così non sarà, visto che il procuratore generale di Genova Francesco Coco si opporrà al provvedimento, una decisione che porterà le BR a togliergli la vita l’8 giugno 1976: si trattò, come ricorda Giovanni Bianconi (Terrorismo italiano, Roma, Treccani, 2022, p. 67), del «primo omicidio pianificato dell’organizzazione».

[3] La presenza di percorsi di scolarizzazione all’interno di un penitenziario (unitamente a laboratori di meccanica, falegnameria e altre attività professionali), oggigiorno la norma, era invece all’epoca una caratteristica innovativa del carcere alessandrino, introdotta su iniziativa di un sacerdote illuminato, nonché insegnante liceale di Lettere e Religione, Don Amilcare Sorìa (1887-1962): a lui il comune intitolerà nel ’65 la piazza antistante il carcere. Cfr. Andrea Biscàro, Don Amilcare Soria: padre dei carcerati, Torino, 2022.

Il quinto incomodo

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di Tommaso Meldolesi

Con Marco, Oscar e Gigi ci troviamo ogni settimana a cena il mercoledì sera, a turno a casa dell’uno o dell’altro. Da quando abbiamo lasciato le nostre mogli, abbiamo preso quest’abitudine che ormai si è consolidata negli anni. E nessuno di noi quattro saprebbe farne a meno.

Quella sera Gigi ci aveva preparato un pollo alla diavola con contorno di funghi shitaki che era la fine del mondo, Marco aveva portato una bottiglia di Amarone del 2016 ed io una crostata con i frutti rossi. Così, satolli e soddisfatti dalla buona cena, eravamo da poco seduti intorno al camino intenti a bere l’ultimo bicchiere, quando Marco ad un tratto emise un singulto.

– Ragazzi! Chi è quello là? – ci chiese dopo un secondo, visibilmente spaventato.

– Chi?

– Chi?

– Chi?

Ripetemmo noi tre in coro.

– Quello là!

– Ma dove? Chi?

– Guarda Oscar là dietro. Si là, là… Non lo stai vedendo adesso? – esclamò Marco alzando un dito in direzione della finestra.

– Ma dove? Io sto guardando in quella direzione, ma non sto vedendo nulla.

– Là… là… vedi ora si sta muovendo…

– Ma dove? Dio mio!

Marco sembrava posseduto dal sacro fuoco del terrore, al punto che noi tre pensammo che stesse delirando per via dell’alcol quando, osservando meglio, quasi tremando, Gigi si rivolse a noi dicendo:

– Ragazzi, forse Marco ha ragione. Guardate là… guardate là in fondo.

Scrutammo con attenzione il punto che Gigi ci stava indicando e di fianco alla tenda della porta finestra che dava sul giardino scorgemmo in un angolo la sagoma di un uomo.

Gigi abita a pian terreno ma per arrivare al suo appartamento si deve attraversare un cortile interno che non è accessibile dalla strada. Chi l’aveva fatto entrare? Che cosa voleva quell’uomo da noi? Rovinarci la serata? Oppure chissà che cosa… Nessuno di noi lo conosceva né aveva idea di chi fosse.

L’uomo sembrava sorriderci. Che avesse bisogno di aiuto? Aveva il volto spigoloso, un’aria non invitante e un’età indefinita sopra i cinquantacinque anni. Anche quando ci sorrideva sembrava tirare tutti i muscoli con una tensione innaturale. Quel sorriso mise tutti noi molto a disagio.

– Cosa facciamo? – dissi imbarazzato.

– Io a casa mia un estraneo non lo faccio entrare! – esclamò Gigi risoluto.  – Voi fate quello che volete. E se volete invitarlo e andarci a bere una birra sono fatti vostri, ma non mi coinvolgete per favore. Intanto si è fatto abbastanza tardi per cui è meglio che la finiamo qui per stasera perché domani lavoriamo tutti.

Ma quando poco dopo uscimmo per tornarcene a casa, l’uomo dal giardino era sparito.

La settimana successiva, dopo la solita cena, questa volta a casa di Marco che abita al settimo piano di un grande palazzone, udimmo bussare alla porta. Il padrone di casa andò a chiedere chi fosse a bussare ma nessuno rispose. Nello stesso istante a me e a Gigi parve di vedere lo stesso volto dell’uomo che ci aveva sorriso una settimana prima, ma questa volta molto più circospetto e quasi scocciato. Sembrava che ci stesse spiando in ogni nostro minimo movimento. Ci sentimmo controllati e osservati dall’esterno e questo ci diede molto fastidio.

-Ma chi è? – chiese Gigi ad alta voce. – Che cosa chiede? Cosa vuole da noi?

Marco molto timoroso aprì la porta, ma sul pianerottolo non c’era anima viva.

Lo fissammo bene tutti e quattro. L’uomo sembrava essere appeso al vetro non si sa bene come. Chi ce l’aveva portato? E soprattutto cosa avremmo potuto fare per lui? Quel volto così spigoloso e insolito non suscitava in nessuno di noi memorie di amici scomparsi o di antichi rivali in amore o quant’altro. Era soltanto la proiezione di un sentimento comune che tuttavia ci inquietava e non poco.

Un mese dopo eravamo tutti a casa mia. Stavamo per iniziare una cena a base di specialità della cucina asiatica che sono da sempre la mia passione, quando udimmo suonare il campanello. Da sempre interessato agli incontri, anche ai più stravaganti, decisi che sarei andato ad aprire.

– Ma sei matto Andrea! Magari è sempre quello!

– Vuoi metterci tutti in difficoltà?

– Ma cosa ti salta per la testa?

Mi dissero i miei amici terrorizzati. Ma io, fermo nella mia decisione, mi diressi verso la porta d’entrata ed aprii.

L’uomo entrò. Era altissimo e molto magro. Aveva i capelli grigi corti ed era tutto vestito di grigio.

Mi ringraziò per l’ospitalità e si sedette a tavola con noi. Superando i nostri timori iniziali, ci accorgemmo che sembrava molto affabile. In fondo questo quinto incomodo non era poi tanto male. Quell’incontro così insolito e inatteso finì per trasmetterci una strana allegria. Il problema era che l’uomo non parlava la nostra lingua per cui non potevamo sapere nulla di lui. Lo sconosciuto cominciò a mangiare con voracità tutto quello che si trovava davanti e parlò ad ognuno di noi in un idioma straniero molto buffo che nessuno di noi aveva mai udito. Parole simpatiche, sicuramente affettuose, ma chi di noi quattro poteva afferrarle e capirle fino in fondo? Avremmo voluto conoscerlo meglio, invitarlo ad altre nostre cene ma la sua non fu altro che un’apparizione.

