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Azione popolare: lottare per il bene comune

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Azione popolare: lottare per il bene comune
a cura del comitato Area ExEnel


Immagine della copertina del libro di Salvatore Settis Azione popolare, Einaudi, 2012

incontro  lunedì 10 dicembre 2012 ore 18.30
intervengono Salvatore Settis in dialogo con Marco Biraghi, Marco Belpoliti e Gianni Biondillo

Careof DOCVA
Fabbrica del Vapore, via Procaccini 4, Milano

“La comunità dei cittadini è fonte delle leggi e titolare dei diritti. Deve riguadagnare sovranità cercando nei movimenti civici il meccanismo di base della democrazia, il serbatoio delle idee per una nuova agenda della politica”. (dalla presentazione di Azione popolare, Einaudi, 2012)


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La stanza del disordine (lettera aperta a un Curato carrucese)

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di Gian Balsamo

Gentile Signor Curato:

ci ricordiamo di tanti Curati a Carrù. Di nome, però, ricordo solo un suo successore: Don Luigino, che creò il Carnevale dei Cuori in festa, e s’è lasciato dietro tanto affetto in paese, meritato a parer mio. Ma, di fatto, ricordo molto meglio Lei, Signor Curato, sebbene, mi perdoni, abbia scordato il suo nome. Penso che molti dei miei coetanei di Carrù la identificheranno facilmente. Lei era alto e smunto e, strano manierismo, nei locali dell’Azione Cattolica ci diceva sempre: “spengi la luce,” invece di spegni. E uno alla volta, non l’avrà dimenticato, ci portava a turno nella Stanza del Disordine della Casa Canonica, la stanza immediatamente a destra della porta d’entrata. Oggi le scrivo per spiegarle la maniera in cui Lei mi indusse a lasciare Carrù. Mentirei se sostenessi che mi accingo a raccontarle l’unica ragione per cui me ne sono andato dal paese natale. Ma dopo aver letto questa lettera, dovrà riconoscere che Lei mi privò di alternative: rimanendo a Carrù, ero destinato a morire di fame.

Oggi comprendo che, per ragioni di censo, e anche in quanto ero il perenne primo della classe, ero un intoccabile, e infatti Lei mi toccò proprio poco nella Stanza del Disordine. Non ricordo altro che carezze sulle mie gambe nude; a quei tempi portavamo tutti pantaloncini esageratamente corti. È vero che potrei avere scordato altri dettagli, ma non lo credo; la moda di disseppellire memorie rimosse ha fatto scalpore qualche anno fa, devastando le vite di tanti suoi confratelli, però non mi pare che questo tipo di ricordo vada cercato col lumicino. Non so nemmeno fin dove Lei si spingesse con gli altri bambini.

Sono diventato scrittore anche grazie a Lei, perché mi ha aiutato a scoprire, intorno agli otto anni o giù di lì, la trama del triangolo amoroso. Questa stessa trama l’avevo vista rappresentata nei film proiettati al Cinema Moderno di mio nonno Francesco, ma ero troppo giovane per capirla. Poi un giorno, nella Casa Canonica, l’ho vissuta in prima persona, pur continuando a non comprenderla. Era d’estate? Lo penso, perché noi bambini trascorrevamo interi pomeriggi nella Casa Canonica. Non saprei dire perché, in quei giorni, venissimo nella Casa Canonica invece che nei locali dell’Azione Cattolica, nostra destinazione naturale, dove avevamo il ping-pong per giocare, il calciobalilla, etc. Forse i locali dell’Azione Cattolica erano in fase di costruzione o di ristrutturazione? È probabile. Fatto sta che, giorno dopo giorno, Lei ed io ci appartavamo nella Stanza del Disordine, dove mi prendeva in braccio e, canticchiando, mi accarezzava le gambe nude. Il senso di amore paterno e il conforto che mi comunicavano quelle sue carezze erano uno stimolante irresistibile. Tanto che ogni nuovo giorno anelavo a quei nostri abbracci; illuminavano le mie giornate.

Poi venne il giorno in cui la vidi avviarsi verso la stanza del disordine in compagnia di un altro bambino. In uno sprazzo, la mia mente infantile fu in grado di eseguire la semplice equazione: Stanza del Disordine uguale abbraccio. Ma non fui in grado di eseguire l’altra equazione, altrettanto evidente: 1 + 1 = 2. Così, terzo incomodo, vi seguii entrambi. La porta della Stanza del Disordine era già chiusa quando la raggiunsi. La spalancai. Al mio apparire sulla soglia, non solo lessi il cruccio colpevole sul suo viso, Signor Curato, ma anche la sorpresa indispettita sul viso del bambino al suo fianco. E vidi anche, in un lampo (come se fossi nella posizione privilegiata di un dio o d’un narratore onnisciente), i muscoli del mio viso contrarsi nell’espressione di un sentimento che non mi era per niente familiare, e di cui non conoscevo nemmeno il nome, credo: la gelosia. Avevo forse otto anni, e scoprivo in quel momento, in anticipo su ogni esperienza di delusione amorosa, il potere evocativo di una delle trame letterarie più comuni: il tradimento amoroso. È la trama che conosco meglio fin dall’infanzia, ma al tempo di questo incidente non potevo raccontarla ad altri che a me stesso. Mi bastava chiudere gli occhi per veder scorrere, come in un film, la sequenza delle scene: lei che cammina con un intruso al fianco; io che vi seguo, trovo la porta chiusa, la spalanco e compaio sulla soglia…

Questa esperienza mi ha facilitato, più tardi, nella scoperta del potere evocativo di tante altre trame: l’invidia, l’ambizione, la brama, la paura, la nostalgia, il desiderio. Le ho sfruttate tutte, una ad una, nei romanzi che ho firmato col nome di Luigi Ferdinando Dagnese. Ma la trama della mia gelosia di quel giorno lontano non l’avevo mai raccontata, finora.

Oh, Signor Curato, perché mi ha tradito?

È a causa sua, Signor Curato, che non sarei potuto sopravvivere a Carrù. Sulla porta della Chiesa Parrocchiale venivano affissi settimanalmente i titoli dei film mostrati nel Cinema Moderno di mio nonno Francesco, ed ogni titolo era seguito dal grado di peccato, veniale o mortale, di cui si sarebbe macchiato lo spettatore. I grandi film che hanno lasciato una traccia indelebile sulla cultura nazionale e internazionale, da Otto e mezzo di Fellini all’Avventura di Antonioni, provocavano immancabilmente peccati mortali. Ma Lei mi insegnava che non faceva molta differenza, che io li vedessi o no, quei film. C’era ben altro, a lordare la mia anima: nel proiettare quei film a pagamento, la mia famiglia vendeva il peccato. Un giorno, lo ricordo come se fosse ieri, alcuni bambini scrissero il proprio nome e cognome su una parete posticcia, in compensato, nei locali dell’Azione Cattolica. Quando io manifestai il desiderio di imitarli, Lei si limitò a chiedermi: “Il tuo nome, Balsamo, qui?” Ricordo specialmente il sorriso, un po’ crudele, un po’ ottuso, con cui mi disse queste parole.

