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Altro che piccole donne – Le sorelle Aubrey di Rebecca West

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di Eleonora Marangoni

Andrew Wyeth, Around the corner

Autrice di Piccole Donne, Louisa May Alcott nasce nel 1832 nell’impronunciabile Massachusetts. Sessant’anni dopo, nei pressi di Londra, Isabella Mackenzie Fairfield dà alla luce la sua terza e ultima figlia, Cicely Isabel Fairfield, che da signorina sceglierà come pseudonimo il nome di un’eroina di Ibsen, diventando così miss Rebecca West. Oltre all’oceano Atlantico, le separano cose come l’avvento dell’automobile, la scoperta del telefono, la costruzione della torre Eiffel, l’arrivo della Coca Cola dalla Georgia e quello di Jack lo squartatore nell’East End. Sessant’anni di distanza, per come e quanto girava il mondo a quei tempi, erano una piccola eternità.

Le due però si assomigliano, eccome. Oltre che autrici prolifiche, sono entrambe intellettuali engagées, suffragette tenaci, attiviste politiche, viaggiatrici solitarie. Diversamente dalle flappers, sono anticonformiste ma non provocatrici: niente capelli alla garçonne o foxtrot scalze sui tavoli, per intenderci; più che l’emancipazione cercano (trovandola) la libertà. Lo fanno in modo ostinato e mai chiassoso, alla larga da convenzioni ed etichette: «Io stessa non sono mai riuscita a capire che cosa significhi con precisione femminismo. So soltanto che mi definiscono femminista tutte le volte che esprimo sentimenti che mi differenziano da uno zerbino o da una prostituta», scrive la West nel 1913.

Quando da ragazze moderne le due diventano signore mature, le loro strade sembrano disgiungersi. Una resta zitella (la Alcott), l’altra si sposa poi resta vedova. Una mette al mondo un figlio illegittimo (West, nato dalla storia d’amore con H.G. Wells), l’altra non lascia eredi. Una muore a cinquantacinque anni (Alcott), l’altra arriva a novanta. Ma nessuna delle due smetterà mai di scrivere, e tutte e due vivranno sole in case pieni di libri e di gente alla porta. Non saranno mai mogli operose, madri modello o nonne pazienti; finiranno, l’una e l’altra, col somigliare a quelle donne testarde, indomabili e leggendarie che ogni tanto si ha la fortuna di avere come zie.

Spesso le signore che si assomigliano sono state le stesse bambine, e in questo caso è andata proprio cosi. Sia la West che la Alcott erano nate in famiglie che la disparità fra status economico e livello culturale rendeva indefinibili da un punto di vista sociale: l’autrice di Piccole donne da bambina faceva i compiti in salotto con Nathaniel Hawtorne e Henri David Thoreau, poi vestiva i panni di sartina di provincia e correva a ricamare gli orli delle ricche signore di Concord. La signora Fairfield non esitava a separarsi dai “mobili buoni” per mantenere Cicely/Rebecca e le sue sorelle maggiori, ma nessuno venne mai a portarsi via il pianoforte, i sonetti di Shakespeare o i volumi intarsiati dell’Encyclopaedia Britannica.

Quelle due erano cresciute nelle stesse case grandi e un po’ malandate, col verde intorno, dove i pavimenti scricchiolavano allegri e in cucina c’era sempre una torta in forno. Nelle stanze fiorite, libri e spartiti seppellivano le cambiali, e qualcuno al piano di sotto si occupava di ravvivare il fuoco. Piccole donne e La famiglia Aubrey sono la storia di queste case. La prima diventerà una saga celeberrima in quattro volumi, l’altra resterà una trilogia incompiuta sconosciuta ai più.

Andrew Wyeth, View from the sea

Le sorelle Aubrey sono diverse dalle March per passaporto, vocazione e destino, per il modo che hanno di raccogliere i capelli. Ma, in fondo, sono tutte lì che dispongono fiori, suonano il piano, si preparano alla vita mentre imburrano tartine sopra e sotto. Le Aubrey sono tre, una in meno delle March. Ma c’è un fratellino, Richard Quin, illuminato e bianco come l’ultimogenita delle americane, Beth. La vita riserva a entrambi un destino struggente, e forse per questo fin dalle prime pagine i due sono sprovvisti di una vera fisicità: più che dei bambini, Beth e Richard Quin sono fragili oracoli, e aleggiano come teneri ologrammi. Ci sono la sorella ambiziosa (Cordelia, West; Amy, Alcott) e la sorella cauta (Mary, West; Meg, Alcott). C’è un padre che deve sempre “tornare”: dalla guerra (Alcott) e da non si sa dove (West). C’è una madre innamorata, paziente e stanca, che anni di rinunce e nostalgie non hanno privato della naturale eleganza verso le cose né della voglia di cantare al piano. E poi c’è Rosamund, la cugina preferita delle Aubrey, dorata e selvaggia come Jo.

C’è una domestica saggia, fedele e brusca (Kate, West; Hannah, Alcott). C’è “l’uomo da sposare” (Oliver, West; Laurie, March), e perfino un benefattore âgé dalle guance rotonde (Morpurgo, West; James Laurence, Alcott). Sarà perché “tutte le famiglie felici si assomigliano” ma qui sono tutti al loro posto, da entrambe le parti e in modo curiosamente simmetrico.

Né a Orchard House (casa March) né a Lovegrove (casa Aubrey) succede poi granché: è tutto una colazione, un’attesa, una corsa nei prati, una visita in città, un Natale povero ma allegro, una visita inaspettata, un pettinarsi i capelli, un battibecco appena sveglie. Certo, come in ogni romanzo che si rispetti, non mancano lutti, sacrifici, illusioni perdute e parenti nei guai. E c’è “la guerra”, poco importa quale essa sia (Secessione nel primo volume della Alcott, Grande Guerra nel terzo della West). Ma quello che ci si porta dietro leggendo sono soprattutto cose come lo zenzero e il pungitopo, le carrozze e i motori a scoppio, gli abiti rammendati e le pieghe delle tende.

Andrew Wyeth, Big room

Ora, non c’è tanto da chiedersi perché per decine di generazioni occidentali le avventure delle sorelle March siano state imposte a livello mondiale facendo di loro eroine se non indimenticabili quanto meno immancabili, mentre Amy, Rose, Cordelia e Richard Quin sono ancora lì su una barchetta a remi che cercano di attraversare la Manica; e neanche perché, sebbene il «Times» l’abbia definita nel 1947 «indiscutibilmente la migliore scrittrice al mondo», della West non parli più nessuno e le rare occasioni in cui ci si ricorda di lei è per il suo diario di viaggio in Iugoslavia, le sue cronache del processo di Norimberga per il «New Yorker» o per il suo flirt con Charlie Chaplin.

La domanda sarebbe piuttosto: perché, se già in tenera età ci siamo sorbiti Piccole donne e non siamo attualmente alunni di scuola media, dottorandi in letteratura vittoriana, femministe sentimentali e nemmeno zitelle del Sussex, dovremmo adesso sciropparci la loro apparente versione anglosassone?

Risposta: perché il salottino dei March una volta visitato lo riponiamo a cuor leggero sugli scaffali alti, accanto ai numeri della raccolta I grandi classici della letteratura in edicola, fra i libri “che tutti hanno letto e nessuno rilegge” e che un giorno, forse, regaleremo ai nostri figli. Le stanze degli Aubrey invece, una volta scoperte, non solo abbiamo difficoltà a spostarle dal comodino, ma vorremo spalancarle a tutti, e portarcele dietro sempre, come un amuleto, un antidoto alle sciatterie della realtà, alla miseria dei giornali e all’inconsistenza di certi romanzoni moderni. Se siete musicisti, musicologi o musicomani esiste poi una ragione ulteriore, più “tangibile” anche se in fondo incorporata e dissolta nella prima: la West scrive di musica e sulla musica e per la musica come pochi (e forse come nessuna) hanno fatto. Le pagine dedicate ai concerti di Rose e Mary, agli esercizi al violino di Cordelia, alle impressioni sui grandi compositori classici sono scritte come si scrivono i capolavori: con sobrietà, grazia, esattezza e magia.

Stare dietro alle sorelle inglesi è senza dubbio più difficile, e non perché non vi prendano per mano, ma perché non vi portano negli stessi posti. Le March rigano dritte dal punto A al punto B e così via, senza star lì a dilungarsi fra quel che c’è in mezzo, creando futuri prossimi e conseguenze orizzontali, comprando cappellini in tre righe e innamorandosi in sei. In casa Alcott è l’intreccio, in fondo, a farla da padrone, diretto dai buoni sentimenti e dalla poetica del vivere ammodo.

Andrew Wyeth, Braids (detail)

Al contrario gli “eventi” veri e propri del suo romanzo la West li liquida in fretta: una morte, un abbandono o un matrimonio stanno stretti in poche righe, e il vero protagonista è una sorta di presente dilatato, eterno e apparentemente inutile, fatto di cose piccolissime che non tendono mai in avanti ma si ripongono una dentro l’altra come bambole russe. Degli uccelli su un albero, un sottobosco di felci, una lezione di piano, il disporsi degli ovini in un campo, una storia di fantasmi: la famiglia Aubrey non si muove, ondeggia, in uno spazio a cui non siamo abituati e che è il fondo di un tempo liquido.

Forse questo accade perché Rebecca West ha iniziato a scrivere della famiglia Aubrey alla fine della sua vita, e per raccontare il mondo dell’adolescenza si è presa tutto il tempo della vecchiaia: ha preso “tempo” e l’ha messo lì dentro, anche dove non doveva essercene, maneggiandolo senza troppe cautele, con l’incoscienza, l’entusiasmo e quel pizzico d’irriverenza figli del modernismo inglese primi ’900. Lei comunque lo sa, e l’epigrafe che sceglie in apertura al primo volume è il suo modo (inglese) di scusarsi: «The cistern countains, the fountain overflows» (citazione dal Matrimonio del cielo e dell’inferno di William Blake). Ma ogni volta che lascia correre l’acqua la West ha ragione, perché ci porta dove certo nessun romanzo di marzapane e trecce bionde e compassione è stato in grado di fare, o forse ha semplicemente provato a fare.

In un certo senso, Piccole donne sta alla Famiglia Aubrey come Jingle Bells all’Oratorio di Natale di Bach. Teoricamente parlano della stessa cosa, il Natale, ma sono cose diverse, suonano inevitabilmente in un altro modo e, mentre la prima dà il meglio di sé anche nella versione per pianola, la seconda guarda più in alto, e assolverà il suo compito solo a condizione che le venga dedicato il giusto spazio, o almeno un impianto stereo decente. Cisterna e fontana, insomma.
 Nelle pagine della West, come in ogni vita che si rispetti e come in tutta la grande letteratura, quel che conta sono i momenti e il flusso in cui sono immersi, non quello che si impara o dove si va a finire. L’attesa della vita e la vita stessa sono una cosa sola; l’una senza l’altra non avrebbe lo stesso gusto, e men che meno lo stesso valore. Se c’è qualcosa che questo libro vi insegna è questo, e non è poco, e lo fa mentre vi parla di tutt’altro.

A un certo punto, a metà del terzo volume, Oliver (il musicista che sposerà Rose) è lì in salotto che mangia una torta alle ciliegie. Per dirla bene, Oliver ha mangiato tutte le ciliegie e lasciato un pezzettino di torta nel piatto. La gemella di Rose, Mary, gli propone di fare il bis, lui ringrazia e accetta. Mary ribatte: «Ma se ci togli le ciliegie la riduci in briciole. È un peccato, perché la torta è buonissima. Vado giù in cucina a chiedere alla cuoca di darmi delle ciliegie candite a parte, cosi potrai mangiarle senza rovinare la torta». Poi lei scende per le scale che scricchiolano e a quel punto Oliver si chiede, nel modo più naturale del mondo: «Com’è possibile che una ragazza sensibile come Mary non si renda conto che mangiare le ciliegie candite da sole non sarebbe la stessa cosa che mangiarle dopo averle levate da una torta?».

Insomma, è una storia di frutta candita, d’inglesine acerbe che suonano il piano e prendono il tè. Ma dentro ci trovate proprio tutto, basta accomodarsi in salotto.