All’improvviso si alzò da tavola, rivolse un grande sorriso a tutti noi, uscì dalla porta di casa mia e sparì.

 

Lo stato dell’Arte: Antonio Raucci

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Dente di topo

Giuseppe Cerrone dialoga con Antonio Raucci

 

Caivano dista una manciata di chilometri da Succivo. I due paesi sono collegati da una piccola e tortuosa arteria che mette in fila, uno dietro l’altro, tutti i centri dell’area atellana fino ad Aversa. Per chi come me arriva dalla provincia di Napoli, è sufficiente non perdersi per le vie dell’interno dopo il bivio di Frattaminore. Il rischio è quello di vagare tra i sentieri capricciosi di un agro famoso per le sue alberate alte dieci metri. Bastioni dove la vite convola a nozze insieme a grandi arbusti da frutto. Vado a trovare Antonio Raucci. Avere un amico così interessante non molto lontano da casa, è una fortuna da cogliere al volo. Al diavolo Google Maps. Conosco la strada. Durante il percorso torno sulle domande senza il disturbo del navigatore. Guido con attenzione, gustando l’attesa. L’intervista è una eccentrica forma d’arte che oscilla tra la confessione e lo studio. Un po’ teatro, un po’ filosofia, ha spesso il merito di dire la verità. Un motivo in più per praticarla. Parcheggio l’auto in garage. Il buio. Poi squarci di luce dai pannelli in alto. Cammino mirando esiti che il catalogo “Spazio per acrobati” illustra con dovizia. Comincio da lì mentre alcune donne coi tacchi portano a spasso i ricordi. Le risposte dell’artista[1] appaiono in grassetto.   

 

1) Il tempo. Quando cessiamo di scandirne le fasi, sedotti dalle cose e dai viventi, entriamo forse in una zona di beato splendore. Si può sfuggire alle fredde meccaniche dei giorni e delle ore? O è un sogno impossibile da realizzare?

Il tempo è ciò che mi prendo e di cui dispongo. Una torta fatta di tante fette che poi finiranno. La sua dimensione è squisitamente esistenziale. Io rincorro il tempo, anzi provvedo alle lancette che mi spingono alla corsa contro le ore e i minuti che trascorrono inesorabili. Si ha sempre bisogno del tempo, perché gli obiettivi e gli scopi che ognuno si pone, vanno inseguiti scandendo i giorni, misurando la propria forza attraverso i calendari. L’unico modo per non subire il tempo, è attuarlo, coronando processi creativi soggettivi. In ultima analisi, il tempo è una risorsa individuale. A me serve per creare e progettare.

2) Nei tuoi lavori emergono figure sconcertanti, esseri antropoidi, forme occipitali che non sempre emanano un buon odore. Sono gli uomini-cyborg del futuro o le maschere contemporanee che invadono lo spazio dei nostri schermi abituali? Sembrano scappati da un demiurgo cattivo che li teneva in gabbia senza la consolazione di una ricreazione.

Sono i miei simili, esaminati con spirito nuovo. È come se mostrassi il loro interno, avvalendomi di sonde e dinamo di precisione. “A forza di vedere immagini attraverso le radiografie, il nostro modo di [riproporle] è cambiato” (Francis Bacon). Quanto all’essere sempre in fuga, la velocità affannosa con cui ci si rincorre, rimanda a delle prigioni esistenziali che noi stessi abbiamo costruito.

3) In bilico accanto al simile in una strana prossimità con ingranaggi e ruote, in un mondo feroce capace di funeste espulsioni. Eppure i tuoi modelli, che ricordano gli attori di Bresson, irrompono sulla scena come “revenant”, prelevati da un oblio profondissimo. Cos’è per te la morte e cosa può esserci dopo? Esiste un riscatto per i defunti? E, se sì, quale?

La morte è la scadenza del mio tempo. Non so nulla su quello che ci aspetta dopo. Il riscatto per i defunti consiste nel lavoro lasciato ai posteri. Loro ne avranno cura e memoria. L’uomo è nato per fare. Quello che di lui rimane, dopo la morte, è il suo fare. Il suo fare è il dono che resta quando non ci sarà più.

4) Sulla scia del grande Mario Persico, tua indiscussa influenza, ravviso una straordinaria vitalità nei tuoi lavori, una fortissima carica biologica. Per quanto paradossale possa sembrare, è possibile parlare di uomo e donna, con il primo intento a spendere tutto il suo fascino e le sue abilità, non ancora prescritte, in manovre di corteggiamento, e la seconda, incuriosita da tanto ardore mascolino, che mostra invece la sua di “mercanzia”. Le avances sono rinnovate e aggiornate da innesti meccanici e circuiti nascosti sottopelle. Muscoli, polmoni, ossa paiono fuori posizione, tuttavia daranno il loro contributo all’estasi amatoria, cui la donna non si sottrae. Vi è una cura del sé che conosce metodi bizzarri in un contesto da romanzo pruriginoso. Il dettaglio delle gambe, la femminilità degli arti ad esempio. Dico bene?

Vedo l’amore come il gioco fondamentale dei viventi. Ci si scruta e ci si annusa in forza di oscure leggi. Chimica e desiderio determinano incontri e dettano scelte, a volte anche singolari. I condizionamenti delle chiese e delle fedi perdono di valore se solo apriamo gli occhi su quello che abbiamo intorno. Una moltitudine di corpi in transito verso l’altro. Forma di relazione squisitamente terrena. Qui il premio è la persona che ho di fronte, la figura intera, il piacere che procura. Così l’esplorazione e la gioia vengono a noi naturalmente, e le critiche e le imperfezioni non hanno voce in merito. Si annullano nell’orgasmo. Mario Persico è stato il cibo e l’acqua nei giorni dell’apprendistato. Un grande artista, un grande uomo, un mirabile educatore. Mirava al primato dell’estetica senza calcoli egoistici. Non si risparmiava, dava sé stesso alla causa, mettendo da parte qualsiasi tornaconto privato.

5) Festa, condivisione, gioco, acrobazie sul posto, lezioni dissennate all’aperto senza un utile, è questo l’esorcismo per il cappio che tiene legati gli umani alle logiche inesorabili del lavoro e del mercato. Il “Leviatano” delle multinazionali soffoca il vivente, stritolandone l’immaginazione. La tua arte è un grido di protesta, silente e disperato, che però recupera la gioia, la gioia del fare. Un esercizio strenuo, quotidiano di rivalutazione della materia, e dei giorni passati a sfuggire all’annientamento. Che ne pensi?

