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L’arresto di Italo Trabucco

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Di Giacomo Verri

L’amore si nutre di compromessi. I compromessi sono dolci quando discendono dall’amore. Italo Trabucco non aveva voluto far compromessi con il proprio paese e il paese si era dimenticato di lui senza che lui dimenticasse il paese. Se ne era andato ogni volta che l’aveva ritenuto utile, per bisogno o, non raramente, per comodità. Era diventato l’elemento esterno che tornava di tanto in tanto, senza potersi amalgamare: la sua pelle non profumava come quella dei suoi concittadini, di un’altra pasta erano le sue membra.

RicercaBO – Laboratorio di nuove scritture

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23-25 novembre:

Mediateca di San Lazzaro di Savena (Bo)

 

RicercaBo è un laboratorio di lettura e discussione curato da Renato Barilli, Niva Lorenzini e Gabriele Pedullà.

Nelle due prime giornate, di venerdì e di sabato, mattino e pomeriggio, si succederanno le letture di brani inediti di sedici autori selezionati dal comitato tecnico.

Alle letture seguirà un immediato commento e dibattito da parte di tutti i presenti.

Sempre nel rispetto di un modello ben collaudato, le serate di quei due medesimi venerdì e sabato saranno animate da incontri con due autori ormai largamente affermati:

venerdì 23 ci sarà un incontro con Niccolò Ammaniti, condotto da Renato Barilli: sabato con Alessandra Berardi, condotto da Cecilia Bello Minciacchi e Niva Lorenzini.

Domenica 25 mattina, si terrà la tavola rotonda conclusiva.

 

Il programma in dettaglio:

Napoli o scena?

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Napoli dopo Napoli
Prefazione di Goffredo Fofi
a Napoli in scena
Antropologia della città del teatro
di Stefano De Matteis (Donzelli Editore)

Da Napoli si è sempre sopraffatti. Perché non c’è una sola Napoli, ma molte Napoli spesso tra loro non comunicanti. Molti anni fa, presentando al Piccolo Teatro di Milano il libro di un’amica indimenticabile, Fabrizia Ramondino, essa stessa un concentrato non sempre armonico di più Napoli, paragonai Napoli a New York, scandalizzando qualcuno. Non c’è una sola New York e non c’è una sola Napoli, tanto più se, come dovrebbe esser giusto e come altrove avviene, per esempio a Milano, la comunicazione tra hinterland e centro è scarsa. Ci sono molte New York che si ignorano a vicenda, e si può vivere tutta la vita dentro una Napoli ignorando le altre. Lo stesso dialetto cambia, ha parole e inflessioni che non si ripetono da un posto all’altro, e oggi non ha più nulla a che vedere con la città, salvo che nelle leziosaggini dell’accento – in un dialetto diventato, qui come altrove, un italiano misero e bastardo – di una piccola borghesia senza qualità e senza identità, come dovunque.

Quando nel 1972 decisi improvvisamente, esasperato dalla rapida degenerazione dei movimenti post-’68, di lasciare Milano e trasferirmi in una città del Sud dove non avevo amici e avrei dovuto ricominciare da capo, e scelsi Napoli perché affascinato dal suo mito ma soprattutto perché era il Sud più raggiungibile e vicino, mi presentai a due scrittori che avevo voglia di conoscere e nei quali speravo di trovar delle chiavi per la comprensione della città. Erano Luigi Compagnone e Vittorio Viviani, con i quali avevo avuto rapidi contatti epistolari perché del primo avevo recensito qualche libro e del secondo avevo ammirato la storia del teatro napoletano e lo sapevo figlio del grande Raffaele (di quest’ultimo avevo proposto a Einaudi la pubblicazione dell’opera d’accordo con Vittorio e ne avevo avuto una risposta negativa perché, mi dissero, Eduardo, un nome importante nel loro catalogo, avrebbe potuto aversene a male; fu invece Vittorio a rifiutare la possibilità di un’edizione in più volumi, da lui stesso curata, per l’«Universale» della Feltrinelli perché non si sarebbe trattato di un’edizione all’altezza di quella einaudiana di Eduardo nella collana dei «Millenni»), mi colpirono i diversi contesti in cui si erano confinati. Ai margini di Posillipo il primo, lontano da una folla non amata e dai suoi riti e rumori, come un amante deluso e amareggiato, e a due passi da piazza Dante il secondo, tra i suoi libri e a un passo dai vicoli dei Tribunali, di Spaccanapoli, della Sanità, innamorato di una plebe della cui vitalità continuava a meravigliarsi.

Nel breve intermezzo prima di trovare una collocazione attiva in un’iniziativa nuova e di gruppo – la Mensa dei bambini proletari di Montesanto grazie alla quale ebbi finalmente a saziarmi dei rapporti con il cosiddetto sottoproletariato, che scoprii, con Fabrizia e i suoi amici, che andava piuttosto chiamato proletariato marginale e nei cui destini mi immersi e identificai per molti anni –, fu in parte su suggerimento di Vittorio che intrapresi una sorta di viaggio dentro il
mondo dello spettacolo napoletano alto e basso, frequentando i cinematografi solo a seconda delle programmazioni mentre i teatri tutti!, per il bisogno di vedere e capire. In realtà, della vita vera ero spaventato, non sempre capivo il dialetto, duro e diverso da quello del cinema, e non capivo l’unico mondo che mi affascinasse, quello appunto del «sottoproletariato», nonostante mi sentissi preparato dalle passate esperienze palermitane degli anni cinquanta. Erano molti, allora, i teatri e teatrini napoletani, in centro e in periferia, e quasi tutti fatiscenti salvo quei due più borghesi che ospitavano il teatro di rivista e le noiose compagnie di prosa nazionali e si riempivano soltanto quando Nino Taranto vi sciorinava il suo repertorio comico-patetico (e il Viviani tardo e pacificato, sin troppo, e addomesticato dall’attore); erano molti e di uno in particolare divenni uno dei frequentatori più assidui, il Duemila, dalle parti della ferrovia, che ospitava una formidabile compagnia di sceneggiate i cui lavori (tre rappresentazioni al giorno, due il giovedì perché la mattina era dedicata alle velocissime prove del nuovo spettacolo settimanale) mi furono di grande ammaestramento non sulla realtà ma sull’immaginario della «plebe» napoletana e campana.

Da questo «censimento», sconfinando a volte oltre le periferie, nei paesini e borghi dei dintorni spostandomi su mezzi pubblici – che mi sembravano di per sé dei teatri e mi ricordavano le parole di una canzone di Sergio Bruni, un altro idolo della mia adolescenza proletaria, Palcoscenico («’e strade ’e Napoli chesto so’, nu palcoscenico ») –, appresi a conoscere buona parte della geografia napoletana, l’immensa città costiera e le sue colline, e la pianura oltre le colline.
È per questo che lessi avidamente, a suo tempo, Lo specchio della vita di Stefano De Matteis, con il quale avevo avuto e ho ancora la fortuna di condividere non poche esperienze e passioni. È per questo che ho letto altrettanto avidamente questo saggio, che ne riprende e aggiorna e approfondisce i temi, cercandovi e trovandovi adesso qualche risposta allo sconcerto con il quale ho assistito, nel corso degli ultimi decenni, alla «mutazione» della realtà napoletana, e diciamo pure, pasolinianamente, al genocidio del suo popolo, della sua cultura.

A Napoli questa mutazione è avvenuta più lentamente che altrove, e la vera svolta è stata quella del terremoto del 1980, la data che ha approssimativamente segnato la scomparsa di un ceto e della sua cultura. Non più «cultura del vicolo», narrata in teatro nel suo bene e male da Raffaele Viviani, perché il «proletariato marginale» ne è stato in buona parte espulso e la parte che vi è rimasta sembra essersi maggioritariamente adeguata – anche per le costrizioni della sopravvivenza – a una morale non più ambigua e ricca e complessa, consolidata nei secoli, ma affine a quella della piccola borghesia più insicura o a quella della piccola (o grande) criminalità. Nelle pagine di De Matteis l’analisi di questa mutazione è condotta con un’attenzione e un rigore che non escludono affatto la partecipazione, ed è questo, io credo, il merito maggiore del suo lavoro. Si direbbe che egli non ami viversi come uno di quegli scienziati sociali e di quegli storici dello spettacolo che analizzano la cultura di un popolo nella sua realtà antropologica, nel suo fondo economico e sociale, nella sua formazione storica e nelle sue manifestazioni nel corso del XX secolo e infine nelle sue rappresentazioni teatrali (ed egli avrebbe potuto con altrettanto acume parlare delle feste, della loro sopravvivenza e dei loro cambiamenti), e si è messo invece in gioco, in questo saggio, come qualcuno che ha preso parte a quei mutamenti, da napoletano attivo nella realtà cittadina che è protagonista, testimone e analista allo stesso tempo.

D’altronde, se i suoi modelli teorici erano Turner o Sahlins, quelli «letterari» appartenevano squisitamente alla storia della città, con La Capria e con la Ortese assistiti dalla luce dell’arte e non solo della storia, mentre di Belmonte ha apprezzato la distanza che appartiene a chi viene da altrove e a cui la scienza ha insegnato come difendersi dal coinvolgimento e dalla fascinazione di una diversità avvincente. Ha voluto mantenere vigile, si direbbe, anche l’attenzione sulle proprie reazioni di membro di quella comunità che sente il bisogno di studiarla, che vuol conoscerla per motivi non soltanto accademici ma per interrogarsi anche su di sé. Vuol sapere di dove viene, e, attivamente, dove bisognerebbe andare: quale destino la cultura di cui ha fatto e fa ancora parte, la sua città, potrebbe e dovrebbe avere.

Quando Lo specchio della vita uscì si era nel 1992, Antonio Bassolino sarebbe stato eletto sindaco alla fine del 1993 e si era nel pieno di quel bel momento della città che venne chiamato avventatamente «rinascimento napoletano». C’erano cose che giustificavano quella definizione, ancorché esagerata: un risveglio intellettuale e artistico notevolissimo, nel cinema e nel teatro e nella canzone, nell’università e soprattutto nelle speranze di un popolo che gli anni di Tangentopoli avevano trascurato e vilipeso. Gli anni di Rasoi, atto finale e canto di morte di una storia ma anche segnale di una riflessione che sembrava aprire a una nuova nascita, che azzardava insolite prospettive.

Fu proprio il governo bassoliniano della città e poi della regione a soffocare, di compromesso in compromesso, i fermenti di una stagione vivacissima e a farne morire le speranze di rinnovamento, soprattutto fra i giovani, consegnati al cinismo dell’immutabile. Dopo di allora, Napoli è diventata una realtà confusa e spuria, in parte fagocitata da una «post-modernità» che è qui più fittizia di altrove: una città più che mai incapace di ragionare su di sé, sul proprio destino.
Scompare la memoria viva di una grande tradizione ed è vicino il tempo in cui i giovani napoletani ignoreranno Eduardo e Totò come già hanno dimenticatoMurolo e Bruni. E non ci sono in giro i portatori di un progetto collettivo che non sia di accettazione dell’esistente. Tutto viene deciso altrove o alle spalle del «pubblico» (una parola che sembra aver perso di significato perfino nel teatro, dove chi va oggi in scena sarà domani in platea e viceversa), nell’ingannevole chiasso del consumo e del consenso, i feticci di cui la crisi va svelando la corruzione e la miseria. Gli intellettuali della città – professori, giornalisti, artisti…– non si sono mai dimostrati altrettanto impreparati a un’interpretazione attiva delle sue (e delle loro) contraddizioni, e mentre è il Mediterraneo a segnare sempre più fortemente il contesto futuro, essi vagheggiano di un’Europa che la e li trascura e molto probabilmente la e li trascurerà sempre di più in futuro.