[Questo articolo è stato pubblicato, con altro titolo, su Archivio Caltari]

Un amaro Montenegro

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di
Azra Nuhefendić

Nove vittorie su nove elezioni hanno riportato il presidente montenegrino Milo Djukanović e il suo partito democratico dei socialisti: hanno vinto tutte le elezioni politiche negli ultimi vent’anni. È un miracolo. In Europa non ci è riuscito mai nessuno.
Di miracoli, il minuscolo Montenegro con appena 670.000 mila abitanti, ne ha prodotti parecchi. Ad esempio, insieme alla Serbia ha partecipato a tutte le guerre balcaniche degli anni Novanta. La Serbia e i serbi si sono guadagnati l’etichetta di cattivi, mentre il Montenegro, miracolosamente, l’ha fatta franca.

Nel 1991 Milo Djukanović, allora primo ministro montenegrino, aveva ordinato i bombardamenti dell’antica città di Dubrovnik. Per rifarla “più antica e più bella”, dichiarò il capo dei serbi erzegovesi Božidar Vučurević. L’assedio e l’attacco alla città di Dubrovnik fu chiamato in Montenegro “la guerra per la pace”. Il quotidiano “Pobjeda” (La vittoria) di Podgorica, nell’edizione straordinaria dell’ottobre 1991, aveva scritto che il Montenegro (con la guerra) “si è rilanciato nel mito e nella leggenda e ha mostrato il suo volto inconfondibile… e con orgoglio marcia di nuovo tra gli eroi, nell’eternità, nel posto che gli spetta da sempre”.
Poi il giornale offre un ritratto dei riservisti montenegrini che, insieme alla JNA (l’Armata popolare jugoslava), bombardavano la città che fa parte del patrimonio dell’umanità: “I nobili eroi dai cuori grandi, le persone care e familiari, la gente comune che nei giorni scorsi abbiamo incontrato per strada, al lavoro, all’università, ci hanno regalato esempi di dignità e di eroismo, difendendo la pace, la libertà e l’onore”.
Vi hanno partecipato interi villaggi e famiglie al completo, informa il quotidiano.

Per la comunità internazionale “l’operazione Dubrovnik” fu un crimine di guerra. Infatti, l’assedio e i bombardamenti della città croata, finì con molte vittime umane ed enormi danni materiali. Una piccola parte del danno fu direttamente correlata ai combattimenti e alle operazioni militari, il resto fu il risultato dei saccheggi di massa.
Una commissione internazionale ha accertato che i nobili eroi avevano rubato televisori, videoregistratori, abbigliamento, calzature, biancheria da letto, elettrodomestici, utensili, macchine agricole, automobili, diverse opere d’arte, dalle pareti delle case avevano tolto gli interruttori elettrici, strappato le piastrelle in ceramica, vasche da bagno e water. Dall’ACI Marina di Dubrovnik avevano rubato 51 yacht, e altri 171 vennero completamente distrutti. Dall’aeroporto di Cilipi hanno rubato e trasportato in Montenegro tutti i macchinari di valore, dispositivi a raggi X per il controllo del traffico, apparecchi d’illuminazione per illuminare la pista, fari, generatori, veicoli antincendio, sistemi radar, la scala mobile, ed è stato saccheggiato il duty-free. Nella valle di Konavle, nel retroterra di Dubrovnik, hanno portato via tutto il bestiame dall’allevamento di bovini, a Kupari hanno depredato tutti e sei gli hotel lasciando solo i muri nudi. Il bottino di guerra ammonta a un miliardo e mezzo di euro.

Era l’epoca del giornalismo patriottico. I giornalisti di tale stampo non erano meno eroici dei riservisti. Uno di questi, il montenegrino Nebojša Jevrić, si era fatto filmare nella villa, saccheggiata e distrutta, della cantante croata Tereza Kesovija, vestito con la lingerie della cantante, ed esaltando il proprio patriottismo vantandosi in vari articoli di aver defecato nella piscina della cantante. Un mio collega, che era lì con la troupe televisiva all’epoca della guerra, mi raccontava quello che aveva visto sulla strada statale che collega il Montenegro e Dubrovnik:

“Per una corsia si muovevano i veicoli militari e i camion pieni di riservisti che andavano al fronte come se stessero andando a una festa. Si sporgevano dai camion, cantavano abbracciati e ubriachi, la bottiglia con la grappa passava di mano in mano. Sicuri del loro successo, mostravano due dita in segno di vittoria. Nella seconda corsia il traffico si svolgeva in due direzioni: dalla parte del fronte tornavano i camion pieni zeppi di roba rubata, e in direzione opposta, sempre nella metà della stessa corsia, colonne di civili a piedi, con le auto o i trattori andavano verso il fronte. Il traffico si muoveva a velocità di lumaca e spesso tutto si fermava, perché in mezzo alla strada dei gruppi si mettevano a ballare il kolo “oro crnogorsko”, il ballo tradizionale dove i partecipanti si dispongono in cerchio tenendosi per le spalle mentre nel centro, a turno, ballano con una donna. Nessuno tentava di mettere un po’ di ordine; persino i veicoli con i feriti, con i lampeggianti e le sirene accese, passavano con difficoltà, e ogni tanto venivano fermati dai civili che si congratulavano con gli eroi feriti: “Sretne ti, rane junače!”.

L’attacco a Dubrovnik fu la prova generale per quello che di lì a poco sarebbe successo in Bosnia. “I nobili eroi montenegrini”, nella guerra in BiH si sono distinti partecipando alle brigate di elettrodomestici, le cosiddette brigate del weekend, cioè quelle fatte da “uomini comuni” che andavano in guerra durante il fine settimana a fare razzie e a commettere un po’ di crimini.
Il saccheggio era così diffuso e sistematico, che ispirò la barzelletta sui due proverbiali scemi bosniaci, Suljo e Mujo. Suljo chiede a Mujo, che è diventato profugo, dove vorrebbe andare a vivere, e Mujo: “Nella città di Nikšić, in Montenegro.” “Perché vuoi andare tra i nemici?” “Perché là c’è già tutto quello che possedevo”.
Le notizie di quel periodo mi hanno fatto ricordare e capire un episodio capitatomi una decina di anni prima che cominciasse la guerra. Anton ed io c’eravamo persi in Montenegro e chiedemmo informazioni sulla strada da prendere a un vecchio. Questo ci guardò, fece cenno con la testa verso di me e disse: “Lei potrebbe essere nostra”, e poi, alla domanda di Anton “Come va?”, aveva risposto: “Male, siamo rimasti in braghe di tela perché da troppo tempo non c’è una guerra.”

“Due occhi in una testa”, così si definivano uniti la Serbia e il Montenegro, fino al 2006. Dal giugno di quell’anno il Montenegro è diventato uno Stato indipendente. “Siamo manipolati e vittime della propaganda di Belgrado”, con queste parole Milo Djukanović, si era liberato della compagnia di chi aveva commesso il genocidio e aveva perso la guerra. Si scusò con i croati, promettendo il risarcimento. Il signor Metodije Prkačin, un croato sopravvissuto al campo di concentramento di Morinj, organizzato dal Montenegro dichiara: “Io non mi fido del tribunale montenegrino perché lì lavorano giudici che hanno partecipato ai crimini di guerra, nella zona di Dubrovnik”.
A vent’anni dalla guerra, l’accusa montenegrina non ha avviato alcun procedimento per i reati commessi dalle forze della JNA e dai riservisti montenegrini durante l’operazione Dubrovnik. I politici montenegrini responsabili della guerra occupano ancora posizioni di rilievo nel governo. Tra i primi c’è Milo Djukanović.

Nel 1991, a soli ventinove anni, Djukanović diventò il più giovane primo ministro in Europa. Fu scelto dal regime di Belgrado per compiere la cosiddetta rivoluzione anti-burocratica in Montenegro, eufemismo coniato per destituire i politici che si opponevano al nazionalismo serbo. In pubblico Milo Djukanović era celebrato come “giovane, bravo e bello, uno che pensa con la propria testa”. A Belgrado, negli anni Novanta, capitava di vederlo almeno una volta alla settimana, in via XIV Dicembre, dove si incontrava con Slobodan Milošević. “Andava a prelevare la propria opinione”, dicevamo con ironia.
Nel corso di venti anni Milo Djukanovic è riuscito a mantenersi a galla, è saltato dalla poltrona di capo di governo a quella di presidente, e viceversa, mantenendo una carica o l’altra quasi ininterrottamente dal 1991 al 2010. Da giovane comunista, modesto ed esemplare, è diventato un turbo-nazionalista, poi un guerrafondaio. Il governo guidato da Djukanović è considerato responsabile dei crimini di guerra. Poi Milo si è trasformato in feroce oppositore al suo mentore, l’ex presidente serbo Slobodan Milošević, e infine è diventato il padre dell’indipendenza montenegrina. La longevità della sua carriera politica si potrebbe paragonare, solo a quella dei mogol comunisti, come il presidente dell’Uzbekistan Karimov, oppure del Kazakistan, Nazarbayev.

Ma la carriera più importante Djukanović l’ha fatta in modo “sconosciuto e misterioso”, come pure la sua ricchezza. La famosa rivista americana, Forbes, ha inserito Milo Djukanović nell’elenco dei politici più ricchi del mondo. Possiede ben 10 milioni di euro ma, come rileva lo stesso periodico, “sembra evidente che egli è in realtà molto più ricco, perché proprietario di immobili gestiti da una ristrettissima cerchia di collaboratori”.
La famiglia Djukanović, tra l’altro, controlla la Prva Banka del Montenegro. La maggior parte del denaro qui depositato, secondo l’autorevole società di revisione “Pricewaterhouse”, proviene da fondi pubblici, mentre due terzi dei prestiti assunti è andato ai Djukanović e ai loro stretti collaboratori.

In Montenegro si crede che i primi milioni Djukanovic se li sia guadagnati durante la guerra infrangendo le sanzioni imposte alla Serbia e al Montenegro, con l’importazione di petrolio e di armi. In seguito ha allargato il suo business con il contrabbando di sigarette americane in Europa. La procura di Bari ha indagato per diversi anni Djukanović e la sua famiglia per il coinvolgimento in questo traffico, ma il leader massimo si è salvato grazie all’immunità diplomatica.
Il direttore del settimanale di Podgorica “Monitor”, Esad Kocan, sostiene che la guerra degli anni Novanta ha generato una nuova classe capitalista in Montenegro basata sul sangue e sul saccheggio.

Infatti, l’autorevole rivista americana, “Foreign Affairs”, di recente ha descritto il Montenegro come uno “Stato mafioso”. Secondo la rivista, a differenza degli stati normali, gli stati mafiosi non solo si affidano occasionalmente a gruppi criminali per avanzare particolari obiettivi di politica estera. In uno stato mafioso gli alti funzionari del governo diventano effettivamente i protagonisti se non i capi stessi delle imprese criminali; la difesa e la promozione di quelle imprese diventa la priorità ufficiale dello stato. Negli stati mafiosi l’interesse nazionale e gli interessi della criminalità organizzata sono ormai inestricabilmente intrecciati, scrive la rivista.
Quando la prestigiosa BBC ha definito il Montenegro uno stato mafioso, l’ambasciatore montenegrino a Londra ha protestato ufficialmente, ma i dirigenti della BBC hanno rifiutato di scusarsi o ritirare la definizione, dicendo che l’etichetta ci stava.

“Come si fa a dire che non siamo uno stato mafioso se abbiamo un ex primo ministro/ ex presidente accusato di contrabbando, e che tra i suoi migliori amici ci sono dei mafiosi”, si domanda l’editore della rivista indipendente locale “Monitor”, Milka Tadić.
Il collega del quotidiano “Vijesti” di Podgorica, Balša Brković, spiega come mai i rapporti con la mafia e i vari scandali di corruzione, che accompagnano ormai da vent’anni Milo Djukanović, non abbiano rovinato la sua carriera politica: “Una gran parte dei montenegrini ammira i ladri e i criminali. Per secoli la rapina è stata la principale imprenditoria nazionale e Milo si adatta bene in questa verticale storica”, dice Balša Brković.

Oggi, a soli cinquant’anni, Milo Djukanović non ci pensa proprio di ritirarsi. “Non ho ancora deciso se farò il primo ministro, o il presidente dello Stato”, dichiara Milo Djukanović dopo l’ultima vittoria elettorale del suo partito.

