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Perché le contraffazioni sono la più grande arte della nostra epoca – Un’intervista a Jonathon Keats

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di Silvia Pareschi

Jonathon Keats durante un reading al City Light Bookstore di San Francisco

Intervistare il proprio marito potrà sembrare un po’ strano, ma io ho fatto di peggio. L’ho tradotto. Qualche anno fa Jonathon Keats ha pubblicato una raccolta di racconti, The Book of the Unknown, che io ho tradotto in italiano per La Giuntina con il titolo Il libro dell’ignoto. Nella mia lunga carriera di traduttrice non mi era mai capitato di lavorare fianco a fianco con il “mio” autore. Potevo fargli tutte le domande che volevo, e potevo persino dirgli se non mi piacevano le sue risposte. Ora che Keats ha pubblicato un nuovo libro – Forged: Why Fakes Are the Great Art of Our Age (“Falso: Perché le contraffazioni sono la grande arte della nostra epoca”), uscito questa settimana per la Oxford University Press, negli Stati Uniti – ho subito colto l’occasione per fargli di nuovo qualche domanda a cui non poteva esimersi dal rispondere.
In Forged, Jonathon Keats (il quale, oltre a essere mio marito, è anche critico d’arte, giornalista e artista) indaga il ruolo del falso nella storia dell’arte, a partire dall’assunto che “i falsari sono i più importanti artisti della nostra epoca”. Perché? Perché mettendo in discussione il concetto di arte “legittima”, i falsari demoliscono certezze e suscitano ansia, che è precisamente quello che l’arte dovrebbe fare.
Dopo aver descritto il diverso atteggiamento di alcune culture del passato nei confronti del falso d’arte, Keats racconta le appassionanti storie di sei falsari moderni, e conclude parlando di come gli artisti contemporanei si siano appropriati di molti aspetti della contraffazione e di come le strategie open source abbiano la possibilità di restituire un nuovo significato all’arte.
Ho cominciato l’intervista cercando di trovare un collegamento tra il falsario d’arte e lo scrittore di narrativa.

Hai già scritto due romanzi e una raccolta di racconti. Vedi un legame fra la tua narrativa e Forged?

Scrivere narrativa è una delle poche forme di contraffazione permesse nella nostra società. Il motivo, a mio parere, è che si tratta di una falsificazione evidente, annunciata già dalla copertina del libro. Se non lo è, come nel caso del falso memoir di James Frey, A Million Little Pieces [uscito in italiano con il titolo In un milione di piccoli pezzi, traduzione di Bruno Amato], i lettori si sentono traditi e l’autore viene punito. Ma se i lettori sanno che si tratta di un gioco di fantasia, allora l’inganno della finzione perde ogni aspetto minaccioso.
Questo gioco di fantasia è proprio ciò che mi affascina in quanto scrittore, perché richiede esplicitamente che i lettori lascino da parte tutto quello che sanno e che in gran parte potrebbe non essere vero. È un esercizio di immaginazione che ci consente di tornare alla nostra vita di tutti i giorni con una mente più aperta, più pronta a prendere in considerazione punti di vista diversi dal nostro.
Certo, i lettori di narrativa sono relativamente pochi. Molti, semplicemente, non sono attratti dall’immaginazione, e i più refrattari sono probabilmente anche i meno sensibili alla possibilità di punti di vista alternativi. Per questo ritengo che la narrativa abbia un potenziale di influenza piuttosto limitato.
Ed è per questo che trovo così interessante la débâcle di James Frey. Molti di quelli che sono stati attratti dal suo memoir non lo avrebbero mai letto, se si fosse trattato di un’opera di fiction. Forse si sono persino un po’ identificati nel personaggio del tossicodipendente Frey. Poi è scoppiato lo scandalo e la gente si è accorta di essere stata ingannata, cosa che ha involontariamente aggiunto un nuovo livello di lettura al libro. Anche chi se ne infischiava della storia di Frey è stato costretto a riflettere sulle ragioni per cui il suo inganno aveva funzionato, finendo per mettere in dubbio la propria fiducia nella parola scritta e nel libro stampato.
In un certo senso, questa vicenda ha trasformato Frey in uno dei più importanti scrittori del nostro tempo. Come collega scrittore sono un po’ invidioso. E come critico d’arte non posso fare a meno di osservare che oggi l’arte è afflitta da un problema analogo a quello che minaccia la narrativa.

Cristo e l’adultera, 1942, un’altra contraffazione di Han van Meegeren

E quale sarebbe il problema che affligge l’arte?

Detto molto semplicemente, lo stesso mondo dell’arte. Se guardi qualsiasi avanguardia artistica dalla metà del Diciannovesimo secolo in poi, vedrai che gli artisti migliori cercano costantemente di turbare la società. Dalla pop art al surrealismo, l’arte moderna è provocazione, è uno stimolo a mettere in dubbio la nostra fiducia nelle cose, dal mercato alla nostra stessa salute mentale. In altre parole, l’arte, per avere un valore, deve essere inquietante. E oggi il mondo dell’arte, in tutta sincerità, è soporifero.
Pensa ai musei. Oggi come in passato, i musei sono posti ben illuminati, dove l’arte è racchiusa dentro teche di vetro. Qualunque cosa risulti minimamente inquietante, ambigua, viene spiegata fino in fondo dai testi dei curatori. L’arte, come un romanzo o una favola, può ancora colpirci in profondità se riusciamo a entrare nell’opera ignorando tutto il contorno, ma è un’impresa difficilissima, specialmente quando il museo fa il possibile per addomesticare le opere che espone.
La maggior parte delle persone non ha voglia di fare quello sforzo in più. Quella minuscola porzione della società che esce per andare al museo – pagando $22 a testa per passeggiare lungo la rampa del Guggenheim – tende a considerare l’arte esposta come un’esperienza istruttiva, un passatempo innocuo o uno scherzo di cattivo gusto. E come dargli torto? La maggior parte dell’arte che viene esposta non è affatto d’avanguardia. Quello che si cerca di fa passare per provocazione non è altro che studiata opacità, un enigma preconfezionato di cui i curatori possiedono già la chiave. Quest’arte non è altro che un prodotto del mondo dell’arte – e prodotto è la parola giusta, perché non comporta alcun rischio per l’artista, l’istituzione e il pubblico.

Han van Meegeren dipinge per testimoniare la sua truffa

Quindi secondo te le opere dei falsari otterrebbero un risultato ormai irraggiungibile per l’arte “legittima”?

I falsi rappresentano un pericolo per tutti i soggetti coinvolti. Se l’arte dei musei è addomesticata, i falsi sono selvatici.
Per riuscire a compiere una truffa, il falsario deve essere un profondo conoscitore della mente umana. I falsari si alimentano dei nostri pregiudizi e delle nostre convinzioni fallaci. A volte operano a livello individuale: un falsario potrà, per esempio, approfittarsi della presunzione di infallibilità di un esperto. Altre volte lavorano a livello sociale, magari manomettendo gli archivi per prendersi gioco del nostro rispetto incondizionato per l’autorità istituzionale. In un modo o nell’altro, i falsari oscurano i nostri punti ciechi, e quando vengono scoperti – se vengono scoperti – aprono delle crepe nelle percezioni quotidiane e nelle opinioni convenzionali del pubblico. Lo scandalo ci induce a rimettere in discussione la nostra visione del mondo – cioè proprio quello che cerca di fare l’arte migliore. Per questo motivo, ritengo che lo scandalo meriti di essere considerato di per sé un’opera d’arte. Un grande scandalo è un capolavoro.
La differenza principale tra un’opera d’arte “legittima” e un falso è che, mentre in genere possiamo scegliere se guardare un quadro oppure no, un falso s’impone alla nostra attenzione. Anche se non siamo noi le vittime della frode, e anche se non siamo appassionati di arte, verremo a sapere dello scandalo dalla televisione o dai giornali, e di conseguenza ci sentiremo forse un tantino ansiosi. Ci chiederemo quasi involontariamente se ci saremmo cascati anche noi, e così facendo sperimenteremo il più salutare effetto dell’arte, che è quello di comprendere meglio noi stessi e il nostro mondo. Ecco perché i grandi falsi sono le opere d’arte più potenti e universali prodotte dalla nostra società.

The supper at Emmaus, di Han van Meegeren, olio su tela, 1937

Potresti fornire un esempio dal libro?

Uno dei casi più scandalosi del XX secolo è quello verificatosi tra la fine degli anni ’30 e l’inizio dei ’40, quando un pittore olandese di nome Han van Meegeren falsificò un intero periodo dell’opera di Vermeer che si discostava da tutto il resto della sua produzione. L’idea gliela diede una teoria sostenuta da un illustre storico dell’arte, l’olandese Abraham Bredius, secondo il quale Vermeer aveva dipinto una serie di opere di soggetto religioso che per qualche motivo erano andate perdute. Così van Meegeren fornì a Bredius le prove che cercava, dipingendo un Cristo che spezzava il pane a Emmaus e firmandolo con il monogramma di Vermeer. Il quadro era di una bruttezza sconcertante, ma Bredius era molto vecchio e quasi cieco. Quella scoperta lo gratificò a tal punto che non solo autenticò il quadro, ma ne scrisse anche su The Burlington Magazine, chiamandolo “il capolavoro di Johannes Vermeer di Delft”.
Potendo contare sul sostegno di un simile esperto, van Meegeren fu in grado di spacciare per veri altri quadri altrettanto orribili e venderli ai musei olandesi. La seconda guerra mondiale venne poi in suo aiuto, perché gli olandesi avrebbero fatto di tutto per impedire che il patrimonio nazionale venisse acquisito o saccheggiato dalle forze di occupazione tedesche. Ma alla fine fu proprio la brama dei nazisti per l’arte di Vermeer a rovinare van Meegeren. A guerra finita, un Vermeer di soggetto biblico venne trovato in possesso del Reichsmarschall Hermann Göring – il comandante della Luftwaffe che aveva guidato l’occupazione tedesca con il bombardamento di Rotterdam – e si scoprì che il dipinto gli era stato venduto da van Meegeren. Per evitare l’accusa di alto tradimento, van Meegeren confessò di aver falsificato il quadro.
Così van Meegeren si approfittò della vanità di uno studioso e sfruttò i meccanismi che possono portare una decisione sconsiderata a determinarne innumerevoli altre. La sua frode si verificò in circostanze molto particolari, una truffa su misura per quel luogo e quel momento storico, ma come ogni grande opera d’arte ha ancora oggi qualcosa da dirci. Va da sé che un falsario del XXI secolo non potrebbe mai introdurre dei quadri così brutti nei grandi musei olandesi sulla base dell’opinione prevenuta di un unico studioso, ma la gente continua anche oggi a cadere vittima della propria vanità, e moltissime decisioni vengono ancora prese inserendo il pilota automatico. Il capolavoro di Van Meegeren mantiene intatta la sua forza e pertinenza.

Han van Meegeren in tribunale

Ma esistono oggi dei non-falsari che portano l’arte nella giusta direzione?

Per fortuna sì. Il problema del falso come forma d’arte è che nessun falsario sano di mente vorrebbe diventare un grande artista nel senso che intendo io, perché per farlo dovrebbe farsi prendere. L’opera materiale del falsario – come i quadri di van Meegeren – è una parte importante della truffa, ma l’oggetto non è artisticamente interessante di per sé. Ricorda, lo scandalo è il capolavoro. I falsari sono artisti accidentali. Le loro sono opere d’arte involontarie, e questo limita parecchio la loro produzione artistica. Ma io penso che gli artisti possano imparare dai falsari, e dai falsi, a rinvigorire l’arte e a strapparla dal mondo dell’arte per come è adesso.
Gli street artist come Banksy hanno l’istinto giusto, e così anche alcuni new media artist, soprattutto quelli che applicano al loro lavoro una mentalità da hacker. Uno dei primi esempi di questo tipo di opere è Vaticano.org, un progetto del 1998 realizzato dai net artist Franco ed Eva Mattes. Era ingegnosamente semplice. I due artisti presero il sito web del Vaticano – www.vatican.va – e lo replicarono con il domain vaticano.org e qualche piccolo cambiamento. Vi si trovavano, per esempio, encicliche papali che promuovevano le droghe e il sesso libero, e i fedeli potevano farsi assolvere i peccati via email. Il sito distorceva astutamente i dogmi della Chiesa, ma la cosa davvero notevole era l’effetto che si otteneva quando la gente scopriva che era falso. L’inganno minava la fiducia in ogni meccanismo usato per diffondere la dottrina della Chiesa, compreso il vero sito del Vaticano. Era un brillante atto di pirateria nei confronti della fede.
Più di recente, una coppia di new media artist di nome Julian Oliver e Danja Vasiliev ha creato un dispositivo capace di sovrapporsi alla rete wi-fi di una biblioteca o di un bar, grazie al quale potevano modificare in remoto il contenuto di popolari siti di informazione. Una volta, ad esempio, hanno alterato il sito del “New York Times” per annunciare la nomina del fondatore di Wikileaks Julian Assange a Segretario della Difesa Usa. Visto che l’articolo appariva in un solo network wi-fi, il “Times” non aveva modo di venirne a conoscenza. Ma quello che rende davvero affascinante questo progetto è il fatto che gli artisti hanno divulgato sul web le istruzioni per realizzare il dispositivo, in modo che chiunque possiede un saldatore possa costruirsene uno. Impossibile sapere quanti ne sono stati fabbricati. E di conseguenza non ci si può più davvero fidare di quello che si legge sui siti d’informazione negli hotspot wi-fi. Il potenziale di disinformazione è altissimo, e ciò rende questa opera autenticamente pericolosa. Tutti dovremmo essere ansiosi. Tutti dovremmo dubitare di quello che impariamo online, anzi, avremmo dovuto dubitarne fin dall’inizio. È un perfetto esempio di come un’opera d’arte possa diventare una provocazione anziché un semplice trofeo culturale.
Lo scopo di questo libro, in fin dei conti, è incoraggiare lo sviluppo di questa tendenza. Esaminare la storia della contraffazione è il mio modo di cercare un possibile futuro per l’arte.