Credo che l’arte sia gioco. Spazio ludico in primis. Le drammatiche contraddizioni della società contemporanea vanno affrontate con soluzioni diverse, strambe che richiamano i comportamenti del fanciullo alle prese con il mondo e i suoi paradossi. A me piace occupare il posto che scelgono i bambini quando vengono feriti dalla vita o da altro assurdo. L’analisi esistenziale delle loro risposte al dolore diventa Patafisica, «scienza» per nuovi immaginari. Gareggio da outsider nella speranza di accendere entusiasmi ed infatuazioni in un pubblico che potrebbe col tempo aumentare considerevolmente. Anche se non sono nel mainstream, i miei lavori parlano a gente interessata senza erigere torri d’avorio.

6) Vorrei che dicessi qualcosa su Stelio Maria Martini, colui che più di tutti ha preparato e favorito la svolta nelle tue strategie estetiche. È davvero esaltante per l’artista incontrare un grande maestro. Che tipo di rapporto era il vostro?

1988. Ero giovane ed ambizioso. Facevo cose nel campo dell’Informale ma tentavo incursioni nel Materico. Su Martini aleggiava un alone da leggenda. Ventinove anni sono pochi quando si affronta un titano del genere. La mia impreparazione emerse evidente come la lana che si attacca al velcro. E, tuttavia, il maestro accolse con favore quelle operine, scrivendone anche. L’iniziale soggezione sparì piano piano. Diventammo amici e sodali. Dal 1994 le visite si intensificano e la confidenza aumenta. Arrivano i primi benefici. Vivo al suo cospetto una svolta mentale e attitudinale senza precedenti. Scopro un mondo sconosciuto. Esploro una dimensione, quella del fare, che si allontana volutamente dalla convenzione. Sotto la sua ala e la sua guida, cambio pelle, sfoggiando progressi importanti. Partecipo a mostre di rilievo. Io stesso ne presento di mie, incoraggiato dal suo apprezzamento. Cercavo, nella prassi e nel gesto, di lambire, quantomeno, le sue aree di influenza e il suo sapere, vastissimo, sterminato, spalancato sul cosmo e sul caos. Diceva con affetto che lui era la mente ed io il braccio. Lo seguivo in punta di piedi, rispettandolo e venerandolo. Presto però cadde tra noi ogni tipo di inibizione. I discorsi cominciavano così a prendere risvolti molto intimi. Divenni il suo tuttofare, in virtù di un rapporto leale, privo di secondi fini. Provo per lui una riconoscenza infinita. Mi ha messo sulla via attraverso stroncature e incitamenti. Martini non aveva peli sulla lingua. Fotografava sempre con esattezza la situazione. Una lucidità spietata messa al servizio di tanti artisti, che andavano da lui in pellegrinaggio a riceverne conforto e rassicurazione ma pure qualche schiaffo. Metaforico s’intende e, comunque, indispensabile per la crescita personale. Ci vedevamo il martedì, qualche volta la domenica dopo le 11. L’immancabile caffè si accompagnava ad elaborate prove gastronomiche, nelle quali eccelleva. Verdure, patate, ròsbif con vino. Si misurava in cucina con qualsiasi pietanza, riuscendo bene. Poi ha cominciato a star male, allora ho curato di persona la sua produzione. C’era materiale di valore inestimabile, pubblicato su antologie e periodici, che doveva tornare a casa. Ricordo un suo intervento, apparso su «Levania», rivista del poeta e critico Eugenio Lucrezi. In quel frangente, fui proprio io a procurare la pubblicazione a Martini. Vi teneva in modo particolare, e voleva, assolutamente, entrarne in possesso. Ha lasciato tesori su isole ancora sconosciute. Un’immensa fortuna al servizio di pochi coraggiosi. Con grande lungimiranza e saggezza, aveva ampiamente previsto i problemi e le resistenze che avrebbe fatalmente incontrato a Napoli, qualora si fosse optato per la Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele III, come luogo dove aprire un fondo ed un archivio dedicati alla sua opera. Martini scelse il Mart di Rovereto, agendo in modo ineccepibile e salvando dall’ineluttabile scempio una mole capitale di scritti e lavori visivi che, spiace dirlo, in qualsiasi sito campano, sarebbero finiti “nel cesso” [parole sue che riporto con orgoglio]. Gli sono stato vicino fino all’ultimo come conviene ai discepoli che non dimenticano il loro debito di gratitudine e hanno sempre davanti la lezione del maestro. Imperitura.

7) Come cominci le giornate? Cosa fai appena sveglio? Qual’è il metodo? Da un lato la scelta di oggetti, oltraggiati dagli anni, nei mercatini dell’usato, roba vile, affascinante perché vissuta, dall’altro l’utilizzo sapiente del colore, al quale non rinunci, che stendi su tavole per enfatizzare volti e corpi di vecchie foto che, scattate una volta, riproponi con gran divertimento in pose surreali e suggestive combinazioni. Parlaci un po’ della routine che ogni creatore inventa e subisce contemporaneamente.

Scendo nello studio e scavo tra le cose rinvenute nei mercatini. Mi piace abbinare l’oggetto ad un pensiero. La funzione della mente, nel mio caso, è quella di trovare una nuova realtà attraverso il materiale recuperato. Ciò che viene rifiutato e scartato, consegue una forma più autentica. L’arte riscatta così cumuli di rovine in ariosi collage a tema (Il mare e gli abissi, ad esempio). Ecco che un allargascarpe, con l’aiuto di un supporto in legno e di una buona dose di vernice, diventa un transatlantico. Lavoro soprattutto di mattina, dedicando il pomeriggio agli affari personali. La sera, tuttavia, dopocena, ritorno sulle intuizioni sviluppate ad inizio giornata. La ricerca nei mercatini avviene nei fine-settimana. Guidato da impulsi e fantasmi di provenienza incerta, vago tra rigattieri e professionisti, anche loro, come me, in cerca di qualcosa che possa colmare i nostri vuoti. La differenza è che, col mio lavoro, l’oggetto acquista una nuova funzione in una cornice diversa.

8) Sei nato nel 1959. La tua generazione ha accolto la transavanguardia e i New media. Hai assorbito tutto in modo personalissimo. In questo contesto di riferimenti e influenze, avviene l’incontro con Domenico Mennillo, scrittore – performer – poeta visivo – autore di installazioni sovversive, almeno per il senso comune. Certi legami cementano vocazioni e dissodano il terreno. Lo puliscono dalle erbacce. Un’altra amicizia importante.