La scena non è affatto vuota, rimane anzi strapiena perché nel frattempo, secondo la logica abnorme degli ultimi venti o trent’anni, anche a Napoli i giovani hanno fatto l’università o qualcosa di equivalente, livellato al basso, e sono stati illusi e beffati dalla società dello spettacolo diventando quasi tutti «creativi»; ma il poco che non assomiglia questa scena ad altre scene «globali» può anche apparire come una parodia provinciale e stantia di quel condizionato caleidoscopio,
e la «tradizione» è diventata il cincischiamento di un’eredità non più amata e di cui non si è più degni, di una «scuola» di cui si è perduta la linfa.

Lo strappo è stato invero grandissimo, la novità avvilente e il futuro sommamente incerto. Cosa rimane, oltre la famiglia, ancora una volta, e il suo piccolo contesto umano così ben raccontato nelle pagine di questo saggio? Per quanto riguarda il teatro, confesso di essere molto più pessimista – per quello napoletano come per quello nazionale – di quanto l’autore non dichiari di essere. L’incertezza è globale, ma se altrove la crisi sembra in grado nonostante tutto di sprigionare nuove energie e nuove proposte, liberando molte menti e molti cuori dalle nebbie, tuttavia dorate, degli anni passati, a Napoli
le minoranze sembrano più minoranze che altrove, più isolate che altrove, circondate come sono dal rumore pettegolo in cui
un’intera cultura si avvilisce e distrugge, più che altrove ignava e compiaciuta perché più cupo è il suo sfondo.
Questo libro si apre e si chiude di fronte alle Sette opere di misericordia di Caravaggio, nel cuore o nel ventre della Napoli dei vicoli,tra Storia e Natura. Il quadro della società napoletana che oggi si presenta ai nostri occhi, quella che De Matteis ottimamente studia e discute, ha invero qualcosa di seicentesco, dipinge un’insicurezza di cui la città non vuole avvertire la minaccia e dove rari sono i misericordiosi e ancor più rari i coscienti.
Roma, ottobre 2012

Muri e razzi: l’idiozia si vedrà dalla luna?

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Pochi giorni fa scrivevamo email ad operatori palestinesi del mondo cooperativo, che avevamo incontrato qui in Italia. L’obiettivo era scrivere insieme un progetto di scambi giovanili da presentare in uno dei rari Programmi Europei di finanziamento in cui si riconosce l’Autorità Palestinese. Non avevamo ricevuto risposte e ci sembrava un peccato sprecare una opportunità di questo genere. Oggi mi sembra di aver in mano solo la fionda di Davide di fronte a Golia. Pubblico di seguito il rapporto ricevuto dall’Associazione Cooperazione e Solidarietà ACS-Italia su quanto sta accadendo. Chiedo di segnalare articoli, interventi e quanto i lettori e le lettrici di Nazione Indiana considerano opportuno per andar oltre il dolore impotente che si prova davanti alle foto della guerra   di cui giungono notizie.

16nov12-Testimonianze da ospedale Shifa.pdf

Tempo di elezioni: la mia clausola

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di Antonio Sparzani

Tempo di elezioni. Personalmente credo ancora, in mezzo a mille difficoltà su cui non mi metto ora a discutere, che sia una buona cosa andare a votare.
Sì, ma con quali criteri si dà il proprio voto? Quali ragionamenti, quali priorità? Non intendo certo discutere le preferenze politiche o umane di ognuno. Intendo soltanto discutere con voi un criterio, una motivazione di voto che sento argomentare da più parti, con perfetta onestà personale e, come dire, purezza di intenti.

Ovvero vorrei proporre un ragionamento generale, che valga sia per elezioni politiche generali, che per elezioni locali, primarie, o secondarie che siano.
Supponete che dobbiamo votare per i cinque candidati (mi perdonerete se userò il maschile plurale, per non appesantire lo scritto con tutti gli “i/e” del caso. Inoltre si può trattare di candidati o di partiti o gruppi vari, naturalmente), A, B, C, D ed E. La mia clausola di base suona così:

devo votare per quello dei cinque che mi convince più degli altri, per tanti motivi che sono padrone di valutare col mio proprio metro. Può darsi che sia incerto fra due o più dei candidati, ma alla fine devo pur decidermi a preferirne uno.

Clausola ovvia, direte voi, e invece no.
Non è ovvia perché la mente dell’uomo occidentale (ma forse anche quella di altri esemplari della specie) è, o ritiene di essere, più sottile di così. Nel senso che fa rientrare nei criteri di scelta anche altre cose, oltre alle caratteristiche politiche, umane e quant’altro, del candidato (o partito) in questione. Fa rientrare quelle che potremmo chiamare considerazioni tattiche. Esempio: io, di mio, preferisco A, ma, dall’andazzo corrente ritengo che la vera contesa sarà poi tra B e D e che al ballottaggio del secondo turno (quando c’è, naturalmente) saranno B e D che si contenderanno il posto, tra i quali, già lo so, io preferirò senza alcun dubbio D; e allora, se io all’inizio voto A, come vorrei, “disperdo” voti da subito, non faccio vedere che D ha tutta la forza che io voglio appaia da subito.
Conclusione: voto D fin da subito.

Io capisco il ragionamento ma non mi adeguo e credo di non essermi mai adeguato in passato. Credo una cosa completamente diversa.

Credo che la prima cosa che deve apparire è la forza autentica che ha ognuno dei cinque candidati, quella cioè che solo appare dalle preferenze vere che egli è in grado di ottenere da chi lo vota. Non dalle preferenze tatticamente deformate. Per l’ottima ragione che questo chiarisce il quadro di base, chiarisce com’è il punto di partenza, piacevole o spiacevole che sia. Se così facendo al primo turno prevale l’odiato candidato B, bene, questo ci dà informazioni vere sulle preferenze degli elettori e da lì si può partire per future coalizioni e per le azioni più opportune.

Inoltre naturalmente c’è una questione di giustizia nei confronti del candidato A: molti lo preferiscono, ma votano D per ragioni di tattica o, come le definirei io, di secondo livello. Infatti nell’ipotesi detta, A non avrebbe modo di rendersi conto della forza che in realtà possiede e questo è un grave danno per la sua azione presente e futura.

E infine, last but not least, tutto il ragionamento tattico si basa sul fatto che io “ritengo” che alla fine la contesa sarà tra B e D; ma se io mi sbagliassi? Gli umori degli elettori sono variabili e mutevoli, se la forza vera di A fosse grosso modo equivalente a quella di D, così che solo la presunta tattica farebbe prevalere D, mentre un voto autentico darebbe più voti ad A, che andrebbe quindi lui al ballottaggio con B? Sarebbe una bella beffa per la cosiddetta tattica, no?

Kenneadi: Greci e Romani nell’era dei Kennedy

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di
Gigi Spina

Cesare deve morire, perché nasca l’impero; una successione per via elettorale dovrebbe, invece, presentare caratteri meno drammatici.Quando John F. Kennedy venne eletto presidente degli Stati Uniti d’America nel novembre del 1960, sconfiggendo il vicepresidente repubblicano Richard M. Nixon e succedendo così a Dwight D. Eisenhower, nessuno, forse, avrebbe immaginato che sarebbe stato un assassinio a mettere fine a quella presidenza per tanti versi inedita.

Robert Frost, circa 1910
Per la cerimonia d’insediamento del neo-Presidente, tenutasi il 20 gennaio 1961, un famoso poeta quasi novantenne, Robert Frost compose un poema, Dedication, nel quale risuonava il presagio della gloria di un’imminente età augustea «the glory of a next Augustan age»
La previsione di un’età augustea dava per scontato, volendo rimanere nell’analogia storica, che un assassinio era ormai alle spalle, che la congiura era storia passata e che il “nuovo” avanzava per davvero. Il dramma, invece, si sarebbe ripresentato ancora, nell’immediato futuro.

Ho fra le mani un volume dedicato a John F. Kennedy, Ask Not. The Inauguration of John F. Kennedy and the Speech That Changed America, New York 2004, opera di Thurston Clarke. In premessa c’è il famoso discorso d’insediamento di JFK, quel 20 gennaio del 1961: il sintagma dell’efficace, triplice, anafora conclusiva (ask not, ripresa recentemente da Obama nel discorso conseguente alla rielezione) dà il titolo al volume e la genesi del discorso stesso costituisce il tema del coinvolgente saggio dello scrittore e storico statunitense – una cronaca minuziosa dei giorni dal 10 al 20 gennaio.
Il discorso si apriva con un messaggio di nuovo inizio e di cambiamento:

We observe today not a victory of party but a celebration of freedom – symbolizing an end as well a beginning – signifying renewal as well as change.
e più avanti (i fanatici dei “primi cento giorni” apprezzeranno):

All this will not be finished in the first one hundred days. Nor will it be finished in the first one thousand days, nor in the life of this Administration, nor even perhaps in our lifetime on this planet. But let us begin.

Non sembra rilevante, in questo caso, la questione del ruolo dello speechwriter di JFK, Theodor Sorensen, anche perché, aldilà della paternità del discorso inaugurale, che lo stesso Sorensen «has always loyally affirmed» essere di Kennedy, si trattò quasi sempre di una stretta collaborazione e consonanza, con l’ultima parola affidata comunque all’actio del Presidente.

Sette frasi del discorso d’insediamento di JFK sono incise nel cimitero di Arlington, dove è sepolta la famiglia Kennedy. Lo ricorda Clarke, l’autore di Ask not, nel Prologue, osservando (p. 3) che le parole incise sulle pietre di una città imperiale sopravvivono alle culture che descrivono; e che fra duemila anni, dunque, Washington potrà sembrare Roma, con le rovine del Campidoglio, della Casa Bianca e della Corte Suprema disseminate in una nuova città completamente diversa.
Ecco, dunque, Roma e il suo impero, come modello di “ascesa e caduta” insieme. Solo che, come esergo al Prologue, Clarke preferisce inserire la Grecia di Pericle con un passo dell’epitafio tucidideo (2,44,3).
D’altra parte, i due modelli storici dell’antichità classica sembrano intrecciarsi in un commento del «New Yorker» al discorso inaugurale di JFK : «We find it hard to believe that an Athenian or Roman citizen could have listened to it unmoved».

L’ingresso di JFK sulla scena politica mondiale è, dunque, accompagnato da una simbologia fortemente paradigmatica, in cui campeggiano grandi figure della storia greca e romana. Le analogie fra le due situazioni storiche – Atene e Roma – esistono, certo, per molti versi, anche se la prospettiva di una “nuova età augustea” prometteva molto di più di una presenza come quella periclea, autorevole e carismatica, ma destinata a una conclusione non esemplare. Eppure, l’epitafio di Pericle (Thuc 2,35,1-46,2) era stato il modello oratorio che Jacqueline Kennedy aveva indicato subito dopo l’orazione inaugurale di JFK – affiancandola a un altro famoso discorso presidenziale, quello di Abraham Lincoln a Gettysburg (1863) –, quasi a comporre una triade retorica degna di essere ricordata dalla storia.

Nel dicembre 1960, subito dopo l’elezione, JFK aveva proposto a Stewart L. Udall, un intellettuale mormone dell’Arizona, uomo del Congresso, di entrare nel Cabinet del Presidente e affiancarlo come Secretary of the Interior. Udall aveva, a sua volta, suggerito a JFK di invitare Robert Frost, di cui era molto amico, a parlare alla cerimonia d’insediamento. Il Poeta e il Presidente avevano avuto già modo di apprezzarsi reciprocamente, ma la personalità originale ed esuberante di Frost faceva temere a JFK un’occupazione eccessiva della scena ai danni della sua immagine. Temeva, insomma, un confronto fra due discorsi e fra due retoriche. Per questo, l’idea, rilanciata da JFK a Udall, che Frost potesse recitare una poesia, sembrò la migliore soluzione per differenziare i tipi di performance.