 

Jonathon Keats è critico d’arte, giornalista, scrittore e artista. È il critico d’arte del “San Francisco Magazine”, tiene una rubrica d’arte su Forbes.com, e ha scritto di critica d’arte per “Art & Antiques”, “Art + Auction”, “Art in America” e Salon.com. I suoi articoli su arte e scienza sono apparsi anche su “Wired Magazine”, “The Washington Post” e “The Christian Science Monitor”. Gli ultimi libri da lui pubblicati sono Forged: Why Fakes are the Great Art of Our Age, Oxford University Press, e Virtual Words: Language on the Edge of Science and Technology, pubblicato sempre da Oxford nel 2011. Tra le opera di narrativa ricordiamo The Book of the Unknown, pubblicato da Random House (uscito in Italia per Giuntina come Il libro dell’ignoto, traduzione di Silvia Pareschi), che nel 2010 ha ricevuto la Sophie Brody Medal della American Library Association. La sua arte concettuale è stata esposta, fra l’altro, al Berkeley Art Museum, allo Hammer Museum e alla Wellcome Collection.

[L’intervista è uscita in inglese su Zyzzyva, in concomitanza con la presentazione del libro alla City Lights Bookstore di San Francisco.]

Esecuzioni

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di Giuseppe Nava

 

in una trincea da poco occupata
di fronte alle posizioni nemiche
nascosto dietro sacchetti di terra
colpito allo scoppio di una granata
da un sasso sulla spalla o neanche
si allontanava senza permesso
il soldato c.f. da volterra
usando il fucile in suo possesso
si sparò così durante il percorso
all’indice della mano sinistra
essendo consapevole egli stesso
non essere bastante al soccorso
la scusa del dolore alla spalla
non presentando contusioni questa
è chiaro che con dolo egli volle
così pensatamente e consciamente
lesionarsi per lasciare il posto
abbandonare sottrarsi a quelle
operazioni di guerra imminenti
e considerando la sua condotta
di cattivo e codardo sottoposto
da spingere a colpi di moschetto
al combattimento all’avanzata
non sia usata alcuna clemenza
ma anzi che di esempio perfetto
della disciplina necessitata
sia la pena per il reato commesso
la morte con fucilazione al petto

 

*

 

[l’aspirante d. così riferisce]

stanotte sette giugno io sottoscritto
ufficiale di coda al mio reparto
comandato dal tenente al trasporto
di reticolati alla prima linea
giunto a un tratto alla nostra terza linea
trovai il collegamento interrotto

gli uomini di testa erano fermi
era corsa la voce di zittire
di mettere a terra i reticolati
per un ordine giunto dal comando

corsi dunque avanti per controllare
quanto anzidetto era del tutto falso
invitai gli uomini in tutti i modi
feci ogni sforzo per far proseguire
la marcia eppure nonostante ciò
il soldato g. così replicava
non vado avanti aspirante del cazzo
gli intimai più volte di proseguire
ma si rifiutava di andare avanti
perciò lo minacciai con la pistola
ma le minacce non ebbero effetto
così tirai due colpi di pistola
lui cadde riverso a terra morto
questo bastò che tutti i rimanenti
prendessero i reticolati in spalla
e proseguissero la marcia

 

*

 

nei momenti in cui l’anima rozza
la mente ignorante dei compagni
sono più facili alla suggestione
con la forza cavillosa di assurdi
ragionamenti con l’esaltazione
della stessa opera delittuosa
con discussioni contrarie alla guerra
discorsi e frasi e grida sediziose
il prevenuto ha qui perpetrato
l’atto velenoso di istigazione
raffigurato nell’articolo tre
come reato di subornazione
ha poi messo in atto i suoi propositi
opponendosi a ordini formali
rispondendo io da qui non mi muovo
denigrando l’opera dei comandi
disprezzando l’autorità militare
su di lui ricada quindi la legge
nella sua massima severità
nei suoi confronti sia emessa sentenza
di condanna alla pena di morte
per la sua pervicace volontà
criminosa d’indurre alla rivolta

 

*

 

[l’ispettore generale del movimento di sgombero]

occorre imporsi con qualunque mezzo
imporsi con mezzi straordinari
avere ragione di quelle cause
che hanno pervertito gli sciagurati
una lotta d’aggressione morale
una lotta d’aggressione fisica
lottare contro le orde di sbandati
ricondurre subito all’obbedienza
far serrare riordinare i reparti
chiamare a rapporto gli ufficiali
i graduati tutti i capi plotone
sfilare in formazione regolare
dinanzi alla mia persona in silenzio
come quel pomeriggio sulla piazza
di noventa di piave il tre novembre
stavo in piedi sull’automobile
rispondevo salutando al comando
attenti a sinistra quando m’accorsi
un sigaro piantato nella bocca
la faccia atteggiata a riso di scherno
mi fissava con aria di sfida
un soldato con aria di sfida
valutai secondo la mia coscienza
dare subito un esempio terribile
piegare gli sbandati all’obbedienza
affermare una forza superiore
fermato pertanto lo sfilamento
saltato giù dall’automobile
di corsa penetrato entro le file
ho bastonato nella schiena quel soldato
e legato dai carabinieri
l’ho fatto prontamente fucilare
contro il muro della casa vicina

ho operato con la sola visione
del bene della patria in pericolo

 

*

 

[loop]

sedici militari ammutinati
presi con l’arma ancora scottante
furono senz’altro fucilati

logicamente e immediatamente
si sarebbe dovuto fucilare
tutti gli indiziati (centoventi)
del reparto tutti i militari
veri e propri rei di rivolta armata
verso i propri diretti superiori

il comandante della brigata
impose che venisse sorteggiata
la decima parte del battaglione
e questi furono immediatamente
fucilati senza esitazione

non si ebbe alcun inconveniente
durante l’esecuzione –

 

*

 

[la relazione del generale]

un mezzo idiota cattivo d’animo
nell’insieme un pessimo soldato
l’S. ha ripetutamente tentato
di raggiungere la trincea nemica

e cadde più volte al fuoco preciso
a cui fu sempre fatto segno
l’ultima volta a men di mezzo metro
da una feritoia di mitragliatrice
lì rimase immobile un braccio teso
e non dette più alcun segno di vita

i tiratori spararono ancora
sul corpo immobile

quindi b.d.
tenente comandante la sezione
mitragliatrici leggere del fronte
fece portare nei pressi del varco
una mitragliatrice pistola
che in ottime condizioni di tiro
poté sparare altri caricatori
sul corpo immobile

poi con la nebbia
l’aspirante c.s. con altri quattro
dei suoi arditi seguì il percorso fatto
dal disertore verso il nemico
coperti dal fuoco delle vedette
riuscirono a portarsi quasi sotto
le postazioni avanzate del nemico

non essendo più recuperabile
il corpo del codardo disertore
appostati fra le rocce gli arditi
spararono parecchi caricatori
e lanciarono cinque bombe SIPE
sul corpo immobile

dimostrandosi
fieri della gloria della brigata
gelosi delle belle tradizioni
eroiche del reggimento orgogliosi
di essere militari che combattono
e non tradiscono la sacra patria
i suoi compagni non hanno esitato
a fulminarlo ai piedi della linea
nemica prima che mettesse in atto
il bieco proposito di tradire

la giusta vendetta dei compagni
raggiunge sempre come questa volta
i vili senza onore traditori

sul corpo immobile

 

*

 

[lettera intercettata dalla censura]

lina la mia ultima ora è già suonata

quando sarai in possesso di questa mia lettera
il mio corpo sarà già freddo e cadavere

tu già sai il mio debole senso
già tu sai che fui accaduto
due volte sotto le granate
del barbaro nemicho

io fanciullo troppo debole
non conoscendo il grande pericolo
mi venne il pensiero
di scavalcare la frontiera
e farmi prigioniero

ma echo mentre scavalcai
io fui perseguitato
da persone vile i quali
dopo daver praticato tutto
mi fu dato la tremenda sentenza
della fucilazione alla schiena
dunque questa gente incosciente
in chuesto mondo esiste

mi anno dato venti minuti
di scrivere per ammunicando
ai miei cari la tremenda sciagura
sopra di me piantata

mia cara
si maledisca il nostro destino
che sensa fondo e sensa confino
nero esterno e nesurabile
a voluto essere oroso
preparandomi a un abisso spaventoso

in mezzo ha chuesto trovo forza di dire
non imprecare o cara se dio con lui
mi vuole è perché lui mi vuole bene
e che mi ama e che non vuole che le mie
sofferenze siano delugate

rasegnati alla mia brutta sorte
consola i miei cari genitori
se un altro ideale per te è preparato
vogliale bene al pare del mio ma
ricordami sempre nelle tue preghiere

ora mia cara non posso derempermi
e guardo la didietro la sentenza
mi aspetta con gelido sudore
che sono circondato

ricordami sempre nelle tue preghiere

 

*

 

[sarà reo di tradimento e punito di morte il militare che avrà esposto con un fatto od omissione l’esercito od una parte di esso a qualche pericolo]

egli faceva da borghese
l’assistente cameriere
sui piroscafi della società
amburgo-america

allo scoppiare delle ostilità
aveva ritenuto suo dovere
ritornare in patria pure se
nato e residente in terra nemica

già nominato aspirante ufficiale
disse con toni poco deferenti
che il nostro esercito si trova
in assoluta inferiorità
e che ogni nostro sforzo sarà vano
e che la nostra guerra è ingiusta
e che il suo desiderio è il nemico
alle porte di milano

il fatto fu subito denunciato

nel suo operato si ravvisa il reato
di cui all’articolo settantadue
per la sottile e iniqua propaganda
intesa ad indebolire il coraggio
e la fede nel successo
delle nostre armi

il suo freddo e sistematico
svalorizzare l’esercito patrio
ha dato sostanza concreta
all’intenzione di tradire
insita nelle sue parole

non potendo in alcun modo
sotto alcun profilo
indulgere verso di lui
il collegio deve condannarlo
alla pena stabilita
dal predetto articolo

 

**

 

Tra le fonti:

Archivio Centrale dello Stato, Roma – sezione “Tribunali militari di guerra: Prima guerra mondiale”.
«Corriere della Sera», 6 agosto 1919.

 

***

 

Questi testi sono apparsi su «in pensiero», n. 6, luglio/dicembre 2011, pp. 44-57, e fanno parte di una raccolta inedita che ha vinto la settima edizione del Premio Mazzacurati-Russo delle edizioni d’if, con prossima pubblicazione nella collana miosotìs.

 

La norma effimera. Etica e caso nel cinema di Emidio Greco.

2

 di Stefano Gallerani


Gli facevo questo sorriso in questo vetro, che dietro si vedeva la strada con quelli che passavano e poi più indietro dall’altra parte della strada, nello scuro del parco Tiburtino, s’incominciavano pure a vedere questi articoli dietro la rete della serranda abbassata, che parevano pure qui tutte tazze, bicchieri, altri pezzi che non si capiva, e in mezzo a questi che pareva che eravamo noi che stavamo a guardare, ma che poi chi lo sa chi eravamo, e tutto quanto che era.

Franco Lucentini, Notizie degli scavi

 Siamo uomini, no? Ma per noi niente uomini-medicina a facilitarci le cose…ma l’amore, la morte, le sporcizie e le malattie dello Spirito.