Con Domenico ho scoperto di avere tanto in comune. Ci unisce il chiacchiericcio e lo schiamazzo dei mercatini, quando si patteggia e discute insieme ai lavoratori di frodo per arrivare ad un prezzo che soddisfi entrambi i contraenti. Ecco, per sommi capi, come inventiamo e rinnoviamo il quotidiano, io e lui. All’inizio ci tuffiamo nelle strade. Lo facciamo da ascetici flâner. Siamo sempre in cerca di qualcosa. Un oggetto è in grado di suscitare un mondo, un pensiero, una traccia sulla quale lavorare sodo. Sogniamo nuovi linguaggi, ognuno a modo suo. Nella vaghezza, accogliamo tutto, anche la distrazione. In passato ci siamo scambiati filmini amatoriali, quaderni intimi, strani congegni, reperiti un po’ ovunque. Abbiamo avviato un vero e proprio flusso di opere. Non poteva essere diversamente. Coltiviamo gli stessi interessi. Questo ci ha portato a collaborare alla realizzazione di alcune cartoline d’artista che mettevano in comunicazione Napoli e Parigi, i loro rispettivi milieu sperimentali. Se la vocazione è la stessa, gli obiettivi però divergono. In lui riscontro una maggiore propensione al pensiero, alla ricostruzione, all’archivio. Vi è in Domenico un anelito performativo che si nutre di cornici, strutture, ambienti, una certa tendenza, quasi barocca direi, alla grandeur, che in fondo non mi appartiene. Del resto il suo retaggio di attore la dice lunga in merito, mentre io esco dalle accademie d’arte. Su una cosa non ci sono dubbi: frequentandolo, ho chiuso con le fisime da romantico bohémien. La gramigna andava estirpata. Gli amici, dicevi, vengono a dissodare il giardino di casa. Vero, assolutamente.

9) Le tue opere dicono anche questo: non avremo mai il dono di vederci come ci vedono gli altri. Gli altri hanno su di noi una prospettiva privilegiata che non possiamo replicare in alcun modo, per quanti sforzi si faccia. Lo sguardo di chi mi fissa e mi scruta è la verità alla quale, io, oggetto indagato, osservato speciale, non posso avere accesso. Siamo dentro un gioco che sorveglia e punisce. I tuoi gesti, il tuo assemblare e fondere Bios e Polis, arpiona il mistero dello sguardo altrui, così potente da consegnarci alla resa. È così?

Siamo pedine gestite da qualcuno che ha uno sguardo privilegiato e più lungo del nostro. In alcuni casi, estremi, il mio occhio, allenato dal mestiere, coincide alla perfezione con quello dei grandi burattinai. Allora preparo fondamenta e architetture che si rivelano strutture di accoglienza dove il vissuto viene cinicamente disposto e spiato.

10) La parola d’ordine per l’interpretazione del lavoro di Antonio Raucci è “costrizione”. L’Homo Sapiens ridotto a Homo Stultus, ingabbiato in recipienti, anfore, elettrodomestici, strumenti musicali, mezzi di locomozione, incapace di muoversi a piacimento, “costretto”, appunto, in strutture espanse. Parlo di memoria, linguaggio, scienza medica, organizzazione del lavoro e della ricchezza, produzione industriale. Sei d’accordo? Siamo “costretti” perché finiti, destinati a deperire.

Veniamo alla luce per godere. Tutto l’universo è un invito al godimento. Penso ai fili d’erba dietro l’angolo, vicino alle auto. Sono lì per noi. Purtroppo, intrappolati in schemi che riformuliamo di continuo a velocità folle, abbiamo perso la capacità di saper riconoscere ed evocare la bellezza. Non vediamo più, accecati da numeri, diagrammi, tavole, gradienti, spartiti, manuali, indicatori di rendimento. Quando, maturi per la pensione, desideriamo riprenderci ciò che ci è stato sottratto, constatiamo delusi che acciacchi, malattie, logorio, atrofia dei sensi ostacolano qualsiasi disegno. L’arte, il gioco, un certo modo di provocare accadimenti e cose, possono tuttavia fare molto. Sono un antidoto alla stoltezza. Un esorcismo collettivo che spegne la frenesia dei tempi, un tentativo di ascesa verso la sapienza.

11) Venendo da te ho incontrato un tirannosauro. Andava in banca con suo figlio. Voleva aprirgli un conto e intestargli un libretto per assegni. È stato così affabile e cortese che ci ho scambiato qualche osservazione. Io in auto che mi fermo e dò strada, lui che ne approfitta, si avvicina e saluta. Dopo, sulla soglia, trovo un acquario abitato da un axolotl, che ti somiglia tanto. Infine, faccio le scale che portano in bottega. Prima di entrare, lancio un’occhiata alla pianta carnivora sistemata di fronte, regalo, dichiari, di un’ex fidanzata. Ebbene, mi tocca la guancia senza astio, anzi risparmia una zanzara che si posa sul braccio e non punge. Antonio, devo preoccuparmi?

No. L’inaspettato è per noi, e non da ieri, spunto e forza. Grazie, Giuseppe.                          

 

 

[1] Antonio Raucci nasce a Caivano nel 1959. Frequenta alcuni corsi in Accademia a Napoli nel biennio 1988-89. Le sue prime prove in chiesa, su restauri di affreschi commissionati dalla Soprintendenza ai Beni Culturali. Temi e momenti del Vangelo costituiscono il suo apprendistato unitamente a studi di natura morta e di nudo. Presto il passaggio ad un’espressività informe e povera che ottiene buoni consensi. Decisivi gli incontri con grandi personalità come Stelio Maria Martini e Mario Persico, quest’ultimo lo nomina assistente negli anni conclusivi. Emerge progressivamente una nuova sensibilità, influenzata dal surrealismo e dalle avanguardie. Torna la figura ma in modi singolari, secondo strategie fluide e inattese che vedono i viventi interagire con innesti fisici e supporti organici. In omaggio all’astrazione postpittorica statunitense, scompare la prospettiva. Fanno capolino invece segni e forze irrazionali che invadono la scena e danno mistero e sostanza all’oggetto. Tra le mostre di spicco, si ricordano: “Simulacri” (2014), a cura di Martini e Dario Giugliano, “La silenziosa risposta” (2017), “Spazio per acrobati” (2023).