Bambino cattolico irreprensibile, sentivo che era compito mio espiare la vendita del peccato per conto di tutti quanti i miei famigliari. E ce n’erano davvero tanti, di colpevoli da redimere, oltre a Nonno Francesco: la famiglia di mio padre Agostino, il droghiere, e quelle dei suoi due fratelli Domenico e Franco. Il cibo che i miei genitori, mia sorella ed io mangiavamo a tavola, nel retro della drogheria, era acquistato con i frutti di proventi immondi; ogni boccone, dunque, mi spingeva nello stomaco un’oncia di peccato. E il peccato  ̶  immagino che Lei lo sappia bene, Signor Curato  ̶  è indigesto. A fasi alterne, smisi di mangiare oppure ridussi i miei pasti, per così dire, all’osso. Espiavo. I miei coetanei dovettero rinunciare a chiamarmi “ciccione,” perché pienotto, sì, lo ero stato, ma non lo ero davvero più. Digiunavo e mortificavo la carne alla maniera, senza rendermene conto, dei primi eremiti cristiani d’Egitto e di Palestina. Sono diventato un mistico perché, grazie a Lei, non potevo più considerarmi cattolico.

Ma, Signor Curato, se ero degno di sederle in grembo, non sarei stato anche degno di sedere in grembo a San Pietro?

È certo che sarei finito male, se avessi speso il resto della mia vita  a Carrù. Già a vent’anni sapevo che, per salvarmi dall’anoressia, sarei dovuto scappare dalle case e dalle strade che avevano visto crescere e radicarsi in me quel complesso assurdo. Anche Lei è scappato da Carrù, mi risulta, o meglio, venne rimosso precipitosamente dalle proprie mansioni di Curato. La fuga da Carrù m’è costata sacrificio ma m’è anche valsa avventure impagabili. Lo racconto, se le interessa, nella “Lettera a mio figlio” che ho appena pubblicato, a mo’ di introduzione alle mie memorie carrucesi, in Amori, americhe e amarezze. E Lei come se l’è cavata, dopo Carrù? Dov’è finito?

Mi creda, Sinceramente,

Gian Balsamo

ricevo questo testo da Balsamo, e lo posto volentieri; lui stesso, nella lettera di presentazione, lo definisce “un artefatto letterario che sostituisce l’ironia al legalismo e al rancore”; GS

(Gian Balsamo ha pubblicato di recente un memoir, “Carrù,” in Amori, americhe e amarezze a cura di Danilo Manera (Araba Fenice, 2012). È autore di Lettera alla venere in pelliccia (BdV, 1993) e Joyce’s Messianism (University of South Carolina Press, 2004). Vive a Palo Alto in California.)


 

 

“Se uno fa il mediatore culturale”

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di Alessandro Portelli

Annalucia Accardo mi ha chiesto di fare questa lezione e capita che sia l’ultima volta che faccio ufficialmente lezione all’università. È una felice coincidenza anche perché l’argomento della lezione è lo stesso con cui ho cominciato: musica e movimenti negli anni ‘60. Perciò ve lo racconterò come una testimonianza, una storia personale di formazione in cui queste canzoni sono state cruciali, perché senza queste canzoni sarei una persona diversa, non avrei fatto questo mestiere.

Avevo 16-17 anni, non avevo alcuna idea politica in testa eccetto che la politica era una cosa sporca, che erano tutti uguali, eccetera. E al telegiornale vedevi cose come quei nove bambini neri dell’Arkansas che passano in fila tra sputi, sassate, bastonate, per entrare a scuola e rivendicare il diritto a un’istruzione comune a tutti. Questa scena, per un ragazzino di sedici anni di allora è un’illuminazione: ‘Ma allora la politica è questo, la politica è un luogo nel quale le persone si muovono per dei valori, per dei principi, per l’uguaglianza…’ Il movimento per i diritti civili afroamericano ha avuto un impatto del genere su tutto il mondo – la rivelazione di tutta un’altra dimensione, dell’azione collettiva, della pratica solidale, della morale nella politica, dei diritti di tutti. Io già bazzicavo la musica americana, il rock and roll e il resto, in cui mi riconoscevo come generazione. Così un elemento di fascino ulteriore fu che questo movimento dei diritti civili si esprimeva in primo luogo attraverso la musica. Ascoltiamola: una registrazione fatta in una manifestazione di massa in Mississippi, nel 1953: ‘libertà, libertà su di me, e prima di essere schiavo sarò sepolto nella tomba, andrò a casa dal mio Signore e sarò libero’. È uno spiritual che risale almeno dalla Guerra Civile, attorno al 1860. Come in tantissimi spiritual c’è l’espressione di un desiderio di libertà, che non si può esprimere se non in immagini bibliche: dentro il canto religioso c’è un’idea di liberazione che può essere mondana o ultramondana ma comunque un’idea di liberazione.

Il movimento si esprime grazie a una grande cultura musicale. Da un lato, le radici africane, con un rapporto molto stretto tra ritualità, musica e danza, che viaggiano persino nelle navi degli schiavi, perché sono un linguaggio del corpo e i linguaggi del corpo sono gli ultimi a venire cancellati. Dall’altro, in tutti gli Stati Uniti, fin dal ‘700, i culti metodisti, battisti, evangelici, sono fondati sulla musica collettiva – sia per l’influenza afroamericana, sia perché forma di comunicazione col divino e uno strumento di coesione della comunità. Pensate alla scena di Moby Dick in cui Father Mapple, predicatore, inizia un canto e le persone sparse si raccolgono e diventano congregazione, comunità. L’altra cosa importante di questo brano è la forma: una strofa che si ripete sempre uguale, cambiando solo una parola all’inizio. Quindi tu puoi anche non avere mai sentito questa canzone però dopo trenta secondi sei non solo in grado di cantarla, ma anche di reinventarla, perché immetti dentro il canto le tue istanze del momento. È uno strumento flessibile che ti permette di combinare memoria di cent’anni e più di storia con il presente, con la lotta in corso; e di improvvisare collettivamente, combinando comunità ed espressione individuale, perché si canta tutti insieme ma ciascuno si può inventare un sua strofa e condividerla con gli altri.

[…] Nel 1981, mi trovo in un posto che si chiama Highlander, una scuola di base fondata negli anni ’30 da giovani studenti di teologia, in mezzo delle montagne del Sud più reazionario, per formare i quadri del sindacato, e poi negli anni ’50 quelli del movimento per i diritti civili. Sto salutando il direttore, entra una segretaria e gli dice “c’è Rosa Parks al telefono”. Se mi avessero detto che aveva telefonato Karl Marx mi sarei emozionato di meno. Perché Rosa Parks ci è stata raccontata come una vecchietta con i piedi gonfi, stanca, che non ce la fa ad alzarsi e a cedere il posto a un bianco sull’autobus a Montgomery, Alabama – l’episodio da cui si fa partire tutta la vicenda del movimento. Mi bastò sentire che era in contatto con Highlander per capire una dimensione del movimento che nessuno ci raccontava. Prima di quell’episodio Rosa Parks aveva fatto un seminario di formazione proprio a Highlander: la sua era un’azione politica, consapevole, programmata e organizzata. Infatti a Montgomery c’era tutta una rete che non aspettava altro, era già pronta, e in pochi giorni organizza un boicottaggio di massa. Quindi non era una cosa nata sull’onda dell’emozione, ma da una intelligenza politica – cosa che raramente attribuiamo ai cosiddetti subalterni, ai quali si suole riconoscere magari sentimenti e virtù, ma mai l’intelligenza. È a Highlander che cambia l’uso della musica. Un musicista di nome Guy Carawan convince il movimento che questa forma musicale, di cui i giovani si vergognavano perché la identificavano con la memoria umiliante della schiavitù, è invece uno strumento di comunicazione di mobilitazione fondamentale. E la canzone che gli insegna è uno spiritual, che avevano sentito cantare anni prima dai braccianti del North Carolina in sciopero, e a cui adesso cambiano solo una parola: da “I’ll Overcome” diventa “We Shall Overcome”.