Su “Antiprodigi e passi falsi” (Transeuropa, 2011) di Gilda Policastro

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di Paolo Godani

I prodigi contro cui si scaglia la poesia di Gilda Policastro non sono semplicemente gli eventi insoliti o “contro natura”, miracoli/mostri con cui tradizionalmente li si confonde, ma sono i segni di un radioso futuro, di un’età dell’oro a venire. Fedele all’antiprogressismo leopardiano, la prima parola del titolo di questa silloge sembra assumere dunque una postura morale che contrasta vigorosamente le illusioni futuriste, volontariste del presente.

Omaggio a Chris Marker in Camera Verde (Roma)

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C’è il tempo e la memoria e i ricordi. C’è il cinema e la realtà. Godard dentro Histoire du Cinèma indica bene il percorso da riflettere, da qui possiamo passare e trovare il KinoMarker, possiamo ritrovare i ricordi e pensarli, ritrovare le memorie e stamparle. Trovare il No Trepassing e oltrepassarlo. Scoprire di avere tempo, il tempo di riabbracciare il viaggio e trovarsi allo stesso molo d’imbarco, come in una fotografia antica che riporta indietro il fotogramma e la sua storia. (Leggi il programma)

Sebbene l’inverno

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di Mirfet Piccolo 

In ufficio hai detto che non saresti stato reperibile per tutta la giornata; sei un capetto che ha accumulato due anni di ferie e non devi spiegazioni. Dalla tua casella di posta un messaggio automatico avvisa che sei fuori ufficio e dispensa gli indirizzi di chi contattare: per problemi di stock lending; per problemi di Express II – RRG; per trasferimenti titoli. Hai omesso la data del tuo rientro, e nessuno ti ha fatto domande.

Nell’ascensore dell’ospedale non hai osato specchiarti: hai avuto vergogna di leggere nel tuo viso riflesso il verdetto clinico della tua stessa paura. In un tentativo magro di guardare oltre, con le braccia tese lungo i fianchi e gli occhi immobili sulla porta della cassa metallica che ti stava riportando al piano zero, hai pensato che, dopotutto, eri fortunato: in ascensore eri solo e quindi nessuno avrebbe visto attraverso la tua pelle, e capito, come se quella temporanea e del tutto casuale inesistenza umana potesse fare la differenza. Ma quando le porte del cubicolo si sono aperte davanti a te c’era una folla di persone, e in quella folla hai rivisto la fotografia retroilluminata di quel male che fa di te un caso raro alla scienza: un grumo disarmonico pronto ad avanzare e a ostruire lo scorrere della tua vita.

Fuori faceva caldo sebbene l’inverno fosse una certezza da calendario (al bollettino meteo, quella mattina alla radio, avevano parlato di un’insolita perturbazione d’Africa e tu, mentre in piedi bevevi il tuo caffè nero senza zucchero, nella tua mente solida avevi registrato l’informazione come un dato che avrebbe influenzato i mercati). Ti sei messo in coda per pagare il parcheggio: un Euro per due ore di sosta; la donna in fila davanti a te era giovane, aveva i capelli ricci e gremiti come un vitigno raboso e un profumo schietto di polpa agra. In coda, hai pensato che anche lì e in quel momento, con la tua paura incastrata tra le parole stampate sul foglio A4 di una diagnosi definitiva, avresti potuto mettere in pratica una nuova variante della tecnica seduttoria che ti ha sempre contraddistinto tra le tue frequentazioni dell’aperitivo metropolitano. Perché nel tuo smart-phone hai diviso le tue conoscenze in gruppi di appartenenza: ci sono quelle del campo di squash (giovedì), quelle dell’aperitivo (mercoledì e venerdì), e ci sono i colleghi tuoi pari e i colleghi superiori e di rango inferiore. Per le donne hai creato due sottocategorie: donne spritz e donne affrante. Sei sempre stato un uomo molto deciso. L’unica persona che non sei riuscita a catalogare è Claudio: il tuo migliore cosa? dai tempi del liceo. Solo lui, con la sua goffa semplicità e poche pretese, è in grado di farti dubitare, anche se questo non glielo hai mai detto e fai fatica ad ammetterlo pure a te stesso.

La coda, al parcheggio dell’ospedale, era lenta. Hai abbassato lo sguardo sulla mano sinistra della donna: le donne sposate ti hanno sempre eccitato (tranne tua madre, s’intende), sin da quando eri alto poco più di un metro e cinquanta e dal tuo banco cercavi uno spiraglio visivo tra le cosce pingui e umide della tua insegnante di scienze.
Persino il giorno delle nozze di Claudio, il tuo amico?, e Rachele, hai guardato la giovane sposa con occhi diversi, soprattutto quando, in un angolo buio di quel castello nuziale costato un’ipoteca sulla casa genitoriale, l’hai vista in lacrime e con la lingua disperata nella bocca di un’altra donna. Da quella tribuna d’onore, con una bevuta d’un fiato dal tuo calice sempre nuovamente colmo, hai deciso che sarebbe stato meglio – comodo e salutare, sensato e godereccio – rimuovere dalla scena appena vista le lacrime, e sei tornato al tavolo del tuo amico? e gli hai tirato una pacca sulla spalla e dalla tua bocca sono uscite parole di virile invidia.
La donna raboso se ne ha data ed è giunto il tuo momento di pagare. Hai nutrito la macchinetta del parcheggio con due monete da cinquanta centesimi e una moneta da un Euro, e ti sei chiesto se, visto il tuo personalissimo conto finale, valesse la pena mettersi in coda dietro speranze e attese litaniche e opache come un rosario di plastica da sgranare.

Con la ricevuta del parcheggio in mano sei andato verso la tua Audi A4, e hai pensato a ciò che non avresti voluto pensare, cioè a qualche notte prima quando tu, ancora convinto di possedere un corpo incapace di tradirti, hai detto a Monica che l’amore è essere liberi insieme, e hai ignorato col giusto garbo il tonfo gelato del suo cuore contro il tuo petto nudo e levigato con minuzia bisettimanale. Non hai detto a nessuno, neppure al tuo amico? che per un attimo hai avuto il sospetto quel tonfo potesse essere il tuo. E a volere dirla tutta, ti sei ben guardato dal dire che Monica non ci sarebbe più stata e che in fondo non eri stato tu a decidere.

Hai acceso il motore. Nell’autoradio hai infilato il cd dei Rage Against the Machine e hai chiuso bene i finestrini nonostante quell’insolita estate invernale che sarebbe stata ricordata per decenni, e, per tutta la strada dall’ospedale al tuo appartamento al nono piano di uno stabile metropolitano d’avanguardia, hai urlato le parole delle canzoni come al mercato urla chi vuole vendere al miglior prezzo, pur non sapendo per chi, esattamente, il prezzo sia il migliore, se per chi vende o per chi compra.

Hai aperto la porta di casa e ti sei fermato sulla soglia ad aspettare il suono di voci o passi di qualcuno felice di riaverti a casa – finalmente sei tornano, com’è andata la giornata -, ma hai trovato solo dei fantasmi senza testa.

Ti sei sfilato la giacca madida e pesante del tuo sudore caldo, e con in mano la giacca madida e pesante sei andato in soggiorno. E nel soggiorno bianco, seduto sul divino bianco e circondato da pareti bianche e mobili bianchi di gran design, hai tirato fuori dalla tasca della giacca quel programma fatto a tua misura, un elenco di colorate e compatte illusioni da ingoiare ogni ora; ti hanno detto che il dolore sì che si può ammutolire, ma tu sai che sarebbe solo una verità truccata.
Hai posato il foglio sul tavolino bianco laccato e fissato lo schermo nero del tuo nuovo televisore 55 pollici 3D Led con Bluetooth sync, navigazione internet e full web browser. Per prendere tempo, hai ingoiato saliva; per non pensare troppo in fretta, hai inspirato ed espirato lentamente dal naso e hai scrocchiato le dita delle tue mani una ad una.

Hai acceso il tuo smart-phone. Nella rubrica del telefono hai aperto la cartellina riservata alle tue donne da catalogo sperando di afferrare in uno di quei nomi senza volto un tuo sussulto d’affezione. Alla emme di Monica hai sfiorato con il dito l’icona standard, e d’un tratto hai dubitato di ricordare il colore dei suoi occhi e non hai premuto. Nelle cartelle ‘squash’ e ‘ape’ hai cercato nomi e voci familiari, ma hai trovato solo immagini vuote e numeri buoni, forse, per esser giocati al lotto se tu non fossi convinto che la fortuna esista solo nella forma e consistenza di oppio dei poveri. E tu sei sempre stato un uomo di sana e robusta costituzione, al netto di qualche occasionale striscia della cocaina più onesta sulla piazza.

Hai chiamato il numero del tuo amico? Il telefono ha suonato libero a lungo e hai pensato di riattaccare. Poi dall’altra parte hai sentito la sua voce e hai ingoiato in fretta la paura. Col tuo solito tono spavaldo – soffocando ogni cosa, ogni parola più vera, annientando l’odore sterilizzato di camici e di farmaci e palliativi alla morfina, oscurando il freddo stetoscopio e le mani esperte che quel giorno avevano stimato con avidità scientifica le fattezze di quella rarità nel tuo corpo – gli ha detto, ciao vecchio che si fa stasera. Il tuo amico? ti ha risposto, non posso stasera Rachele non sta bene forse per via del caldo anomalo. E tu gli hai detto, sei il solito stronzo, e lui non sapeva, ma tu sì, che quello sarebbe stato il tuo miglior saluto.

Hai spento il cellulare e sei andato in cucina. Dal frigorifero hai tirato fuori un cartone di latte e l’odore acido era anch’esso un verdetto. Nel lavandino in granito nero della tua cucina con mobili in legno massello, hai gettato il denso liquido bianco striato di un sangue giallo, e hai ripensato a tua madre e al latte che da bambino ti versava freddo nella tazza ogni mattina e che prima di sera ti avrebbe rinfacciato come se ogni goccia di quel latte fosse zampillata da un taglio feroce del suo stesso clitoride. Quando è morta non hai sentito la sua mancanza.
Dalla dispensa hai preso uno dei cartoni del latte a lunga conservazione che ogni mese compri al centro commerciale a pacchi di venti unità. Hai tagliato l’angolo di cartone e versato il latte in un bicchiere lungo e lo hai bevuto a piccoli sorsi sfogliando una copia del Sole 24 Ore vecchia di un giorno. Quando hai finito di bere, hai messo il cartone in frigo dimenticandoti, ancora una volta, di comprimere e ripiegare verso il basso l’angolo mozzato.

Sei tornato in soggiorno e hai guardato fuori dalla finestra. Il sole era ancora acceso e c’era troppa gente. Un via vai di donne e uomini, e una scolaresca con la maestra che richiamava l’ordine delle coppie della fila. Hai visto una donna secca con la minigonna leopardata che puntava l’indice in rimprovero davanti al muso del suo cane senza pelo; non sei riuscito a vederle il viso, ma hai avuto la sensazione che fosse vecchia, sgualcita.

Ti sei allontanato dalla finestra. In camera da letto, con nove ore di anticipo, hai iniziato a preparare la borsa di squash ma poi, senza chiudere la cerniera, l’hai lasciata scivolare ai piedi del letto.
Ti sei spogliato e hai guardato il tuo corpo riflesso nello specchio dell’armadio curandoti di non alzare lo sguardo sui tuoi occhi. In uno sforzo d’immaginazione, hai cercato di osservare quel corpo come se non fosse stato il tuo per vederlo ancora sano e fedele alla volontà umana, ed hai fallito.
In mutande e maglietta ti sei disteso sul copriletto e hai chiuso gli occhi. Ti sei voltato sul fianco sinistro e hai sollevato le ginocchia al petto e portato i pugni chiusi davanti alla bocca. Avresti voluto piangere ma non ci sei riuscito: un insuccesso per il quale per anni ti sei quotidianamente esercitato.
Non avevi sonno ma ti sei addormentato lo stesso, e hai sognato di perdere un braccio, poi l’altro, poi il naso e la lingua: strozzati dal sangue striato di giallo cascavano ai tuoi piedi come a chiederti pietà.