L’attualità di Alexander Langer

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di Marco Boato

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

A 29 anni della sua scomparsa, pubblichiamo questa introduzione di Marco Boato a Alexander Langer, apparsa con il titolo “Chi era Alexander Langer, l’uomo delle virtù verdi”, il 09.08.2023 su l’Unità (NdR)

Alexander Langer è morto per scelta volontaria il 3 luglio 1995. Oltre un quarto di secolo dopo, la sua figura continua a segnare in modo emblematico la storia dell’ecologismo politico italiano ed europeo, ma non solo. Scomparso a 49 anni, molte sue intuizioni sono rimaste di una attualità sorprendente, molte sue iniziative sono ancora oggi vive e vitali, la sua eredità spirituale, culturale e politica è ormai patrimonio comune di intere generazioni, anche di quelle più giovani, che non l’hanno conosciuto di persona, ma ora stanno imparando a conoscerlo attraverso i suoi innumerevoli scritti e le sue testimonianze. Ne ho dato conto nel mio libro Alexander Langer. Costruttore di ponti (La Scuola-Morcelliana, Brescia, 2015).

“Ecopax”
Alexander Langer è stato davvero un “costruttore di ponti”: tra etnie e gruppi linguistici, tra identità ideologiche diverse, tra le differenze di genere, tra partiti e società, tra Nord e Sud e tra Est e Ovest del mondo, tra gli umani e la natura, tra la pace e l’ecologia (Ecopax, appunto). In alternativa agli ideologismi astratti si è fatto promotore di “utopie concrete”; rifiutando ogni forma di fondamentalismo si è fatto sostenitore della “conversione ecologica”; superando i muri delle barriere etniche si è fatto protagonista e artefice della “convivenza”; di fronte alla disperazione e al catastrofismo ha cercato di essere “portatore di speranza” ed anche “costruttore di pace”.
Nel Tentativo di decalogo per la convivenza interetnica ha scritto “dell’importanza di mediatori, costruttori di ponti, saltatori di muri, esploratori di frontiera”: la sintesi migliore di come Langer concepiva il suo rapporto con i conflitti e con le barriere etniche, politiche e ideologiche.
Nel suo testo più sistematico sulla “conversione ecologica”, ha affermato in particolare: “La domanda decisiva è: come può risultare desiderabile una civiltà ecologicamente sostenibile? Lentius, profundius, suavius, al posto di citius, altius, fortius. La domanda decisiva quindi appare non tanto quella su cosa si deve fare o non fare, ma come suscitare motivazioni ed impulsi che rendano possibile la svolta verso una correzione di rotta”. Una correzione di rotta oggi più attuale e necessaria che mai, di fronte alla sfida dei cambiamenti climatici.

Conversione ecologica
Dopo la “consapevolezza del limite” e quindi l’“auto-limitazione”, Langer aggiunge un’altra riflessione: “Credo che una delle virtù «verdi» praticabili possa essere quella del pentimento, dove per pentimento intendo l’atteggiamento di chi ha sperimentato l’eccesso, la trasgressione, la violazione e se ne rende conto”. Langer non ha in proposito un approccio fondamentalista, ed è consapevole della complessità di questo monito: “Da questo punto di vista, la nostra civiltà (in particolare l’Europa, l’America, il Giappone, l’industrialismo trionfante e imperante oggi) non può far finta semplicemente di tornare alla natura e sicuramente non può neanche arrestare di colpo la logica di sviluppo e di crescita”. Tuttavia aggiunge: “Ma è possibile forse un atterraggio morbido, rispetto al quale c’è molto da lavorare”.A questo punto Langer introduce un tema, quello della “conversione ecologica”, che poi ritornerà in molti altri suoi scritti degli anni successivi, e che, quasi trent’anni dopo, troveremo ripreso esplicitamente nella Laudato si’ di papa Francesco del 2015: “Questo atteggiamento che chiamavo di pentimento, o forse di tendenziale conversione ecologica, è sicuramente una virtù «verde» importante. La conversione non è solo un termine spirituale (lo è sicuramente in modo molto forte), ma è anche un termine produttivo, un termine economico”.
Langer a questo proposito mette in connessione l’aspetto culturale, etico ed anche spirituale, con la dimensione economica e sociale: “Riconvertire o convertire la nostra economia, la nostra organizzazione sociale verso rapporti di maggiore compatibilità ecologica e di maggiore compatibilità sociale, di minore ingiustizia, di minore divaricazione sociale, di minore distanza tra privilegi da una parte e privazioni dall’altra, è certamente una virtù «verde»”.
Obiezione di coscienza
Anche ispirandosi alla lezione drammatica del gruppo giovanile della “Rosa Bianca” nella lotta nonviolenta contro il nazismo (che costò la vita ad alcuni di loro), a quelle già richiamate Langer aggiunge una ulteriore proposta: “Un’altra virtù «verde» che vorrei richiamare è l’obiezione di coscienza. Lo faccio con particolare convinzione ed emozione in un ambiente che si richiama alla «Rosa Bianca».
Nella riflessione di Langer è sempre presente il richiamo non solo alla responsabilità collettiva, delle forze politiche e dei movimenti, ma anche a quella personale, di ciascun individuo chiamato in causa direttamente: “Sempre più oggi ci troviamo di fronte, per esperienza quotidiana di tanti, a dei meccanismi talmente perfezionati, talmente onnicomprensivi e totalitari, che effettivamente non basta lottare perché cambi il sistema (cosa di cui non disconosceremo l’importanza fondamentale), ma occorre anche rifiutare di apportare il proprio contributo anche coattivo, anche estorto con la legge e a volte anche con la violenza un po’ oltre la legge, che ci farebbe essere dei pezzetti di un ingranaggio”. In queste sue parole si ascolta l’eco lontana della lezione di Gandhi ed anche, in Italia, di Aldo Capitini e del movimento nonviolento, a cui Langer si è sempre più ispirato a partire dai primi anni ’80 del secolo scorso.
Una forte spinta etica
Ma già nel 1987 Langer anticipava questa sua convinzione in questi termini: “Da questo punto di vista, credo che occorra una forte spinta etica in positivo, non solo la paura di non farcela a sopravvivere, ed anche una dimensione percepibile, una dimensione visibile, entro la quale l’equilibrio ecologico ha un senso che un po’ tutti possono condividere e verificare”. In questa prospettiva della responsabilità ecologica e della partecipazione democratica, si collocano le riflessioni conclusive di Langer nella relazione del 1987: “Se non si trova una dimensione in cui la ragione ecologica possa coniugarsi con la democrazia, allora probabilmente le virtù di cui parlavo prima rischiano di essere un nobile e minoritario esercizio di ascesi ecologica, un nobile esercizio di solidarietà, ma un esercizio probabilmente non in grado di invertire la tendenza, o per lo meno di rallentare o arrestare il degrado, cosa che d’altra parte vorremmo tentare di fare”.
È questo un monito verso un futuro sostenibile che vale pienamente ancora oggi, a tanti anni di distanza da quando fu formulato per la prima volta. La lezione di Alexander Langer è ancora pienamente attuale, anche per affrontare la crisi climatica e l’emergenza economico-sociale, che attraversano su scala planetaria la drammatica realtà attuale.