[…] Il movimento per i diritti civili cambia l’aria che si respira in America, e ha un impatto fortissimo su tutta una generazione – che è poi quella del ‘68, che comincia con la lotta per il diritto di parola all’università di Berkeley nel ‘64, condotta in gran parte da ragazzi che tornavano dall’aver partecipato alla “Freedom Summer” per i diritti civili in Mississippi. Gli studenti bianchi tornano alle loro università e scatenano una lotta che segna la rottura tra una generazione di ragazzi, magari privilegiati, ma che non si riconoscono più nell’insegnamento che li porta verso la carriera, il successo, i soldi, la competizione. Da lì partono i nuovi movimenti contro le guerre e gli interventi militari, da Santo Domingo al Vietnam. La voce in cui si riconosce tutta una generazione è quella di Bob Dylan. Lui poi si sottrarrà per tutta la vita dal peso di essere la voce di questi movimenti, ma in questa fase, tra il 1962 e il 1964, lo è davvero. E la canzone fondamentale degli anni ’60 è sua: “The Times they are a-Changin’”. È difficile immaginare il senso di eccitazione e di ebbrezza che ti dava una canzone come questa: sentivi davvero che “i tempi stanno cambiando” e che eri tu che cambiavi coi tempi e cambiavi i tempi. Questo erano gli anni ’60, la sensazione fortissima che si apriva una nuova strada, e che – come dice la canzone – politici, famiglie, intellettuali, istituzioni o si levavano di mezzo o ti davano una mano; o nuotavano con te o affondavano.

Risentendola adesso, però, mi colpisce il verso che dice “the present now will never be past”. Nel ’63 lui e noi diciamo: “voi siete il presente, tra un po’ sarete il passato”. Ma nel 2012, il passato siamo noi che eravamo il presente di allora; è lui che è sempre bravissimo ma non è più la voce dei tempi. Mi fa pensare al discorso che circola da noi, i giovani contro i vecchi, le rottamazioni – fra dieci o vent’anni anni questi giovani saranno vecchi, è la fallacia di ogni movimento su pura base generazionale. Dicevamo, “non vi fidate di nessuno che ha più di trent’anni”, e il giorno in cui compì trent’anni Bob Dylan fu un trauma per tutta una generazione, che non si poteva fidare più nemmeno di lui, e di se stessa. Però in quel momento una canzone come questa ci diceva una cosa che è molto più difficile dire oggi: e cioè che c’era un futuro, che c’era una strada, e che eravamo noi a crearli.

[…] Abbiamo ascoltato le canzoni del Black Power (“Oginga Odinga” dei Freedom Singers), quelle di Pete Seeger e Phil Ochs contro la guerra, quelle dei soldati che rifiutano di andare in Vietnam, quelle delle lotte proletarie (i corridos dei braccianti messicani in California). Alla fine, come scrive nel suo ultimo libro Bruno Cartosio, tutti questi movimenti scompaiono, vanno in crisi, eccetera, e quello che tira le fila di tutto e che sopravvive e cambia tutto è il movimento delle donne. Nel 1972 viene a Roma Barbara Dane, grande cantante di blues e di canzoni di lotta, e organizzo un incontro con il collettivo del Manifesto. Barbara canta un po’ di canzoni delle lotte in corso, e poi le chiedono: ‘Che cosa succede adesso di importante in America?’ Lei risponde: ‘La cosa più importante è il movimento delle donne’. Avreste dovuto vedere la faccia dei presenti, che non solo non ci avevano mai pensato ma che da questo movimento si vedevano mettere in crisi i paradigmi di una lettura un po’ dogmatica della storia attraverso la sola categoria del conflitto di classe. La novità con la quale si chiude questa stagione e se ne apre un’altra è questa scoperta, che il pianeta è limitato e che l’aria a un certo punto finisce, e che oltre i rapporti di razza, di classe, eccetera, al centro di tutto stanno i rapporti di genere.

L’ultima cosa che ascoltiamo l’ho sentita per la prima volta proprio a casa di Barbara Dane. Un giorno arriva una sua amica, una giovane musicista che si chiama Beverly Grant, per farle sentire un po’ di sue canzoni nuove. Con mio grande entusiasmo – per un intellettuale non c’è gioia più grande di scoprire una cosa alla quale non avevi pensato prima – scoprii l’importanza, la forza, l’intelligenza, l’eloquenza, di questa nuova realtà delle donne. Non mi dimenticherò mai che lei aveva una bambinetta di due anni, totalmente autonoma che si gestiva il biberon… Questa sua canzone è la storia di come una donna trova se stessa liberandosi di una subalternità instillata fin dalla nascita. Finisce dicendo “Mi chiamo Janie e sono io – non Janie di papà, non Janie di mio marito, ma Janie di Janie”. Come dire: “io sono mia”.

[…] Infine. Queste musiche ci dicono, su uno dei momenti più straordinari del ‘900, più di tutti i romanzi scritti in quegli anni e di tutti i film fatti dopo. Riconoscere l’intelligenza e la passione di questi movimenti passa per l’ascolto di voci non autorizzate, antagoniste, marginali che proprio perché non autorizzate sono portatrici di una spinta liberatoria che sta già nell’atto stesso di prendere la parola. Per capire un tempo, per capire anche noi stessi in rapporto a quel tempo, ascoltiamo voci non autorizzate, ascoltiamo chi erano questi militari che cantavano andando a protestare contro la guerra, ascoltiamo questi musicisti messi sulla lista nera e fuori mercato, questi afroamericani che cantavano rischiando la vita a Birmingham o Selma. Noi in questa facoltà, che siamo tecnici della parola, dobbiamo tenerci molto stretta questa competenza, questo privilegio, questo diritto, perché non solo abbiamo la parola ma siamo destinati ad aprire spazi di parola agli altri. Se uno fa il mediatore culturale, questo fa: apre spazi di parola e di ascolto, e allora ecco che la musica, i racconti, le storie, arrivano, e non li ferma più nessuno.

 

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Barbara Dane, “I’m on my way”

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[apparso, con il titolo “Musica e movimento negli Stati Uniti – una lezione finale”, su http://alessandroportelli.blogspot.it/, il 22 Novembre 2012]

Libri italiani nel mondo – L’immaginaria patria degli edonisti infelici

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di Cristiano de Majo

Hiroshi Watanabe – Marco Andreatta as Pulcinella, From the series Comedy of Double Meaning, Venice, 2010

Sul Corriere della Sera dell’8 ottobre, un articolo di Ranieri Polese, riportando dati e chiacchiere con agenti letterari ed esperti del settore alla vigilia della Buchmesse, attestava una sorta di spread alla rovescia – di dimensioni molto più ridotte in realtà – nel rapporto tra autori italiani di narrativa tradotti in Germania e autori tedeschi  di narrativa tradotti in Italia. Le ragioni di questo successo del, direbbe Montezemolo, romanzo made in Italy sono, a sentire gli intervistati: “l’elemento folklorico, pasta, un bel paesaggio, un intreccio giallo, magari un thriller fra i vigneti del Chianti con un ispettore simpatico e un morto con un coltello nella schiena”, oppure “un immaginario arcaico femminile, la Sardegna. Per un po’ di anni anche mafia camorra e ‘ndrangheta hanno funzionato bene”.  Insomma un grande amore per le storie che non tradiscono l’immagine del Belpaese vagheggiata dai nordeuropei (una mescola di tradizioni, crudeltà, passione e gioia di vivere), anche se, in verità, in questi anni l’editoria tedesca, come quella francese, non è stata del tutto disattenta alla nostra letteratura cosiddetta di ricerca.