La risposta di Frost all’invito, d’altra parte, testimonia sia della sua personalità “parresiastica”, sia delle attese che il mondo culturale statunitense riponeva nel nuovo Presidente. Da quest’ultimo si attendeva una svolta rispetto al ricordo, neanche tanto lontano, del periodo buio del maccartismo, ma anche rispetto alla lontananza ed estraneità dell’amministrazione che ora lasciava il campo nei confronti dei protagonisti della cultura e dell’arte. Frost, dunque, rispondeva con un telegramma:

If you can bear at your age the honor of being made President of the United States, I ought to be able at my age to bear the honor of taking some part in your inauguration. I may not be equal to it but I may accept it for my cause – the arts, poetry, now for the first time taken into the affairs of statesmen.

E il neo-presidente avrebbe invitato alla cerimonia di insediamento ben 168 intellettuali, rassicurandoli:

During our forthcoming administration we hope to seek a productive relationship with our writers, artists, composers, philosophers, scientists and heads of cultural institutions.

Raggiunto l’accordo sul tipo di intervento, Frost precisò che non avrebbe scritto un nuovo poema per l’occasione, ma avrebbe letto i sedici versi di The Gift Outright, una poesia composta intorno al 1935 e letta in pubblico per la prima volta alla fine del 1941 a Williamsburg in Virginia. Si trattava del ritorno di Frost, dopo la prima prova poetica del 1890, a un tema storico: non più coloni inglesi, gli Americani acquistano il diritto di identificarsi con la propria terra. Un inno al mito della frontiera che ben si adattava alla “nuova frontiera” che JFK pareva promettere.
Possiamo ora tornare a Dedication, il poema che Frost decise di comporre solo pochi giorni prima della cerimonia d’insediamento. Quando, il 18 gennaio, raggiunse la sua stanza d’albergo a Washington – mentre infuriava un’eccezionale tempesta di neve -, il poeta ne aveva scritti pochi versi: aveva maturato l’intenzione di leggerlo a sorpresa, un volta completatolo, come premessa a The Gift Outright.

Il 20 gennaio un sole accecante splendeva su Washington ancora bianca di neve e battuta dal vento. I racconti e le cronache dell’intervento di Frost, che ora riassumerò, restituiscono il sapore surreale di una segreta regia del fato.
Quando Frost fu chiamato a leggere il suo saluto, dell’inedita Dedication riecheggiò solo l’inizio: i riflessi abbaglianti del sole, il vento che agitava i foglietti su cui era stato battuto a macchina il testo, una fastidiosa rifrazione del dattiloscritto e sicuramente altri fattori di carattere psicologico fecero tornare il vecchio poeta al progetto concordato, più presto, forse, di quanto avrebbe immaginato. Il testo nuovo e ancora poco familiare alla memoria dell’autore fu rapidamente sostituito dalla ben consolidata poesia sull’America dei pionieri proiettata in un futuro radioso. I primi versi di Dedication che Frost lesse a fatica, con inciampi e pause, suonavano, a testimonianza della volontà di sottolineare la specificità del nuovo rapporto fra Potere e Cultura:

Summoning artists to partecipate / In the august occasions of the state /Seems something artists ought to celebrate. / Today is for my cause a day of days. / And his be poetry’s old-fashioned praise / Who was the first to think of such a thing. / This verse that in acknowledgement I bring …

A quel punto, Frost si interruppe, confessando che non riusciva più a leggere quella che doveva solo essere una premessa a The Gift Outright, che recitò, invece, a memoria, rispettando la promessa della modifica finale. Poi – ancora le bizzarrie del fato – chiuse dichiarando che il componimento che aveva cominciato a leggere era una Dedication al neo-eletto Presidente Mr. John Finley (nome, in realtà, di un classicista di Harvard). Il lapsus non fu notato dalla maggior parte del pubblico, che tributò all’amato vate un caloroso applauso. John Fitgerald Kennedy poteva ora giurare e pronunziare il suo atteso discorso d’insediamento.

Solo dopo qualche giorno il testo definitivo di Dedication fu recapitato a JFK; fu poi pubblicato nel 1969 nella raccolta The Poetry of Robert Frost (ed. E. Connery Lathem), col titolo For John Kennedy His Inauguration.
Frost accompagnò Dedication con un biglietto in cui scriveva:

Amended copy. And now let us mend our ways. Be more Irish than Harvard. Poetry and power is the formula for another Augustan Age. Don’t be afraid of power.

Sul biglietto con cui ringraziò Frost, JFK annotò, accanto alla firma: «It’s poetry and power all the way».
Ora, nel testo completo, JFK poteva leggere l’auspicio, anzi la profezia di un’imminente, di una prossima, gloriosa età augustea, un’età dell’oro basata sul pieno accordo tra poesia e potere, con cui Frost chiudeva il lungo omaggio al Presidente (Dedication conta 77 versi: ci si chiede come una “premessa” potesse essere tanto più lunga della breve poesia ufficiale, che contava solo 16 versi):

Less criticism of the field and court / And more preoccupation with the sport. / It makes the prophet in us all presage / The glory of a next Augustan age / Of a power leading from its strength and pride, / Of young ambition eager to be tried, / Firm in our free beliefs without dismay, / In any game the nations want to play. / A golden age of poetry and power / Of which this noonday’s the beginning hour.

Il 26 ottobre 1963, John F. Kennedy commemorò Robert Frost all’Amherst College, nel Massachusetts, la cui Biblioteca sarebbe stata intitolata al poeta, scomparso il 29 gennaio di quell’anno.
“The next Augustan age” era cominciata un po’ meno di tre anni prima, ma si sarebbe bruscamente interrotta neanche un mese dopo, con l’assassinio del Presidente. Quell’inizio non era stato particolarmente sereno né privo di problemi interni e internazionali anche drammatici (la costruzione del muro di Berlino, la minaccia nucleare, la crisi “cubana”, la grande marcia per i diritti civili di Martin Luther King): anche se forse il momento più delicato era superato, nessuno avrebbe potuto parlare, in quei giorni, di un’imminente pax Augusti.

Nel discorso di commemorazione Kennedy sembrava voler sviluppare il motivo del penultimo verso di Dedication, il rapporto fra poetry e power – del quale Frost aveva preconizzato una prossima golden age -, avviando col poeta defunto un nuovo, possibile dialogo, sincero e appassionato.

La seconda parte del discorso, quella più specificamente dedicata al ricordo di Frost, ha come cornice due citazioni dalle sue poesie, la prima tratta dagli ultimi versi di The Road not Taken (in Mountain Interval, 1916); a conclusione del discorso, Kennedy citava, non interamente, la fine di Our Hold on the Planet (anch’essa contenuta, come The Gift Outright, nella raccolta A Witness Tree). In questi versi prevaleva non più la scelta personale, ma il destino dell’umanità. In una visione condizionata certo dagli uncertain days della Seconda Guerra Mondiale, durante i quali, come ricordava JFK, era stata composta la poesia, Frost aveva espresso il suo scetticismo sui progetti di sviluppo umano. Ma Kennedy, ricorrendo ad alcuni moduli tradizionali della sua (e di Sorensen) retorica – soprattutto anafore in climax e correctiones (non x, ma y) – delineava, in realtà, una visione “periclea” dei compiti di uno Stato, in uno stretto rapporto dialettico fra Arte e Potere.
Dico “periclea” perché penso, ovviamente, ai contenuti dell’epitafio tucidideo, ma vorrei sottolineare che nell’oratoria kennediana l’evocazione della storia, della cultura e dei progetti di un popolo si costituisce come celebrazione del rapporto fra l’eminente personalità e la sua res publica, quasi à la façon romaine della laudatio funebris, dunque non fra il “collettivo” dei caduti per la patria e la patria stessa, come nell’oratoria greca, o almeno in quella che conosciamo.
In più, Kennedy, partendo dal rapporto disinteressato fra Arte e Potere, caro a Frost, delinea l’immagine di un’America paideusis del mondo, come Atene nell’epitafio pericleo in Tucidide, una “lezione vivente”, come preferiva intendere Jacqueline de Romilly.

Il dialogo fra il Potere e il Poeta, “moderato” dalla Morte, giunge così a un esito di speranza più che di certezza, di impegno più che di bilancio. Il Poeta, conclude il Potere, era stato spesso scettico sui destini dell’umanità, come aveva scritto negli ultimi versi di Our Hold on the Planet, ma forse non si sarebbe sentito estraneo all’auspicio del Potere, anche perché la vita stessa del Poeta, in fondo, diveniva testimonianza del progresso umano.
Progresso e felicità, due temi che JFK rintracciava nella Grecia classica. In particolare, la definizione “greca” della felicità, che Kennedy utilizzò più volte nei suoi discorsi, metteva insieme concetti aristotelici dell’Etica nicomachea, ma derivava quasi certamente da un volume che sembra aver accompagnato la famiglia Kennedy negli anni drammatici segnati dalla morte dei due fratelli John e Robert, con il ruolo determinante di una lettrice non comune, Jacqueline Bouvier Kennedy – poi Onassis -: The Greek Way (1930, più volte ristampato), best-seller della classicista Edith Hamilton, nata in Germania nel 1867. Entrata nel Bryn Mawr College nel 1890, si stabilì definitivamente negli Stati Uniti, dove morì nel 1963. Anche Edith Hamilton era stata invitata alla cerimonia d’insediamento di JFK, cui però non partecipò.

Dell’influenza dei suoi studi e delle sue sintesi di cultura (letteraria) greca sull’oratoria kennediana, converrà ora ricordare un momento particolarmente significativo, che vede protagonista Robert F. Kennedy.
La sera del 4 aprile 1968, il senatore Bob Kennedy, in piena campagna elettorale presidenziale, si trova ad Indianapolis. Giunge la notizia dell’assassinio di Martin Luther King e Kennedy improvvisa, dinanzi ad una folla sgomenta, cui dà per primo la bad news, un eulogy, un elogio funebre. La possibilità di vedere su youtube il filmato del discorso di Kennedy, ascoltando la voce dell’oratore, aiuta ad analizzare meglio il rapporto tra elocutio e actio.

Bob Kennedy è particolarmente teso e commosso (non sa, o forse teme, che la stessa sorte gli toccherà due mesi dopo, cinque anni dopo l’assassinio del fratello John): «È un momento difficile», dice, non legge, parla a braccio – come abbiamo visto fare Barak Obama, nel discorso della vittoria – «per gli Stati Uniti, nel quale bisogna chiedersi what kind of nation we are and what direction we want to move in». Affronta, con una efficace scomposizione d’uditorio, cara agli oratori attici, il problema del rapporto neri-bianchi. I neri presenti sanno che sono certamente bianchi i responsabili dell’assassinio, una reazione vendicativa può portare sicuramente ad una polarizzazione «black people amongst black, white people amongst white». Oppure si può, tutti insieme, proprio seguendo l’esempio di Martin Luther King, cercare di comprendere, fermare la violenza e andare avanti. L’ethos dell’oratore può offrire un argomento persuasivo: lui stesso ha avuto un fratello (pudicamente Bob dice «a member of my family») ucciso dall’odio, e l’assassino era un bianco. È a questo punto che, nel pieno di un discorso totalmente immerso nel dramma contemporaneo della sua nazione, Bob Kennedy evoca l’antica Grecia; preferisco riportare le sue parole, riproponendo anche la piccola correzione iniziale e l’esitazione nel mezzo della citazione: «My favorite poem … my favorite poet was Æschylus. He once wrote…» qui Kennedy si ferma e sembra ripetere nella sua mente per qualche secondo, con un evidente sforzo di memoria, i versi che vuole citare, e poi prosegue: «Even in our sleep, pain which cannot forget falls drop by drop upon the heart until, in our own de … despair, against our will, comes wisdom through the awful grace of God».