 

I disegni di Picasso

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di Max Mauro

I disegni di Picasso sono tenuti in una stanza a temperatura controllata, massimo 21 gradi celsius, e umidità tra i 55 e i 56 punti percentuali. I gradi sono importanti, così come il livello di umidità. Altrimenti i disegni muoiono.

Sono preziosi, i disegni di Picasso. Non c’è in tutta l’America Latina una collezione simile. Non ce l’hanno nemmeno a New York, nell’America del nord, quella che impunemente reclama il nome del continente solo per sé. La collezione di Picasso è costata settecentomila dollari negli anni Ottanta del secolo scorso.

La sala dei disegni di Picasso è un sollievo dall’afa della strada, che qui non può arrivare. Anche il rumore, il costante assordante avvolgente rumore delle strade di Caracas, qui non arriva. I disegni rappresentano corpi nudi, forme essenziali, tratti volatili. Sono nudi i corpi come è nudo il grattacielo nudo.

I disegni di Picasso, tenuti a temperatura e umidità controllate, occupano una sala del museo di arte contemporanea, inaugurato nel 1973. Altre sale sono occupate da opere di Kandinski, Rodin, Monet, Francis Bacon, Mirò, Henry Moore, Duchamp, Fontana. Il sogno della fondatrice del museo, Sofía Ímber, era di creare qui il museo di arte contemporanea più spettacolare del Sud America. Nell’anno 2006 è a undici forse dodici minuti di cammino dal grattacielo occupato.

Si dice che doña Sofía Ímber fosse una signora combattiva e determinata, che non si fermava davanti a nulla. Era nata in una cittadina dell’odierna Moldavia, nel 1924. Al tempo era territorio conteso fra l’Unione Sovietica e il regno di Romania e accoglieva nobili russi, borghesi ed imprenditori ebrei fuggiti dalla Rivoluzione russa. Doña Sofía dipingeva quel passato a questo modo: “Essendo ebrei, si comprenderà molto bene che dovemmo scappare da quella parte di mondo quando cominciò l’assedio alla nostra razza”. La famiglia arrivò in Venezuela nel 1930. Doña Sofía disse sempre di non essere interessata a rivedere quei luoghi, si sentiva solo venezuelana. Nella vita scelse di fare la giornalista; per le famiglie bianche europee scegliere era un diritto. Lavorò prima nei quotidiani e poi alla radio e alla tv. La televisione le diede la fama.

Ogni domenica teneva un programma televisivo di interviste a protagonisti della politica e della cultura. Lo conduceva con il marito, anche lui celebrato giornalista e scrittore, che aveva abbandonato moglie e figli per unirsi a questa donna che qualcuno aveva definito straordinaria, finendo pure per sposarla. Strani intrecci. Anche lei aveva abbandonato il primo marito e i figli per convolare in quella che sembrava un’unione di eccellenze, almeno per quella porzione di società che dettava i tempi della Storia.

Il giorno seguente in cui il secondo marito morì, sparandosi un colpo in testa con una semplice pistola, nel gennaio del 1988, era in scaletta una delle loro molto attese trasmissioni televisive. Doña Ímber, riferisce una biografa che finì emarginata e forse pazza dopo aver visto il suo libro ritirato dagli scaffali il giorno stesso della pubblicazione, andò in onda, puntualmente, come ogni settimana. The show must go on. Lo show non si interruppe. Come poteva interrompersi? Mica le pompe petrolifere fermano di spillare oro nero se muore un operatore. Qualche anno dopo, in un’intervista, spiegò: “Io elaboro il mio dolore a modo mio, lavorando…”.

L’inopportuna biografa di Sofía Ímber si chiamava Manón Kübler, e con Sofía aveva in comune l’ascendenza europea, la pelle chiara e un cognome che suona tedesco. Il suo libro, Sofía Ímber: la intransigente, venne pubblicato nel 1994 dalla casa editrice Grijalbo, di proprietà del gruppo Mondadori. Un libro oggi introvabile.

Prima di essere una giornalista e una biografa Manón era una poetessa. Forse il suo problema è stato quello di voler scrivere una biografia senza voler scrivere una biografia. Cercava una storia meritevole per esplorare la sua passione per la scrittura e conquistare quella porzione di attenzione a cui ogni scrittore vero anela. Quale miglior soggetto per una giovane scrittrice ambiziosa se non la storia della donna più potente del Venezuela?

Pochi anni prima della biografia di doña Sofía Ímber, Manón Kübler aveva pubblicato una raccolta di poesie intitolata Olympia. Nei versi di Olympia Manón Kübler ammette il suo dialogo con un’umanità inaccettabile perché troppo profondamente umana. Parla di sé, un sé che sfugge ai grandi poteri molari: famiglia, matrimonio, carriera. Come altrimenti spiegare l’ambizione a scrivere – e pubblicare! – la biografia non autorizzata della donna più temuta del paese?

he sido arrolada por la presencia por la visita de un estraño que desata su terribles sin permiso. a ratos percibo que una loca e arriesgada invitacion, uno des esos juegos donde el peligro puede tocarse lo dejó aquí, entre mis sábanas, entre mi voz, sobre mi cama. ahora, posesionado de mis ámbitos, comodo huesped que abusa, pretende para siempre dominar en mis entornos, ayuentar a mis otros e hacer de mi delgadez su inextirpable nido.

Perché Manón Kübler ha voluto scrivere la biografia di doña Sofía Ímber invece di continuare a creare poesie che trasudano lacrime di vita? E’ un mistero che probabilmente rimarrà tale. Perché proprio lei si è cimentata in questa operazione rischiosa come nessun’altra nel mondo dell’editoria venezuelana? Però scrivendo un libro abbandonato ha offerto una metafora del sogno petrolifero del Venezuela, soggiogato allo zio nord-americano: la tua voce è ammessa, ma rimossa.

Doña Sofía non aveva tempo per agiografie malintese, la sua era un’incessante rincorsa al successo nel paese dei sogni permanenti, per chi se li poteva permettere. Erano gli anni Sessanta, Settanta, Ottanta del Novecento. Fino al Caracaso: la prima resa dei conti dell’incubo neoliberista. La fine e un inizio. O un inizio di una diversa fine? L’oro nero è giudice imprevedibile.