 Paul Nizan, La cospirazione

«Io sono stato Omero; tra breve, sarò Nessuno, come Ulisse. Tra breve, sarò tutti: sarò morto». Volgendo il giro sintattico su stesso, mutando a più riprese senso e segno dell’espressione, nella frase con cui chiude il racconto L’immortale, Jorge Luis Borges fa sfoggio di una sua tipica distrazione concettuale: applica una falsa logica, cioè, a una sequenza astratta che pure sembra del tutto congrua e resistente anche alle prove di lettura più attente. A volerne studiare con un po’ di pazienza i movimenti, il processo reiterativo che produce questo effetto è accentuato e sottolineato dall’analogia, dall’equivalenza dei termini di paragone invocati. Non v’è soluzione di continuità tra Omero, Nessuno e Ulisse: se si finisce per diventare Omero – quello, insomma, che Omero rappresenta -, è naturale conseguenza essere anche Nessuno, cioè il suo alter ego, ovvero Ulisse. E ancor più evidente sarà, come Ulisse, cioè come prototipo dell’uomo, la metamorfosi in tutti gli uomini, in ciò che li accomuna, ovvero la morte, e dunque la scomparsa del soggetto. Oppure, a ritroso, quando si diventa, da uomini (Ulisse), finzione e funzione di un’esistenza (Omero o Nessuno), allora davvero non si sarà più un individuo, ma solo la sua possibilità, e comunque, in quanto tutti o ciascuno, nulla, e per questo morti. In qualsiasi direzione lo si percorra, nel cerchio borghesiano, però, non v’è soluzione di continuità se non per effetto dell’io narrante, della voce che si prepara a quell’ineluttabile quanto arbitrario destino. Il cerchio è perfetto, perché ininterrotto, solo all’apparenza. In realtà, una sottilissima rima di frattura arresta il tratto, ne spezza l’armonia: un’infrazione nascosta proprio lì, nel piccolo segno che separa una proposizione dall’altra, là dove sdrucciola il nome di Ulisse. L’uomo sa di meritare la stessa condizione di cui partecipano i suoi eroi (Omero, Nessuno, Ulisse) non in quanto tale ma in quanto essere umano. E a nulla conta che si tratti  di esseri umani reali o inventati. La realtà non si dà in termini antagonistici rispetto alla virtualità, ma la ricomprende in quanto frutto della ragione, ovvero dell’elemento complesso che distingue quella umana dalle altre forme di natura. Di più: ne mette in discussione lo stesso statuto naturale. In questi termini, il fantastico borghesiano, i suoi falsi movimenti, i piani illusori e gli slittamenti progressivi (da una tradizione all’altra, da un testo all’altro di quella biblioteca universale il cui fondamento si deve proprio allo scrittore argentino), non è che una forma spietata, a tratti insostenibile di astrazione psicologica che non nega la materialità, ma la filtra e la sublima, immune come resta alla sua apologia becera. È su questo punto, e non a caso, che l’etica borghesiana incontra e diventa quella di un giovane Emidio Greco, che in Uno, due e tre, il folgorante saggio d’esame con cui, nel 1966, si diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma  suggella con le parole da cui siamo partiti quei ventisette minuti di intrusione nel ménage à trois  tra la protagonista (una splendida Delia Broccardo) e i suoi due contendenti (interpretati da Claudio Trionfi e Oddo Bracci). Alternando in sequenza ritratti d’interni e passando dalla camera dell’uno a quella dell’altro, si gioca la partita della seduzione, ma il possesso concupito, che ne dovrebbe essere la posta in palio, non è possibile, sembra intendere Greco, se non con la partecipazione cosciente, con la complice volontà dell’oggetto posseduto. Sommariamente, la ragazza contesa non è affatto la posta della disputa tra due spasimanti: ne è piuttosto l’arbitro e il legislatore, colui che concede, elargisce e, una volta per tutte, fissa i termini e pone i confini dell’agone. Per questo è tanto più importante che, alla fine, sia proprio lei a decidere quale dei pretendenti godrà dei suoi favori lasciando ai dadi, ovvero al gioco, e per esso al Caso, di decretare il vincitore. Alzandosi e allontanandosi, ripresa da una carrellata d’antologia (vengono in mente, successive, le riprese a Oja Kodar in F for Fake, di Orson Welles), la ragazza mostra proprio come la sua intervenuta estraneità al triangolo amoroso renderà comunque vano, ammesso che ci sia, il risultato dell’eventuale tiro a sorte degli amanti. Non c’è possesso, si diceva, senza volontà del posseduto, eppure – ecco qual è il teorema critico di questa geometria sentimentale – l’incontro con colui che possiede non può essere determinato che dal Caso.

Da allora, uno dei principali snodi del cinema di Emidio Greco ha riguardato esattamente il rapporto, l’attitudine deliberativa del soggetto di fronte all’intervento dell’imprevedibile: l’opportunità del suo agire e, semmai, la sua capacità di assumersi una responsabilità al cospetto a eventi che pure non possono, per loro statuto ontologico, appartenergli – non dipendono, cioè, da quanto egli è in ogni modo chiamato a fare. In altre parole, lo scacco originato dagli effetti annientanti del Caso (uno per tutti, la morte) espone al rischio di un tracollo di cui l’ “illusione etica” non è che un aspetto, e allo stesso tempo immette a un livello di coscienza, di consapevolezza, che difficilmente si raggiunge nel corso di un’esistenza.

Partendo da qui, la perfezione concettuale e l’estrema sintesi del lungometraggio d’esordio di Greco, L’invenzione di Morel (1974), non è completa – e dunque non è nemmeno del tutto comprensibile – se non viene messa in relazione di pressoché diretta dipendenza più che di complementarità con l’ultima regia, in senso cronologico, di Greco, ovvero L’uomo privato (2007). Rispetto alla prima, quest’ultima pellicola non si avvale di una sceneggiatura debitrice di un testo letterario (come, invece, Una storia semplice, del 1991, e Il consiglio d’Egitto, del 2002, tratti ambedue dai libri di Leonardo Sciascia adattati, rispettivamente, insieme ad Andrea Barbato e a Lorenzo Greco,  o Ehrengard, del 1982, ispirato al racconto omonimo di Karen Blixen “lavorato” dal regista con l’aiuto di Enrico Filippini) e in quanto tale si aggiunge a Un caso di incoscienza (1984) e Milonga (1998), anch’essi nati da soggetti originali di Greco.  Tuttavia, è pur sempre vero che L’uomo privato si alimenta dal suo universo letterario almeno tanto quanto i testi prediletti rifulgono della luce particolare che vi proietta lo scandaglio cinematografico della macchina da presa. Un’appendice dello sguardo cui Greco affida il compito di tradurre visivamente non deformazioni grottesche  o semplici trascrizioni – spesso nemmeno metaforiche – della realtà, bensì vere e proprie autopsie: di stati mentali, dimensioni della coscienza e rapporti personali. L’egida è sempre e comunque quella del punto di intersezione tra sentimento etico e Caso, poli che disegnano, nel tragitto dall’uno all’altro un’armonia paradossale e quasi impossibile da spezzare. Non vi sono arresti, si direbbe, nel diagramma dell’esistenza. Se così è, come sembra, diventa tanto più significativa l’intuizione di Greco, che nella sua traduzione – perché di questo si tratta, più che di trasposizione – del primo romanzo del quasi eteronimo borghesiano Adolfo Bioy Casares aggiunge, come una postilla decisiva, l’effrazione della circolarità. Nel finale del libro, pubblicato per la prima volta nel 1941, il protagonista, nonché voce narrante, si dispone a vivere di nuovo l’ennesima settimana di eternità che si perpetua sull’isola di Morel dove è naufragato, combattuto tra la rassegnazione e la speranza piegata in supplica all’uomo  che «inventerà una macchina capace di riunire le presenze disgregate», di entrare finalmente «nel cielo della coscienza» di Faustine, sua amata. «La mia anima non è passata, ancora, nell’immagine; altrimenti, io sarei morto, avrei smesso di vedere (forse) Faustine, per stare con lei in una visione che nessuno raccoglierà». Le ultime parole profferite nel romanzo non alludono solo a quella che potrebbe interpretarsi come una vera e propria metafora sul cinema, ma echeggiano anche quelle di Mircea Eliade, che questo fa dire al protagonista di Una breve giovinezza: «Non oso neppure dirle in quale anno siamo, noialtri, che viviamo al di fuori di questo sogno. Se facessi uno sforzo mi sveglierei». Come in Bioy Casares, così nello storico e scrittore rumeno, al fondo di una fede occulta nella trasmigrazione delle anime (ovvero delle coscienze, appunto) riposano un’etica dei sensi  ed un’allegoria della circolarità dell’esistenza che si coniugano, alfine, in una arresa pacificazione. Non altrettanto in Greco, che al naufrago, ora occhio osservante, fa distruggere la macchina inventata da Morel (il cui nome allude filialmente a un altro inventore isolano, Moreau) con lo scopo di replicare l’eterno-ritorno della settimana sempre uguale a se stessa. Per comprendere senso e porta dell’intuizione del regista, corre l’obbligo di due citazioni. La prima, dovuta, è dall’introduzione con cui Borges accompagnò al momento della sua uscita il romanzo casararesiano: «Le finzioni di natura polizesca – un altro genere tipico di questo secolo che non può inventare argomenti – raccontano fatti misteriosi che poi un fatto ragionevole giustifica. Adolfo Bioy Casares, in queste pagine, risolve felicemente un problema forse più difficile. Dispiega un’Odissea di prodigi che non sembrano ammettere altra chiave che l’allucinazione o il simbolo, e pienamente li decifra mediante un singolo postulato fantastico ma non soprannaturale […] Ho discusso con l’autore i particolari della sua trama, l’ho riletta; non mi sembra un’imprecisione o un’iperbole qualificarla di perfetta». La seconda citazione è da Guido Piovene, che firmò la prefazione della versione italiana de L’invenzione pubblicata nella collana “Il pesanervi” di Bompiani: «Non so se L’invenzione di Morel abbia una trama assolutamente perfetta, come giudica Borges; so che, essendo un’ottima trama, essa catalizza molte qualità di scrittore che Bioy Casares possiede. L’uso vuole che non si analizzi un libro come il suo, perché si sarebbe costretti a dire i casi che racconta e a privare il lettore di un seguito di sorprese. Mi limito a una delle tante osservazioni ricavate dalla vicenda. Se la vita di un uomo, con tutti i suoi ricordi e i suoi progetti sul futuro, s’interrompesse tutt’a un tratto e poi quell’uomo  ripetesse in eterno, come un disco portato continuamente indietro, con gli stessi ricordi e gli stessi progetti, l’ultima ora prima dell’interruzione, senza ricordare però di averla già vissuta; la sua vita sarebbe identica, altrettanto piena di attesa di un futuro che non verrà mai». Di fronte a questa possibilità, il protagonista di Greco (che ha il volto di Giulio Brogi) veste i panni non dell’homme machine (che tali ci appaiono quelli indossati dai simulacri di anime che popolano l’isola) ma dell’homme révolté. Dopo aver subito la condanna dell’immoto ripetersi delle medesime situazioni, si ribella, sebbene, come nel finale di Uno due e tre, non sia dato sapere quale sarà l’effetto della sua hybris.