È ancora più difficile farsi un’idea di quali siano le logiche che guidano la pubblicazione di romanzi italiani in lingua inglese, un mercato storicamente poco attento alla narrativa straniera, e forse per abbondanza di prodotto interno oltre che di sciovinismo letterario. Su Amazon.com si trovano edizioni in inglese di Piperno, Ammaniti, Veronesi, Avallone, Giordano; c’è una notevole invasione di crime novel nella patria del crime novel (Camilleri, Carofiglio, Carlotto); ma sono anche annunciate per il 2013 di due romanzi complessi, non proprio dei best-seller, Storia della mia purezza (Pacifico) e Il tempo materiale (Vasta); mentre sono del tutto assenti i nomi considerati più alti e influenti della nostra letteratura contemporanea: Siti, Moresco, Nove, Trevi; Tommaso Pincio che, forse superficialmente, potrebbe sembrare lo scrittore più in sintonia con quell’immaginario, è presente, e per motivi credo più musicali che letterari, con Un amore dell’altro mondo e basta. Se ne potrebbe trarre la conclusione che la forma romanzo compiuta abbia maggiori garanzie di riscuotere attenzione e che lo sperimentalismo sia visto con diffidenza, con le eccezioni di Pacifico e Vasta, che però scrivono di due temi molto sentiti in America: il problema dell’identità religiosa e il terrorismo.

Un altro dato interessante viene dal Premio Alassio 100 libri, che ogni anno incorona un “libro per l’Europa” a opera di una giuria composta da italianisti stranieri. Vincitrice di quest’anno Valeria Parrella, che segue Michela Murgia, Margaret Mazzantini. Tutte a vario titolo rappresentanti di una letteratura che verrebbe da definire normale.

Qualche giorno fa mi è capitato di leggere sulla Los Angeles Review of Books un lungo articolo su una edizione bilingue dei Canti di Leopardi curata da Jonathan Galassi, celebrato traduttore di Montale, oltre che poeta e presidente di Farrar, Strauss & Giroux. Alan Williamson, l’autore della recensione, si soffermava sulla difficoltà di tradurre Leopardi, citando Calvino – “oltre i confini dell’Italia, Leopardi non esiste” – e, attraverso qualche esempio, riconosceva a Galassi la buona riuscita in un’impresa così difficile. La parte finale del pezzo era dedicata, invece, a un ragionamento interessante sull’immagine degli italiani. Per quale ragione, si chiedeva l’autore, gli italiani, percepiti da nordeuropei e americani come un popolo caldo, amichevole ed edonista, hanno nel loro pantheon letterario scrittori cupi come Leopardi, Montale, Pavese?

Le risposte che ipotizzava Williamson non convincono del tutto: un passato troppo più glorioso del presente (pessimismo storico); condizioni di vita estremamente dure fino al Ventesimo secolo. Ci vorrebbe forse una maggiore conoscenza dell’identità italiana e della sua letteratura per concludere che la profonda cupezza di cui parla Williamson è un elemento tuttora presente nei nostri venerabili maestri letterari, e anche una caratteristica rimossa nella nostra autorappresentazione. In quanto a cupezza, proviamo a tracciare una linea che unisca i puntini Leopardi e Pavese, appunto, fino a Pasolini e Moresco… Se è vero che la nazione italiana è una costruzione letteraria prima che geografica (Carducci, Volponi) – tema tra l’altro approfondito ne L’Italia letteraria di Stefano Jossa, uscito qualche anno fa per Il Mulino – bisognerebbe forse abbandonarsi alla letteratura per scoprire qualcosa di più su noi stessi; la cupezza dei nostri classici potrebbe indicare che il modo in cui amiamo rappresentarci e odiamo essere rappresentati sia una falsa pista, che sole pizza e mandolino siano specchietti per le allodole per dissimulare un antropologico mal di vivere.

Nelle Lezione americane Italo Calvino dà una definizione magnifica di Leopardi dipingendolo come un “edonista infelice”. Ed è bizzarro come questa stessa definizione si possa applicare a molti prototipi di arci-italiano, veri o solo scritti, dai personaggi di Alberto Sordi a Silvio Berlusconi. Leopardi, a ben vedere, non sarebbe come vuole il luogo comune, il mostro, l’alterità, l’anticorpo, ma l’incarnazione di un elemento ben presente nel nostro DNA. La cupezza è in noi e nel nostro spirito, sotto la maschera di Pulcinella.

[Questo articolo è stato pubblicato su Orwell]

Rileggere Persico

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 E’ da qualche giorno in libreria la riedizione dell’introvabile La città degli uomini d’oggi, di Edoardo Persico, pubblicato ormai 90 anni fa circa. Ho scritto per Hacca la bandella che qui ripropongo. Il libro è, tra l’altro, un bell’oggetto, come tutte le cose che fanno questi temerari marchigiani.

di Gianni Biondillo

Negli anni dei miei studi universitari, in quei vituperati anni ’80, al Politecnico di Milano, di Edoardo Persico non parlava più nessuno. La facoltà d’architettura era salda nelle mani di allievi opachi di Aldo Rossi. Analisti urbani col piglio scientifico, intellettuali coltissimi e freddi, progettisti noiosi.

Persico lo ritrovavo, di sponda, nelle pagine di Bruno Zevi, nei suoi articoli per L’espresso, nei suoi saggi sull’architettura moderna in Italia: devo insomma a un critico romano la curiosità per un pensatore napoletano che, dopo aver vissuto a Torino, decise di abitare proprio nella mia città, a Milano, dove lasciò le sue opere più importanti: dalla installazione in Galleria per il Plebiscito del 1934 all’allestimento del negozio Parker, fino – il suo vero capolavoro – alla costituzione di una rete di relazioni con artisti, scrittori, architetti, che avevano come luogo cartaceo coagulante la rivista Casabella, della quale era, dal 1931, direttore assieme a Giuseppe Pagano.

Persico fu un pensatore autodidatta, inquieto, che visse in povertà estrema, inseguendo le sue chimere, esempio perfetto di tardo bohème, candela che brucia da entrambi i lati, e perciò si esaurisce prima, ma con maggior luminosità dei suoi coetanei. Vita intensa, piena di luci e ombre, quella di Persico. Ed infatti – ubi maior minor cessat – un mio collega ben più titolato di me, Andrea Camilleri, ne ha fatto pure una versione romanzesca.