Dopo aver coccolato l’idea del museo come un figlio unico, lei che di figli ne aveva avuti alcuni, doña Sofía ricevette un regalo non del tutto inatteso dal presidente della repubblica, uno degli ospiti più regolari del suo programma televisivo. Il presidente della repubblica disse: il museo porterà il suo nome, si chiamerà “Museo Sofía Ímber”, e così per l’eternità. Era il 1974, il 20 febbraio di quell’anno, per la precisione.

L’eternità del museo si rivelò un’entità transeunte, come tutte le eternità umane. Venne interrotta nel 2001 da un altro presidente della repubblica, casualmente o forse no dagli schermi televisivi. Proprio il mezzo che aveva dato tanto potere a doña Sofía portò la fine di quell’audace sogno caraibico. Basta, d’ora in poi il museo si chiamerà semplicemente “museo”, come è giusto che sia, disse Hugo Chavez durante il suo programma Alò Presidente in un giorno di fine gennaio. E così fu. Una tabella all’ingresso del museo ricorda il passato e segnala il presente. Il museo di arte contemporanea è oggi, anno 2006, “Il Museo di Arte Contemporanea di Caracas”.

I disegni di Picasso non hanno colpa dei millecinquecento passi. Non hanno colpa di trovarsi a rappresentare gli estremi della modernità. Però, intendiamoci, sono incredibilmente belli da dire, i disegni di Picasso. Rendono immediatamente importante chi li nomina e li possiede. Picasso. La Storia, quella del mondo che conta, viene inscritta sulla porta principale grazie a un semplice nome: Picasso.

Anche il camminatore al margine ha un suo piccolo sogno. Vorrei portare i disegni di Picasso nel palazzo nudo. In fondo cosa sono millecinquecento passi? Cento disegni, uno per ogni famiglia alloggiata nel grattacielo occupato.

Ecco il programma del sogno: i disegni di Picasso escono dal luogo cassaforte infilati nello zaino di un bambino, ché nessuno è così innocuo e invisibile come un bambino che sogna ad occhi aperti. Percorsi i millecinquecento passi i disegni vanno incontro alla vita nuda degli abitanti del grattacielo nudo. Non c’è prescrizione sul loro uso, sulla loro destinazione d’uso. Proprio qui, dove milioni di dollari sono passati di mano per santificare il valore di scambio, ecco una possibilità salvifica. I disegni ricevono nuova vita. Chi li otterrà potrà appenderli alle pareti assolate del grattacielo nudo, oppure decidere di venderli in strada, nelle bancarelle, accanto ai CD copia dei Red Hot Chilli Peppers, magari come copertina alternativa, ripiegando il foglio in quattro parti per farlo stare dentro la custodia del CD.

Ma il gesto irriverente del bambino potrebbe essere anche il giusto premio alla memoria di un uomo che alla sua arte ha sacrificato la vita di chi gli è stato vicino. La tua arte la regaliamo, piccolo uomo Pablo, e tu non puoi farci nulla!

Ma questo è solo un sogno, un sogno meno corazzato di quelli di Sofía Ímber. Forse un sogno malandato come quello di Manón Kübler.

Foto di Margaret8 da Pixabay

Le stanze del tempo

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Gianni Biondillo intervista Piera Ventre

Piera Ventre, Le stanze del tempo, Neri Pozza, 2021

 

Le stanze del tempo è un libro “architettonico” ma non “urbanistico”. Le città si intuiscono senza essere mai dichiarate. Non è il fuori, ma il dentro quello che ti interessa. Case come correlativo oggettivo delle anime?

La casa è un magnifico correlativo, assai simbolico, così come lo è il concetto di abitare. Ciò che mi interessava esplorare è la relazione di interdipendenza che si crea tra chi abita e l’entità casa, che viene abitata, e quindi anche delle anime dei personaggi i quali, seppure protetti da mura, in quelle mura appaiono più nudi che mai. Esiste tutta una letteratura sulla simbologia della casa e sulle correlazioni tra il corpo e la mente degli esseri umani che mi ha sempre affascinato. Ho cercato di sviluppare questo tema privilegiando le abitazioni e lasciando irrisolti i luoghi che le ospitano.

Ho provato una forte sensazione di claustrofobia, persino nelle descrizioni degli esterni. Ricorrente, ad esempio, è il giardino, come stanza aperta, ma pur sempre stanza.

Immagino, purtroppo, che questa sensazione emerga giacché ho sentito, e sento, la claustrofobia dei tempi che stiamo vivendo. Il nostro “fuori” si è giocoforza ristretto. Anche i nostri giardini, in fin dei conti, per alcuni mesi si sono rivelati nient’altro che spazi che ci hanno relegati in confini costretti.

Quello che descrivi è un mondo abitato da donne. Rari gli uomini, e non ci fanno quasi mai bella figura.

Mi è venuto naturale narrare di donne in quanto, da donna, mi accorgo di avere con la casa un rapporto molto viscerale, quasi fisico. Non penso che il mio mondo abitato da donne sia venuto fuori per omaggiare il leggendario “angelo del focolare”, che temo non esista, ma è stato di sicuro ispirato dalla narrazione del rapporto che molte mie amiche hanno con i luoghi che abitano – e che è un rapporto molto simile a quello mio. In quanto agli uomini, di certo in giro ce ne sono di migliori rispetto a quelli che racconto in queste storie e che ho dovuto maltrattare un po’ per necessità di copione. Magari mi farò perdonare nei prossimi lavori.

Ed è, anche, un mondo abitato da gatti. C’è una ragione specifica?

La ragione è semplice: amo profondamente i gatti. Provo trasporto per tutti gli animali, tuttavia reputo i gatti creature speciali, compagni di cui non potrei fare a meno e che mi custodiscono da quand’ero ragazzina. Mi hanno insegnato moltissimo. Non hanno mai smesso di farlo. E, per restare in tema di case, per me una casa non è davvero casa, senza un gatto.

(precedentemente pubblicato su Cooperazione, nel 2022)

Perché i salmoni abboccano?