Agli antipodi è invece il ritratto dell’uomo privato, laddove ogni suo gesto, ogni suo movimento è un atto che informa la realtà della sua presenza immobile e della sua intenzione di rendersi impermeabile a quanto gli succede intorno. Trasmigrazione delle coscienze equivale, dunque, a trasmigrazione delle anime. Un processo ingannevole e oscuro. E se il dilemma del naufrago di Morel è quello di entrare – per Bioy Casares – o infrangere – per Greco – l’arco dell’eternità, per il protagonista de L’uomo privato (che ha il volto di Tommaso Ragno), la massima aspirazione è quella di allestire una parvenza di eternità in cui ogni cosa si svolga senza scalfire l’abito impenetrabile che si è cucito addosso come una corazza. Detto altrimenti, è come se tra i due film si registrasse un’ “inversione” narrativa nel segno di una continuità tematica. L’una perché mentre il personaggio di Morel è presentato da subito in una situazione di straniamento fuori dalla storia, il professore de L’uomo tanta invano di mettersi fuori dalla storia cui, ciononostante, appartiene; l’altra perché, come il naufrago finisce per distruggere l’invenzione di Morel (chiara metafora del rifiuto di un’illusoria consolazione), così l’uomo “privato” (privato di sé, del proprio disegno, della propria speranza) non può che assistere al fallimento degli sforzi che strenuamente profonde per realizzare un’invariabilità in aperta contraddizione con l’intercessione del caso. Una dinamica psichica e un dilemma esistenziale che si riflettono e si ripropongono in tutte le strutture narrative di Greco, artefice in massimo grado elusivo di architetture che inscenano passioni implicite e dolori antichi con la precisione implacabile dell’entomologo. Se alla circolarità (che rappresenta, s’è detto, l’eterno e l’immutabile) è improntato un particolare svolgimento delle vicende (dalla loro esposizione oggettiva alla definitiva messa in abisso), questa geometria impossibile è sempre pervertita dal correttivo tipicamente anticircolare per mezzo del quale il relativo dialoga con l’assoluto: la legge, e per essa il rito che la scandisce o il diritto stesso che la invera. Ed è esattamente quello che accade nell’Uomo privato, dove la norma resta l’itinerario di qualcosa che sfugge alla visione del protagonista e pur sempre lo attrae, unica alternativa per mantenere vivo l’abbaglio di un ideale di vita. «Forse qualcuno di voi ricorderà – dice il professore ai suoi alunni – che l’ultima volta l’abbiamo presa, non senza un briciolo di ironia, mi auguro, alquanto alla larga. Il diritto è la vita, nientemeno. Alla larga, ma non senza fondamento. E infatti, vedete, il diritto non esiste in sé, è inafferrabile se si astrae dalla vita. Eppure il diritto non è la vita. Il viandante che raccoglie la conchiglia sulla spiaggia del mare o il vagabondo che getta il mozzicone del suo sigaro – lo scriveva un mio maestro – compiono gesti sbadati, in apparenza senza norma. Eppure il diritto imprime a questi gesti, per mezzo di una regola, una forma sua propria. Il giurista chiama questi gesti atti giuridici. Gesti che diventano, così, l’acquisto della proprietà della conchiglia, la perdita della proprietà del mozzicone. La norma giuridica getta un fascio di luce sulla vita. E la vita è l’ombra che resta oltre il cono di quella luce». Sono parole che Greco prende in prestito dal diritto per illustrare nel miglior modo possibile la contraddizione del suo protagonista, convinto di essere al centro di quel cono di luce che la legge, e perciò la regola, getta sulle cose, mentre già non è più in tempo per accorgersi di essere fuori di quel cono, senza possibilità di redenzione.

Così, tutti gli eventi  lo investiranno tramortendolo, ma non sfinendolo: semplicemente, lo spingeranno ancora più a fondo di quanto lui non sappia di essere arrivato.

Ma è anche – la scansione rituale della legge – il ritmo che detta i tempi del secondo aperçu sciasciano di Greco, Il consiglio d’Egitto (protagonisti, ancora una volta, Tommaso Ragno e un formidabile Silvio Orlando, qui in una delle sue migliori interpretazioni cinematografiche). La trama, che si riporta dal risvolto di copertina della prima edizione Einaudi del romanzo (1971), è la seguente: «Palermo 1783. I baroni, pur fremendo di sdegno  per le tentate riforme del viceré Caracciolo,m continuano a giocare interi feudi al “biribissi”; le nobildonne leggono romanzi francesi proibiti; il quarantenne pacioso abate Vella sensibile alle dolcezze di questa società, coltiva speranze di vedersi assegnata una pingue abbazia che gli assicuri l’agiatezza, per ingraziarsi la Sacra Real Maestà di Napoli, Vella “inventa” ex novo, con gusto di narratore e umanista, un antico codice arabo, appunto Il Consiglio d’Egitto, che fa giustizia di tutti i privilegi baronali e restituisce al Regno la piena potestà dell’isola. Le prime indiscrezioni gettano lo scompiglio nella città. La risonanza è enorme.

L’abate diventa “il grande Vella”, il Papa in persona si interessa alla sua salute. Una delle più straordinarie imposture che la storia della cultura ricordi ha così inizio nel bel mezzo dell’ “epoca delle riforme” e la sua vicenda si lega a quella di una congiura giacobina: quella che il giocane avvocato Di Blasi, spinto dall’esempio dei rivoluzionari di Francia a rinnovare secondo ragione gli ordinamenti del Regno, tenta invano di condurre a termine, contro le usurpazioni e gli arbitri dell’aristocrazia». Il fascino della storia dell’abate Vella, è facile intuire, ha anch’esso un elemento borghesiano, e cioè la finzione che determina e corrompe la Storia. Ancora una volta dobbiamo fare ricorso ad una citazione, questa volta dal corpo del testo parzialmente riportato nella sceneggiatura di Greco: «c’era più merito ad inventarla, la storia, che a trascriverla da vecchie carte, da antiche lapidi, da antichi sepolcri; e in ogni caso ci voleva più lavoro, ad inventarla: e dunque, onestamente, la loro fatica meritava più ingente compenso di uno storico vero e proprio, di uno storiografo che godeva di qualifica, di stipendio, di prebende. – Tutta un’impostura. La storia non esiste. Forse che esistono le generazioni di foglie che sono andate via da quell’albero, un autunno appresso all’altro? Esiste l’albero, esistono le foglie nuove; poi anche queste foglie se ne andranno; a un certo punto se ne andrà anche l’albero: in fumo, in cenere. L a storia delle foglie, la storia dell’albero. Fesserie! Se ogni foglia scrivesse la sua storia, se quell’albero scrivesse la sua, allora diremmo: eh sì, la storia…Vostro nonno ha scritto la sua storia? E vostro padre? E il mio? E i nostri avoli e trisavoli?…Sono discesi a marcire nella terra né più né meno che come foglie, senza lasciare storia…C’è ancora l’albero, sì, ci siamo noi come foglie nuove…E ce ne andremo anche noi…L’albero che resterà, se resterà, può anche essere segato ramo a ramo: i re, i viceré, i papi, i capitani; i grandi, insomma…Facciamone un po’ di fuoco, un po’ di fumo: ad illudere i popoli, la nazioni, l’umanità vivente…La storia! E mio padre? E vostro padre? E il gorgoglio delle loro viscere vuote? E la voce della loro fame? Credete che si sentirà nella storia? Che ci sarà uno storico che avrà orecchio talmente fine da sentirlo?». Dunque, nulla resta se non per una accidente del caso, beffardamente, belluinamente, come a farsi scherno, con un ghigno, delle migliori intenzioni di chi pensa di viverla, parteciparvi, farne parte, della Storia. Il massimo grado della ragione incontra, anzi collima, col massimo grado dell’astrazione. Eppure non esiste, per i posteri, per la loro memoria, che la realtà di questa astrazione più vera del vero: la verità di ciò che non è, al postutto, che un imbroglio. Difatti, anche una volta svelata, la beffa di Vella è opportuno, ma anche giusto, per le regole degli annali, che sia e resti l’unica versione dei fatti possibile; tanto più se a ciò si aggiunge che, nonostante il suo deliberato inganno produca notevoli effetti, il gesto di segno contrario, ovvero il disvelamento della menzogna, non è ugualmente efficace: Vella si illude di determinare le sorti di un mondo, ma questo non fa che seguire regole sue proprie, estranee alla ragione dell’abate. Ed è esattamente su questa scoperta che fa leva Emidio Greco, su questo stallo dell’abate, mostrato, esposto, è il caso di dirlo, in contrapposizione alla sorte di quel suo del tutto particolare alter ego che è il giacobino Di Blasi, lui sì vero paladino della ragione che non è più di Stato – e per questo, dallo Stato (cioè dal potere), condannato e giustiziato. Il giudizio, insomma, ciecamente come cieca è proprio la giustizia nelle sue raffigurazioni allegoriche, colpisce e s’abbatte non solo sul colpevole (che l’unica colpa, peraltro confessata, è quella di Vella) ma su di chi fa comodo ritenere responsabile (e tale non è nemmeno disposto a riconoscersi). Sono emblematiche, in tal senso, le scene della tortura, ove Di Blasi, abbandonato ai carnefici come un cristo del Mantegna (ma è solo uno dei molteplici riferimenti iconografici del film), è torturato non già perché parli, è chiaro che non lo farà, ma proforma, per ottemperare al rituale che lo impone. «Tra poco sarà nel mondo della verità» pensa Vella di Di Blasi al patibolo, ma presto gli sorge, «a sgomentarlo, il pensiero che il mondo della verità sia questo: degli uomini vivi, della storia, dei libri».

Ancora, come in Uno, due e tre, v’è un duplice movimento verso un unico fine eversivo; fine che, però, sfugge ad ogni calcolo piegandolo, imponderabilmente, a suo piacere. Il silenzio di Di Blasi e la confessione di Vella mettono in sospetto i fondamenti stessi dello stato di diritto che proprio nel Settecento si andava delineando come poi modernamente s’è inteso. Al punto che non è più possibile distinguere, o discernere, la verità vera dalla vera finzione. Esse risiedono in egual misura, indistintamente, vuoi nel giacobinismo di Di Blasi che nel gattopardesco atteggiamento di Vella: l’uomo che dice la verità resta inascoltato, mentre un peso mortale viene riconosciuto alla reticenza dell’avvocato che, pur affine – o maggiormente per questo – è anche il primo e l’unico a riconoscere l’impostura nel momento in cui, durante la confutazione testuale dei suoi avversari, Vella vince le più accanite resistenze alla presunta originalità dei codici da lui contraffatti.