Quando ti sei svegliato era buio e ti sei alzato dal letto. Hai aspettato di sentire una voce, anche un fantasma senza testa sarebbe andato benissimo – hai fatto solo un brutto sogno, torna a letto che ti porto un bicchiere d’acqua –, ma hai sorriso al nulla.

Sei andato in soggiorno e non hai acceso la luce. La strada era vuota e il marciapiede dormiva ancora, e tu hai aperto la finestra e sei scomparso in un attimo leggero come una lucciola all’alba di un giorno di vera estate.

 

Have Fun! Pagine culturali a confronto

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  di Francesca Matteoni

 

Sulle pagine culturali del quotidiano inglese The Guardian esce in data 3 novembre un articolo che elenca i dieci ipotetici libri più difficili da leggere. Il sottotitolo è così traducibile:

Immergiti in queste opere impegnative e ne trarrai beneficio.

Tra gli autori, scrittori e filosofi, i più noti Joyce, Spinoza, Will Self, Marx, ma anche un misconosciuto libro sperimentale, scritto da B. S. Johnson, morto suicida nel 1973.  L’opera, The Unfortunates del 1969, viene pubblicata come una serie di fogli sciolti dentro una scatola – il lettore ha il compito e la libertà di assemblare il testo come crede, nei confini dati del primo “First” e ultimo “Last” capitolo.

Sfortunatamente la lista attira anche i sempre ricettivi giornalisti italiani. Così esce sul Corriere della Sera a firma Paolo Di Stefano un articolo che, riprendendo l’iniziativa britannica, ma dimostrando poca dimestichezza perfino con il traduttore di google, ne manipola e distorce il senso, con un titolo tragico, disfattista e un po’ melò:

I dieci libri impossibili da finire.

Seguono le scelte e le motivazioni del buon Di Stefano.

Like a Stoner

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I libri sono un’espressione dell’atletica, si costruiscono sulle distanze, sulla qualità del respiro, la dose di muscoli e mentale. Ci sono libri che come in certe gare non riescono a tagliare il traguardo nei modi e nei tempi che si erano immaginati. Partenza troppo sicura e passo incerto nel mezzo della gara. Altre volte la gare sono qualcosa che sfiora la perfezione. I piedi dell’atleta, dello scrittore, del lettore sembrano staccati da terra e allora nulla sembra trattenere l’involata. Stoner, di John E. Williams è magistrale per due ragioni. La prima, per il modo in cui si pone ad una equa distanza dall’esistenza minima dei personaggi e dalla potenza dei temi trattati e delle loro aspirazioni, la seconda perché davvero vivi sulla tua pelle quello che in loro pare inciso nell’anima, fino a farla sanguinare. effeffe Qui di seguito la bella recensione che ne ha fatto Domenico Calcaterra per noi.

Domenico Calcaterra scrive di

John E. Williams
Stoner
(con una postfazione di Peter Cameron)
Roma
Fazi
2012
ISBN 978-88-6411236-7

Non nascondo tutta la mia diffidenza, verso i presunti casi letterari d’oltreoceano. Sfiducia che m’induce ad autoimpormi di limitare al massimo, quasi fosse una regola, sconfinamenti e trasferte. Ma devo dire che per lo Stoner di John Williams (Fazi, 2012), la sfiducia e il pregiudizio si sono da subito mutati in inattesa scoperta. A due anni dalla pubblicazione in Italia del suo libro senz’altro più famoso e celebrato, Augustus. Il romanzo dell’imperatore (Castelvecchi, 2010), a metà tra biografia romanzata e romanzo storico, Fazi fa centro traducendo il terzo romanzo di questo scrittore texano, uscito per la prima volta senza troppi clamori nel 1965, e divenuto più di recente un fenomeno grazie al recupero in patria con la ristampa fatta dalla New York Review Book nel 2003. Ma che cos’è a donare la straordinaria attualità di un classico al romanzo di Williams? La storia è tra le più convenzionali: il racconto d’una esistenza del tutto normale e incolore o, se vogliamo, del suo inesorabile fallimento. Di origini umili e contadine, Stoner trova l’emancipazione (?) nello studio della letteratura al college e nella scoperta possibilità di una carriera che lo porterà a svolgere con onestà e passione, per oltre quarant’anni, la professione accademica alla Columbia University.

Avvolta in una cappa di mediocre inettitudine, la sua vita è per lo più fatta di sconfitte: la perdita dell’amicizia, un matrimonio già fallito in partenza, una figlia adoratissima ma come lui destinata a perdersi, la tardiva scoperta d’una genuina fedeltà all’insegnamento e i dissapori connessi all’ambiente universitario, la rinuncia al solo vero amore della sua vita. Il massimo che gli è dato di cogliere sono l’insistito pressare di talune fondamentali domande (che a lui sembrano porsi innanzi con più impersonale forza) e l’affinarsi d’un nichilistico sentire che fa tutt’uno con il dissolversi dell’illusione di essere vero artefice del proprio destino. Ecco che la vicenda di Stoner, la sua cronica incapacità, inchioda per quel riuscire davvero esemplare, simile a un prisma capace di riflettere insoddisfazioni e frustrazioni della vita di everyman; a erodere quella certa dose d’imperdonabile disonestà verso se stessi. Infatti, come non scorgere nella monotona esistenza di Stoner una molecola della nostra inadeguatezza, un’oncia del nostro disagio di stare al mondo?

«Aveva concepito la saggezza e al termine di quei lunghi anni aveva trovato l’ignoranza» – basterebbe questo passaggio per convincersi di essere dinanzi alla cronaca minuta d’una totalizzante resa. Ma siamo sicuri si tratti solamente di un’inerme certificazione nichilista? Se così fosse ben altri autori si potrebbero chiamare in causa e meglio, certamente, gioverebbero allo scopo. Se non si è ancora detto tutto, che libro è, dunque, questo di Williams? Accanto all’esperienza del nulla, a brillare come non meno autentica rivelazione (distillata nelle pieghe del racconto) sta la scoperta dell’amore, da lui offerto a ogni svolta della vita, e la cui sostanza poteva sintetizzarsi, semplicemente, in un «Guarda! Sono vivo!». E non è un caso che l’unico scampolo di felicità concesso nell’esistenza di Will Stoner sia proprio la relazione extraconiugale con la giovane e talentuosa allieva Katherine Driscoll, non per il rifugio che la storia d’amore in sé poteva offrire alla sua conclamata condizione d’infelicità, ma per quel barlume di verità che gli permette, in concreto, di conoscere e sperimentare di e su se stesso. Un amore che scopre come «parte del divenire umano», «condizione inventata e modificata momento per momento», dal guizzo della volontà, dell’intelligenza, del cuore. Sarà l’accarezzare nuovamente, sull’orlo d’un inconsolabile rimpianto, questo speciale e compiuto sentimento d’amore, avvertito come piena consapevolezza dello stare al mondo, forma suprema di conoscenza, a fargli rifiutare l’idea di salvarsi.

Con una scrittura di rara eleganza e misura, di profonda penetrazione psicologica, capace di cesellare sequenze memorabili come quelle dedicate all’idillio amoroso, o ancora e più quelle finali sull’appressarsi della morte del protagonista, John Williams con Stoner ci consegna uno straordinario e singolare romanzo d’amore tout court.

Un convegno su Caproni, a cento anni dalla nascita

1

Tema con variazioni

Lingua, stile, figure di Giorgio Caproni (1912-1990)

Convegno di Studi

13-14 novembre 2012

Università di Milano-Bicocca
Sala Auditorium – Edificio U12
via Vizzola 5, Milano

Blaterare sagacemente: un itinerario attraverso il “Faldone”

2

di Andrea Inglese

Vincenzo Ostuni si nutre di varie e ben assimilate eredità del nostro Novecento. In questo, come in altri casi, risulta quindi poco utile un inventario, redatto con lente filologica, delle varie influenze in gioco nella sua scrittura. Mi sembra, però, che dei maestri di cui si trova traccia nel suo Faldone, uno almeno meriti una particolare menzione. Alludo a Edoardo Sanguineti, di cui il Faldone sembra aver elaborato alcuni tratti della potente macchina versificatoria.

Ode al padre

6

di Andrea Carraro

Sì dev’essere cominciato tutto quando
Hai iniziato a scrivere e riscrivere il suo nome
Nel diario della scuola e sulla carta
Rifacevi la firma per il libretto di giustificazioni
E lo ripetevi di continuo quel gioco
Mezzo furbo mezzo proibito
Che svolgevi già pregustando la sega
Che avresti fatto a scuola

Peter Mountford e lo strano caso della traduzione pirata del suo primo romanzo per il mercato nero di e-book in Russia

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di Silvia Pareschi


Quando pubblicò il suo primo romanzo, nell’aprile del 2011, Peter Mountford non immaginava che il titolo avrebbe assunto un carattere ironicamente profetico. Dopo l’uscita di A Young Man’s Guide to Late Capitalism – incentrato sulle rocambolesche avventure di un analista di hedge fund inviato in Bolivia per indagare sul nuovo presidente Evo Morales e sul suo piano di nazionalizzazione dell’industria del petrolio – Mountford fece quello che fanno tutti gli scrittori: cominciò a seguirne le vicende. Attivò Google Alert e rimase a guardare mentre il suo libro veniva letto e recensito, all’inizio spesso e poi, inevitabilmente, sempre più di rado. Così comincia la storia raccontata da Mountford nell’articolo pubblicato sul numero di novembre della rivista The Atlantic: Steal My book! Why I’m abetting a rogue translation of my novel (“Ruba il mio libro! Perché sto collaborando alla traduzione pirata del mio romanzo”).

Un giorno del marzo scorso, Mountford notò che Google Alert lo indirizzava con una certa frequenza a WordReference.com, un forum linguistico internazionale. Un utente del forum, che si faceva chiamare AlexanderIII e scriveva da Mosca, chiedeva aiuto per comprendere alcune scelte di vocabolario dell’autore. Mountford immaginò che si trattasse di un lettore che non conosceva a fondo l’inglese ma voleva capire la storia in ogni minimo particolare. Finché, qualche giorno dopo, non s’imbatté in un messaggio di un altro utente, DocPenfro, il quale consigliava ad AlexanderIII di godersi il libro senza preoccuparsi troppo dei dettagli. “Mi piacerebbe, DocPenfro, ma lo sto traducendo per una casa editrice, e voglio essere sicuro di non sbagliare”, fu la risposta di AlexanderIII.

Dopo un iniziale momento di esaltazione (“Holy crap [espressione che gli utenti italiani di WordReference.com traducono con “cazzarola”], il mio libro verrà pubblicato in Russia!”), Mountford si ricordò che nessun editore russo aveva acquistato i diritti, e perciò AlexanderIII doveva senz’altro essere un rogue translator, un “traduttore pirata”. E neppure tanto bravo, a quanto pareva. Malgrado la dedizione rivelata dalla grande quantità di domande che rivolgeva, AlexanderIII non sembrava un traduttore particolarmente dotato. A un certo punto, per esempio, si chiedeva cosa potesse significare l’espressione “white-liberal guilt”, ipotizzando una soluzione che trasformava il senso di colpa dei progressisti bianchi nel “senso di colpa per il consumo di sostanza bianca (cocaina)”. Dopo aver letto una discussione riguardante il metodo corretto per utilizzare il lucido da scarpe come sostanza intossicante, ed essendosi accorto che AlexanderIII stava per suggerire di berlo diluito anziché sniffarlo (come fanno nel libro i lustrabotas, i giovani lustrascarpe boliviani), Mountford fu sul punto di intervenire, ma un “ciberpedante” lo batté sul tempo.

Se negli Stati Uniti la pirateria dei libri digitali è un problema crescente, in Russia, come spiega Mountford nel suo articolo, esiste un robusto mercato nero per la letteratura (i russi, si sa, sono sempre stati lettori forti): il 90% degli e-book scaricati in Russia sono copie piratate. Secondo l’Agenzia Federale per la Stampa e i Mass Media della Federazione Russa, i cittadini di quel paese hanno accesso a più di 100.000 titoli piratati a fronte di soli 60.000 titoli legali, e il download illegale costa ai rivenditori diversi miliardi di rubli all’anno. Riflettendo su questi dati, Mountford cominciò suo malgrado a provare una certa simpatia per quel pubblico di lettori forti, anche se illeciti. “Negli Stati Uniti”, scrive, “si ha l’impressione che quasi nessuno si prenda la briga di creare e-book pirata, perché tanto poi chi li comprerebbe?” (In realtà, secondo uno studio condotto da Attributor, nel 2009 le perdite causate dal traffico illegale di e-book si aggiravano intorno ai 2.8 miliardi di dollari, e tra il 2009 e il 2010 ci sarebbe stato un aumento del 54% nella richiesta di e-book piratati. In Italia, secondo l’Associazione Italiana Editori, più del 70% dei titoli digitali si può scaricare gratuitamente; a fronte di 19mila e-book disponibili a fine 2011, nel febbraio 2012 circolavano circa 15mila titoli in versione pirata.)