I versi del nostro Eschilo americano, inatteso consolatore di una folla in lacrime, appartengono all’Agamennone. Li pronunzia il Coro, nella lunga parodo che segue al prologo recitato dalla guardia. Sono i versi 179-183. Basterebbe ricordare le due parole che li precedono per aprire uno scenario culturale di abissale profondità: pathei mathos. La saggezza che si raggiunge attraverso la sofferenza è legge fondamentale di Zeus. Ma il punto non è di ordine esegetico. Il punto riguarda la doppia traduzione di cui stiamo parlando, una traduzione inglese del testo eschileo e una traduzione della cultura eschilea nella cultura americana. La citazione kennediana è stata al centro di qualche isolato approfondimento anche in area antichistica, tanto più che qualche rigo dopo, anzi qualche attimo dopo, alla fine del suo discorso, Bob Kennedy ritorna sull’insegnamento dei Greci, questa volta non di un singolo autore: the Greeks in generale. Alla citazione eschilea aveva fatto seguire una sorta di dichiarazione d’intenti, condotta con l’arma retorica della correctio, della contrapposizione: della scelta, cioè, fra un atteggiamento sbagliato e uno giusto. Non odio, non violenza, non illegalità, ma amore e saggezza, e reciproca compassione, e giustizia, bianchi o neri che si sia. Aveva, poi, chiesto alla folla di tornare a casa per pregare per il leader ucciso e praticare così l’amore e la compassione. Nonostante le difficoltà del passato, del presente e quelle probabili del futuro, la maggior parte degli americani avrebbe voluto sicuramente migliorare la qualità della propria vita e la giustizia per tutti. L’esempio da seguire, ancora una volta, risulta essere quello dei Greci: «Let us dedicate ourselves to what the Greeks wrote so many years ago: to tame the savageness of man and make gentle the life of this world. Let us dedicate ourselves to that and say a prayer for our country and for our people».
I Greci hanno, dunque, la parola finale: diventano un modello ideale di comportamento politico e sociale. Ma torniamo alla nostra citazione esplicita, della quale occorrerà subito dire che campeggia, incisa sul marmo della tomba di Bob Kennedy, nel cimitero di Arlington. Bob Kennedy ricorda e cita proprio, anche se con una leggera modifica, la traduzione di Edith Hamilton tratta dal best-seller The Greek way.

Come ha raccontato Arthur J. Schlesinger Jr. nella biografia di Bob Kennedy (1978), The Greek way era diventato una guida spirituale fondamentale per Bob negli anni delle consecutive tragedie familiari e politiche. Glielo aveva fatto conoscere Jacqueline Kennedy, vedova del fratello John, e Bob portava sempre con sé, piena di sottolineature e pronta ad essere consultata per citazioni estemporanee, una copia del 1964. Schlesinger aiuta anche a rintracciare la fonte dell’altra citazione di Kennedy quella relativa ai Greci, non un autore antico in particolare, ma una frase della stessa Hamilton, che Kennedy citava spesso, tratta dalla raccolta di saggi pubblicata postuma nel 1964, The Ever-Present Past. Martin Luther King, del resto, conosceva il mondo greco e i suoi pensatori più importanti, ma guardava alla sua epoca come al mondo nel quale decidere volontariamente di vivere, se l’Onnipotente gli avesse offerto la possibilità di scegliere. Lo aveva detto il giorno prima della sua morte, e dunque del discorso di Kennedy, il 3 aprile 1968, in un discorso a Memphis, che conteneva il racconto di uno straordinario viaggio nel tempo, dall’antico Egitto fino alle epoche più recenti, ma con un’unica risposta finale: «I would move on by Greece, and take my mind to Mount Olympus. And I would see Plato, Aristotle, Socrates, Euripides and Aristophanes assembled around the Parthenon. And I would watch them around the Parthenon as they discussed the great and eternal issues of reality. But I wouldn’t stop here». I classici vanno vissuti, rivissuti nel proprio tempo.

In questa breve era “imperiale”, dunque, neanche un decennio, molte parole dei classici greci risuonarono nelle aule e nelle piazze, con la profondità di citazioni non occasionali né di maniera. Il rapporto fra Poesia e Potere che Frost aveva profetizzato si era in parte realizzato, a volte all’interno stesso delle parole del potere. Il modello augusteo riviveva, però, non solo nelle parole, ma anche nelle immagini. Del potere delle immagini hanno scritto sia Paul Zanker, magistralmente, per Augusto (1989), che David Lubin per John F. Kennedy (2003). Lo scenario visivo-verbale dell’“era dei Kennedy” contemplava, dunque, una compresenza fra Grecia e Roma, come quella che Augusto aveva dovuto affrontare inaugurando il suo impero.

Stiamo ragionando su questi temi a distanza di cinquant’anni, ma ne erano passati, allora, neanche una ventina da quando un altro impero, un minaccioso Reich si era impossessato del passato con quella caratteristica della logica totalitaria che consiste nel non accontentarsi di occupare, “in sincronia”, lo spazio, ma nel tentare di annettersi anche la storia, di assimilare il tempo.
Ora, invece, modello “imperiale” e modello “democratico”, anche se di quel tipo particolare di demokratia rappresentato da Pericle, tendevano a convivere senza problemi. Si continuerà a discutere ancora per molto sul rapporto fra demos e prôtos anér e se il kratos potesse essere espresso da entrambi alla stessa maniera e se e come questi tre termini continuino a essere declinati nelle nostre società.

Anche nell’era dei Kennedy, del resto, la Guerra Fredda, lo scontro fra le due superpotenze, spingeva a cercare nel mondo antico analogie di ruoli e figure, magari recuperando tradizionali divisioni all’interno del mondo greco: Atene e Sparta, libertà e oppressione, USA e URSS.
Fredda, la Guerra, come l’Oceano che separava l’Europa, i suoi imperi e le sue democrazie, dal nuovo mondo, nel quale erano state portate con la forza pochi secoli prima, nuove istituzioni e forme di governo. Con la conseguenza che dal nuovo mondo si sarebbe tentato di “restituire il favore”, riportando negli altri continenti una forma di governo dal nome antico – la democrazia appunto -, ma intrecciando, in forme non sempre (o quasi mai) limpide e difendibili, parole e potere, persuasione e violenza. E questa è ancora storia dei nostri giorni.

Poesia a Milano

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Alla Casa della Poesia,
il 20 novembre 2012, ore 21

XI Quaderno di Poesia Italiana Contemporanea

Azzurra D’Agostino, Fabio Donalisio, Vincenzo Frungillo, Marco Simonelli

leggono dal XI Quaderno di Poesia Italiana Contemporanea, Marcos y Marcos.

Introducono Franco Buffoni e Umberto Fiori

Tra la prima e la seconda tornata di letture dei poeti
Umberto Fiori presenta Franco Buffoni, Poesie 1975-2012, Oscar Mondadori 2012

Casa della Poesia, Palazzina Liberty, Largo Marinai d’Italia 1, Milano.

(cliccando i nomi dei poeti, potete leggere alcuni testi selezionati per il Quaderno)

“C’è un campo di girasoli a Cortona in Arezzo, c’è un campo di paraculi a Cortina d’Ampezzo”.

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Omaggio a Vito Riviello

Mercoledì 21 novembre 2012, ore 17,00
Galleria del Primaticcio-
Palazzo Firenze, 27 | Roma |Tel 06.6873694/5

“Vito Riviello è uno dei poeti più significativi del Novecento, con il suo originario senso della sproporzione  ha preso di petto i singoli frammenti della evanescente realtà verbale e fisica in cui siamo oggi immersi, facendo sprigionare scintille del suo vuoto e giocando con l’assurdità del suo indifferente apparire; ha manipolato comicamente i nostri linguaggi più normali e onnivalenti, che percorrono i media in tutte le direzioni, da Roma a Parigi, da New York a Potenza (da quello del dibattito culturale a quello della politica, della cronaca, dello spettacolo, della pubblicità, della televisione.) …
Attraversando così  tutto il Novecento e la rarefazione dei linguaggi del postmoderno, ci ha lasciato  un’immagine della realtà e della nostra storia italiana assolutamente unica e inimitabile”.
Dall’introduzione al volume “Assurdo e familiare”  di Giulio Ferroni.

Introduce

il Prof. Donato Tamblè, Soprintendente Archivistico per Roma ed il  Lazio

Interventi:

“ L’Assurdo e il familiare nella poesia di Riviello”

Prof. Giulio Ferroni, critico e Ordinario di Letteratura Italiana presso l’Università La Sapienza
Prof.ssa Francesca Bernardini Ordinario di Letteratura italiana moderna contemporanea e Direttore dell’Archivio del Novecento presso l’Università di Roma La Sapienza.
Prof. Aldo Mastropasqua, Ricercatore di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università di -Roma La Sapienza.

“Riviello in translation: le traduzioni possibili”
Prof.ssa Brunella Antomarini , Docente di Estetica e Filosofia contemporanea e traduttrice presso la J. Cabot University of Rome.

Seguirà il reading di alcune fra le poesie più significative di Vito Riviello

“Tutto quello che ho perso me lo ritrovo in versi”
Legge  Giacomo Trinci, poeta

Il sito come archivio e luogo di conoscenza
Presenta Elisa Davoglio, poetessa

La poesia e il senso della vita
Intervista a Vito Riviello di Paolo Ragni, scrittore e giornalista, Rivista Decanter ; interviene la dott.ssa Annamaria Riviello, Vicedirettore della medesima rivista.

In occasione della manifestazione sarà visibile al pubblico una mostra documentaria sulla produzione del poeta.

Il Campiello ritorna in Calabria 35 anni dopo – Le tante forse troppe cose in comune tra i romanzi di Saverio Strati e Carmine Abate

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di Domenico Talia

I premi letterari li vincono i libri, se e quando i premi sono virtuosi. Dopo i libri ovviamente i premi li vincono anche gli autori e gli editori. Si dirà che non sempre è così, anche questo è vero, ma ci sono casi in cui i premi mantengono le promesse fatte.

Dopo trentacinque anni la civiltà letteraria calabrese finisce nuovamente sulla strada del Premio Campiello. Lo fa mettendo insieme due autori che hanno tante, forse troppe, cose in comune – anche a voler tralasciare la loro calabresità. Nel 1977 Il selvaggio di Santa Venere ha portato Saverio Strati alla vittoria del Campiello. Il romanzo pubblicato da Mondadori racconta la formazione civile di un giovane contadino calabrese che conosce a sue spese il mondo arcaico e violento della ‘ndrangheta e fa di tutto per allontanarsene. Quel romanzo, che di fatto è anche uno strumento di interpretazione storica della realtà meridionale, è stato tra i primi a narrare la vita dei malandrini, il loro linguaggio, le loro ritualità, l’equivoco senso dell’onore.

Nel 2012, La collina del vento, un altro libro che narra un secolo di vita di una famiglia con i piedi ben piantati in quella terra di fronte allo Ionio, ha riportato un narratore calabro come Carmine Abate a vincere il Campiello. L’editore dei due libri è lo stesso e in qualche modo questa doppia edizione a distanza di oltre trent’anni è anche una maniera di raccontare il contesto della terra calabrese e della sua società in due momenti distanti tra loro nel tempo e nei costumi di vita della sua gente.

Il mondo narrato da Strati è arcaico ma inizia ad essere contaminato dalle esperienze di chi ha lasciato la Calabria per necessità e ha visto un mondo in cui la coscienza dei diritti e il benessere economico avevano avviato grandi trasformazioni sociali. In un’intervista di tanti anni fa, Strati racconta il punto di vista del protagonista di quel romanzo, che avverte la necessità di vivere in un mondo più ampio, in spazi di esistenza più aperti: «Per Dominic restare nella Calabria di quel tempo avrebbe significato rinunciare alla possibilità di instaurare rapporti soddisfacenti da un punto di vista culturale. In lui si agitano bisogni diversi, quello di sfuggire alla personalità soffocante del padre, quello di ritagliarsi uno spazio di libertà e, inoltre, da non sottovalutare, la voglia di non regalare i frutti del proprio sudore alla mafia; c’è quindi anche il desiderio di scampare alle trame della criminalità nel “Selvaggio di Santa Venere” …».