Occorre rileggerlo, in quest’epoca così povera di slanci teorici, dandogli però l’onore e l’onere del tempo trascorso. Storicizzarlo, per poterlo fare a noi più contemporaneo. Rileggerlo dall’inizio, per capire meglio il suo percorso. Chi avrebbe mai pensato, sfogliando all’epoca La città degli uomini d’oggi, quale sarebbe stata la vita tortuosa di questo ragazzo? Perché, ecco la cosa non detta, è di ragazzi che stiamo parlando: artisti, architetti, critici, pensatori, filosofi. Ma ragazzi. Il nostro migliore Novecento ha saputo permettere a queste giovani menti irrequiete di esprimersi, magari col piglio tronfio che solo la gioventù sa darti, magari con cascami dannunziani – che non mancano in queste pagine del giovane Persico -, magari con misticismi incongrui, appigli teorici datati, ma pur sempre di esprimersi col vivo e profondo desiderio di modificare la percezione della realtà, consapevoli che un nuovo mondo era arrivato e che aveva bisogno di una nuova etica dell’arte che, grazie proprio al loro lavoro, ha saputo poi nei decenni a venire regalare i frutti migliori della nostra creatività al mondo.

Persico aveva ventidue anni quando scrive questo libro. Novant’anni fa. Muore senza averne neppure compiuti trentasei nella sua vasca da bagno. Quattordici anni di passioni che hanno attraversato le discipline, conosciuto mondi immaginifici, costruito teorie urbane. Tutto nasce da queste pagine. Rileggiamole, ne vale la pena.

 

Heinz Czechowski – Vita e poetica

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di Paola Del Zoppo

Heinz Czechowski nasce a Dresda il 7 febbraio del 1935, figlio di un impiegato del fisco di origine polacca. Il contrasto avvertito tra il senso di pace e pienezza dell’infanzia e gli eventi traumatici legati alla guerra, al bombardamento di Dresda del 1945 e al dopoguerra segnano per sempre la sua vita e la sua poesia. «Ancora oggi», racconta nella sua autobiografia scritta in età avanzata, «il quartiere in cui trascorsi la mia prima infanzia mi appare quasi paradisiaco. Mio padre andava a prendere la metropolitana di superficie per andare all’ufficio del fisco alla Marschnerstrasse, vestito elegantemente, mio fratello in bicicletta alla Annenschule. Mia madre e io salivamo sul tetto dell’edificio e salutavamo la silhouette della città immersa nella luce dorata».

L’uomo che non era morto e altre storie

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Berlino, cimitero di Prenzlauer Berg – D.O.

di Davide Orecchio

L’UOMO CHE NON ERA MORTO
Sei anni fa, nello stato indiano del Madhya Pradesh, Raju si presentò dalla polizia e chiese aiuto. L’uomo doveva provare d’essere vivo. Katra, il suo villaggio, l’aveva messo al bando perché lo riteneva morto. Si era ammalato e l’avevano ricoverato in un ospedale lontano dal villaggio. Ma un parente aveva avvisato familiari e compaesani che Raju non c’era più. Il villaggio aveva celebrato la cerimonia funebre. Quando, dimesso dall’ospedale, l’uomo tornò a Katra, quello che vide furono fratelli in fuga da un fantasma, bambini terrorizzati, amici che si rinchiudevano in casa. Allora andò a protestare dal panchayat (il comitato del villaggio). E gli risposero: “Sta a te dimostrare che non sei morto”.

Fonte: Times of India, gennaio 2006.

Come quando si nuota, si dorme o si ama – Un carteggio di Julio Cortazar

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di Sergio Garufi

Fortunatamente Cortázar non abbiamo ancora finito di leggerlo. A distanza di ventotto anni dalla sua morte continuano a uscire preziosi inediti, tanto che a questo ritmo presto la mole della produzione postuma supererà quella di quando era in vita. Si tratta soprattutto di lettere, come Cartas a los Jonquières, il bel volume edito da Alfaguara che raccoglie circa un centinaio di missive e cartoline indirizzate all’amico Eduardo e a sua moglie Maria nell’arco di più di trent’anni, dal 1950, la vigilia del suo trasferimento a Parigi, fino all’84, pochi mesi prima di morire. I due si conoscevano dai tempi della scuola Mariano Acosta di Buenos Aires, quando scrivevano su Addenda, la rivista letteraria del collegio.

Vuole la leggenda, in parte alimentata dallo stesso scrittore, che da giovane Cortázar conducesse una vita ritirata e dedita unicamente alla lettura. In realtà amò sempre circondarsi di amici coi quali condividere le sue passioni culturali, e questo carteggio con Eduardo Jonquières, che fu poeta e pittore, ne è la dimostrazione evidente. Il grosso delle lettere fu scritto negli anni Cinquanta, perché nel ’59 Jonquières e famiglia traslocheranno pure loro a Parigi, e quindi le occasioni di sentirsi diventeranno più facili, ciononostante il rapporto epistolare s’interromperà solo con la morte di Julio. Purtroppo non si sono salvate le lettere di Eduardo, di modo che le sue parole vanno indovinate attraverso quelle di Cortázar.

I temi trattati sono diversi. Julio racconta gli inizi stentati a Parigi, la ricerca di un lavoro stabile, i continui cambi di domicilio contrassegnati dalla sigla “c/o”, lo stigma dei grandi scrittori nel loro momento aurorale, quando si subaffitta una stanza presso altri perché non ci si può permettere un alloggio proprio. Poi le lunghe passeggiate per la città, i giri in bici, le visite ai musei e i viaggi in autostop sembrano per lui un unico apprendistato allo sguardo (“sobretodo camino y miro, tengo que aprender a ver”). Grazie a queste lettere, che costituiscono l’autobiografia che non scrisse mai, abbiamo accesso a un Cortázar inedito e sorprendente, colui che Vargas Llosa definì “un uomo eminentemente privato, con un mondo interiore costruito e preservato come un’opera d’arte”.

Con grande pudore e affettuosa cautela Julio si confida all’amico, gli comunica le preoccupazioni economiche, i dubbi di aver fatto la cosa giusta (“que hago aquì?”, si chiede il 31/10/52). Si rivolge a lui forse perché Eduardo rappresenta il suo contraltare: la distanza fra loro infatti non è solo geografica. Eduardo è l’amico fraterno rimasto in Argentina, sposatosi presto e con una famiglia numerosa; Julio invece fa il bohémien sradicato, e a volte pare invidiargli la sicurezza degli affetti e la stentata agiatezza della vita in patria. Presto però la situazione si ribalta. La presenza di Aurora Bernardez al suo fianco lo sprona a lottare in una città che lo ignora, mentre Eduardo si sente al palo. Così arriverà per Julio l’impiego come interprete all’Unesco grazie all’interessamento di Victoria Ocampo (la direttrice della rivista Sur per cui scrisse pure Borges), poi l’incarico di tradurre i libri di Edgar Allan Poe e a poco a poco anche la serenità economica per poter viaggiare. In Italia lui e Aurora vanno a Siena, Venezia, Como, Roma, dove s’innamorano della pizza (“la locura más inconmensurable del sistema solar”, 27/10/53); ma i resoconti di viaggio negli anni, di pari passo con la sua progressiva affermazione artistica, comprendono paesi come l’Uganda, l’Austria (che chiama musilianamente Cacania), Cuba, Svizzera, Nicaragua, India, Danimarca, Brasile, Kenia e Inghilterra, a volte anche con soggiorni di mesi.

Non mancano le osservazioni sull’arte e la letteratura dei posti visitati, così come i sapidi ritratti degli illustri colleghi conosciuti (Octavio Paz, di cui fu ospite a New Delhi, o Albert Camus a una festa di Gaston Gallimard), e i ragguagli sulla genesi dei propri libri (dall’annuncio il 30/5/52 dell’idea dei cronopios e dei famas, che Aurora giudica negativamente perché troppo moralistici; all’ultima lettera in cui illustra Gli autonauti della cosmopista, il reportage intimo e fiabesco scritto assieme a Carol Dunlop, pieno di gioia di vivere malgrado il presagio della loro fine imminente).