Allo schema dello sdoppiamento del soggetto, della specularità che meglio dovrebbe illustrare il cruccio dell’uomo per la partecipazione alle sorti del mondo, Greco aveva già fatto ricorso, nel 1984, per girare il suo film “maledetto” (per le condizioni produttive della RAI  e l’invisibilità distributiva che gli è spettata): il delbuoniano, nel titolo ma non solo, Un caso d’incoscienza.  Questa volta sono due mostri sacri del cinema europeo, Erland Josephson e Rüdiger Vogler, ad animare un calco evidente fin dall’assonanza onomastica dei due personaggi principali: Erik Sander, l’industriale svedese misteriosamente scomparso dopo aver organizzato, quasi celebrasse il funerale di un’epoca, una lussuosa crociera nel ’32, quando ancora si irradiava l’onda lunga della crisi economica del ’29; e Anderson, il giornalista che partendo dalla notizia della presunta morte del magnate, si determina a scoprire cosa sia veramente successo. Allo stesso modo che nel Consiglio, però, la diversione dal sentiero più prevedibile (che in questo caso è quello battuto dal ricorso al genere investigativo) determina la singolarità della vicenda. L’uomo, Sander, che stava per essere sconfitto da una società che non poteva più reggere l’urto pesante del suo paleocapitalismo si sottrae al mondo per meglio studiarne la fisica: diventa un esperto di insetti, più precisamente di locuste migratorie. Memorabile e violentissimo il suo ultimo monologo: «Quelle che lei vede qui non sono cavallette qualsiasi. Sono locuste migratorie. Di solito conducono una pacifica esistenza solitaria, ma se aumentano troppo di numero sono spinte verso lo stato sociale […] la formazione dei grandi sciami si compie in regioni ricche di nutrimento. Tutto nasce dal numero e dall’imitazione. È quando si incontrano troppo spesso tra loro che questi insetti si trasformano in animali gregari [..] Naturale, e perciò diabolico. Nulla è più sbalorditivo delle trasformazioni di questi piccoli animali nel passaggio dallo stato solitario a quello sociale: cambiano di colore e di forma, le proporzioni del corpo si alterano, le differenze tra i sessi si attenuano, le larve diventano più scure. Il loro sviluppo si fa più rapido, tutti diventano più attivi: si incontrano, si attraggono, si raggruppano un nervosismo incessante serpeggia dappertutto. Attraverso l’imitazione reciproca il contagio sociale dell’azione si diffonde nel gruppo come un’onda. A questo punto il gruppo è pronto per partire. In un primo tempo è una marcia al suolo. Raramente gli ostacoli vengono aggirati. Di solito, essi sono affrontati direttamente. Fossi e corsi d’acqua vengono superati con grandi perdite, ma la marcia continua. E quando finalmente ogni locusta ha le sue ali, il grande sciame è pronto per il grande volo. Un volo, com’è noto, devastante. Vede a cosa porta l’entusiasmo collettivo». Una grandiosa e disperata critica antropologica cui Anderson non può che opporre la complessità e l’insondabilità della natura umana. Nuovamente Greco mette lo spettatore a nudo di fronte a una contraddizione che in nessun modo pretende di sanare. Tutto il suo cinema, con la chiarezza e, insieme, la complessità di senso di  immagini nitide e implacabili come lastre è centrato sulla “biforcazione”. Le sue mura poggiano su fondamenta metafisiche. Come metafisica è la “favola” del pittore Cazotte (Jean-Pierre Cassel), in Ehrengard, che si illude (in questo, tragico ascendente del protagonista de L’uomo privato) che i suoi meccanismi mentali, le perversioni del suo pensiero riescano, attraverso il formalismo dell’arte ottocentesca,  attraverso le seduzioni della tela (o, oggi, dello schermo, che ne è il rovescio) a produrre effetti sulla coscienza della vergine guerriera eponima (Audrey Matson). Ideale e reale sono ancora in opposizione sotto la direzione di uno sguardo, quello del regista, che ha la peculiarità di scindere i più saldi gherigli non per distinguere, in modo manicheo, una sezione dall’altra, ma per illuminare il complesso gioco di rifrazioni che s’anima nella ferita tra le due metà. Come due, stavolta declinati nei termini della sfera pubblica e privata, sono i luoghi percorsi in Niente da vedere niente da nascondere, il film realizzato da Greco nel 1978 sull’opera dell’artista e amico fraterno Alighiero Boetti. Lo studio privato di Boetti è, insieme a Piazza Santa Maria in Trastevere, il foglio su cui Greco stende il suo ritratto di Alighiero in una relazione che Eraldo Affinati ha giustamente ricondotto al rapporto tra Bioy Casares e il protagonista de L’invenzione di Morel: per lo scrittore romano, «il rovello classificatorio dell’artista concettuale torinese, sebbene confortato dall’ironia, esprime la medesima supplica che Bioy Casares aveva rivolto a tutti noi lasciando il suo personaggio inerme davanti alla macchina di Morel: è come se anche Alighiero, impegnato a giocare sull’orlo del baratro, avesse chiesto, per poter sopravvivere, di entrare nel cielo della nostra coscienza; e l’amico regista, inquadrandolo, si fosse deciso a esaudire tale desiderio. La pietà assomiglia così a un sentimento superstite: non deriva da un atto di volizione individuale, logica conseguenza di un sistema di valori, ma affonda le sue radici nel dramma ermeneutico. Se l’uomo resta prigioniero dentro il labirinto, la macchina da presa che, amica silenziosa, ne proclama lo stallo ci farà sentire un rumore di fondo, privo di illusioni armoniche: l’occhio tecnico dell’illuminismo pronto a riemergere, simile a un cartone fantasmatico, nei manichini di Samuel Beckett». In un colpo solo, Affinati risale alle radici del cinema di Greco, ne scorge le intenzioni e la natura, lo riporta alla dimensione sua propria, quella che più gli spetta. Che Emidio Greco sia un regista che non si è peritato di raccogliere la sfida lanciatagli, poco più che trentenne, dal sodale di Borges; che abbia così dato corpo a una visione che è una convinzione; che abbia difeso così strenuamente un’idea di cinema (la media quinquennale, kubrickiana, delle sue uscite nelle sale lo conferma) in cui al pensiero è riconosciuta la dignità naturale dell’essenza umana; e che lo abbia fatto senza cedere ai trucchi grossolani del prestigiatore o alle mode corrive dei parvenu, ma come osservando, da una prospettiva partecipe e privilegiata, la catastrofe della ragione ridotta a mero strumento per il perseguimento dei fini meno nobili…Posto tutto ciò, insomma, dell’opera di Emidio Greco si può dire, senza incorrere in imprecisioni o iperboli, che si tratta di una delle più importanti che il cinema italiano degli ultimi trent’anni vanti. Questa tutt’altro che semplice asserzione è il riconoscimento migliore, e il più onesto, che si possa tributare a un regista, e ad uomo, cui non stonerebbe riportare, fatta la debita tara sul contesto e in polemica con certa vulgata critica che lo riguarda, le parole che nel 1949 Ezio Comparoni, alias Silvio D’Arzo, dedicò al poeta Francois Villon: «per tenere l’occhio sull’uomo, Villon non vide nemmeno la natura e non riuscì a trovare mai il tempo di regalare un mezzo aggettivo a una siepe, a un prato, a un fiume di campagna, a due dita di cielo sulla testa. Non cantò che di creature di una folla cenciosa, chiassosa, pittoresca, matta, peccatrice e violenta, piena di sangue e di vita, nel cuore di una città; e di se stesso nel cuore di questa folla gaglioffa: non tutto pazzo e non tutto saggio, bevitore di tutte le sue infamie, abitatore del mondo come altri di una locanda».

Stefano Gallerani

[da: XIX Courmayeur Noir in Festival, Museo del Cinema di Torino Edizioni, 2009.]

[Per Emidio Greco (Leporano, 20 ottobre 1938 – Roma, 22 dicembre 2012)]

No Transmission No Poetry

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Per maggiori informazioni sulla sospensione del blog di poesia, diretto da Francesco Marotta si legga qui.
Nota Post
Avevo programmato questo post ieri mattina e in serata, grazie alla mobilitazione che c’è stata in rete e fuori, il guasto “tecnico” è stato superato. Qui Effeemme dice la sua, la nostra forse, sicuramente anche la mia. effeffe

Strappare la pagina (al libro di Satana)

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James Williamson, The Big Swallow (1901)

di Enrico Camporesi

 

Paolo Cherchi Usai, La storia del cinema in 1000 parole (Il Castoro, Milano, 2012)

La restriction est inventive au moins autant de fois que la surabondance des libertés peut l’être. Je n’irai pas jusqu’à dire avec Joseph de Maistre que tout ce qui gêne l’homme le fortifie. De Maistre ne songeait peut-être pas qu’il est des chaussures trop étroites. Mais, s’agissant des arts, il me répondrait assez bien, sans doute, que des chaussures trop étroites nous feraient inventer des danses toutes nouvelles.

Paul Valéry, Discours prononcé au deuxième congrès international d’esthétique et de science de l’art, 1937.

È un libriccino agile e snello questo nuovo volume di Paolo Cherchi Usai. Vedendolo adagiato fra i ripiani delle librerie si potrebbe pensare che non si tratti che di una strenna natalizia, un pensiero da offrire all’amico cinefilo o allo studente novizio di storia del cinema, come una sorta di incoraggiamento divertito o malizioso. Eppure La storia del cinema in 1000 parole (Il Castoro, Milano 2012) già dal titolo mette in evidenza qualcosa di estremamente avvincente, la sfida occasionata da una costrizione.

L’arco di tempo è ampio, scandito per decenni – e a ritroso (dal 2020 al 1891). La scatola degli attrezzi per comporre questa storia è al contrario estremamente minuta: mille parole e un’ immagine per anno, ma a partire dal 2010 giacché l’avvenire è cieco. Così se Cherchi Usai inforca in principio gli occhiali dello spettatore di Avatar (J. Cameron, 2009) è per ripercorrere un tempo trascorso. La constatazione che chiude il paragrafo sul decennio 2010-2001, senza essere sofferta, è nondimeno straziante: «muore la pellicola, lo spettacolo continua. Il pubblico non bada alla differenza». L’autore, che nel cinema andato vede il proprio oggetto di elezione (attualmente direttore della collezione film alla George Eastman House di Rochester), guarda al passato senza alcuna velleità nostalgica. Piuttosto si ha l’impressione che egli sia mosso da una pulsione “apocalittica”, nell’accezione etimologica originaria: si tratta infatti di un disvelamento. Sfogliando le pagine del libro è la storia dell’immagine in movimento a mostrarsi, rischiarata dalla luce della catastrofe digitale, che si fa qui non abbacinante, ma condizione di visibilità.

Cherchi Usai aveva già abituato i suoi lettori a qualcosa del genere nell’imprescindibile volume di aforismi che in Italia venne pubblicato con il titolo L’ultimo spettatore (Il Castoro, Milano 1999), per poi circolare in un’edizione rivista e aggiornata in inglese (The Death of Cinema, BFI, London 2005). All’epoca della prima pubblicazione in rivista – la bolognese Cinegrafie, diretta da Michele Canosa – c’era già chi gridava allo scandalo. A essere preso di mira nello scritto era il tono, considerato saccente, oracolare. Come accettare inoltre che qualcuno dell’ambiente cinetecario si spingesse a dire che «il cinema è l’arte di distruggere le immagini»?

Questa Storia del cinema in 1000 parole, sebbene più trattenuta, ci pare coerente con l’impostazione del suo libro più provocatorio, e per due motivi almeno. Da un lato vi è infatti la tensione “apocalittica”, sulla quale ci siamo già intrattenuti brevemente; dall’altro vi è la concisione della scrittura. Laddove L’ultimo spettatore procedeva per aforismi, a volte vere e proprie schegge di pensiero non più lunghe di una riga, qui è la concezione intera del libro a trovarsi costretta entro il numero di parole da impiegare. Rinunciando alla tentazione di Sheherazade, l’autore sceglie una cifra piena: 1000, non una di più – cioè non 1000 e una, parole. Nonostante i limiti imposti, l’ultimo aggettivo che si vorrebbe impiegare per descrivere il libro è “secco”. Al massimo ci si potrebbe concedere di presentarlo come “asciutto”, quasi una pellicola in nitrato che abbia perso la sua tinta di imbibizione. Non perché al volume faccia difetto il “colore”, beninteso, ma perché la storia del cinema ci è presentata come un resto: come una pagina, facendo appello a Dreyer, strappata al libro di Satana.

In queste pagine svolazzanti cosa troviamo? Più che il taccuino di uno spettatore, una sintesi che abbraccia un decennio intero. Sebbene più volte ricorra alla strategia della lista, per ovviare alla legge di una composizione serrata, Cherchi Usai non manca di inserirvi annotazioni brillanti e divertite. Citiamo qui almeno l’ultima riga dal decennio post-maggio ’68 (1980-1971): «l’immaginazione al potere genera Spielberg e Guerre Stellari, poi contempla se stessa in Effetto notte». O ancora l’incipit che riguarda gli anni Sessanta: «da allora i registi si proclamano “autori”; forse lo sono sempre stati. Niente compromessi: Antonioni, Bresson, , Bergman e Il mucchio selvaggio rivendicano la libertà di creare. Jacques Tati approva, pur standosene zitto». Si tratta di accostamenti folgoranti, suscitati dalla costrizione imposta, impensabili altrimenti. Intellegibili dal lettore meno avvertito, che comunque può trattenere il canone di riferimento, le rapide asserzioni dell’autore non mancano di sedurre anche il connoisseur.

È a costui che forse si rivolgono più specificamente le ultime pagine (diciamo dal 1920 fino al 1891), nelle quali il corpus filmico permane tuttora meno conosciuto. Ed è qui che si ravvisa la maggior libertà anche nella selezione dell’iconografia, che altrove è purtroppo solo in parte punteggiata da casi più eccentrici e che privilegia altrimenti opere più istituzionali (citiamo però almeno l’inclusione dello straordinario What’s Opera, Doc? di Chuck Jones per l’anno 1957). Quanto più il volume volge al passato, tanto più esso ci attrae irresistibilmente. È qui che troviamo immagini da Malombra (C. Gallone, 1917), Émile Cohl, La leggenda di San Nicola (Itala Film, 1907), The Big Swallow (J. Williamson, 1901) scendendo fino a The Kiss di Edison, Robert William Paul, Émile Reynaud e Georges Demenÿ. Un piccolo disappunto ci coglie: vedere il 63mm di The Corbett-Fitzimmons Fight (1897) così tristemente mutilato. Ma forse, riflettiamo, non è altro che l’ennesima costrizione – questa volta dettata da esigenze di impaginazione.

Leggendo e rileggendo il libriccino non può non ritornare alla mente la celebre osservazione di Paul Valéry riguardo alla possibilità di creare nuove danze indossando scarpe troppo strette. Così procede Paolo Cherchi Usai, costringendo la penna in mille parole, concedendosi in più una manciata di immagini. Di certo fuoriesce un oggetto singolare e affascinante, un minuto appiglio per ripensare una disciplina (la storiografia del cinema) necessariamente dinamica, mutevole: una storia che non si può fare a meno di riscrivere, non fosse che per il piacere del racconto. Guizza anche in chiusura, fulminante, una splendida riga capace di sintetizzare da sola l’epopea che il libro si propone di ricapitolare. Qui la riportiamo: «fotografie intermittenti, la seduzione meccanica di un battito di palpebre, il cinema».