In un periodo in cui sembra quasi che scrivere di ‘ndrangheta sia di moda, rileggendo il libro di Strati si trova una narrazione in cui la presenza della criminalità è evidente e condizionante, ma mai strumentale. La ‘ndrangheta è narrata come un elemento negativo e opprimente, ma non come unico stereotipato male. Qualcosa di simile c’è ne La collina del vento. Abate racconta gli Arcuri, una famiglia che difende la propria terra, la bella collina del Rossarco, dalle brame dei potenti locali, che si susseguono dagli inizi del secolo scorso fino a oggi. La loro difesa è strenua. Per loro la terra è elemento primario di una vita civile dignitosa. Le diverse generazioni, fino all’ultimo degli Arcuri, resistono al fascismo, ai prepotenti, ai signori del vento e ai truffatori del turismo vorace che ama cementificare. Questi ultimi incarnano forme moderne di corruttori delle coscienze e di profittatori dei beni pubblici alimentati anche da collusioni politiche opache che, in forma non molto diversa, anche Dominic nel “Selvaggio” di Strati aveva avvertito e rifiutato in quanto nemici della sua terra e del suo progresso.

Le vite e le scelte del nonno, del padre e di Dominic ne Il selvaggio di Santa Venere come quelle dei nonni, dei padri e dei figli della famiglia Arcuri che abita la collina del vento narrano le generazioni che si susseguono e che segnano continuità e trasformazioni del mondo del Sud. Nel romanzo di Abate il mondo esterno è rappresentato da personaggi importanti per la vita culturale della Calabria del Novecento come Paolo Orsi e Umberto Zanotti Bianco. Queste figure di meridionalisti e uomini di cultura incrociano la vita dei contadini calabresi e insieme a loro lottano per conservare la civiltà e il valore di quella terra.

I due romanzi sono nati in periodi storicamente differenti. Il mondo del nuovo millennio non è più quello del Novecento e anche la Calabria non è più la stessa. Anche in quella terra sono cambiate le condizioni e i bisogni. Nel romanzo di Strati la terra è quasi una maledizione che lega i contadini ad un mondo duro e violento. Lavorare la terra sembra l’unica possibilità di sopravvivere in un mondo antico e arretrato che l’autore del “Selvaggio” contrappone alla modernità e alla vita civile sperimentata da chi ha viaggiato. La stessa terra in Abate diventa un valore primario, un elemento di libertà e di progresso, come a mostrare che all’inizio del nuovo millennio, la vita dei contadini meridionali può ripartire dalla terra, dalla vita costruita sul lavoro dei campi, sulla realtà di una campagna meridionale che nei decenni scorsi era motivo di sottosviluppo e che adesso appare come una grande risorsa.

Il romanzo di Abate racconta della consapevolezza del valore dell’ambiente e della necessità di appropriarsi del patrimonio dell’antica civiltà della Magna Grecia che emerge in Calabria ogni volta che, per una strada o per una costruzione, si scava in quella regione che una volta era al centro di quel mondo da cui è nata l’Europa. La collina del vento è letteratura che narra anche i problemi nuovi di comunità e territori che rischiano nuove predazioni e sono frequentate da moderni trafficanti che speculano sul bisogno di lavoro e di progresso e, talvolta aiutati da nuovi briganti locali, fanno scempio di una terra che avrebbe bisogno di cura e senso civico per riaversi dal sottosviluppo.

I romanzi di Strati e Abate hanno come architrave narrativa le generazioni di una stessa famiglia che di fatto rappresentano un popolo e le sue trasformazioni. Sono le azioni dei suoi membri nel tempo che dura molti decenni a guidare la narrazione. La struttura temporale dei racconti presenta elementi ciclici ma è soprattutto strutturata su un tempo stratificato con andate e ritorni nella narrazione tra le generazioni. Sovrapposizione di epoche, fatti, consapevolezze e paralleli tra padri e figli nei racconti di Strati e Abate si susseguono con andate e ritorni che costringono chi legge a fare i confronti tra le diverse generazioni, tra i loro modi di pensare, tra genitori e figli che nel romanzo di Strati sono in un perenne contrasto, mentre gli Arcuri raccontati da Abate si sostengono tra loro e si muovono sempre nella stessa direzione spinti da un sentimento comune. Sostenuti da radici millenarie ma proiettati sempre verso il nuovo. In questo i due scrittori sembrano mostrare una visione differente del dispiegarsi degli eventi: per contraddizioni dialettiche in Strati e per progressioni di trasformazioni evolutive in Abate. Anche il linguaggio usato nei due romanzi sembra riflettere queste visioni: a volte duro e crudo quello usato da Strati, più vicino al realismo magico di Alvaro quello di Abate. L’uso dei termini dialettali serve a Strati per descrivere in maniera più efficace e profonda la realtà che narra, in particolare quando racconta il sapere contadino o i rituali della ‘ndrangheta. Anche Abate introduce il dialetto quando serve ad aumentare l’effetto simbolico della narrazione e ogni volta che serve a rendere più “vera” la descrizione della vita sulla “collina del vento”.

Abate come Strati è uomo di emigrazione, meridionale che ha vissuto in Germania insieme ad altri emigrati, alle loro difficoltà e tribolazioni. Uomini che hanno lasciato il Sud spinti dal bisogno, uomini che pur consapevoli della necessità di cercare in nuovi territori quello che la loro terra non riesce a dare loro, sentono lo sradicamento e vivono con la ragione nei mondi che li hanno ospitati ma con il cuore rimangono legati al luogo originario. Un concetto che Strati ha ricordato con chiarezza: «È vero, i miei personaggi sono stati paragonati agli ebrei del ghetto, incapaci di acclimatarsi e di mettere radici; ma, vede, l’ambiente dell’anima è là, dove si nasce e il “mondo” è quello dove si è giocato con altri bambini».

È singolare notare come la copertina – di trentacinque anni fa – de Il selvaggio di Santa Venere, dietro il volto di un giovane contadino, mostri i resti di un tempio greco e il recente romanzo di Abate sia centrato sulla ricerca dei resti di Krimisa, la città magno-greca fondata in Calabria dall’eroe greco Filottete, reduce dalla guerra di Troia. Filottete, dopo Krimisa, fece anche costruire un tempio ad Apollo Aleo, dove avrebbe deposto l’arco e le frecce ricevute in dono da Eracle e che lui usò per sconfiggere Troia. Un tempio greco, e tutto quello che ad esso può essere ricondotto, è dunque un chiaro simbolo che lega i due romanzi, che unisce le loro motivazioni profonde e le radici culturali che hanno spinto i due scrittori a narrare le storie della loro terra. Tutte coincidenze che hanno trovato una coincidenza ulteriore e felice nella vittoria al Campiello dei due romanzi. Sono queste consonanze che ci ricordano che, tra le tante nequizie di cui soffre la terra di Campanella e di Alvaro, va comunque segnalata la fortuna di avere storie di valore universale che meritano di essere narrate e, allo stesso tempo, narratori che le sanno raccontare.

video arte #13 – doron solomons

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Doron Solomons, Dejeuner sur l’herbe, 2000.

Ritratto con pecora morta

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di Andrea Gentile

Il cadavere della pecora è disteso, compatto. Appare un soprammobile. Le orecchie sono erette, in rigor mortis, sotto di cui compaiono i primi effetti ipostatici. Il sangue ha già iniziato a depositarsi nelle regioni declivi del cadavere, riempiendo i vasi del derma. Le lividure cadaveriche non mi impressionano. Neanche essere lì, ora.
Pellicone dondola con la testa, come a dire sì.
Guardo il suo volto. È costellato di comedoni e papule. Una cicatrice corona la vena enorme che pulsa sotto il collo. Non dice. Mi guarda.
Roteo il rasoio, dando l’idea di un avvio ipotetico.
Guardo il cadavere.
Penso che è già in atto il processo putrefatorio. I germi anaerobi hanno già elaborato fermenti, ora all’azione nell’atto del divoramento di una vita che fu.
Guardo il suo muso.
È angelico, in quanto ferino.
Esala inarrestato un afrore acido.
Guardo i suoi occhi.
La lana trattiene i segnali corporali, io sono lì perché non sono a cercare la madre mia che è morta.
Lo sento: che è morta.
Mi chino.
Pellicone non parla.
Nessun rumore attorno a noi.
Devo adagiare il rasoio sul cadavere, non so da dove iniziare. Lo avvicino lentamente.
Il rasoio entra in contatto con la pelle. Avverto la pelle che trema. Subisco il brivido.
Taglio, procedo al taglio, poi scatto all’indietro, la mano esce dalla scena in autonomia, mi volto, Pellicone mi guarda, ora chiudo gli occhi, la mano ritorna sul corpo ovino, lo tocco.
Il contatto con il cadavere mi scuote, subisco rorschach di contrazioni muscolari asincrone, impulsi cerebrali involontari si riflettono sul corpo mio. Percepisco, mi pare, una specie di stridio tra il rasoio e la pelle ovina, nugoli di lana cadono, il cadavere essendo inerte.
Mi volto verso Pellicone, che è in piedi. Non riesco a guardarlo negli occhi: il sole corona il suo volto. Vedo solo il suo sorriso; e il dente giallastro scintillare.
Ripiombo sul corpo della pecora. Devo rasarla tutta. Procedo seguendo un moto ondulatorio, circolare. Il rasoio mi sembra un trattore. Raggiungo il collo. Noto una ferita, forse inflitta da Pellicone. Passo il rasoio in contropelo, sotto il pizzetto, guardo il suo muso che è un viso, e che pur sembra esistere, al di fuori dell’esistere.

Ringrazio Andrea Gentile per questo estratto da L’impero familiare delle tenebre future (Il Saggiatore, 2012), il suo primo romanzo.

Per Massimiliano Chiamenti

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_PER MASSI_

Le Murate Caffè Letterario,
Piazza Delle Murate, 50122 Firenze

Sabato 17 novembre, ore 18

E’ una serata organizzata da alcuni amici di Massimiliano Chiamenti per ricordare la sua figura di poeta, performer, cantante, musicista, filologo, traduttore, docente e artista sperimentale e poliedrico. Gli interventi (anche musicali) e le letture avranno come tema un aspetto particolare della produzione e degli ambiti di interesse di Massimiliano.

Proprio il 17 novembre Massimiliano avrebbe compiuto 45 anni.

_Parteciperanno_:

Nina Maroccolo
Roberto Balo’
Elisa Biagini
Andrea Sirotti
CAN-D
Francesca Del Moro
Antonella Francini
Jacopo Ninni
Simone Giusti
Rosaria Lo Russo
Marco Simonelli
Filippo Gatti
Davide Valecchi-Andrea Giacobbe-Leonardo Granchi (Elm)

e altri…

mi chiamano mimì

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di  Massimiliano Chiamenti

 

caro simone,
ti ricordi a parigi
quando giocavamo a fare i ventenni poeti
(e ora invece lecchi il culo ai preti)
e tutto un fremito di pompe e pompidou
e umbertone eco alla sorbonne
noi nella sala bianca e poi il giannizzero:
monsieur le professeur!
(e − zac − che tutti in piedi!)
e il negretto che ci disse

PIOVVE SEMPRE SUL BAGNATO

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I racconti ora faceti ora uggiosi di Giorgio Mascitelli
letti da lui medesimo e interrotti da Biagio Cepollaro.
Dove:
Libreria popolare via Tadino 18, Milano
Quando:
Lunedì 19 novembre 2012 ore 21

Giorgio Mascitelli (1966) vive a Milano. Ha pubblicato i romanzi Nel silenzio delle merci e L’arte della capriola. Racconti e interventi su questioni letterarie sono apparsi sulle riviste Alfabeta, Campo, L’immaginazione, Il Verri, Qui e Sud, nonché nei volumi Piove sempre sul bagnato e Catastrofi d’assestamento. Dal suo racconto Ancora un incendiario! è stata tratta l’omonima opera narrata per la musica del maestro Giovanni Cospito, rappresentata a Venezia nell’ambito della rassegna La costruzione del suono. Con Andrea Inglese ha curato la rassegna di letteratura contemporanea Akusma, tenutasi presso il Teatro Franco Parenti di Milano. Fa parte della redazione di alfapiù.