Dopo aver passato alcuni mesi a seguire di nascosto il “rapimento” del suo libro, Mountford decise di contattare il rogue translator, al quale ormai si era un po’ affezionato. All’inizio di luglio mandò un messaggio privato ad AlexanderIII: Ho notato che fai molte domande sul libro che stai traducendo in russo. Come autore del romanzo sono la persona più qualificata per rispondere. Posso offrirti il mio aiuto?

Dopo un’iniziale esitazione, AlexanderIII rispose, accettando la proposta. E fu così che Mountford si ritrovò a collaborare con il ladro del suo libro. Come racconta in un’intervista al Guardian: “Quando mi resi conto di quello che stava succedendo, provai una sconcertante miscela di orgoglio e frustrazione. Mi avrebbero senz’altro fatto comodo i circa mille dollari che avrei ricavato dalla vendita dei diritti in Russia. Ma la realtà è che quei diritti non li avevo venduti. (…) È vero, la mancanza di un’offerta per il mio libro poteva in parte dipendere proprio dall’esistenza di un forte mercato nero degli e-book. Eppure mi faceva piacere che il mio libro venisse letto anche in Russia. È un po’ triste ammetterlo, ma come scrittori vogliamo essere letti e speriamo di venire pagati, e tuttavia le cose non vanno sempre così”.

L’articolo di Mountford, come prevedibile, ha suscitato un certo interesse nel mondo letterario. Per colmo dell’ironia, è stato anche tradotto in russo senza il permesso dell’autore. Tra i commentatori dell’articolo online c’è chi sostiene che il download illegale in Russia sia l’unico modo per potersi procurare prodotti di qualità a un prezzo accessibile, visto che il costo di quei prodotti non viene modificato per adattarlo alle economie di paesi meno ricchi. La storia di AlexanderIII dimostra che, almeno nel caso degli e-book tradotti, di tutto si può parlare tranne che di “prodotti di qualità”.

Ho conosciuto Peter Mountford mentre stava scrivendo A Young Man’s Guide to Late Capitalism, e in seguito ho avuto con lui qualche scambio di e-mail su alcune questioni riguardanti l’Italia e l’italiano. In questo caso, contrariamente a quanto sarebbe avvenuto con AlexanderIII e a quello che normalmente avviene nella mia attività di traduttrice, era lui, l’autore, che faceva domande a me. Nel suo libro, infatti, c’era un personaggio italiano che aveva frequentato l’università negli anni ’70, e Peter voleva sapere se fosse plausibile che avesse studiato letteratura italiana medievale per poi, l’anno successivo, passare a economia; un’altra domanda riguardava l’esistenza di una parola italiana che significasse l’esatto contrario di “lonely”, e un’altra ancora il nome di una bevanda alcolica a buon mercato che un alcolizzato italiano poteva bere negli anni ’50 e ’60 (lucido da scarpe diluito, avrebbe probabilmente risposto AlexanderIII).

Ho chiesto a Peter di raccontarmi qualcosa della sua corrispondenza con AlexanderIII. “Subito dopo che ci siamo messi in contatto ha cominciato a farmi centinaia di domande, molte di più di quelle che faceva su Wordreference.com. A un certo punto mi ha spiegato di essere un biologo, non un traduttore di professione. E in effetti la sua competenza sembrava piuttosto scarsa. Aveva problemi soprattutto con le metafore, perché sosteneva che i russi le usano in modo diverso. Una conversazione paragonata a una partita a scacchi gli risultava incomprensibile, perché, diceva, o si parla di scacchi o si parla di una conversazione, e una conversazione non può essere una partita a scacchi.” In effetti, leggendo anche solo un breve estratto della corrispondenza fra Peter e AlexanderIII, si comprende subito la difficoltà della situazione. A un certo punto AlexanderIII scrive: “Sono un po’ imbarazzato per la lunghezza di questa frase, è sei volte più lunga dell’originale. Però accorciala pure, se vuoi.”

I lettori russi di A Young Man’s Guide to Late Capitalism sono fortunati. Peter Mountford ha fatto il possibile, e senza alcun tornaconto, per salvare il proprio libro. Lo stesso non si può dire per i lettori di altri e-book scaricati gratuitamente dopo essere stati tradotti da rogue translators – ossia traduttori dilettanti pagati quattro soldi – come AlexanderIII. Il quale, a quanto pare, si è già rimesso al lavoro, questa volta su un libro di Dennis Lehane: Gone, Baby, Gone.

Spray in the garage: Alessandro Monfrini

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di Daniela Rosi

Alessandro Monfrini è nato a Mantova il 15.12.1980. Inizia a dipingere verso i 14 anni.

Seghe e saghe

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Una nota quasi stonata
di
Francesco Forlani

Da diverso tempo ci si interroga sul ruolo della critica letteraria in Italia. Sia sul versante nobile delle sue capacità esegetiche dei testi che su quello più biecamente commerciale. Se da una parte, in molti, pensiamo che la buona critica sia sempre dalla parte della buona letteratura dall’altra ci si rende conto che sempre meno, così è in Italia, la stessa entra in risonanza con i lettori almeno fino al punto di spingerli a comprare e, si spera, leggere il romanzo che si è giudicato meritevole. Il discorso di certo non vale per i lettori forti, a loro modo anche critici e sicuramente in grado di orientare il passo di altri lettori in quella giungla complessa che è il paesaggio letterario. E allora la domanda da porsi a questo punto è: di chi si fida il lettore? Sempre che ancora si fidi delle terze pagine dei quotidiani che, va detto, poco possono rispetto ai potenti mezzi della televisione, quelli sì in grado di tradurre un passaggio di pochi minuti in una trasmissione di successo in migliaia di copie vendiute. Così mi sono fatto un’idea. In questa guerra delle letterature e dei letterati, e si smetta di parlare di guerra fra poveri visto che le guerre da che mondo è mondo vengono sempre combattute dai poveri, la critica letteraria somiglia un poco ai servizi segreti. In pratica si comportano con raffinate tecniche di spionaggio e controspionaggio, fanno credere una cosa e immediatamente dopo, l’esatto contrario. Può capitare per esempio che un critico come Andrea Cortellessa in grado di analisi testuali assolutamente mirabolanti e condivisibili quando poi indica le strade maestre mi trovi raramente d’accordo, o che Antonio D’Orrico, un critico in grado di decretare il “successo” di un autore proponga ai lettori dei titoli che lasciano davvero basiti. Eppure, come dicevo, alla stregua di un ottimo agente del controspionaggio può capitare che l’uno, Cortellessa, ti porga nella bella libreria di Mesagne, lettera 22, un piccolo capolavoro Europeana, o il D’Orrico ti convinca a leggere Gaetano Cappelli definito dallo stesso, “il nuovo maestro (in prosa) della vecchia commedia all’italiana.”. A D’Orrico io ho dato retta stavolta, proprio perché non mi fido e così vi dico, cari lettori, non fidatevi nemmeno voi e correte a leggere un romanzo che vi farà viaggiare in lungo e in largo attraverso ogni vostra più recondita passione.
Ho chiesto a Marco Di Marco, editor alla Marsilio di mandarmi l’estratto che segue, in modo da offrirlo ai lettori di NI. E qui lo ringrazio. effeffe

da Romanzo irresistibile della mia vita vera raccontata fin quasi negli ultimi
e più straordinari sviluppi (Casa Editrice Marsilio)
di
Gaetano Cappelli

Eggià, a pensarci bene… così al mio corso di scrittura – eccone un’altra di faccende che proprio non sopporto e in cui, dopo la mia caduta in disgrazia, mi trovo invece invischiato e per quattro lire – quando qualcuno di quei disgraziati che vengono a vedermi sbadigliare, mentre inciampo tra un concetto e l’altro – ma cosa mai potrò insegnargli?, penso sospetti la gran parte dei presenti – uno di loro, facendosi coraggio, mi ha chiesto: «Maestro» – i più rispettosi e timidi mi concedono questo titolo – «ma come si capisce se si ha davvero il talento dello scrittore?», io improvvisamente ho preso vita, mi sono risollevato con un ampio respiro dalla scrivania, e ridacchiando gli ho chiesto: «Senti ma tu da ragazzino, sempre che ora abbia smesso, come te le tiravi le seghe?» La classe anche si è rianimata: eccola finalmente di nuovo la zampata del leone; eccolo lo scrittore talmente fuori dal coro da perdere il Nobel pur ampiamente meritandoselo. Il tizio è arrossito – l’ho detto: è un timido. Ha chiesto anche più che da timido, da vero minchione: «In che senso Maestro? Che vuole sapere ehm… se con le mani… o cosa?»

Adesso il resto degli aspiranti scrittori stava proprio sbellicandosi dalle risate. Perfino il tipo che ogni tanto si fa vivo rimanendosene all’ultimo posto, impettito nei suoi completi, penso di Caraceni, a giudicare, più che dallo sfarzo dei tessuti, dall’importanza della spalla.
«No no, voglio dire» ho ripreso io, «durante l’atto avevi in mente un’immagine fissa, chessò una foto, un corpo nudo, due gambe accavallate o elaboravi una sceneggiatura?»
«Ah, capisco…»
Non è il solo. L’intera classe ha capito. Ma io la spiego lo stesso, la faccenda – bisogna pure che questa stramaledetta ora, in qualche modo, passi.
«Allora» continuo, «sega a immagine fissa: diciamo che è assai difficile che poi uno diventi scrittore, anche se non proprio impossibile» tocca non scoraggiarli del tutto prima che il corso finisca.
«Con sceneggiatura: in questo caso il talento, nella maggior parte, è addirittura misurabile in rapporto alla complessità del copione» e il mio talento con quel metro, questo lo penso ma non lo dico, be’, era grande; anzi grandissimo. Infatti nonostante zia Irma a quel punto – il punto del pellegrinaggio a Pompei – si fosse ormai sposata e fosse andata a vivere col marito in un’altra casa, continuava a restare nella mia testa l’imperturbabile ispiratrice delle più fantasiose ardenti pippe – ora era ai miei piedi che, insoddisfatta dal marito, mi pregava: «Giulìè dammelo, ti prego, dammelo!»; ora ero io a implorare lei che, assente il coniuge causa viaggio di lavoro, mi si concedesse per un ultimo infuocato amplesso a conclusione del quale, proprio come nel famoso film con Lisa Gastoni – di cui vivendo nel posto fuori dal mondo in cui vivevo avevo potuto solo vedere la meravigliosa locandina su un giornale – le sussurravo: «Grazie zia!» Solo che nel film Lisa Gastoni era la zia acquisita del protagonista. Zia Irma invece era mia zia carnale e cedere ai miei cattivi pensieri implicava ben due peccati mortali; e uno assai più mortale dell’altro dal momento che a masturbarsi pensando a lei – dico: la-sorella-di-mia-madre – si poteva ben parlare d’incesto: e c’è forse qualcosa di più peccaminoso, di più perverso?
Sebbene avessi preso a mettere in discussione l’esistenza stessa del Padreterno, non m’ero ancora liberato dal timore della sua vendetta – ammesso che ci si riesca mai del tutto – per cui mi dicevo: “Se fai peccato moriranno i tuoi genitori, moriranno le tue sorelle” – oddio, quelle erano così tante che magari una piccola sfoltitina – “né, peccando, sarai promosso, né soprattutto diventerai un pianista famoso come Arturo Benedetti Michelangeli e quindi…”
Quindi, ogni volta, dopo esser caduto in peccato iniziavo a sentirmi talmente oppresso da quel peso che sarei corso dritto dritto in chiesa a mondarmi dalla mie colpe, ma il problema era che don Liborio non è che si contentava della confessione semplice dei miei atti impuri. No, il maledetto, voleva anche i particolari, e a chi pensi e come ci pensi – era più porco di me insomma e io, io potevo mai raccontargli di zia Irma, proprio a lui che, essendo parente di mia madre, lo era anche di zia?