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di Nathan Wolf

Qualche giorno fa sonnecchiavo sul divano mentre in TV passava un documentario sui salmoni. Niente di nuovo, la loro odissea riproduttiva la conoscono tutti: migliaia di chilometri di risalita, controcorrente (ho dimenticato la velocità dell’acqua di quei torrenti) le sfide faticosissime eccetera. La natura è piena di iperboli, a pensarci bene. Comunque, la solita banalità della lotta per la vita. Un orso addenta un salmone in slow motion; un altro si arrende alla corrente, sparisce, muore (?) – una femmina si contorce, raggiunto il suo alveo di fiume prediletto dove, stando all’onnisciente voiceover, è nata, per creare un avvallamento sul fondale in cui depositare/deporre le uova.

Mentre i salmoni anelano a trasmettere la proprie genia, io galleggio nel dormiveglia. Certe informazioni interessanti lanciano un salvagente alla ragione, il tono petulante del narratore invece la affonda. I maschi di salmone arrivano dopo – blub, blub, blub. I fiumi rinsecchiti dal clima devastato mi provocano una drammatica linea piatta. Un suono lungo, spastico. Sono quasi affondato. Poi, all’improvviso, la luce: i salmoni durante la risalita non mangiano, sento. È per deporre più uova (continua il fantasma narrante) stomaco vuoto, spazio maggiore. L’associazione non mi conquista, ma la voce rilancia: visto questo forzoso sciopero della fame, rimane tutt’oggi un mistero perché abbocchino all’esca dei pescatori.

Non dormo più. Penso alla deontologia salmonica, quasi salomonica, che immola il nutrimento sull’altare della prosecuzione della specie. Lo capisco. L’evoluzione è stupendamente ragionevole, quindi illogica. La natura prevede che i salmoni non consumino cibo durante il ciclo riproduttivo (che dura mesi) allora perché un sapiens con stivali e bretelle riesce a stornarli dal loro intento? Cos’ha quel cibo sintetico rispetto a quello naturale, come può una semplice esca distrarli dalla loro missione millenaria e millenaristica, definitiva, universale?

I salmoni non mangiano, però abboccano. Sono forti, nella loro biosfera persino intelligenti, affrontano sfide estenuanti per poi, alla fine, abbandonarsi alla corrente per tornare in mare, accettando una vasta possibilità di morte. In effetti non sembra troppo seducente, vista così. Pochi secondi di soddisfazione riproduttiva sono seguiti da abbandono, oscurità, privazione sensoriale, dissoluzione, paura, orrore. Morire per continuare la vita, sopravvivere, ma solo nei propri geni – e, in tal modo, eternizzarsi.

L’alternativa è un’esca, un’illusione. Cascarci, insomma. Dove va, dopotutto, il salmone che abbocca? I suoi consimili lo vedono piegarsi, sollevarsi e schizzare fuori dal loro sistema di riferimento biologico verso l’universo asciutto noto solo collateralmente, per contrasto. Un luogo popolato da predatori in cui la loro specie non può sopravvivere. Eppure lo fanno, eppur si muove il salmone. È l’uscita di emergenza, direbbe Cartarescu.

Nel limbo ipnopompico la Voce mi arpiona verso la realtà: è uno dei misteri della biologia. Ma come! (mi oppongo) la virile scienza delle cose viventi è incapace di decifrare un atto di ribellione così semplice, davvero è cieca fino a questo punto? Alveari di ricercanziati si sono spremuti le meningi e hanno colmato pagine su pagine di diarree alfanumeriche solo per lasciarsi sbigottire da una cosa tanto sciocca e bella, meravigliosamente anarchica come l’ostinazione di un girasole fiorito in autostrada. L’insostenibile, incomprensibile leggerezza del salmone.

Sarebbe forse appetibile, viene da pensare, un universo einsteniano e rispettoso, ma la verità è che quel salmone disertore, quel soldatino dell’illogico che lotta con pervicacia da schiaccianoci contro l’orrore della biologia preordinata, mi affascina e se ne fotte; tifo per lui col cuore gonfio della commozione di chi guarda un debole affrontare un titano. Mi mancherebbe, e se non ci fosse andrebbe inventato, perché da che mondo è mondo sono i pazzi a profetizzare la sanità del futuro.

Ammettiamolo: è filosofico. Anziché pronarsi all’implicita teleologia insita nella propria specie, il salmone-pensatore decide per un’altra strada, romantico e inaudito: perderà e, in quanto sconfitto, diverrà invincibile. Cambierà gioco, trascenderà la sua natura, diverrà altro. I salmoni lo sanno. La biologia sussurra “nuota”, la filosofia grida “vola!” – e il salmone, ben consapevole dello spauracchio sospeso nella corrente davanti a lui, così sfacciatamente dissimile dal suo abituale nutrimento da risultare inappetibile, ci casca, si avventa sulla cordicella e abbocca. Non dovrebbe farlo, non è deontologico, ma lo fa.

E chissà che ne racconteranno i suoi simili, lasciandosi trasportare di nuovo a mare dopo la turpe agonia riproduttiva; chissà che ricordo avranno, cosa diranno, se avranno visto oppure no il miracolo e se alla loro successiva spedizione su per le rapidi, attraverso le fauci degli orsi, proprio lì, nel miasma dell’imperativo istintuale, non vedranno anche loro una funicella aliena venuta da un altro mondo penzolargli di fronte alle branchie, e a quel punto saranno loro quelli chiamati a decidere tra il mos salmonorum e un’avventura allogena.

Il sonno ritorna, parte la pubblicità. Quel ragionamento sfuma così come si è palesato, con un guizzo di pensiero. Un refolo di illazione. Cerco di vedere un’analogia ma continua a tornarmi in mente il teatrino delle marionette col cielo di carta bucato di Anselmo Paleari, e tutto si ferma lì. Il salmone eroe tragico che sfreccia attraverso le stelle d’un presepe. Forse è felice, forse gli basta così, come alternativa al gorgo della biologia non sembra male.

Alla fine, i salmoni, perché non dovrebbero abboccare?

Mots-clés__Casa

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Casa
di Paola Ivaldi

Giorgio Gaber, C’è solo la strada -> play

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Da: Insetti senza frontiere di Guido Ceronetti, Adelphi (2009), pag. 36.

E la casa è galera a vita, pensa dunque che vita! Condiziona il pensare. Offre all’angelo della morte indirizzi sicuri. Attira il crimine, la rissa, il lutto. Gente impazzisce per brama di bagni e cucine. La coppia giovane ci fa naufragio. La Fuga è dappertutto, ma la sua impossibilità culmina in tortura mentale. La casa ti abbranca e ti tiene. La odii, la faresti esplodere quando si svuota d’amore. Ma bisogna odiarle sempre, e mai cercarle, mai desiderarle, queste dannate case.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. La prima domenica del mese Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a:  ornellatajani@hotmail.it Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]