Nuovi Autismi 30 – I vecchi

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di Giacomo Sartori


I vecchi sono ingombranti, e spesso anche molto costosi. Bisogna farli accudire da una badante, e le badanti costano. La paga oraria non è certo alta, anzi spesso è da fame, ma considerando che un vecchio bavoso lo è ventiquattro ore al giorno sette giorni in settimana, viene fuori un patrimonio. A far bene bisognerebbe poterli rottamare. Ma sarebbe un repulisti un po’ di cattivo gusto: siamo diventati molto egoisti, e per soddisfare le nostre voglie e ubbie siamo pronti a qualsiasi cosa, ma non siamo cruenti, non siamo sanguinari. Senza contare che a qualcuno ricorderebbe forse certi eccessi del passato, e verrebbero fuori mille polemiche. Siamo squali buonisti e inclini ai sentimentalismi, amiamo avere buona coscienza. E poi a trucidare i vecchi fuori uso si abbasserebbe l’età media, mentre noi teniamo molto all’età media. Se per esempio abbiamo cinquantaquattro anni e siamo italiani e di sesso maschile, faccio un esempio a caso, ci fa piacere pensare che statisticamente vivremo fino a settantanove anni. Magari rincoglioniti, e con una badante straniera, ammesso e non concesso che qualcuno ce la pagherà (chi?), però insomma abbiamo qualche probabilità di vivere fino a settantanove anni. Ci scoccerebbe pensare che a causa dello sterminio di tutti i vecchi rincoglioniti vivremo solo fino a settantatre anni, o addirittura fino a settantuno, tanto per dire. E allora bisogna sopportarli, e mettere mano al portafoglio.

Una volta si pensava che i vecchi a dispetto dell’apparenza avessero molto da insegnare: invece di guardarli con sconcerto gli si chiedevano delle cose, nelle famiglie e nei villaggi li si ingaggiava come consulenti nei campi più disparati. Venivano riveriti e rispettati come preziosi reperti archeologici, coccolati peggio di cagnolini. Si pensava che detenessero la verità, o insomma che detenessero un grado superiore di verità rispetto alle persone più giovani. Era una credenza illogica e delirante, ma in fondo sul piano personale anche consolante: uno si diceva che con l’età la salute e le facoltà sensoriali e intellettive scemavano, e spesso anche l’umore si degradava, ma aumentava la saggezza, lievitavano la stima e l’apprezzamento. C’era insomma una sorta di compensazione. Adesso non ci sono attenuanti, si va verso una degradazione a tutto campo. La demenza senile, così diffusa, è la metafora di inettitudini e inutilità non più occultabili.

Quando uno comincia a non essere più tanto giovane si imbruttisce e le sue prestazioni si fanno meno efficienti, si pensa ora: come un aggeggio elettronico più che superato, come un telefonino di una generazione ormai obsoleta. Poi il processo di obsolescenza va avanti, fino a diventare imbarazzante, grottesco. Nessuno si sognerebbe di mostrarsi con un computer di venti anni fa, mentre certi vecchi impresentabili vanno ancora in giro come se niente fosse, ci si dice. È un nuovo sistema di pensare, e la storia ci ha insegnato che le nuove visioni hanno sempre ragione, o comunque finiscono per fare piazza pulita delle vecchie. Va quindi considerato un progresso, una nuova tappa nella parabola gloriosa dell’umanità. I primi a capirlo sono i vecchi stessi: nel tentativo di mimetizzarsi indossano scarpe da ginnastica e felpe con il cappuccio, fanno in tutti i modi i giovani. Il che agli occhi dei veri giovani è ancora più sconveniente.

Il mondo evolve, è normale. Le difficoltà sono per quelli che sono un po’ rimasti attaccati al passato e un po’ no, quelle vie di mezzo che per nostalgia o altro fanno fatica a incenerire le vecchie credenze, pur avendole sempre osteggiate. Come per esempio il sottoscritto. Diciamo la verità, io di fronte a molti giovani che frequento (tutta la mia cosiddetta giovinezza l’ho passata con persone più anziane di me, ora attorno a me ci sono solo individui più giovani: forse proprio per questo faccio fatica a attribuirmi una precisa età sociologica), penso di avere una marcia in più. Riconosco nel loro agire una maggiore coerenza coi tempi, e rinvengo in loro plaghe di mistero, sintomo indubbio del mio progressivo anacronismo, però mi sembra pur sempre di sapere come finiranno le frasi, come si gratteranno, come si tumefaranno col tempo le loro facce. Nei loro occhi vedo che mi considerano un relitto ormai fuori competizione, ma a me paiono quegli orologi nei quali si può ammirare il meccanismo interno, prevedibili nel loro atemporale ticchettare. È un’illusione ottica, un’allucinazione, però non riesco a liberarmene. Mi dico anzi che loro stessi dovrebbero manifestarmi che trovano in me tesori di cui difettano: dovrebbero farmi domande, chiedermi consigli. Sono fantasmagorie surreali, ma dure a morire come idre con sette teste che ricacciano appena mozzate. Dentro di me chiamo questo mio ipotetico surplus più geologico – sedimentario – che gnoseologico “esperienza della vita”, una locuzione che non ha più corso, e che probabilmente tra non molto verrà bandita dai dizionari.

I vecchi si vendicano del resto della detronizzazione che hanno subito, è normale. La contropartita del rispetto immeritato che li ammantava era la benevolenza: sorridevano, e il loro ghigno sdentato era un’accettazione indulgente (solo nelle periferie degli occhi baluginavano a tratti guizzi di ironia), un incoraggiamento a perseverare. Come tutti i despoti detentori di un potere prevaricante vedevano di buon occhio i loro sudditi, vale a dire i giovani: li scusavano se sbagliavano, li riprendevano con liquidi gorgheggiamenti di gola. Ora invece gli anziani, come dicevo travestiti ormai da adolescenti, si sogguardano alle spalle con occhi incattiviti. Sentono fiati ostili sul collo, e quindi sputano saliva, si aggrappano al potere politico o finanziario, diventano dure e sorde cozze. Se potessero sterminerebbero tutti i giovani, si infilerebbero come ostinati sommozzatori nelle loro pelli elastiche. Terrorizzati di perdere il cosiddetto senno.

(l’immagine: Mary Tillman Smith, “Intitled”)

Amianto

4

(Pubblico qui di seguito una nota critica di Marco Rovelli su un’opera importante, Amianto, e di seguito un estratto dal libro di Alberto Prunetti. Libro, che, ovviamente, consiglio anch’io di leggere. G.B.)

 

Marco Rovelli su l’Unità del 5/1/2013:

“Amianto. Una storia operaia”. Titolo e sottotitolo secchi, asciutti, precisi. E’ l’ultimo libro (“terribile e bellissimo”, come ha scritto Valerio Evangelisti nella prefazione) di Alberto Prunetti, edito da Agenzia X. La storia di Renato Prunetti, padre di Alberto, operaio dall’età di quattordici anni, che ha respirato amianto fino a morirne. Renato lo vediamo nei capannoni di Piombino e in quelli dell’Ilva di Taranto, o a Casale Monferrato, ovunque c’era da respirare quella vita che si faceva morte. E vediamo anche l’autore stesso, che rammemora la propria infanzia, “operaia” anch’essa. Nella storia di Renato Prunetti c’è la storia di un materiale che ha fatto schiere di morti, nel silenzio più assoluto (ne scrissi in passato, e approfondirne le vicende lascia davvero sgomenti: per iniziare, vedete il sito amiantomaipiù). Era dagli anni Trenta che si conoscevano gli effetti letali dell’amianto, ma fino agli anni Ottanta nulla cambiò: una vicenda paradigmatica di come gli interessi delle grande industrie prevalgano su tutto il resto. Ma il libro di Prunetti – oltre a essere una vera e propria inchiesta sul campo, che ci fa vedere la materialità delle fabbriche, che ci mostra il lavoro vivo negli stabilimenti – è anche una vera e propria opera letteraria. La scrittura di questo libro, nella suo dato scabro, secco, nel suo andare dritta al cuore materico del reale, ci fa sentire, e sentire veramente, i suoni profondi di quella storia operaia. Si sente che quella storia è cresciuta tra le mani dell’autore suo malgrado, che lo ha preso e coinvolto fino al cuore: in questo sta la letterarietà del libro, non nell’artificiosità, ma nella necessità, nell’urgenza, nella sua verità (termine così equivoco, ma a sua volta così necessario, se declinato al singolare).

 

Da Alberto Prunetti, Amianto, una storia operaia, Agenzia X, 2012, pp. 160

Questa è la storia operaia di un tipo qualsiasi, una storia come tante, di quelli che sono cresciuti nel dopoguerra, hanno fatto un pezzo del boom economico italiano sulla loro pelle, hanno vissuto la crisi petrolifera del ’73 sulle proprie tasche e sono morti all’inizio del nuovo secolo, ammalati dopo avere smesso di lavorare. Uccisi da un serial killer micidiale che agiva a Casale Monferrato, a Taranto, a Piombino e in decine d’altri posti. Un uomo che ha iniziato a guadagnarsi il pane a quattordici anni, che è entrato in fabbrica senza mai uscirne davvero, perché il cantiere industriale aveva nidificato nelle sue cellule il proprio carico di negatività. Uno che è stato costretto per ragioni professionali a esporre il proprio corpo a ogni tipo di metalli pesanti. Un lavoratore che ha visto le condizioni di sicurezza nei cantieri precipitare ogni giorno di più. Un padre che ha fatto studiare i propri figli con la convinzione ingannevole che mandarli all’università fosse un modo per farli uscire dalla subordinazione di classe. Uno che si infilava guanti d’amianto, e tute d’amianto, e si metteva lui stesso sotto un telone d’amianto, perché scioglieva elettrodi che rilasciavano scintille di fuoco a pochi passi da gigantesche cisterne piene di petrolio e che sotto quel telone respirava zinco e piombo, fino a tatuarsi un bel pezzo della tavola degli elementi di Mendeleev nei polmoni. Fino a quando una fibra d’amianto, che lo circondava come una gabbia, ha trovato la strada verso il suo torace ed è rimasta lì per anni. E poi, chiuso il suo libretto di lavoro, quella fibra ha cominciato a colorare di nero le sue cellule, corrodendo materia neurale dalla spina dorsale fino al cervello. Una ruggine che non poteva smerigliare. Lesioni cerebrali che non poteva saldare. Guarnizioni che hanno iniziato a perdere, nel tono dell’umore, nella memoria, nella deambulazione, nell’orientamento. Tante volte mi sono chiesto se avesse sofferto. Se avessimo dovuto dargli più morfina. Quella droga – a lui che parlava male dei “drogati”, tra un bicchiere e l’altro di Tavernello – deve avergli regalato gli ultimi momenti felici. Qualcosa di più dell’anestesia. Finalmente era libero di dimenticare quella scimmia che gli era salita sulla schiena. Sognava felice: cavalcava nelle celesti praterie, come gli eroi dei nostri fumetti western. Le sue ultime ore per noi furono pesanti, ma lui neanche se ne accorse: era con Capitan Miki e Blek Macigno, con il comandante Mark, con Gufo Triste e Mister Bluff, con Chico e Tiger Jack e con Kit Carson, galoppavano assieme nelle celesti praterie e nelle foreste di Darkwood, senza più la zavorra dell’acciaio e della ruggine a bloccarlo a terra.

 

L’Unione Europea e la sovranità popolare perduta

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di Giampiero Marano

“Voi non potete immaginare quale angoscia e quale rabbia invada l’animo vostro, quando degli inetti si impadroniscono di una grande idea, che voi da gran tempo venerate, e la danno in pasto ad altri imbecilli uguali a loro, in mezzo a una strada, e voi la ritrovate al mercato della roba vecchia, irriconoscibile, infangata, messa a gambe all’aria, assurdamente, senza proporzione, senza armonia, ridotta a giocattolo per bambini stupidi!”. Queste parole piene di amarezza che Stepan, nei Demoni di Dostoevskij, pronuncia tra i sospiri (non sappiamo quanto sinceri) sono, proprio perché così amare, sempre veritiere e attuali. Oggi, per esempio, offrono una descrizione perfetta dell’Unione Europea. L’antica e alta aspirazione a unire i popoli d’Europa superando rivalità secolari ha avuto sostenitori come Dante, Novalis, Mazzini, Hugo; poi però la “grande idea” è finita nelle mani di uomini spiritualmente “inetti” che l’hanno uccisa e sfigurata: i burocrati e i tecnocrati dell’UE, vuoti e arroganti come il premier non eletto Mario Monti.

“L’altissimo merito di quest’ultimo”, chiariva Piergiorgio Odifreddi

3 prose brevi (Ollivùd 1)

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di Andrea Inglese

Campo di concentramento

Molti volevano fare, prima o poi, il film sul campo di concentramento. Era un’idea ormai diffusa e plausibile: ognuno vi portava il proprio tocco, ognuno variava, a modo suo, il tema. Nella visuale di un grandangolo, un campo di concentramento ci poteva entrare per intero. I costi di produzione erano bassi, per via della facile manutenzione delle baracche, e per l’abbondanza della neve, anche finta, sempre a buon prezzo.