Sì, quella mattina a Pompei me l’ero invece finalmente tolto quel grosso, immane peso e potevo ora godermi la mia sospirata vacanza. Una vacanza al mare, poi: ecchì ci andava al mare allora, in quegli anni, in un paesino dell’Appennino meridionale? Così, uscendo dalla chiesa nell’aria tersa di quella meravigliosa giornata di sole, ebbi come il presentimento che un avvenire altrettanto meraviglioso mi attendesse: finalmente libero dalla torbida passione incestuosa avrei trovato l’amore, quello puro di una ragazza bellissima, abitante magari in Roma zona centro, visto che ci andavamo vicino, la quale guardandomi intensamente negli occhi mi avrebbe rapito il cuore – in effetti, qualcosa di simile sarebbe presto successo; una volta al mare almeno, perché usciti dal santuario venni sì rapito, ma di nuovo dalla Santa Madre di Dio. Fu deciso infatti – sempre e come questa volta potemmo davvero ascoltare, all’unisono dalle tre infaticabili sorelle – di far visita all’annesso museo degli ex voto a lei dedicati.
Una visita che, voglio dirlo, si rivelò faticosa ma anche strabiliante mentre davanti ai nostri occhi si dispiegava, insieme alla miriade di manine e braccini e gambette e pieducci e piccoli cuori e occhi di argento istoriato, tutt’intera la varietà delle sventure umane. Dalle avversità pastorali più modeste con dediche tipo:

Zucca Pasquale ringrazia assaie per la guariggione della vacca prediletta

a quelle più spaventevoli con carri di buoi imbizzarriti che si capovolgevano sul conducente o su piccole folle agresti o del ladro di angurie che, raggiunto agli zebedei da una fucilata, fissa atterrito il fiotto di sangue che ne scaturisce, dello stesso rosso scarlatto del frutto rubato frantumatosi a terra. Fiotti di sangue che, del resto, zampillavano con la veemenza del getto di una fontana da ogni altra parte del corpo e da ogni genere di ferite; da quelle inferte in terribili combattimenti all’arma bianca o da zuffe con inferocite tribù di negri cannibali o dagli artigli di leoni e infide tigri del Bengala – chi avrebbe mai immaginato che, nei paesi circostanti, ci fosse stata una tale schiera di indomiti esploratori con tanto di casco e sahariana! – tutto meticolosamente riprodotto in quel profluvio di miniature: immagini assai spesso appena degne della mano di un bambino, magari della stessa età di quello che, precipitando da un balcone sotto gli occhi disperati della mamma, veniva raccolto poi, incolume, nel velo celeste della Madonna; o si salvava dal pauroso incidente d’auto in cui dieci altri suoi amichetti perivano tritati tra le lamiere o ghermiti dalle fiamme. E fiamme ecco, un’infinità di fiamme che sembravano propagarsi da un ex voto all’altro attraverso le fabbriche e i caseggiati delle città di ogni continente, o dalle foreste e i campi di grano di ogni emisfero, o dai transatlantici ai magnifici velieri dispersi in ogni oceano, alcuni di loro tranciati in due dalle onde gigantesche di terribili tempeste – come “nell’immane tragedia del Conte Rosso” – sulla cui cresta le scialuppe già disseminavano manciate di naufraghi nell’acqua scura di nafta, pronti a essere abbrancati dai tentacoli di un’immensa piovra, o dalle livide acuminate dentature di mostruosi squali, mentre in alto, lì in un angolo, sospesa tra lingue vermiglie di fuoco, dense cortine di fumo e nubi procellose, appariva, come in una campana di purissimo cristallo di Rocca, la Santa Vergine Maria arrivata proprio in quel momento a salvare uno e uno solo tra quella torma brulicante di disperati; lo stesso che col suo ex voto – non di rado, in questi casi, un dipinto della potenza e della bellezza di un’antica leggenda marinara – avrebbe poi testimoniato, ce ne fosse stato bisogno, dell’inevitabile disparità nella sorte degli umani – altro che cazzi e studi e ricerche sull’inesistenza del destino!

Man mano che si andava avanti in quella galleria, perfino le mie garrule zie, che all’inizio salutavano ogni salvamento con urletti di mistico stupore, si zittirono e tutti noi, sopraffatti da quell’infinito catalogo di prodigi, ce ne restammo silenziosi, come fossimo immersi nella visione di una pellicola il cui regista, tagliando ogni inutile prologo, si fosse divertito a mettere insieme solo le scene madri di tutti i più terribili film del mondo. Finché non ci trovammo davanti invece quest’ultimo e grande quadro: un cielo con un’immensa nuvola a forma di balena che allagava di pioggia la campagna sottostante, cosparsa di case di cui si vedevano solo uno spicchio o un angolo di tetto, come fossero navigli d’una flotta colata a picco, tranne per la fattoria protetta dalla veste della Signora Celeste, nel cui cono d’ombra splendeva invece il sole e il cielo era azzurro, sereno, scintillante. La dedica diceva:

Case e podere di Ruminiello Amilcare miracolosamente sottratti alla catastrofica alluvione della Balena Volante in Vallo di Diano anno 1653.

«Capito la Madonna! Gli ha protetto il podere dalla Balena Volante», «E perché quello… quello che addirittura è caduto da un grattacielo senza farsi nu graffio!», «E quella signora di Milano che non poteva ave’ figli e grazie alla Madonna ne ha poi avuti dieci»: ripresero così a cianciare sull’uscita le tre sorelle. «Pregatela sempre alla Santa Vergine, anzi facciamoci n’altro bel rosario prima d’andà e chiediamoci una grazia in ginocchio che Ella non ci abbandona.»
Quando finalmente riuscimmo ad abbandonarla noi, la Madonna – non senza che perfino io, giacché c’ero, gliela chiedessi, una grazia, una cosa assai semplice intendiamoci, cioè la prima scopata, visto che a sentir le canzoni alla radio e i racconti dei più grandi, tutti, ma proprio tutti, al mare se la facevano – quando finalmente venimmo fuori da quel benedetto tempio, dicevo, mio zio Ilario, in qualità di maestro elementare assurto al ruolo di intellettuale di famiglia, pretese a sua volta la sosta doverosa agli scavi cosicché noi ragazzi apprendessimo della gloria passata “dei nostri antichi e nobili antenati”.
“Macché brutta stirpe avevano però generato” pensai guardando i turisti italici che, appena vomitati dai torpedoni, sciatti, grassi e sudati razzolavano tra quelle antiche vestigia – era la prima volta che vedevo tanti individui assieme, certo se si eccettuano le feste patronali al paese, ma lì conoscevo già tutti e non mi avevano mai così impressionato – “o è la razza umana, nel suo insieme e magari proprio dalla notte dei tempi, a essere brutta e volgare visto che i turisti stranieri erano, se possibile, pure peggio?” pensai pisciando dietro un’antica colonna essendo anche i cessi, per coerenza, appropriatamente ributtanti.

Dio ti ma

7

di
Francesco Forlani

Ho letto l’ultimo libro di Luisa Muraro, pubblicato da nottetempo, Dio è violent.

Su “Dal rumore bianco” di Mariano Bàino

1

di Andrea Inglese

Dal rumore bianco è la terza prova narrativa di Mariano Bàino, poeta della sperimentazione linguistica incessante, esordiente nella collana Tam Tam di Spatola, animatore con Cepollaro e Voce di “Baldus”, rivista-laboratorio del plurilinguismo e del post-moderno critico, autore di diversi libri di poesia, tra cui nel 2000 Pinocchio (moviole), un’efficacissima riscrittura in versi di Collodi.

Piccoli Maestri è diventata un’associazione culturale

2

(Ricevo questa buona notizia da Federico Cerminara, e la pubblico qui molto volentieri.)

La fotografia è di Rino Bianchi

Siamo lieti di comunicarvi la nascita dell’associazione culturale Piccoli Maestri, affiliata Endas. Il progetto, nato nel 2011 da un’idea di Elena Stancanelli, su ispirazione del lavoro di Dave Eggers in America (826 Valencia) e Nick Hornby a Londra (Il ministero delle storie), coinvolge un gruppo di scrittori che, mettendo a disposizione tempo e passione, legge e racconta un libro ai ragazzi delle scuole medie e superiori. All’iniziativa, di carattere totalmente gratuito, hanno già aderito numerose scuole e centri di aggregazione giovanile.

Con l’intento di rendere sempre più viva e solida la scuola di lettura dei Piccoli Maestri, abbiamo fondato l’omonima associazione culturale il cui consiglio direttivo è composto da Elena Stancanelli (presidente), Federico Cerminara (segretario), Vins Gallico, Chiara Mezzalama, Roberto Parpaglioni, Emiliano Sbaraglia, Emilia Zazza. Il ruolo del tesoriere è affidato a Rino Bianchi.

Stimolare la curiosità dei ragazzi e tenere vivo lamore per la lettura, questo è il nostro obbiettivo. Inizia un nuovo anno scolastico, e i Piccoli Maestri sono pronti. Carichi di libri e di buone intenzioni. L’elenco degli scrittori e delle scrittrici, abbinato ai libri che hanno proposto, è presente sul blog, a disposizione delle scuole che potranno invitarci presso le loro sedi.

 

Ulteriori informazioni e contatti:

rassegna stampa: http://piccolimaestri.wordpress.com/rassegna-stampa/

elenco libri: http://piccolimaestri.wordpress.com/piccoli-grandi-libri-2/

blog: http://piccolimaestri.wordpress.com/

mail: piccolimaestri.info@gmail.com

facebook: Piccoli Maestri – scuola di lettura per ragazzi

twitter: @piccolimaestri

Paysages

7

di

Francesco Forlani

 

Supplique feroviaria
June 17, 2012 at 6:29pm ·

Sto tran tran qui me strabuza li oci à luce à luce a noce à noce que la voz que te pare d’artri te sumiglia, t’encanta et s’alimente lo coeur par rollement de la vetura l’echange des regards figa quela figo quelo no pennient et se simula d’assonnarse pour un desìo de cullarse comme un bebè, un enfant, nu caruso, comme ça devant à tout le monde appustato A-B colli numeri de uno a centumila et alors que l’une apres l’autre se seguentan staziune de villes fameuses ou pennient piccerelle staziuncelle cum flores et faunas de barbun de sigarete accese sur le quais, se sbinaria lu tran tran et frina lorsque nu sibilo parait nu fisculo d’arbitro in miezz’o campe de ioco alors que financo lo controlor cambia d’acento de tono selon la region la ville lu village nu poco de stangheza te guadagna l’anema pe sta botta de vita de nomade genereuse ah la Boheme Boheme et puis el tran tran tout de subbète t’arridona el surriso la bocata d’oxygene comme si killo c’avive lassiat l’esta à nouveau de t’aspetarte à l’autre cap du monde du voyage et te strabuza li oci alors sta vida te fa sentrte vivo sta vida à luce à noce à noce que la voz que te pare d’artri te sumiglia, un peu

 

Dal libro “Il peso del Ciao”, casa editrice l’Arcolaio in uscita a dicembre 2012

Venti polpette

17

 (L’autore del divertente e surreale Polpette, uscito 2 anni fa per le edizioni Epika, ci regala 20 sue polpette inedite. Buon appetito. G.B.)

di Jacopo Masini

1) “Siediti” dissi a me stesso, “devo parlarti”.

2) Il bambino nacque d’inverno. L’infermiera lo prese in braccio e lo porse alla madre. La madre lo guardò, poi si rivolse al marito, inarcò e con aria preoccupata disse: “Caro, e se fosse Gesù Cristo?”

3) “Posso farmi una domanda?”
“Dimmi”
“Sai le risposte in anticipo perché siamo la stessa persona?”
“Sapevo che me l’avresti chiesto”.

4) Leone Bruschi diceva che lui e la moglie erano come due falene: attratti dalla stessa luce, divisi da una lampadina.