Savina Dolores Massa, Ogni madre

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di Silvia Contarini

Dopo i romanzi Undici, finalista al Premio Calvino 2007, e Mia figlia follia (2010), Savina Dolores Massa ha pubblicato qualche mese fa presso Il Maestrale il libro Ogni madre, che si presenta come una raccolta di racconti, ispirati a fatti storici avvenuti in Sardegna dall’Unità fino agli anni Sessanta. In realtà, i tredici pezzi – ciascuno dei quali è introdotto da un esergo di contestualizzazione storico-sociale (gli scioperi in miniera, l’occupazione dei latifondi, la lotta contro i Baroni degli stagni, la minaccia di bombardamenti alla diga sul Tirso, la repressione del banditismo, etc.) – vanno a ricomporre un passato che alcuni non esiterebbero a definire coloniale, tra sfruttamento del territorio e vessazioni, lotte di classe e tentativi di Rinascita politica. Ma il libro non si propone solo come un frammentato racconto/romanzo storico: la storia ricomposta è quella degli umili, “vite minuscole”, anzi vite sacrificate, uomini, donne, ragazzi, i cui pur modesti desideri si scontrano con la miseria, la violenza sociale, sopraffazioni anche sessuali. Grazie a una scrittura efficace, fatta di scarti di registro e di tono, prendono vita personaggi come Liccu il pastore, Anna servetta bambina, Giustino e Maria che di mestiere fanno i minatori, e altri. Nel loro vivere dolente non manifestano rassegnazione, ma una forma intima di resistenza, e suscitano profondo rispetto e partecipazione.

Riporto l’inizio dell’ultimo racconto, “Ogni madre”.

Ogni madre

1967. Sono centinaia i sardi emigrati negli ultimi dieci anni. Il fallimento della rinascita economica dell’isola produce una catena di sequestri, estorsioni, omicidi. Balentìa, lettere minatorie, omertà sovrana. È il periodo nel quale l’attaccamento alla propria identità diventa la sola arma contro un incompreso mutamento sociale.

Mabadìttus, brontolò Arrafiella Satta svolgendosi una bocca di sei denti ancora saldi più qualche pezzo incerto, sveglia di colpo al rumore di due scoppi di mortaretto, oltre l’uscio di casa.
Doveva essere molto presto, se il suo galletto non aveva ancora cantato; forse le cinque del mattino, se nessuna luce filtrava dalle imposte.
Chi è che sparava mortaretti nel buio?
E poi, per quale festa, se quella di sant’Antonio era già passata e a quella di san Giovanni mancavano ancora una decina di giorni?
I pensieri, lucidi, scesero sulla federa. Le labbra le si chiusero come un pugno e quel po’ di sorriso con il quale si era destata sarebbe stato l’ultimo della sua vita.
Un intero monte granitico le si sedette sul cuore impedendole di alzarsi. Per alcuni minuti restò immobile, cercando di rivedersi bambina leggera, le mani sporche di farina il primo giorno in cui imparò a fare il pane. Frugò ancora alacremente nella memoria dei giochi, dei sapori nuovi appena scoperti, dei dolori che spaventavano per poco: perché si sapeva che avrebbero avuto una fine. Cercò di proteggersi la vita, un istante, dandole colori e profumi di fieno. La mente iniziò, e smise, una canzone che sua madre amava insegnarle.
Poi il gallo cantò.
Abbracciò il monte, lo baciò in bocca e alla lingua prese terra con schegge di pietra da ingoiare. Gli disse, Stai con me per sempre, e si alzò.
Il passo le strisciò sul pavimento di vecchio cotto, e senza scarpe, e senza fretta, varcò la porta spalancata di casa.
Suo figlio sembrava un ramo stroncato da un albero, un rifiuto gettato per terra, non diverso dal cespuglio di rosmarino in cui affondava la faccia, se non era perché quest’ultimo era vivo.
Fatta ce l’hanno ad ammazzarti.
Si chinò a voltarlo. Non volle, non cercò, ricordi di lui ridente.
Arraffiella e il monte rientrarono nella casa; nessun vicino, nessun bambino sonnambulo, nessun cane della strada, nessuna anima del paese si avvicinò. L’intero mondo sembrava essersi ammalato di febbri che avrebbero lasciato tutti ciechi, muti e sordi.
[…]

#14nIT sciopero generale europeo, la diretta #14N

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I'm afraid of starving
“I’m afraid of starving” Grandmother protesting at Syntagma [@VeriasA]

http://storify.com/ilcorsaro_info/14nit-sciopero-generale-europeo-la-diretta

Jesi. La critica militante e la riflessione sull’uso politico del mito

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(è in uscita FURIO JESI Mito, violenza, memoria, Carocci editore, l’autore ce ne regala un estratto, dal secondo capitolo, e noi lo ringraziamo. G.B.)

di Enrico Manera

Jesi muove dalla storia delle religioni allo studio delle sopravvivenze mitologiche nella cultura e del rapporto tra mito e politica; dopo aver metabolizzato la classicità con gli strumenti della filologia e dell’antropologia ha orientato la sua ricerca dall’antico verso la letteratura moderna e contemporanea. Attento alla porosità dei tempi e alle reciproche interazioni, ha inteso fonti e documenti come tracce di una storia culturale che è anche un’indagine antropologica sulle modalità di costituzione delle identità. In questo senso condivide le istanze più urgenti degli anni settanta, a partire dall’esigenza di un sapere vitale e antagonista delle scienze dello spirito tradizionaliste: la scelta della forma-saggio di sapore benjaminiano e il richiamo al metodo anacronico delle tesi Sul concetto di storia (1940) diviene strumento di discussione dello storicismo e di critica della razionalità tardo-borghese, in particolare della concezione del continuum spazio-temporale in cui epoche e avvenimenti paiono inseriti in una concezione lineare e statica del passato, quasi fossero le stazioni perenni di un percorso necessariamente orientato verso il progresso.

Nei suoi saggi Jesi pratica una fenomenologia della cultura che ha anche una funzione di critica politica, mettendo in atto una «decostruzione dei meccanismi di funzionamento […] operanti nelle culture moderno-contemporanee», dei loro «meccanismi performativi […] e in particolare del rapporto che esse intrattengono con la sfera del religioso e del sacro» (Bidussa, 1993, p. 100; 2009, p. 156). L’importanza, la validità e il fascino dei suoi studi risiedono nel sondaggio dei territori del sacro, della letteratura e del potere, condotto con un impegno di critica dell’ideologia radicalmente illuminista: la ricerca intorno al mito (e al culto della morte che esso sottende) è una critica della cultura che avviene nel segno di un marxismo eterodosso, intellettuale, rivoluzionario. L’indagine sul concreto «funzionamento dei meccanismi della macchina mitologica» è considerata «la necessità più urgente» che egli considera di grande importanza strategica (Jesi, 1973, p. 109).

I suoi libri più apertamente politico-filosofici sono il postumo Spartakus, scritto tra il 1967 e il 1969 e pubblicato solo nel 2000, e Cultura di destra (1979), ma bisogna menzionare almeno l’attività pubblicistica su «Comunità» e «Resistenza. Giustizia e libertà» e poi su «Nuova sinistra. Appunti torinesi», in cui mostra un pensiero politico caratterizzato da un marxismo libertario, radicale, iconoclasta e mondialista.

Compito degli intellettuali in una vera e propria battaglia culturale è promuovere il rovesciamento della tradizionale codificazione della mitologia, storicamente al servizio delle classi dominanti: studiare il mito significa smontarlo per compiere un’opera di smascheramento e demistificazione, emancipativa e pedagogica. L’obiettivo è la comprensione del rapporto dinamico che si instaura tra le forme discorsive del mito e le pratiche politico-sociali che ne sono la proiezione, mitologie vissute che si realizzano nella storia e che sono inseparabili da ogni forma di autorità, potere e violenza, le tre accezioni italiane del tedesco Gewalt. ‘Mito’ è uno «zero efficiente» (Jesi, 2002 a, p. 31), un nulla in termini ontologici che si mostra come sostanza e che si rivela capace di mobilitare masse e individui.

[…]

Mario Pezzella (1989, pp. 300 ss.) ha proposto un proficuo schema per interpretare complessivamente l’opera di Jesi. Il suo pensiero può essere definito come una «costellazione in tensione tra tre poli»: (1) una dimensione «festiva del simbolo» appartenente al passato che nella modernità risulta impossibile e tale da apparire solo nelle sue «polarizzazioni negative, intrise di morte»; (2) una concezione del «compimento del nichilismo» e del «muto confronto con il dio ignoto» per cui il presente è il tempo della desolazione e della inevitabile distruzione di ogni illusione mitica; (3) il «rinvio utopico al futuro» nei termini di un «idea regolativa di un agire politico» che ha l’aspetto di una sintesi tra marxismo e messianismo. Alla luce dell’intreccio tra le tre dimensioni (tempo delle origini, tempo del nichilismo, tempo utopico) la dimensione del mito inteso come utopia politica è l’altro volto della critica del mito metafisico.

Tutte le opere di Jesi mostrano questa duplicità di sguardo e si interrogano sull’importanza dell’utopia e sulla possibilità problematica di un ‘mito di sinistra’: il ricorso al mito da parte della propaganda politica rischia di diventare un elemento intrinsecamente reazionario anche quando le sue finalità sono progressiste. Servirsi di immagini dotate di forte impatto inconscio e capaci di suscitare forte emozione significa infatti neutralizzare la razionalità critica necessaria a una lucida azione di trasformazione della società.

 

Tutti i linguaggi propagandistici […] sono usati in modo moralmente condannabile là dove non si prevede il superamento dell’esperienza raggiunta entro l’evocazione tecnicistica del mito. […] Se cioè il linguaggio del mito tecnicizzato è considerato un linguaggio oggettivo e pieno di intrinseca verità, la reazione resta reazione. […] Com’è possibile indurre gli uomini a comportarsi in un determinato modo – grazie alla forza esercitata da opportune evocazione mitiche –, e successivamente indurli a un atteggiamento critico verso il movente mitico del comportamento? Tutto ciò non ci sembra praticamente possibile (Jesi, 2002, pp. 42-43).

 

A dispetto del fatto che ragione critica e uso del mito siano incompatibili, nella propaganda politica, anche di sinistra, il riferimento al passato in vista del futuro avviene costantemente. Si rende necessaria allora una «demitizzazione nella propaganda politica del mito tecnicizzato» e un rilancio del discorso artistico come esperienza ‘genuina’ capace di parlare alla collettività nel «rispetto per l’uomo».

[…]

La pratica sovversiva linguistico-letteraria prepara il momento rivoluzionario perché interrompe il rapporto di reciproca alimentazione tra produzione ideologica e strutture produttive: in questo modo una nuova scienza della letteratura, antistoricista, anticlassica e antidogmatica, deve produrre al tempo stesso la critica della ‘reificazione borghese’, il processo generato dalla cultura del capitalismo in seguito al quale gli uomini stessi vengono ridotti a oggetti e merci sottoposti alle leggi del mercato e dunque privati della loro umanità. Così Jesi ha condiviso con la sua generazione di intellettuali l’idea che «la scrittura letteraria porta insieme l’alienazione della Storia e il suo sogno. […] La moltiplicazione delle scritture istituisce una Letteratura nuova nella misura in cui questa inventi il proprio linguaggio solo per proiettarlo nel futuro: la letteratura diventa l’Utopia del linguaggio» (Barthes, 1960, p. 108).