Pur essendo intessuto da molti riferimenti colti, questo libro non somiglia affatto a quei fastidiosi epistolari letterari in cui lo scrivente si prefigura un grande pubblico e autorevoli esegeti postumi. L’interlocutore resta uno, e Cortázar è tutto tranne che un monologhista. Chiede sempre a Eduardo come gli vanno le cose, s’informa sulla sua famiglia e sulla sua carriera ed è prodigo di consigli, tanto che parla molto più dei suoi libri che dei propri. Ma il lato umano è preponderante in questo carteggio, ed è questa la sua vera forza, ciò che più attrae il lettore, tanto che alla fine si potrebbe dire che il tema principale del dialogo dei due amici sia il dilemma tra restare o andarsene, lottare in patria o cercare fortuna all’estero. In una commovente lettera del 27/8/55, questa volta tocca a Julio trovare le parole giuste per incoraggiare Eduardo in preda allo sconforto. Lo invita così a seguire la sua vocazione senza trincerarsi dietro l’alibi del “tengo famiglia”, e al contempo enuncia la propria filosofia di vita: “al mundo no hay que resistirle, lo que hay que hacer es elegir bien el mundo que uno prefiera y al cual hay que darse; y a ése, ah, a ése hay que darse a fondo, como cuando se nada, se duerme o se quiere“.

[Questo articolo è stato pubblicato su l’Unità del 20/11/2012]

“Tutto il contrario”: Calvino e le interviste

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di Luca Lenzini

Tutti sanno, e lo ribadisce Mario Barenghi nell’Introduzione a Sono nato in America…, che Calvino è «un grande classico della narrativa del secondo Novecento in Italia[1]». Tutti lo sanno, nondimeno non era affatto scontato che Mondadori accogliesse nelle sue edizioni un volume di quasi settecento pagine che contiene centouna delle oltre duecento interviste che lo scrittore ha concesso durante la sua esistenza. Chi ha una qualche idea dei meccanismi che presiedono alle scelte editoriali, infatti, poteva con fondati motivi dubitare che una simile impresa andasse in porto. Invece, fortunatamente ora Sono nato in America… si affianca all’opera di Calvino e d’ora in poi accompagnerà il lavoro di chiunque ad essa si voglia avvicinare; ed il merito dell’impresa è del curatore, Luca Baranelli, che oltre a proporlo ha composto il libro con un lavoro durato molti anni.

Nuovi autismi 29 – Il fragoroso vuoto di senso della letteratura (una lettera)

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di Giacomo Sartori

Cari ragazzi, permettetemi di chiamarvi così, io devo confessarvi che non conosco più di tanto questo romanzo che avete deciso di trasporre a teatro. Questo testo che vi ha parlato e sul quale volete lavorare è mio, nel senso che sono io che lo ho scritto. Sono io che gli ho dato vita – vita cartacea, per molti versi più pregnante e fervida della nostra – ai personaggi che in esso si dibattono, e soprattutto la sua lingua è il frutto del mio lavoro. Di questo sono sicuro. Ma mentirei se vi dicessi che so perché l’ho scritto, e mentirei ancora di più se vi facessi credere che so cosa vuol dire. La verità è che non ho la minima cognizione del perché esista, non ho la più pallida idea se significhi qualcosa. Il fatto che descriva una contingenza sociologica riconoscibile potrebbe far pensare che io detenga o ritenga di detenere le chiavi per decifrare quella stessa realtà: non è così.

Ma non fraintendetemi: mi fa piacere, un piacere sincero, che vi interessiate a lui. Mi da sollievo pensare che gli anni che ho passato a produrlo non siano inutili, e quindi per estrapolazione che nemmeno quello che faccio adesso – perché la mia vita resta ancora la scrittura – sia vano. È un palliativo che mi conforta e mi aiuta a vivere. Come potete immaginare non è facile dedicare mesi e mesi, anni, a un’attività che non ha alcun senso. Se però adesso un senso voi lo trovate, vuol dire che il mio agire ha una sua giustificazione, che forse la mia esistenza non è inutile. Per molte ragioni che adesso non ho voglia di disseppellire questo sillogizzare mi suona fallace, quasi un’impostura, e soprattutto illusorio, ma mi fa lo stesso bene. Come tutti gli uomini vivo anch’io di appagamenti fallaci e di illusioni. Sono anch’io un essere umano, sono anch’io sensibile – e forse più di altri – ai complimenti.

Quando ne parliamo io fingo di conoscerlo fin nelle sue indicibili intimità, fingo di essere quell’imperioso soggetto che ne detiene le redini, o comunque ne ha detenuto le redini. Questo è un esercizio che mi ripugna ma al quale sono abituato, perché mi si chiede di farlo anche in altre occasioni. Quando un libro viene pubblicato già la mia testa è altrove, già ho dimenticato il testo, o meglio ho cominciato a dimenticarlo – ho bisogno di dimenticarlo, una necessità fisica, legata a un istinto di sopravvivenza – devo però parlarne come se tutti i miei pensieri fossero ancora lì, come se fosse qualcosa che ha ancora a che fare con me. È una menzogna alla quale mi presto a malincuore: mi costa fatica – parlo di una misurabile tensione che produce malessere, non è una metafora – mentire. Lo considero però un prezzo da pagare, un male minore. Considero che l’inebriante libertà che mi governa quando scrivo valga bene questo agile pegno sociale. Nella vita tutti noi ci troviamo a sostenere ruoli che hanno lati spiacevoli, non vedo perché io dovrei esserne esente. Altri scriventi preferiscono trincerarsi in un’intonsa torre di avorio, io ho l’impressione che quell’arroganza mi sarebbe ancora più penosa. Senza contare che ne ricavo pur sempre, torno alla mia vanità, qualche soddisfazione.

Facevo l’esempio di un testo recente, figuriamoci allora un romanzo che va per la sua strada già da vari anni. Mostrare una complicità nei suoi confronti mi apparirebbe come inscenare un’intimità con un ex-amore che non frequento da tempo, quando ormai più niente ci lega, ed è anzi lievitata una mutua diffidenza. Del resto non siete tardi, e voi stessi vi siete accorti che conoscete meglio di me la vicenda e i personaggi. Leggo sulle vostre facce lo stupore, ogni volta che lo constatate. Ma se ci pensate è normale che sia così: voi il testo lo avete letto e riletto (come si dovrebbe leggere sempre, e come quasi nessuno più legge), io non lo bazzico da molto tempo. Anzi, si può dire che non l’ho mai fruito nella sua interezza e a mente fresca, senza tensioni e senza a priori, con mente innocente e per certi versi ingenua, senza ravvisare il seguito, come cioè si devono leggere i testi. È per questo che è ormai più vostro che mio. O meglio, è solo vostro.

La mia ignoranza è ben più sostanziale di quello che potrebbe sembrare, non riguarda solo i dettagli. Permea le linee di fondo, la sua stessa ragione di essere. Non so con precisione che rapporti intrattenga con la realtà effettuale e riconoscibile (molti hanno pensato che il suo movente fosse quello) che pretende descrivere, e che io non conosco (l’ho immaginata per induzione), pur avendola per certi versi nel sangue, e quindi conoscendola meglio di chiunque altro: davvero non lo so. Men che meno potrei allora dire se ha un qualche valore, se vale la pena leggerlo, se appunto emana un qualche senso. Certo nella mia testa ci sono ipotesi e convinzioni, certo rifletto anche su questo, come sulla mia pratica attuale di scrittura, ma devo constatare che non sono elucubrazioni davvero profonde, sono pensieri viziati dall’andazzo e dagli assilli del momento, contradditori e per così dire interessati: restano pur sempre mille miglia sotto l’orbita solitaria dove evolve il testo.