5) Vasco Zanlari si accorse all’improvviso, dopo aver sbattuto per caso con la fronte contro un muro, di essere ricoperto di glassa sin dalla nascita. Vide una crepa apririsi nella glassa e diramarsi sino al collo e poi giù sino ai piedi. Appena liberato, si sgranchì, avvicinò una signora e le chiese “Posso abbracciarla?”. “Faccia attenzione, però” disse la signora, “la mia glassa è ancora fresca”.

6) Tullio Bolla perse le idee una mattina di maggio che tutto gli sembrava chiarissimo. Le aveva con sé fino a un minuto prima, poi, proprio quando stava per estrarne una, niente, non le trovava. “Dovrei averne un mazzo di scorta a casa” pensò e fece per rientrare. Allora si accorse che non ricordava più dove abitava, cosa stesse per fare, nemmeno cosa pensasse di preciso. Ma c’era un sole bellissimo e il cielo era blu.

7) C’erano due che avevano la mania di scusarsi anche se non avevano fatto niente, “Perdonami, non volevo” diceva uno, “Ma va, non hai fatto niente, scusami tu piuttosto” diceva l’altro. E ancora “Non scherzare, sono io che devo scusarmi” e via di seguito, in una trafila inarrestabile di scuse a vuoto. Alla fine prendevano a sberle il primo passante che capitava loro a tiro, per sfogare tutta la tensione accumulata.

8) “Pensa se potessi fare cambio e mettere il cuore al posto del cervello e viceversa” gli disse una volta un suo amico, usando una metafora. Lui tornò a casa, si squarciò il petto e il cranio, e tutto imbrattato di sangue tentò l’esperimento. Passò un mese seduto sul divano a fare strani ragionamenti senza senso e nessun sentimento. Adesso lavora al circo, lo chiamano l’Uomo Sgambetto: entra in pista, dice due cose, si mette a piangere, si contraddice e poi passa un’ora a sgambettarsi da solo. Tutti ridono, ma lui no.

9) Luigi Raiola, una sera che stava guidando verso casa, a metà di una curva, pensò al giorno in cui avrebbero parlato di lui in sua assenza, cioè dopo la sua morte. E allora, quasi subito, gli venne in mente che anche lui parlava di gente che non c’era più. E gli parve stranissimo, proprio mentre rallentava, era quasi arrivato, che non si possa mai parlare della nostra assenza. Suonò al citofono e in casa non c’era nessuno. Solo lui, davanti al citofono, che suonava e suonava.

10) “Perché non c’eri quando avevo bisogno di te?” disse lei, “Guarda che ci siamo conosciuti la settimana scorsa” disse lui, “Ah, ecco” disse lei.

11) Il mondo finirà per colpa della signora Ines Barigazzi che si dimenticherà il gas aperto, secondo la profezia di Gianni Ferrarini, titolare del bar Gianni di viale Piacenza dal 1969.

12) “Ha gli occhi di suo padre” disse.
“Dici?” rispose.
“Sì, li tiene nel cassetto della scrivania”.

13) Un giorno è uscito, aveva una faccia un po’ così, un suo amico gli ha chiesto “Cos’hai?”. Lui si è incassato nelle spalle, ha detto “Ma niente, le orecchie”. “Nel senso che ti fanno male?” ha chiesto l’amico, “No, è che ho le orecchie”. Da quel momento lì, quando qualcuno gli chiedeva cosa aveva, lui diceva “Il naso”, oppure “Le mani” e tutti rimanevano perplessi. Però smettevano di chiedergli “Cos’hai?” e al contrario iniziavano a pensare che infondo anche loro avevano per esempio il naso ed era molto tempo che non ci pensavano.

14) Vincenzo Lozzi era il settimo di tre fratelli. Per tutta la vita ha dovuto dare delle spiegazioni a quelli che gli chiedevano come fosse possibile che mancassero tre fratelli per renderlo il settimo. Lui diceva sempre non sapeva darsi una spiegazione, ma che certamente doveva esserci, altrimenti non si capiva quel senso di mancanza che si portava dietro sin da piccolo, da quando giocava a nascondino e non riusciva mai a fare tana agli ultimi tre.

15) “Signora” disse “faccia attenzione con la credenza”. “E perché?”. “Ci vuole un attimo a riempirla di superstizione”.

16) “Sei la donna più bella che abbia mai visto” disse lui. “E’ tanto che non esci, vero?” disse lei.

17) “Lei ritiene che potremmo amarci moltissimo?”
“Ritengo che la prospettiva sarebbe allettante”
“La prospettiva è opera di Giotto”
“Amo molto anche Giotto”
“Limoniamo duro?”
“Durissimo.”

18) Una volta la Madonna è apparsa a Amos Barigazzi, ma lui stava ordinando una bottiglia di prosecco per gli amici, non l’ha riconosciuta e, amen, non ne ha parlato nessuno.

19) Fausto Torrazzi era famoso come profanatore di tombe vuote. Andava al cimitero, vedeva un avello vuoto, si infilava dentro e lanciava nell’aria una risata sinistra. Poi tornava a casa contento, e basta.

20) “Mi manchi”, disse lui.
“Ho una pessima mira”, disse lei.

 

Ingiuro che sì

11


di
Livio Borriello
(Frammenti dal suo nuovo sito che vi invito a visitare)

L’insulto deve tornare a essere quello che era, una forma protogiuridica di controllo sociale, un meccanismo ormonale e psicologico, in cui entrano in gioco il cortisolo e la dopamina, l’endorfina e l’ossitocina, le componenti fisiche e carnali del biasimo e della approvazione, della colpa, della punizione e del premio, finalizzato a regolare il comportamento sociale degli individui.

 

*

E’ che la sx attuale ha dimenticato la trasgressione, ha dimenticato l’esplosione di felicità del ’77 e della fantasia al potere, e è andata a strozzare la propria vitalità nell’imbuto del politically correct, si è andata sbiadendo nel grigiore del perbenismo politico. La stessa difesa dell’omosessualità, del trasgenderismo, della trasgressione erotica, viene vissuta non più come esplosione liberatoria e delirante della corporeità, come accesso all’assoluto del corpo, come colore interiore e spuma ormonale, ma come semplice e noiosa rivendicazione di un diritto civile. La trasgressione è psicologizzata, regolamentata, istituzionalizzata, e dunque non è più tale, poiché varcato il limite, si ritrova racchiusa e controllata da quello più subdolo della falsa tolleranza modernista, e diventa null’altro che una nuova tipologia di piacere, un nuovo prodotto di consumo. Simbolo triste ne è la calza a rete o i segni esteriori della femminilità simulati e ricostruiti del transessuale. In Bataille e nei situazionisti, come nelle culture alternative degli anni ’70, la trasgressione era altro, e era apparentata semmai a quella di Savonarola o Maddalena de’ Pazzi, un bisogno di trasgredire, travalicare e trascendere l’umano, di sconfinare oltre il limite, di annullare per l’istante brevissimo dell’infrazione, il senso del limite, la coscienza della morte, il peso della materia, propri della condizione umana.

 

Le origini. la storia della famiglia di Rio

questa è rio, l’otaria che pensa
questo otaria – secondo quanto certifica
il pensare del figlio di piero angela –
riesce a distinguere le lettere dai numeri,
e compie delle deduzioni. quindi pensa.

il nonno di rio, l’otaria pensante. non pensa.

tuttavia ha gettato le basi del pensare, riuscendo a mangiare aringhe di oltre 72,6 cm. queste aringhe così grandi, hanno creato una compressione a livello del canale otaricolo e del dotto aringospastico, e hanno costretto i neuroni ad evolversi in una struttura più complessa. è nata così la neuringa, il neurone-aringa, congegno cellulitico portentoso, nella cui composizione è presente un’alta percentuale di dio.
ecco infatti la composizione della neuringa, secondo uno studio del Massachutes and St. Gennar Otaric Neurology Institute: 40% acqua; 25% bicarbonato; 30% olio d’oliva; 27% acido glutotarico; 22% dio; 1% scapece. Come si vede, la somma delle percentuali dà il 144%, e questa è una caratteristica specifica della neuringa. Ecco cosa afferma il prof. Brain Water, a capo del dipartimento: The straordinar carachteristics of neuringa is that she is most of the his most…. so neuringa feels most what she feels. Probabilment, just this permit to neuringa of thinking. This is the true misterity of oggigiorn science.
chi volesse contribuire alla ricerca sulla neuringa, può inviare una donazione liberale a questo IBAN:IT42K0316501600000011184720, beneficiario livio borriello. i fondi saranno utilizzati al 50% in azioni blue-chip sull’aringa e padre pio, il resto ai poveri e alla costruzione di un faraonico acceleratore ittiostatico, che dopo un processo di bombardamento protonico e frittura, separerà dall’aringa la sua componente di acqua, la sostanza più misteriosa. per la prima volta sarà prodotta acqua a partire dalle aringhe (anzi, precisano gli scienziati, un’acqua con un leggero gusto di gazzosa molto gradevole), aprendo alla scienza orizzonti inimmaginabili.

la famiglia di rio, l’otaria che pensa, vive serenamente nelle isole ballestas.

ogni sera, i membri della famiglia si riuniscono davanti alla casa di zi’ carmeledda, l’otaria archeo-pensante, e commentano i programmi alla tv. il sogno di zi’carmeledda è partecipare al programma di carlo conti Tale e quale, di cui è molto appassionata, perché è convinta di assomigliare a albano. in tal modo essa è convinta di diventare il capo del mondo. le otarie ragionano infatti essenzialmente per somiglianze e differenze, e ritengono quindi che se si SEMBRA il capo del mondo, si E’ il capo del mondo. perché poi le otarie credano che albano sia il capo del mondo, questo non è stato ancora scoperto dalla scienza.

p.s. l’amico elio p. sostiene che questo pezzo è sciocco… forse ha ragione, d’altronde qui bisogna buttare anche un po’ gli scritti azzardatamente e sperimentalmente… e magari questo pezzo è anche meno sciocco di quel che sembra, per cui può sempre costituire un arricchimento il cogliere la differenza fra quanto lo sembri e quanto realmente lo sia

I’m not there

3

In verità, in verità vi dico

1

di Giuseppe Zucco

Il disegno è di Erica il Cane

 

È più brusco
trovarsi a tu per tu con le strutture tutto in una volta.
Elio Pagliarani