La perduta gioventù: vent’anni fa a Casarsa

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di Danilo De Marco

Quando all’inizio degli anni ’90 del secolo passato  iniziai le mie discese in treno da Udine a Casarsa il più delle volte  alla stazione mi attendeva Giuseppe Mariuz.  Stavamo allora sulle tracce dei personaggi pasoliniani

Autismi 28 – Quando si è adulti

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di Giacomo Sartori

Quando si è adulti bisogna fare gli adulti, anzi l’occupazione principale diventa proprio quella: si ha da manifestarsi adulti in ogni evenienza e circostanza, con qualsiasi mezzo e a qualsiasi prezzo, e anzi meglio si fa gli adulti più si è considerati e ci si autoconsidera davvero adulti. Il reale interlocutore di ogni adulto è lo specchio: è in primo luogo di fronte a se stessi che bisogna mostrarsi adulti, se si vuole convincere anche gli altri. Si fanno passi in avanti, ci si specializza e perfeziona, acquistando a volte uno statuario sorriso che ricorda la maschera ironica ma anche gioiosa di Ben Gazzarra. Quando si è davvero imparato, e si comincia a essere soddisfatti di se stessi, ci si accorge che si è ormai vecchi. Che si sta per morire.

Uno la tira più lunga possibile, tergiversa e strascica i piedi, ma poi finisce che si ritrova adulto. A me è capitato di notte, una notte ben precisa: era buio, la persona vicino a me dormiva, dal giroscale del caseggiato saliva un vuoto più risucchiante del solito, più geologico, e io mi sono accorto che era successo. Mi sono accorto che era finita. Non che mi fossi particolarmente divertito o entusiasmato, intendiamoci, ma era lo stesso finita. Dovevo cominciare a fare l’adulto. Ho subito sperimentato l’angoscia del neofita adulto.

Quando si è adulti si hanno un sacco di seccature: grattacapi di ordine sanitario, economico, legale, morale, famigliare, intimo, lavorativo: è incredibile quante beghe catalizzi lo stato adulto: come le merde le mosche verdi. Prima di diventare adulti non ci sarebbe mai immaginati di poter cumulare una tale mole di fastidi così vari e aggressivi, così surrealmente reali. E non è affatto casuale, ci si rende conto: non si sarebbe davvero adulti se non si sciaguattasse in tutti quei guai maleodoranti, e se non lo si affrontasse con quella risolutezza impaludata in un’uniforme di didascalico – seppur posticcio – stoicismo.

Quando si è adulti non si ha mai tempo, perché si è affaccendati giorno e notte a fare gli adulti, e anche se lo si trovasse mancherebbe agli altri adulti che si vorrebbe frequentare. Il tal amico lo si vorrebbe vedere a cena, in un posto magari pieno di gente sfaccendata – ogni tanto è bello avere attorno a sé persone occupate solo a lasciarsi vivere – e bevendo magari un pochino più del solito, per poi bighellonare senza una meta precisa per tutta la serata, cambiando magari via via i piani, per poi rifugiarsi in un baraccio ancora aperto, dove magari si incontrerebbe qualche altro relitto della notte, il tutto beninteso senza guardare l’orologio, senza fretta, è bello non avere fretta, e non avere l’ansia di divertirsi, e proprio per questo ci si diverte, come succedeva appunto quando ancora non si era adulti, finché appare l’alba, l’alba alla fine di certe notti finisce sempre per apparire, è esperienza comune, e allora uno comincia a fare gli ultimi discorsi, a bere i bicchierini riepilogativi, c’è una gaia solennità nella conclusione delle notti insonni passate con un amico, una sazietà di parole e di empatia, stordente ma anche tonica, e volendo si potrebbe andare a dormire nello stesso posto, non importa se non è tanto pulito, se c’è un’anatra fricchettona che becchetta sul tavolo disastrato della cucina, prima accadevano cose così, perché è bello dire buona notte agli amici, sparare le ultime cavolate fumando le ultime sigarette. Niente di tutto questo: ci si vede a mezzogiorno per un boccone in tutta fretta, con gli occhi tirati sui lati dalle rispettive preoccupazioni, il respiro in punta di polmoni a causa della compressione sulla cassa toracica, e poi ci si saluta, e ognuno corre per la propria strada piena di buche e tranelli. Senza bere alcolici, perché poi appunto ci sono le grane da affrontare, ci sono tante cose da fare: è più saggio evitare le sonnolenze. Qualche volta prima di lasciarsi si scrocca una sigaretta a qualcuno, ed è una trasgressione minuta e in fondo deludente, un impossibile omaggio al tempo passato. Quando ci si separa resta la fame di amicizia, come quando si deve interrompere un pasto dopo i primi stuzzichini, o troncare sul nascere un cosiddetto rapporto sessuale.

Quando si è adulti non si può dire niente a nessuno, intendo le cose un po’ delicate, perché ormai l’esperienza ha insegnato che le persone a cui confidano i segreti vanno a raccontarli alle consorti e queste a altri soggetti, i quali preavvertiranno altri ficcanaso ancora, e insomma ne conseguiranno solo immensi problemi. Una degli inconvenienti dell’essere adulti è proprio quello, la condanna al silenzio. Cercando bene negli occhi degli adulti si coglie l’anelito prorompente a schiantare l’omertà, a forzare con le corde vocali l’isolamento. Molti adulti pagano un terapeuta, che è un individuo remunerato appunto per stare zitto, per non spifferare a terzi nemmeno le peggiori nefandezze.

Quando si è adulti si ha l’esperienza. L’esperienza è un sortilegio malefico che toglie lo smalto alle superfici più seduttive, che fa vedere lo scheletro e i prodromi di putrefazione, che scippa ogni sorpresa del finale. Uno osserva una leggiadra ragazzina, e si vede davanti la matrona appesantita e pedissequa che diventerà, sente una frase, e avverte sullo sterno i supplizi e i cadaveri che soggiacciono o subentreranno, capta un sorriso appena incrinato su un lato, e penetra le faglie annesse e connesse, il destino tragico che le ammanta. Ogni adulto farebbe di tutto per liberarsi della propria esperienza, per essere di nuovo intonso e vergine, e invece l’esperienza lo segue dappertutto, come un’ombra che ghiaccia la schiena, come una letale zavorra.

Quando si è adulti si fanno le cene. Alle cene tra adulti ci sono anche le mogli insopportabili degli amici, o i mariti insopportabili delle amiche, o anche solo insignificanti, o terrifici, e bisogna sorbirseli. Le cene si pianificano per tempo, come anche il lancio dei razzi e le esposizioni universali, perché si è tutti molto occupati, e di solito quando viene il momento non si ha più tanta voglia di cenare in quel modo lì, con quelle mogli o mariti lì, si vorrebbe piuttosto uscire a mangiarsi un panino con il primo venuto. Alle cene tra adulti si finge di non essere adulti, che è il modo migliore per essere davvero adulti. Si alza il tono della voce, si dicono stronzate, si ride fino alle lacrime, si beve più del dovuto, si è un po’ lascivi: è tutta una parodia, nel fondo si sa che si è saldamente adulti. A ricordarcelo ci pensano poi i piatti sporchi e la cucina da mettere a posto, l’esibizionismo della fattura del gas appesa al calendario.

Quando si è adulti si lavora per mantenersi, e sovente da soddisfare ci sono anche altre bocche, perché quando si è adulti si procrea. Si procrea per avere l’impressione di aver fatto qualcosa nella vita, visto che si comincia a prendere atto che questa è sprovvista di senso, per sentimentalismo, per condizionamento culturale, per plagio, per assicurarsi una copertura infermieristica nella vecchiaia, per bontà (per accontentare qualcun altro), o anche solo per ignavia, per etologico richiamo degli ormoni, assecondando la sete di futuro dei propri geni. I figli non possono concepire che si possa essere adulti, la vedono per la condizione incresciosa che è, ma nello stesso sono attirati e rincuorati, almeno in un primo tempo. Non possono immaginare che loro stessi un giorno saranno in quello stato patetico.

Quando si è adulti bisogna stare a osservare stoicamente il decadimento del proprio corpo, come un capitano che assista impotente all’affondare della propria nave. La carne inflaccidisce, i capelli si diradano e imbiancano, la faccia si raggrinzisce: è davvero molto spiacevole. Vengono poi malattie gravissime, quasi sempre mortali. Se la vita cominciasse da vecchi, o anche da vecchissimi, poi si avrebbe la soddisfazione di muoversi via via meglio, di vedere la propria pelle distendersi, di sentire che le energie aumentano, di essere più ottimisti: sarebbe una successione nello stesso tempo più razionale e più piacevole. Sul finire ci aspetterebbe una vacanza ludica e ben assistita, coronata da un auspicato rientro in un accogliente ventre materno. E invece si deve sottostare senza lamentarsi alla propria decomposizione, facendo finta di niente.

Quando si è adulti si ha paura. Si ha paura di diventare vecchi e di morire. E proprio per parare il terrore ci si imbozzola nell’oblio delle attività: si lavora, si corre, si arrampica, si pedala, si viaggia, si pianifica, ci si allena, si tramena, si lotta, si fa carriera, si litiga, si teorizza, si costruisce e si disfa, si rischia, si battono primati, si prega, ci si edifica, ci si immerge in apnea, si svolge attività di volontariato, ci si stressa, si scrive, si scoprono nuove leggi scientifiche, si cerca di distinguersi in modi anche minimi, anche grotteschi, si amoreggia, ci si droga, ci si annienta a piccole dosi, ci si racconta frottole. Quando si è adulti si rimpiange il tempo in cui non si era ancora adulti, senza considerare che a quell’epoca non si aveva cognizione della libertà che si sarebbe perduta, e quindi nemmeno allora si era felici.

Certe persone sono più dotate per fare gli adulti, altre meno, altre ancora hanno invitti corpi di bimbi, fieri spiriti fanciulleschi: non impareranno mai a fare gli adulti, e non ci provano nemmeno. Ma anche molti anziani, compresi quelli con un passato più talentuoso, smettono di inscenare la commedia, per fatica o usura gettano la spugna, e di punto in bianco tornano fanciulli. Alcuni neonati ancora afoni hanno per converso negli occhi saggezze e distacchi di adulto, hanno già bruciato le tappe: ci si domanda come abbiano fatto. Si dice che gli scrittori non diventino mai adulti, ma è una panzana: sono uguali agli altri, si sforzano solo un po’ meno, profittano con scaltre occhiate di ingenuità dell’aurea tardoromantica che avviluppa il loro ufficio.

(l’immagine: Carlo Zinelli, senza titoli, tempera su carta)

Rivendicazione di Matilde Famularo

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Plaza Once y Caballito, D.O.
Plaza Once y Caballito, D.O.

di Davide Orecchio

Molti anni dopo Ascona la riscatta dalle quinte. Quattro suoi componimenti aprono Le voci contro, antologia dedicata dal critico ticinese a poeti non solo defunti e inediti, né semplicemente vissuti nell’incertezza d’essere o non essere artisti ma deceduti ognuno con violenza, oltraggiati nella morte o scomparsi senza lasciare salme. L’isola, Il viaggio, Fabbrica e Maledetto Perón arredano lo zibaldone di Ascona (compendio di annegati e pugnalati, fucilati, sciolti nell’acido, smembrati e sparsi tra terra e mare – poeti purosangue) e li compose Matilde Famularo. Il mondo letterario ci si rifà gli occhi. S’innescano raccolte personali, traduzioni, traduzioni di traduzioni. I suoi manoscritti causano aste tra editori, ma lei che li vergò con grafia di attaccabrighe è morta da vent’anni, è svaporata. Non può vedere come quei necrofili si sbranino.