Non è quindi solo una questione di memoria che scioglie via via gli ormeggi, non è questione solo di tempo che passa. Quello che mi è impossibile è dare un giudizio generale. Ci ho lavorato per anni, ma mentre mi davo da fare pensavo mano a mano ai vari dettagli non al tutto. Non giudicavo, sgobbavo. Certo miravo a raggiungere un’unità, ma mi focalizzavo sui particolari anche infimi, sulle singole frasi, sulle inezie. Perseguivo un gusto globale, ma era un fine sempre irraggiungibile, per molti versi cangiante, sempre più lontano mano a mano che mi avvicinavo, non una realtà, non un compagno di viaggio. La mia visione era centrifuga, non centripeta. Nella mia testa c’era quella lucidità da alcaloide che solo la scrittura sa mantenere nel tempo, ma non avevo uno sguardo d’insieme, come nella vita non si capiscono gli amori e le passioni che ci travolgono. La visione d’insieme la si può avere solo a posteriori, solo quando non si è più coinvolti, quando si è ormai passati ad altro. Solo l’io che ha destituito quello precedente può giudicare il suo predecessore. Del resto qualsiasi giudizio letterario è sempre arbitrario e già datato, intrinsecamente errato. La letteratura non è fatta per essere giudicata, ma per essere fruita, omaggiata.

Non vorrei però che mi fraintendeste, la mia non è una dismissione di responsabilità. Mi considero in tutto e per tutto responsabile delle relazioni ambigue e per certi versi perverse che il testo ha con il cosiddetto mondo reale, come anche di ogni sua pecca, dei suoi eventuali pregi. Considero di essere il legittimo destinatario di tutte le critiche e delle eventuali lodi. E in fondo non ho timori in questo senso. Ho passato anni a limare ogni rotellina – per usare una metafora ormai obsoleta, ma che rende il lato artigianale e per certi versi impreciso che sempre ha avuto e sempre avrà la scrittura – dell’intricato ingranaggio. E quindi mi sento piuttosto sicuro del fatto mio. E se ho fallito, nella vita ci sono anche i fallimenti (ritengo anzi che nel percorso di chi scrive le disfatte siano necessarie), lo ho fatto dando il massimo di me stesso.

Se mi sforzassi potrei diventare esegeta di me stesso. Qualche volta – quando appunto mi ritrovo in situazioni che mi costringono a farlo – mi cimento. Mi trasformo in uno storico dell’io che sono stato, divento un critico letterario che analizza i testi che ho scritto. Scavo alla ricerca dei motivi episodici e profondi, metto in relazione, interpreto e decripto, risalgo e deduco, ricostruendo successioni e temi, pedinando il loro divenire. È un esercizio che non mi arreca alcuna soddisfazione, alcuna gioia, e soprattutto per il quale non mi sento dotato. È un compito utilitario che svolgo quando proprio non posso farne a meno, esattamente come mi obbligo a riepilogare i miei movimenti precedenti quando non trovo le chiavi di casa. Altre persone adorano questo lavorio di dissezione, questa autopsia di un cadavere già freddo, non io. Sento che non è il mio terreno, che non è lì che posso dare il meglio di me stesso, che anzi è lì che vengono alla luce i miei manifesti limiti. Io amo battermi con le vite impettite ma anche folli delle parole, amo tendere come archi nervosi le frasi, non mi interessa dissezionare, diagnosticare.

Cari ragazzi, da queste parole potreste forse dedurne che non credo nel potere gnoseologico e forse anche demiurgico della letteratura. E invece sono persuaso che nel suo fragoroso vuoto di senso pulsino le impalpabili verità che possono dare significato alla nostra esistenza. Non possiamo coglierle, come non si possono imprigionare senza ucciderle le farfalle, ma possiamo pur sempre ammirarle. Penso addirittura che testi letterari si annidino le divinità che abbiamo smarrito per strada con il cosiddetto progresso, o comunque la nascosta nostalgia che ad esse ci lega. A volte mi sembra anzi che la funzione precipua della letteratura sia per l’appunto quella di aprirci al divino, a quello che gli uomini hanno chiamato il divino, e che forse abita ancora in tutti noi, anche se non sappiamo più percepirlo. Penso che alcuni scriventi attuali arrivano ancora a infilzare con le loro frasi l’aurea di qualche sfaccendata ma pur sempre fulgida divinità: spesso si tratta di individui con le pezze sul culo o che annaspano nelle bassezze, spesso nella loro stessa meschinità. Cari ragazzi, anche se è forse patetico chiamarvi così, penso più prosaicamente che i testi che ho scritto non mi appartengono.

(l’immagine: William Blake, “Urizen in chains”)

L’anomalia Ponge

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di Andrea Inglese

 

Parrebbe che nella ricezione della poesia straniera gli automatismi intellettuali, le limitatezze di corporazione, le miopie critico-teoriche si palesino ingigantite e facciano “sintomo”. Per questo vale la pena decifrare questo particolare sintomo: l’assenza o l’estrema scarsità di Francis Ponge, nell’editoria italiana. Sì, perché è ben strano che un autore morto alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, la cui intera opera è stata raccolta in due volumi nella Pléiade, tra 1999 e 2002, non conosca ad oggi un’ampia traduzione nella nostra lingua.

Domani comincia “Reti” al Palladium, Roma

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volentieri pubblico, per la cortesia di Canio Loguercio, la presentazione di Luigi Cinque dell’evento Reti, Roma – Palladium, 27-28-29 novembre 2012 e un contributo di Ruggero Pierantoni.

Le ragioni di un Festival.