Il Centro

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di Stefano Consiglio e Francesco Dal Bosco

(“Il Centro” è un documentario di Stefano Consiglio e Francesco Dal Bosco, con la fotografia di Francesco Di Giacomo, realizzato a partire da interviste fatte in un centro commerciale di Roma, e trasmesso il 12.09.2012 su RAI TRE; informazioni più dettagliate si trovano qui)

Satura contra quosdam

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di Daniele Ventre

 

credimi certo è facile segnare il passo quando ti ricordi che

qualcuno ha sempre qualcosa da dire da scrivere da ben fantasticare

da commentare o demenziare -o da mal masticare malmostoso

per suo carattere ingiurioso -orlando curioso

i trini e i merletti del senso che per verba non dispenso

-e inhumanar significar per verba non mi verria

perciò càntatela da solo la tua epica moritura e (ri)nascitura

Poesie edite da “L’alcova del sé”

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di Antonio Maggio
 
Incipit
 
Non soltanto parole che, perdute,
ritrovano nel tempo un’altra forma
raccolgo tra le foglie qui cadute
 
già prima che l’idea si faccia norma
e scavi nella mente come luce
soffusa che il demiurgo plasma e informa.
 
Ma immagini racconto a chi m’induce
a cercare nell’anima del mondo
una traccia d’argento che riluce
 
nascosta dentro al cuore, nel profondo.
 

Poesie edite 2

1

di Daniele Ventre

1.

Ritornano involute le tue forme
trasparenti da un velo di memorie
covando sotto cenere le storie
sommate lungo il caso ormai difforme.
Vuoto l’abbaccio si richiude, dorme
l’onda del tempo nel caos delle scorie:
la paglia lungo le orbite aleatorie
fluida per note di abbandono informe.
Non sa il gioco redimerci dall’urna
né salvarci l’incontro dalle spire
del vortice dischiuso oltre le porte:
così riguardo alla metà notturna
dove già i sogni sembrano arrossire
su retrograde vie di stelle morte.
 

Le convergenze parallele #2

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di Giuseppe Zucco

Fotogramma tratto da Lost highway, di David Lynch, 1997

Trasferirsi col pensiero e col sentimento in un altro essere era un’azione spirituale estranea a Aleksjéi Aleksandrovič. Egli stimava questa azione spirituale una fantasticheria dannosa e pericolosa.
Anna Karenina, di Lev Tolstoj (fonte: l’Eugenio tascabile)

 

Quale che fosse il suo segreto, ho appreso un segreto anch’io, e cioè: che l’anima è solo un modo di essere – non uno stato costante -, che ogni anima può essere la tua se ne scopri e ne segui le ondulazioni. L’aldilà può essere la piena facoltà di vivere consciamente entro qualsiasi anima si scelga, e in quante anime si voglia, tutte inconsapevoli del loro fardello intercambiabile.
La vera vita di Sebastian Knight, di Vladimir Nabokov, pp. 221-222, Adelphi 

Altre poesie inedite

14

di Daniele Ventre

1.

 

Non so se il giorno si compia nel tramonto che posa

sopra le case stanche un rosso manto d’ore,

o se la luce trovi qualche senso più nuovo

nella memoria dell’iride che animava la pioggia,

o nella memoria del vento che fugava le nuvole

rapide all’orizzonte.

 

L’utopia del possibile

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[brani tratti da: Adele Pesce, Fare cose con le parole, e mie riflessioni]

“[…] quando mi sveglio un po’ più tardi, sembra che i bambini lo facciano apposta, capricci a non finire: non vogliono vestirsi, non vogliono lavarsi, il latte è troppo caldo o troppo freddo. Io penso già alla multa che prenderò in fabbrica e gli dico delle brutte cose e finisce sempre che uno dei due si mette a piangere… Li scarico davanti alla scuola e loro mi guardano male e non vogliono nemmeno il bacio… Durante il tragitto non ho tempo di pensarci, ma appena sono in fabbrica, appena mi trovo davanti alla catena e comincio a fare il lavoro, non riesco a pensare ad altro che all’ultima occhiata triste che mi hanno lanciato. Continuo a pensarci, e quel piccolo fatto quotidiano si ingrandisce sempre più, diventa enorme e drammatico… Rivedo tutti i momenti della mattina e mi sembrano tremendi, arrivo a pensare lì alla catena di essere una madre cattiva che odia i suoi figli […]. E questo perché il mio pensare lì alla catena è del tutto separato dall’agire […]. Io sono impotente, non posso assolutamente modificare la realtà e questa si ingrandisce e mi schiaccia. Mi viene un’angoscia terribile, vorrei andare via, non ce la faccio a stare chiusa lì dentro. Certe volte mi dico: adesso vado dal capo e gli dico che mi sento male e se non mi crede mi butto per terra. Poi l’angoscia mi passa e comincio a pensare a quello che farò la sera quando uscirò e li andrò a prendere a scuola. Li porto ai giardini e faremo tanti giochi. No, li porto al Luna Park, M. ci ha fatto una passione… e poi magari a mangiare una pizza… Stasera niente televisione, gli racconterò quella favola che gli piace tanto. Progetti su progetti durante tutta la mattina fino all’ora della mensa. Quando riprendo, ora che l’uscita dal lavoro è veramente vicina, il mio stato d’animo non è più quello. È come se cambiasse dentro di me la dimensione del tempo: più si accorcia il tempo in cui sarò costretta a stare chiusa in fabbrica, più il tempo che avrò a disposizione quando sarò fuori mi sembra poco. E comincio a pensare che non farò niente: niente giardini, niente Luna park. Immagino che, sempre di corsa, stanca morta, farò la spesa, preparerò la cena, un po’ di televisione e poi a letto. Queste immagini mi tormentano, anche perché sono più vere delle precedenti, perché è come è successo ieri e come probabilmente farò domani. Mi viene di nuovo un’angoscia terribile… Mi sembra di impazzire. Non ho più quasi voglia di uscire, vorrei avere ancora tante ore da passare chiusa lì dentro per poter tornare di nuovo ad immaginarmi cose belle… Sai che ti dico? Non è il lavoro che è alienato, è il tempo. La fabbrica ti dà un tempo immaginario che è un imbroglio. Quando stai dentro immagini sempre moltissimo e non si tratta di fantasie ma di cose possibili. La cosa strana è che più ore hai davanti, più sei impotente a fare, più le immagini che ti vengono [in mente] sono belle; più le ore diventano poche, stai per uscire, si avvicina il tempo in cui potrai tornare a fare, più le immagini diventano brutte… Forse perché ti accorgi che non è soltanto il tempo che passi dentro, ma soprattutto il tempo fuori che ti rubano”.

(C., anni 25, operaia, Forlì)

È un’intervista del 1982, condotta nell’ambito di una ricerca del sindacato metalmeccanico in Emilia Romagna. L’ho ripresa da un recente volume che riunisce scritti di Adele Pesce, sociologa, sindacalista e femminista, perché mi hanno colpito l’intensità e la scansione della narrazione che ne fanno un testo letterario, e soprattutto perché mi ha colpito il concetto di “possibile” in relazione a realtà e immaginario. Adele Pesce, citando L’uomo senza qualità di Musil e Le sens pratique di Bourdieu, così commenta questa e altre interviste da lei svolte: “[…] con il risultato che le storie raccontate non erano mai soltanto esperienze reali, verità reali, ma esperienze e verità possibili. Nella preparazione della ricerca avevamo cercato di porci questo problema, decidendo di tenere presente l’immaginario come categoria importante. Dicevamo: dobbiamo intrecciare come una persona è e come vorrebbe essere, la vita che concretamente fa e quella che immagina di fare […] Nei loro racconti, le donne si comportano come se non ci fosse questa scissione e introducono invece un’altra dimensione, quella del possibile. La loro vita appare a chi l’ascolta molto più simile a un’esperienza immaginaria che a un’esperienza reale: perché è solo nelle esperienze immaginarie, nella letteratura ad esempio, che il mondo sociale riveste la forma di ‘un universo di possibili, ugualmente possibili, per ogni soggetto possibile’”. Pesce aggiunge che il possibile appare come una dimensione cui si fa ricorso non per evadere dal reale ma per dotare il reale di senso.

L’utopia del possibile non è la sola idea stimolante che emerge da questo volume i cui saggi ripercorrono essenzialmente gli anni ’80, ma che si chiude con un articolo apparso nel 2009 su “Inchiesta”, Fare cose con le parole (da qui il titolo al volume), in cui appoggiandosi alla teoria di Austin sugli enunciati performativi, Pesce esamina il linguaggio che legittima il  razzismo  nell’era del berlusconismo. Restando agli anni ’80: le questioni nodali su cui Pesce rifletteva erano la tensione tra aspirazione all’uguaglianza e senso della diversità, tra soggettività e collettività, tra dimensione teorica e azione. Leggendo problemi e interrogativi di quegli anni ho provato un vago malessere. Perché? Forse perché mi sembrano ora come allora ancora così fondamentali, ma allora ci riflettevo e poi non più? O perché le cose, in particolare per le donne, non sono cambiate molto, o comunque non nel senso voluto? In un lungo dialogo-intervista con Vittorio Foa intitolato “La politica, la persona” (1986), Adele Pesce risponde a Foa che le chiede cosa significasse per lei essere di sinistra negli anni ’50: “la possibilità di cambiare […] essere di sinistra era per me avere certezze sulla possibilità che il mondo potesse essere cambiato, i rapporti tra le persone potevano essere cambiati, il modo di governare  poteva essere cambiato, le forme di vita sociale potevano essere cambiate”.

Sogni d’oro

6

di
Simon Lane

I sogni non significano niente. Altrimenti potremmo imparare qualcosa. Il valore dei sogni, se esiste, sta nella loro mancanza di significato. I sogni si sottraggono all’interpretazione. Probabilmente questo è il loro unico lato interessante. I sogni ci danno l’opportunità di rilassarci, di non lavorare. Permettono alla nostra mente di vagare alla periferia del nostro subconscio, all’ombra di premurose fronde che ci riparano dal caldo o dal freddo dei pensieri delle ore di veglia. Possono diventare come onde tropicali che ci massaggiano, facendoci sollevare i piedi dal fondo marino per poi riportarli giù con una dolce oscillazione, come se un remoto gigante cullasse il mondo avanti e indietro come i nostri genitori facevano con noi quando eravamo piccoli. O possono offrirci interludi romantici, come fa la vita, in modi fortuiti e imprevisti. I sogni non contengono sintassi, né sillabe. Né simboli. Un letto è un letto. Un libro è un libro. Una galleria è una galleria. Un pene è un pene. Una spada, però, può ricordarci di farci la barba al mattino. I sogni non rappresentano niente. I sogni non hanno logica. La logica viene loro imposta. I sogni invitano alla comprensione quando la comprensione è impossibile. Così esercitano il loro fascino. I sogni ridanno spazio all’intuito. I sogni non sono confusi; possiedono una grande chiarezza, nitidezza. Quando si cerca di riprodurre visivamente un sogno, l’errore più grande è sfuocare l’immagine o farla ballonzolare per lo schermo. Nei sogni non si ballonzola se non accidentalmente. I sogni riescono a essere eccitanti proprio perché sono realistici. Se fossero vaghi, non ci spaventerebbero, non ci stuzzicherebbero. I sogni non sono cinema. Ma il cinema può essere sogno. I sogni non vengono mai soli. Nessuno fa mai un solo sogno, ma diversi sogni. I sogni non hanno numero. Innumerevoli, scombinano l’ordine. Forse è questo il loro scopo. O forse no. Noi ci facciamo il letto ma non ci facciamo i sogni. Possiamo solo attendere il mistero notturno e accettarlo come tale. Accettiamo i sogni come accettiamo la nostra mortalità. Se ne ricaviamo o meno un senso è irrilevante. Così come il fatto che siamo esistiti ed esisteremo ancora.

Simon Lane,
Rio de Janeiro,
14 marzo 2012

Dreams
di Simon Lane

DREAMS do not mean anything. If they did, we might learn something. The value of a dream, if it has a value, lies in its meaninglessness. Dreams defy interpretation. This is probably the only interesting thing about them. Dreams give us a chance to relax, not work. They allow our minds to meander along the periphery of our subconscious within the kindly arboreal shade that protects us from the heat or cold of wakeful thought. They may become the kind of waves from tropical places that massage us, making our feet rise from the seabed and return in sweet undulations as if a distant giant were rocking the world back and forth as our parents did in infancy. Or offer us romantic interludes, just as life does, serendipitously. Dreams contain no syntax, no syllables. No symbols. A bed is a bed. A book is a book. A tunnel is a tunnel. A penis is a penis. A sword, however, may remind one to shave in the morning. Dreams do not represent anything. Dreams have no logic. Logic is something imposed upon them. Dreams invite understanding when understanding is impossible. As such, they are seductive. Dreams restore intuition. Dreams are not blurred; they possess great clarity, sharpness. The greatest error made when portraying a dream visually is to allow the image to lose focus or dance about the screen. No one dances in a dream unless by accident. The reason a dream can be exciting is because it is realistic. If it were blurry, it wouldn’t frighten us, titillate us at all. Dreams are not cinema. But cinema can be dreams. Dreams never come singly. No one ever has one dream but several dreams. Dreams have no number. Numberless, they upset the order. That may be their purpose. Or not. We make our beds but we do not make our dreams. All we can do is await nocturnal mystery and accept it as such. We accept dreams as we accept our own mortality. Whether we make sense of themor not is immaterial. Just as we were and will be once again.