La mia vita da sbandata

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di Antonella Lattanzi

The Sick Child, Edvard Munch, 1896, litografia

«M’incastro, io m’incastro troppo con la testa. E poi mi chiedo dove sta l’amore. Mi ritrovo che perdo la testa, sempre, per persone complicate. Fanno la vita che faccio io, quindi sono instabili come me. Oppure è il contrario, facciamo questa vita perché siamo instabili? Io non lo so». È un sabato sera di settembre, Elisa è molto bella, ha 26 anni e un corpo minuto, sembra la Natalie Portman di Léon che usa come profile picture su Facebook. Sedute a un tavolino Peroni davanti a Rosi, baretto nel cuore del Pigneto, Roma, Italia, mi guarda con desolata dolcezza. Ma non c’entra con quanto mi sta raccontando, è la sua espressione naturale. Capelli cortissimi tranne un ciuffo che lambisce gli occhi, tre piercing neri — setto nasale, labbra, lingua —, maglia celeste, shorts di jeans su collant neri tagliati, anfibi, chiodo in cui si abbraccia perché inizia a far freddo, se volessi catalogarla la chiamerei punkabbestia.

«Ma ci soffro il triplo, perché sto sempre in bilico, e continuo a chiedermi dove sta l’amore. Dove, sta, l’amore. Però quando sei completamente smarrito su qualsiasi valore come mi sento io, ti trovi in situazioni che nemmeno tu riesci più a capire. Se è giusto o sbagliato per te. Perché sei completamente perso riguardo a tutto. Tutto. Rispetto a te stesso, a ciò che ti sta intorno, all’amore, a ciò che ci dobbiamo vivere, che sia l’università, il lavoro, il rapporto con le droghe, o il mondo artistico, soprattutto». Elisa è sarda, vive nello studentato di Casal Bertone. Studia teatro di mattina, Scienze dell’educazione il pomeriggio, e poi «mi sfascio, quasi ogni notte. Sono sempre stanchissima». Cerca riscontro negli occhi della sua amica Anna, capelli rasati da un lato, rosso fuoco dall’altro, codice a barre tatuato sul collo, dilatazione all’orecchio, maglia stretta, leggings, cintura borchiata, stivali, occhi lunghi e obliqui e un sorriso che riaffiora di continuo ridisegnandole i caratteri del viso. Anna viene da Bracciano, si è appena laureata in Scienze dell’educazione, lei ed Elisa si sono conosciute là, adesso sta cercando di capire cosa fare. «In carcere è bellissimo ma difficilissimo. E se vado a lavorare in comunità… finisce che mi rinchiudono», ride. Chaos, la cagnolina nera che dormicchia sotto di noi, si riscuote e scodinzola per un po’ di pizza. Anna gliela dà, l’accarezza, ci riempie i bicchieri di birra. Brindiamo. Da cosa si riconosce un punkabbestia?

Dallo spaesamento nei confronti del normale? Dalla musica che ascolta, le persone che frequenta, le droghe che usa? Dai vestiti, dal luogo in cui vive — per strada, in uno squat, in una casa? Dal lavoro che ha o non ha? Dalla tristezza? Dai cani, e da come si chiamano, e se sono grossi, se hanno o meno il guinzaglio? Dall’ora in cui si sveglia?

Tra la fine degli anni Novanta e i primi Duemila sono stata punkabbestia anch’io. Ma vivevo a Bari e come tanti adolescenti baresi il mio mito erano le città del Centro Nord. Credevamo che fuori dal Sud il mondo fosse più eccitante, ricco. Per certi versi, almeno all’epoca lo era. Per esempio per la mentalità della gente, di cui un punkabbestia (come un extracomunitario, o un barbone) è una cartina al tornasole. Poiché ti costringe a rivelarti subito a te stesso: lo guardi male, eviti di guardarlo, lo guardi bene. Essere punkabbestia negli anni Novanta, poi, quando anche solo un piercing produceva sconcerto («Perché lo fai?» «Sei autolesionista?»), era totalizzante. Capelli dai colori scioccanti, catene per cinte, cani in libertà, collette, urla. Lo sforzo di apertura richiesto alla gente normale non era indifferente. Come si riconosce un punkabbestia? Da quanto è rissoso? Tatuato?

Da quando vivo a Roma mi sono chiesta spesso come dev’essere crescere qui. Essere bambini qui, schiacciati negli autobus pieni da scoppiare, asfissiati di odori e aliti adulti. Essere adolescenti nella capitale, dove lo sai che hai tante possibilità a portata di mano, e forse ti viene l’ansia da prestazione o il rifiuto per questa città così eterogenea, è vero, ma anche così dura. E se, da adolescenti o giovani, si è punkabbestia? Come si vive, in particolare, in un quartiere come il Pigneto, dove in poco spazio coesistono realtà opposte?

«Se non sono a teatro o allo studentato, io sto sempre buttata qua», Elisa mi indica con gli occhi il Pigneto, «anche se, ti dico, ormai è pieno di radical chic». «E gli altri?». «Dici gli altri come me, come noi?». «Sì», e abbasso la testa perché mi vergogno. «Alcuni squattano. Altri stanno per strada, in camper, o in casa. La sera tutti al Pigneto. Prima anche a San Lorenzo ma mo’ c’è troppa polizia, è pericoloso. L’altra sera Anna l’hanno fermata, poi le hanno fatto la perquisa (perquisizione, ndr) a casa». «Beh, casa», Anna si gratta il naso, «è tipo una comune, ci dorme chiunque», lei ed Elisa si guardano complici. «A casa?», trasecolo, «ma, scusa, non ci vuole un mandato?», la mia cultura legale nasce e muore sul linguaggio delle serie tv. «Che ne so, sono venuti. Immagina i vicini, mi vedono tornà all’alba con la finanza», Anna s’interrompe per guardare qualcosa. Guarda anche Elisa, guarda anche Chaos, guardo anch’io. Due poliziotti in divisa e uno in borghese hanno fermato un paio di marocchini a qualche centinaia di metri da noi, li stanno perquisendo. Rimaniamo zitte finché non scompaiono. «Se ne sono andati?», chiedo. «Li hanno portati via». Subito dopo ci passano davanti dei giovani stranieri. Ridono, chiacchierano, barcollano un po’. Elisa chiude gli occhi. «Ultimamente non ci stiamo regolando, il ritorno romano è stato duro… Minchia, il mese che so’ stata a casa ho bevuto solo filu ’e ferro. Da quando sto a Roma, invece, sarò stata lucida due giorni. Ho ricominciato a fare lo schifo. Avevo pensato beh, a casa mi sono ripresa. Niente. Sono tornata e: tutti i giorni. O questo o quell’altro. Flashettino? Flashettino». «Dici che c’entra Roma, il Pigneto?» «Sì. No. Cioè, c’entra andare via di casa ». «C’hai ragione, non ce stàmo a regolà», Anna richiama Chaos che si è allontanata.

«Comunque la ketamina è la nuova eroina. Va presa… con attenzione. È molto forte», Anna si risiede. «Mo’ che l’hai detto… è vero», Elisa si scurisce, accarezza Chaos. «Anche se, pure la roba… secondo me sta aumentando». «Avòglia…». Stiamo zitte. «Posso?», Elisa indica il tabacco, Anna annuisce. Sino a lunedì prossimo non ha soldi. La finanzia Anna, insiste perché mangi, «prendi ’sto pezzo di pizza, devi mangiare, dài. Ogni tanto ci ricordiamo di mangiare, e dormire», mi sorride. «A proposito Elì, vieni da me stanotte?». «Ma è da quando sono tornata che sto da te!». «Dài tesò! se vieni sono felice». Quando servirà, sarà Elisa a finanziare lei. «È che il tipo con cui Eli si fa le storie vive a casa mia», mi dà di gomito. «Ah!», rido, «allora non è che vuoi andare a dormire dalla tua amica, è che vuoi stare con lui…». Elisa abbassa la testa, «Eh…», sorride. «Fai bene, io ci andrei», le faccio l’occhiolino. Da cosa si riconosce un punkabbestia? E un fighetto? E un radical chic?

«Se serve, scollettiamo», Anna scompare dentro a prendere altra pizza per Eli. Scollettare è una parola che usavo anch’io. I nostri genitori ne avrebbero usata un’altra: chiedere l’elemosina. Per loro, la differenza tra un barbone e un punkabbestia non c’è. Me lo sono chiesto spesso: qual è la differenza? l’età? la possibilità di scelta? i vestiti? Molti ci dicevano: siete una massa di viziati. Fate tanto i duri e poi la notte dormite caldi a casa, e i vostri genitori vi danno la paghetta. Scollettare per voi è una moda.

A volte, per qualcuno, avevano ragione. Chaos guarda il punto in cui Anna è scomparsa. I suoi padroni sono andati a una «festa», Anna la tiene per un po’. Rosi, la padrona del locale, porta via bottiglie e piattini vuoti. Cosa distingue un punkabbestia da un barbone? Il gergo? Colletta, festa (rave), svolta, fare lo schifo (drogarsi troppo), bevuto (arrestato), flash (da droga), squattare (vivere in uno squat) e altre parole?

Ce ne andiamo perché tutte e tre dobbiamo comprare il tabacco. All’incrocio tra Vallo ferroviario e Circonvallazione Casilina, il cuore del Pigneto si snocciola davanti a noi. Operai, povertà, criminalità, Resistenza, Neorealismo, movida: storicamente il Pigneto si lascia animare dalle differenze, si trasforma. Passiamo la Fraschetta (specialità porchetta), Birra+ («qua stanno spesso i punkabbestia»), un gruppo di africani fermo quasi sempre a quest’angolo («abitano qui»), Chiccen (vino, cibo, libri, musica), Primo («questo è il tempio dei radical chic, Antonè»), Contesta Rock Hair (hair style alternativo ed eventi). Sul confine con l’isola pedonale, passiamo un gruppo di immigrati asiatici («Stanno sempre qua. Certi spacciano»). Molti altri gestiscono Internet point e alimentari che costellano le traverse qui intorno. Non chiudono mai.

Elisa, Anna, Chaos e io passiamo un kebabbaro, una serie di locali pieni fino a notte inoltrata di tardo-giovani di tutti i tipi («Aperitivo al Pigneto?» è il refrain), qualche associazione culturale molto attiva e la scicchissima gioielleria Iosselliani, aperta solo dalle 18 alle 24. Seduto sulla soglia della vetrina, un crocchio di punkabbestia e cani — che, come tutti qui, si confonde col nero della sera — si passa birre, canne, pizza, parlando ad alta voce. «Paladini del cazzo!», sta urlando uno di loro rivolto a chiunque. Il viavai dell’isola si ferma un attimo, guardiamo. «Ch’è successo?», chiedo a un uomo coi dread. «Stava picchiando il suo cane, ma male oh, una ragazza gli ha fatto: “La pianti de menàje?” e quello s’è messo a urlare». Il tipo continua a urlare e picchiare il cane. Noi passiamo oltre. Cosa sarebbe giusto fare, invece? In 300 metri ci avvicinano almeno tre persone: «Serve fumo?». E se il punto non fossero i radical chic o i punkabbestia?

Se il punto fosse essere «completamente smarriti»? Su via L’Aquila facciamo la fila al distributore di sigarette. Davanti a noi, due donne e due uomini cercano di inserire gli spiccioli nella macchinetta, gli cadono, ridono, riprovano, le braccia come scivoli lungo i quali le borsette di pelle slittano sino a terra, le giacche morbide sbottonate sulle camicie, i vestitini mossi appena dal vento, gli occhi liquidi. Un po’ spaventata dai rumori, Chaos ci guarda con lo sguardo tipico dei cani: che sta succedendo? Tu lo sai, vero?

[Questo reportage è stato pubblicato su La Lettura de Il Corriere della Sera il 4/11/2012]