La parte migliore di me non avrebbe dovuto lasciarti andare. Sinceramente, la parte migliore di me non avrebbe dovuto neanche permettere che ti allontanassi di un millimetro.
La parte migliore di me avrebbe dovuto lottare – svenarsi, sgolarsi, certo – e cercare di convincerti: metterti al riguardo di quanto la stabilità sentimentale venuta a instaurarsi tra una cardiochirurga giovanissima ma molto promettente e uno dei più noti autori televisivi del momento fosse una tale rarità in natura, un tale evento nel più ampio sistema solare, che non restava altro da fare che preservarlo e custodirlo e consegnarlo come cartolina ai posteri che, un giorno, nel periodo più introspettivo della loro vita, vagamente illuminati da questa immagine di reciproca elettrica attrazione, avrebbero intuito cosa intendevamo noi per felicità – per appagamento, già, dei sensi o dei sentimenti – una specie di riposo del guerriero, il momento di stasi che precedeva o seguiva le grandi battaglie, l’attimo in cui le armature lucide o spaventosamente deformate posavano per terra mentre gli occhi della persona davanti diventavano uno specchio o un lago, qualcosa a metà tra uno specchio e un lago, un punto circoscritto dello spazio infinito in cui riflettersi e immergersi senza alcun tremore e spaesamento.
Eppure, la parte migliore di me ha infilato certe nebbie. Probabilmente, la parte migliore di me ha subito la temperatura elevata della sala autori mentre fuori infuriava l’inverno. La quantità delle sigarette e delle barrette proteiche e della taurina allo zero virgola quattro per cento contenuta nelle lattine durante la stesura delle scalette e dei copioni. I progressivi avanzamenti decimali dello share su cui scommettevo con gli altri autori e gli assistenti ai programmi – non cene, sfilare nudi sul balcone della sala autori che dava sulla strada era lo standard, se perdevi.
In fondo, In verità, in verità vi dico, il titolo nonché la formula di rito che apriva il nostro programma, la cronaca nera al servizio dei cittadini, come tu sai, aveva vagito sotto il sette per cento, da lì era cresciuto, nei primi tempi osservava la curva dell’indice di ascolto inerpicarsi per altezze irraggiungibili con un filo di struggimento – e anche se all’inizio eravamo un semplice gradino della più estesa scalinata del palinsesto, piano piano e poi di colpo eravamo diventati un punto di vista, un marchio riconoscibile, una presenza concreta e puntuale con cui la realtà doveva fare i conti, prova ne erano le telefonate ricevute, l’e-mail intasata dai commenti, la mezza stellina dei critici televisivi su riviste e quotidiani appuntata alla giacca come medaglia al valore, le promesse gaudiose del riposizionamento di In verità, in verità vi dico in una fascia oraria strategica e dell’inserimento di due pause pubblicitarie aggiuntive nel corso del programma, tanto che più volte, di notte, infilando l’indice nel nodo della cravatta, allentavo di poco mentre consultavo le ultime agenzie stampa, un gesto istintivo di cui avrei appreso in seguito la natura profetica.
Non credo che la parte migliore di me, prima di oggi, avesse chiaro il concetto di stabilità sentimentale. Non credo neanche che sapesse cosa farsene, sebbene, in definitiva, decidesse del mio umore e del mio stato d’animo, permettendomi di concentrarmi solo e unicamente sul programma, sul fatto che uno dei miei inviati dovesse per esempio fiondarsi in un paesino di provincia quando ancora la bambina non era stata del tutto conquistata dal rigor mortis per intervistare i suoi genitori e chiedere loro cosa provassero in quel momento, cioè cosa sentissero, quali parole riuscissero ad articolare guardando in modo confuso e cognitivamente ellittico la telecamera davanti al colore neutro della parete di una sala di attesa del reparto grandi ustionati.
Capirai senz’altro, la parte migliore di me non sta cercando di salvaguardare l’astrazione romantica della parola amore. La parte migliore di me ormai da tempo ha superato le più scontate convenzioni – l’amore, naturalmente: e la vita di coppia, il matrimonio, la rigidità asfissiante della monogamia. La parte migliore di me, come avrai capito, prospera proprio su un altro piano.
La parte migliore di me, per essere esatti, è convinta che per un autore televisivo e una cardiochirurga in ascesa, perlomeno in orbita verso la più scintillante delle carriere nei rispettivi campi di azione, la stabilità sentimentale sia tutto. Sapere che nonostante le noie e lo strazio delle grandi battaglie della vita quotidiana c’è sempre qualcuno a casa disposto ad ascoltare senza giudicarti o degradarti all’ultimo livello delle categorie umane, lo stronzo, il pezzo di merda, la merda umana, è una di quelle certezze su cui posare la prima pietra della costruzione di una visione equilibrata della vita e del proprio lavoro.
Detto in altre parole, è chiaro che il simbolico allentamento del nodo della cravatta è stata responsabilità mia, soltanto mia, del tutto mia – e ancora oggi mi pento e mi dolgo di avere indetto quella festa a casa nostra in seguito alla registrazione del più alto picco di ascolti in prima serata non prevedendo che tu tornassi con un giorno di anticipo da un convegno sul futuro della cardiochirurgia, uno di quei elegantissimi rituali massonici da cui rincasavi con espressioni tipo decision making e il costo dei vari devices, piccoli tappeti linguistici sotto cui nascondevi la grande polvere di un problema ricorrente, cioè se per un’azienda sanitaria fosse sensato prima che economico prendere la decisione di operare vecchi catorci su per giù sulla settantina con speranze di vita inferiori all’anno, una percentuale considerevole della popolazione ospedaliera che risucchiava gran parte delle risorse finanziarie, allungando di colpo l’ombra dei cardiochirurghi sul viale del cinismo già ampiamente battuto dagli autori televisivi, un cinismo funebre, a dire il vero, cosa che appena veniva accennata ti faceva inforcare gli occhiali e alzare dal letto e andare in cucina e farti trovare con un bicchiere d’acqua in mano davanti alla finestra aspettando non che io ritirassi tutto, ma che muovessi i capelli e ti baciassi sulla nuca e facessi promessa di non svalutare la tua vocazione cardiochirurgica che di tanto in tanto ti destinava in una qualche località sperduta del nord Africa in un’altra mossa riuscita del capitalismo avanzato.
Ma se tu di punto in bianco non avessi deciso di porre fine alla nostra relazione, di troncarla, di farne cenere da disperdere al vento, probabilmente io non sarei caduto in errore: o in un eccesso di realtà, per essere corretti, anche se tutti i commentatori continuano a designarlo come un vero errore, e dei più irrimediabili, a dirla tutta. La parte migliore di me, in effetti, proprio allora, ha registrato una relazione proporzionale tra la mia stabilità sentimentale e la mia concentrazione sul lavoro.
Se ci pensi bene, è un discorso tutt’altro che unilaterale. Se fai mente locale, tu eri ancora necessariamente al mio fianco quando il padre della bambina morta per ustioni ha rifilato un secco no alla richiesta del nostro inviato, un pugno in faccia e due tre calci nello stomaco, ma sono stato io stesso a sedare l’inviato al telefono invitandolo a scongiurare la vendetta o la denuncia, pena la sparizione del suo nome dai titoli di questo e di futuri altri programmi, e con tanto di frattura al setto nasale di proseguire il suo lavoro, intervistando la lunghissima sequela dei parenti della bambina, gli anziani, soprattutto, chiedendo loro cosa provassero in quel momento, come se non fosse più un pezzo televisivo, ma un inchino alla probabilità statistica, qualcuno alla fine avrebbe risposto con le lacrime agli occhi, umidità cariche di rassegnazione cosmica che avremmo deliberatamente sottolineato con la musica adatta, un tantino melodrammatica, a dire il vero – la stessa cosa successa mentre io ero ancora necessariamente al tuo fianco, e sotto la luce gelida azzurrina della sala operatoria il tuo respiro non approdava all’asma, la tua fronte non era imperlata di goccioline di sudore, la tua mano non tremava, il tuo bisturi non trovava inceppo né ostacolo, il tuo ago disegnava bene ogni sutura, e il bypass aorto-coronarico riusciva nonostante le mille e una complicazioni che di solito annodano il cartellino all’alluce tanto al paziente quanto alle quotazioni del cardiochirurgo di turno.
Chiaramente, se solo avessi avuto sentore, se solo avessi previsto gli esiti disastrosi della relazione ormai scientificamente dimostrabile tra stabilità sentimentale e concentrazione sul lavoro, la parte migliore di me si sarebbe guardata bene dall’indire seduta stante al picco di ascolti di In verità, in verità vi dico una festa a casa nostra. Vedere i tuoi occhi dilatarsi oltre misura sulla soglia della nostra camera da letto mentre due ispettrici di studio completamente svestite vagavano sulla landa desolata del mio corpo emettendo tutta una serie di esoterici balbettii, aveva cancellato di colpo dalla mia memoria il numero complessivo di puntate che aveva tenuto il pubblico incollato al televisore. È vero, uno dei miei inviati, rovistando nel sottobosco intorno alla casa della donna scomparsa, aveva ritrovato il frammento superiore di un femore, e noi, principianti Sherlock Holmes in erezione, di quel femore ne avevamo fatto un cadavere, la prova che il marito aveva scombinato la disavventura della donna scomparsa in mille piccole disavventure sotterrate con estrema cura e perizia, ma a quel punto io avrei restituito la risoluzione del caso piuttosto che smarrire la stabilità sentimentale e quindi la concentrazione sul lavoro. Se mi sono spiegato bene, non è esattamente amore, ma neanche egoismo, il mio. Se ti sto tortuosamente ma ufficialmente chiedendo di tornare al mio fianco, riguadagnando in modo più contemporaneo e disinvolto i vantaggi di un’efficiente stabilità sentimentale del tutto preclusa alle tradizionali coppie monogame, è per scongiurare di farti incorrere in un qualche errore capitale – errore che peserebbe su una vita intera e su un’intera carriera.
La parte migliore di me, infatti, non ha retto. La parte migliore di me, già abbastanza annebbiata da lavoro scommesse taurina, quanto tu sei andata via, è caduta nelle spire dell’instabilità sentimentale, seminando errori a catena sul lavoro. Per esempio, chiedendo la testa dell’inviato che non era riuscito a raccogliere neanche una microscopica fluidità salina sul volto di un qualsiasi lontanissimo parente della bambina morta ustionata, essendo i parenti rinchiusi nel più stretto riserbo. Per esempio, caricando me stesso su una macchina di redazione e precipitandomi nel paesino della bambina morta ustiona. Per esempio, aspettando sotto casa il padre della bambina, due ore tonde, se non ricordo male, e poi notandolo uscire da casa, scagliarmi addosso, stringergli le mani al collo e urlare chi si credeva di essere, proprio così, che titoli e quali argomenti avesse lui per mettersi di mezzo tra le telecamere e la verità. Per esempio, introducendomi nell’obitorio, con la telecamera a tracolla, dopo avere corrotto un paio di infermieri, cercando il numero della cella frigorifera associato al nome della bambina morta ustionata.
Non ti sto pregando, ora, in questo istante, dovunque tu sia, di ritornare. Non ti sto dicendo tra le righe di prendere le tue cose e venire a ripiegarle nei cassetti di questa casa nelle prossime ore. Non è questo.
La parte migliore di me sta solo tentando di farti immaginare quale abisso di rimorso e risentimento potrebbe spalancarsi sotto i tuoi piedi nel momento in cui troveresti le pareti domestiche sguarnite di una figura che in modo molto disinvolto e contemporaneo ti assicura una duratura stabilità sentimentale e di conseguenza una tenuta nel mondo del lavoro. Pensa solo a tutti i casi di infezione o di sanguinamento post-operatorio che potresti incidentalmente causare ai tuoi pazienti se le rigorosissime procedure sanitarie di cui sei fedele devota fossero messe a repentaglio da tutta un’altra qualità di pensieri instabili e sentimentali. Pensa solo a quanta disperazione stia bruciando per riemergere dal fondo di un errore o, ci siamo capiti, di un eccesso di realtà, che mi è costato prima le proteste, poi un’interrogazione parlamentare, quindi la soppressione istantanea del programma.
La parte migliore di me, se solo avesse trovato qualcuno a casa disposto ad accogliere le mie ragioni senza darmi preventivamente contro, con una qualche certezza non si sarebbe precipitata nel paesino né avrebbe aggredito il padre della bambina ustionata, non avrebbe corrotto gli infermieri né sarebbe entrata nell’obitorio, non avrebbe aperto la cella frigorifera né avrebbe messo in spalla la  telecamera e ripreso gli arti ustionati della bambina, le gote ustionate, le dita ridotte a miseri carboncini consumati, montando poi quelle immagini nel servizio mandato in onda.
Non sto affatto dicendo che tu non possa frequentare chiunque tu voglia, con una prossimità tra i corpi che declinerai tu di volta in volta: siamo troppo adulti e democratici e contemporanei per compromettere la nostra stabilità sentimentale cioè la nostra carriera per questo genere di cose – anche se ammetto che deve essere stato sufficientemente traumatico farsi trovare addosso due ispettrici di studio, peraltro svestite, con le labbra appaiate sul bottone rossastro dei miei capezzoli.
Sto solo dicendo che noi due, una volta seduti abbracciati davanti al tramonto di questa trascurabile incomprensione, facendo tesoro della nostra rinnovata stabilità sentimentale, potremmo diventare due esseri umani migliori – migliori e pacati, più retti, particolarmente in sesto e misurati, capaci di prevedere quanto sfuggire gli errori e i fallimenti e le capitolazioni.
Anche perché la parte migliore di me, come quella di ogni singolo spettatore che ha composto il pubblico dell’ultima puntata trasmessa di In verità, in verità vi dico, riesce a stento a prendere sonno dopo avere allestito l’oscurità nella propria stanza o a cercarsi nello specchietto retrovisore durante una pausa al semaforo o a riempire in altro modo l’attesa di completamento del download illegale di un film americano.
Il sorriso ustionato della bambina ustionata denuda i denti e continua a espandersi tra i pensieri sebbene in principio apparisse definitivamente rigido, e annerito.

[Questo racconto è stato pubblicato nell’antologia Storia di martiri, ruffiani e giocatori, edita da Caratteri mobili, a cura di Vicolo Cannery]