Simon Lane,
Rio de Janeiro,
14 March 2012

Nota

Pubblico questo testo di Simon addolorato da un lutto, non del tutto inaspettato ma comunque devastante.
Il mio fraterno amico Simon Lane è morto. Collaboratore prima di Paso Doble e poi di Sud, se l’è portato via un cancro che per ventanni lo ha attaccato, recedendo e ritornando ogni volta più feroce. Qui i suoi romanzi. L’ho visto l’ultima volta a Parigi lo scorso giugno, alla libreria di Fortunato,
la Tour de Babel, dove abbiamo presentato il mio Chiunque cerca chiunque. Lui è arrivato in bicicletta, l’unico dandy che abbia mai incontrato. Viveva ormai da anni in Brasile e con mia grande fortuna era nella capitale in quei giorni. Sempre in prima linea, sempre in coppia con Patrick Chevaleyre, con la rara eleganza degli uomini del novecento.
Bye Simon.
effeffe

Elegie ritmiche inedite

2

di Daniele Ventre

1.

L’erba sussurra nell’ombra ai giardini delle delizie,
brezze di quieti ronzii lente la pettinano:
piano fra sponde di sassi parlottano liquide voci,
echi di futilità favole modulano:
musiche dietro pareti traslucide, grida di giochi,
ritmano riti e magie fragili d’intimità:
poi la parola ritorna con il chiacchierio degli incontri
callido di bisbiglii, dentro le sale da tè.
La ierodula sottile discrimina scaltra i momenti,
trame, le piccole dita, anime temperano
d’urti e schermaglie e le ninfe indulgenti, al cupo dei boschi,
giocano nelle sorgive, esili diafanità,
mani a dispetto, a spruzzare d’oblio, a rapire nel buio,
dove il sorriso notturno orli di vie cancellò:
l’alto sfiorarsi furtivo dei petali, l’ultimo abbraccio,
l’ansia sottesa, l’invidia avida che incenerì.
Qui per i chiusi canneti traspare il silenzio dell’alba,
l’onda si frange nei golfi iridescente e si sfa
nelle carezze di spume su torpide code di sabbia,
nelle parole che al vento ora rimemorano
l’umile monotonia degli amanti mai corrisposti,
l’intima grazia punita a compiacersi di sé.

2.

Lungo colline invernali le nuvole vanno remote
sull’orizzonte di rocce e sedimentano qui
schegge di freddo. Ora il tempo assetato assorbe le vite
in stillicidi d’attese e d’esistenze a metà,
pallide monotonie di veglie e visioni d’inquieta
tenebra, larve di nebbia, avide permeano
gli esseri nudi. In un giorno agitato di fantasie
sterili passo la via, che s’alimenta di me
e mi consuma e divora se stessa: in un bianco di nubi
liquide, in un’afasia d’anime, canti ed età,
rigo di neri silenzi le pagine scarne del vuoto,
che la ragione del vento ostica disseminò.

3.

Era nascosta la via, fra remoti intrichi di selve,
lungo i sentieri che il buio orlo del sogno tracciò,
orma notturna, a segnare il cammino in rughe di rupe,
fino a una grotta di scogli, alle rimosse realtà
sotto le coltri di spuma. E s’aprì fra cenge la riva,
madida di sinfonie, echi che l’onda intessé
con i racconti di ninfe e d’esilii e persi ritorni,
d’uno che s’innamorò di lontananze e svanì,
sposo a Colei-che-nasconde. Non restano che le memorie
a ritornare con l’onda, a riportarne, quaggiù,
pallide forme che il mare dell’essere sfuma nei gorghi,
ombre che in alghe e sciacquii diafane scivolano.

Piccole Barbare

6

di Daniele Ventre

 

1.

 

Non vedi? La traccia dei segni è ancora inquinata

di tracce falsate. Qualcuno è passato a ritroso:

ha invertito il senso di marcia. Allora dovresti

davvero conoscerla, questa verde vita di ninfe,

offesa tra queste cortecce di rami spezzati

e tronchi abbattuti: le maschere t’hanno distolto.

Quattro frammenti

12

di Franz Krauspenhaar

se mi togliete il maalox,
la sua innocenza, la
carezza discreta di sodii
vari come oli curanti,
se mi togliete quel senso
illusorio d’assenza,
come se lo stomaco
fosse libero dai fuochi
dei nostri inferni a succhi,
mi avrete deposto
un mito, avrete cacciato
il mio allenatore buono
e incompetente
dalla squadra sconfitta.

Aprire un nuovo capitolo

2

(A cavallo tra il vecchio anno e il nuovo, ho cominciato un nuovo capitolo di una cosa lunga che vado scrivendo da tempo. Questa è la sua versione beta, ovviamente – ma anche un augurio: che di capitoli da aprire ce ne siano moltissimi, per tutti voi.)

di Giuseppe Zucco

Bacio, autore ignoto, stencil, Argentina

Spalle alla basilica di San Lorenzo, seduti sull’erba rada del parco, Mario e Cristina si baciano – ma non come fosse il gioco di un riconoscimento, baciandosi e slegando le labbra ad intervalli regolari, rimanendo poi occhi negli occhi a millimetri di distanza, cercando di capire, alla fine dell’apnea con le palpebre abbassate, se sia sempre la stessa persona a spingere le mani in luoghi irriferibili, oppure dandosi la lingua in maniera del tutto introversa e consapevolmente impacciata, come se quello non fosse altro che il primo vero contatto fisico dopo giorni e giorni di un corteggiamento sfiancante, un momento che riporta indietro le lancette di qualsiasi comunanza e complicità, l’ora x convenzionale ma per sempre marcata sul diario o sul retro di una fotografia o in fondo al messaggio di un cellulare in cui si ritorna momentaneamente estranei per iniziare a conoscersi davvero, sul serio, senza filtri.
“Una cosa che ti piace di me?”, dice Cristina.
“Gli occhi”, dice Mario.
“No, troppo poetico”.
“Allora le labbra”.
“Paraculo”.
“Le mani?”.
“Ottocentesco”.
“Il modo in cui s’incurva il naso?”.
“Ma se è il mio complesso peggiore”.
“Deciderò io, no?”.
“Dimmi una cosa unica”.
“Questi cosi”.
“I leggings?”.
“Eh, in controluce sono meglio di una radiografia”.
Mario e Cristina, un bacio dopo l’altro, baci sbocciati nei baci, si baciano in fretta e furia, sfregando le labbra, a piccoli morsi, incrociando le eliche rotanti della lingua, senza respiro, cambiando continuamente lato, gli occhi aperti e chiusi, scontrando i denti, le mani infilate nei capelli, precipitando uno nella bocca dell’altra come se non ci fosse tempo, come se il tempo non bastasse, come se tra il primo e l’ultimo bacio appena consegnato con allarmata frenesia il tempo avesse accelerato senza altra spiegazione, proprio come se dal più alto dei cieli filasse perpendicolare sulla furia di quei baci sbocciati nei baci una delle innumerevoli bombe atomiche appena sganciate dal ventre metallico di un cacciabombardiere che, da lì a pochi istanti, crollando senza un sibilo sul pianeta terra per mondare le colpe dei suoi residenti stipati chi nelle cantine chi nei rifugi antiatomici con il respiro rotto e lo sguardo rivolto al soffitto di cemento, avrebbe spazzato via la materia vivente delle cose e scagliato a distanze irraggiungibili, ancora più in alto della voluta estrema del fungo radioattivo, tutte le particelle luminose della parola amore.
“Sai di buono”, dice Mario.
“Sembro la pubblicità di un detersivo, così”, dice Cristina.
“No, di frutta”.
“Tipo il sapore alla frutta del dentifricio?”
“Frutta non molto specificata, ma frutta”.
“Mario”.
“Tipo l-a-m-p-o-n-e”.
“Perché che gusto c’ha il lampone?
“Appunto”.
“E io avrei questo gusto anonimo?”.
“Di frutta”.
“Io sarei anonima?”
“Sì, cioè, no, solo frutta”.
“Anonima, allora?”
“Che frutta vuoi essere?”.
“Kiwi”.
“Kiwi è perfetto”.
Mario e Cristina si baciano, si staccano, non resistono, si avvicinano, riappaiano una a una le screpolature e le pellicine trasparenti, e tutto questo delicato violentissimo elicoidale filare di labbra, un movimento che non ne ammette altri, una foga cieca e irresponsabile che espelle fuori dalla carne e dalle ossa tutta Milano e la Calabria intera, un desiderio famelico e autosufficiente che allunga un decisivo colpo di spugna sul tremolare pallido dei ricordi d’infanzia e sul lucore persistente dei rispettivi traumi, per lunghi lunghissimi minuti li eleva in uno spazio vuoto, bianco, illuminato, dove non risiede altro che quel movimento, quella foga, quel desiderio, dove tutto sfuma e indietreggia, uno spazio interamente vuoto e paradossalmente pieno da scoppiare, la versione amorosa della nuvoletta bianca così in voga nei fumetti anni ottanta che ricopre di solito le risse e restituisce, di tanto in tanto, a beneficio dei passati – per esempio, questo è il caso, due signore con il passeggino la cui capote è aperta alle infiammazioni solari, o un giro di studenti con un pallone in mano – un piede attaccato al polpaccio nudo, una mano aperta, l’icona gialla e seghettata di un fulmine.
“Tu mi sogni mai?”, dice Cristina.
“L’altra notte, sì”, dice Mario.
“E che facevo?”.
“Eravamo seduti in un bar e mi passavi delle foto”.
“Delle foto?”.
“Delle foto sigillate in busta chiusa”.
“E io com’ero?”
“Eri vestita da uomo, avevi la faccia in ombra”.
“Ma come facevi a sapere che fossi io?”.
“Ne avevo certezza assoluta”.
“E che c’era nelle foto?”.
“Solo i dettagli del corpo di una ragazza”.
“Le mie foto?”.
“Forse, ma erano in bianco e nero”.
“E io che ti dicevo?”.
“Di trovare quella ragazza, mi avrebbe cambiato la vita”.
“Cioè, per dire, avevi la foto di un orecchio?”
“Di un lobo di un orecchio, e da lì dovevo risalire alla ragazza”.
“E poi la trovavi?”
“Le foto prendevano automaticamente fuoco”.
Mario e Cristina si baciano, in tutto e per tutto compresi nel bacio, compressi nel bacio, nello spazio vuoto bianco illuminato dove non ci sono pensieri, né identità, né corpi, ma solo quel bacio, l’orbita liquida della lingua e la pressione morbida e serrata delle labbra, un bacio che non alimenta altri che se stesso prolungandosi nel tempo, all’infinito, senza soluzione, perlomeno fino a quando, Mario, aprendo gli occhi, non fuori, cioè nel mondo reale, il parco attraversato da un uomo di colore con un fascio di calzini colorati in vendita per un euro, ma proprio dentro quello spazio, in quella nuvoletta, inizia a diradare la confusione bianca e ovattata del bacio pensando Io, facendo riverberare la vibrazione di quella sillaba fino al centro del più infinitesimale nucleo della più impercettibile cellula, Io sono, ricordando tutta la strada fatta per essere presente nel parco in quel preciso istante, Io sono qui, mordendo con decisione le labbra di Cristina per lasciare un segno materiale di quel passaggio, Io sono qui per te, cosa di cui Cristina, aprendo gli occhi, non dentro, cioè nello stato-nazione denso e evanescente del bacio, ma fuori, la massa isterica e fluttuante dei fedelissimi dell’aperitivo in sbattimento per l’assegnazione di un tavolino appena oltre l’inferriata verde del parco, se ne rende conto tanto da staccarsi dalla presa di Mario, guardandolo fisso, portando un dito alle labbra, assicurandosi che, proprio nel punto in cui il suo indice indugia, la sillaba tagliente e autodeterminante e esclusiva dell’Io non abbia procurato una lacerazione, né, ancora peggio, intaccato la possibilità di rientrare nella nuvoletta, nello spazio vuoto e bianco e confusionale del bacio.
“Ci stai o no con la testa?”, dice Cristina.
“Scusami”, dice Mario.
“A cosa stavi pensando?”.
“Scusa”.