RETI: incontri straordinari di Musica, Scienza e Poesia
Se l’universo, si riflette, come un grande pensiero e non solamente come puro meccanismo, a ragione si deve approdare ad un neoumanesimo che lo riconsideri e veda la conoscenza come una identità di nuovo multiforme e sempre di confine. Ed è proprio al confine che RETI fest, guarda e lo fa, (non è il solo, sia chiaro!) in funzione di una nuova drammaturgia delle arti la quale, oggi, non può nemmeno delinearsi senza il contributo paradossale, onirico e sovversivo che certa scienza contemporanea riesce a esprimere. Tre giorni di incontri straordinari dunque tra musica arte scienza e poesia. Tre giorni di cammino sul limite, che poi è la scoperta dell’altro, del corpo dell’altro, della successiva stazione, della prossima arte, della scienza come matematica e poesia, dell’ identità selvaggia tra significato ( della parola ) e significante ( del suono/musica ), del pensiero magico, della poesia come ritorno alla parola necessaria, formante pensiero, da cui tutto deriva.
Limiti, confini, oggi, oltretutto, in continua espansione tra le nuove semantiche del linguaggio verbale e internetico, le ibridazioni dell’arte visiva, la comunicazione digitale di massa e le ragioni della fisica quantistica che, almeno nell’estremamente piccolo, contraddicono e umiliano buona parte delle filosofie dominanti dal settecento ad oggi. E, aggiungerei, la sempre maggiore consapevolezza e conoscenza che abbiamo della sala macchine, del cervello. Le neuroscienze sono la condizione decisiva per uscire dalla modernità ed entrare in una sorta di futuro/passato, e RETI, qui grazie davvero alla consulenza di Viviana Kasam e dei suoi amici scienziati, dedicherà molta della scena al cervello in relazione alle arti e dunque al profilo, oggi fondamentale, della neuroestetica.
RETI è : la parola ( poetica ) e le altre arti che si misurano con la scienza mentre quest’ultima, nella sua parte migliore, ci racconta come viene ibridata, e si fa poesia, si fa filosofia, o risuona sulla stessa frequenza della musica e, talora, del grande – pure! – pensiero mistico. RETI, senza dimenticare il relativismo culturale delle discipline antropologiche del 900, rivendica, oggi, un’identità di confine per le Arti. Ma, va detto, non si tratta più di contaminazione. Oggi che siamo tutti contaminati, è la coniugazione che conta e le sintesi che ne possono derivare , non le declinazioni dell’identità.
RETI, Festival, numero zero, è dunque dedicato alla Drammaturgia ( intesa appunto come coniugazione, incontro ) delle Arti. E saranno incontri straordinari: perché i curatori, gli artisti, gli scienziati e i poeti di scena in RETI 2012 sono qualcosa di più di semplici portatori dei loro relativi ( sia pure alti ) “intrattenimenti” : sono tutti, irredimibilmente, dei viaggiatori della forma.
RETI 2012 è: Balanescu Quartet, Valerio Magrelli, Gregorio Botta, l’Opera Quartet, Andrea Riccardi, Pippo Delbono, Canio Loguercio, Ruggero Pierantoni, Alessandro D’Ausilio, Luisa Lopez, Marcello Sambati, Luigi Cinque, Giuseppe Vitiello, Osvaldo Ticini, Viviana Kasam, Marco Maria Gazzano, Carlo Infante, Gabriele Fedrigo, , Luca Francesco Ticini, Mario Sesti, Michele Cinque, Matteo Cerami, Maria Grazia Calandrone, Patrizio Fariselli, Sal Bonafede e molti molti altri.

Luigi Cinque

 

Inizi e fini

Etienne Jules Marey non era contento, le sue immagini fotografiche erano “laboriose e mediocri.” Quell’addensarsi di corpi, di arti, di ali, attorno all’ostacolo da superare lo considerava un “difetto”: lui li voleva “equidistanti”. Le immagini non apparivano uniche, perfette,”equidistanti”, come quelle di Muybridge: eterne.  Esse sentivano l’evento, il suo avvicinarsi, il suo svanire e si addensavano, sfumando, una nell’altra. Perché, sia inizio che fine, non stanno, lì, fermi ad aspettare. Sembra, quasi, che un infittirsi di eventi, di urti determini un inizio e un loro improvviso disaggregarsi, una fine. E’ per questo che la transizione, alcune volte, è impercettibile, tanto da apparire all’ultimo momento, invisibile sino a pochi millesimi di secondo prima. La cavalla Frou Frou, amatissima da Vrònsky, sa già di dover morire prima ancora che l’uomo se ne renda conto perché percepisce una sottile asincronia tra il suo corpo e quello dell’uomo.

L’intervallo che separa, nel linguaggio comune, un inizio da una fine è segnabile, forse, come fa  Pollicino, con il ciottolo, mezzo bianco, mezzo nero : sincronia. Un modello sociale assai semplice di questo concetto sono gli eventi sportivi che, almeno a livello di spettacolo pubblico, iniziano e terminano, in genere, in uno spazio che resta, nel frattempo, lo stesso. Non è un caso che, come ci ricorda Pindaro, le statue degli atleti avessero statura umana. La loro “disponibilità erotica” era parte del loro messaggio, li costringeva a mostrarli toccabili, adorabili, desiderabili. La loro omogenea grandezza li rendeva utilizzabili nella figurazione interna del desiderio e quindi della condivisione , anche se breve della sintonia, della “equidistanza” temporale con noi. E, il modello sociale più alto è certo quella forma sublime di atletismo che è la musica la cui vita breve e pericolosa si affida a pochi respiri di sincronia. E’ proprio questo il modello che mostra, con la più grande generosità, l’addensarsi degli eventi che precedono, spesso di centinaia di anni, la prima nota e che, spesso, dopo centinaia di anni, ne spengono l’ultima. Meno ovvia, sfuggente, appare la magia sincronizzante e, quindi gli orizzonti temporali degli inizi e delle fini, nelle percezioni e nel commercio con le strutture architettoniche. Certamente, la “porta”è un inevitabile elemento di sincronizzazione spaziale e non è un caso che, proprio al suo livello, sia nell’entrare che nell’uscire, gli accavallamenti, il toccarsi, lo spingersi, il muoversi tutti assieme e tutti con lo stesso vettore, creino le condizioni temporali degli inizi e delle fini. Ma è la vera e propria forma a dettare le sue leggi sincroniche. Chiunque abbia passato almeno un’ora nel Pantheon  la cui forma, apparentemente priva di asse dominante, abbandona il suo visitatore ad un confuso vagare che assomiglia forse più all’organizzarsi dei liquidi in prossimità del foro di uscita e , almeno, finisce  per inventare  l’insorgere “spontaneo”  del gorgo iperbolico. In tutto identico  a quello, costruito e dissolto nell’aria dai milioni di pipistrelli ad ogni alba e ad ogni tramonto da milioni di anni attorno alla bocca della “ Bat Cave”, in Stati Uniti. La provvidenziale continua asincronia del nostro cervello ci informa, senza alcuna discrezione o gentilezza, che abbiamo ancora, davanti o dietro alcune fini, alcuni inizi su cui, un altro astuto meccanismo ci impedisce di concentrarci . In ogni caso, ci dicono,  è il caso si seguire il buon consiglio di  Frank Herbert che, proprio all’inizio di “ DUNE”  scriveva : Un inizio è il tempo in cui occorre prendere massima cura dei più delicati equilibri”.

Ruggero Pierantoni

Appunti d’amore, gioia e disperazione. Una lettura di Pastorale di Giorgio Cesarano.

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Giorgio Cesarano, Romanzi naturali

Giorgio Cesarano, Romanzi naturalidi Francesco Filia

Mi spaccherei le mani per passarti/ un grano verosimile d’amore. In questi versi di Due, una delle poesie di Pastorale c’è tutta la straziante tensione dell’esperienza poetica e intellettuale di Giorgio Cesarano (Milano, 1928 – 1975). Un’esperienza che lega in modo inestricabile amore, disperazione e sforzo spasmodico di comprensione intellettuale della realtà. La disperazione – che è la cifra ultima delle poesie di Cesarano – non è nel sentimento soggettivo, ma nelle cose stesse, nella loro radice, perché la radice di ogni cosa, di ogni amore, di ogni bene è l’incombere del niente: tu bene della terra/ inguaribile e noi di tanto niente// gli eroi vivi, le anime del niente. Solo sotto la minaccia di tale incombere avviene autenticamente qualcosa, soprattutto, se questo evento si presenta nella dimensione che più mette a nudo la nostra inermità: l’amore come desiderio di ciò che già da sempre manca. In questo tendersi verso l’altro consiste l’epicità dei romanzi naturali di Cesarano. Essa sta nel relazionarsi tragico di due o più individualità che si scoprono unite in una lontananza incolmabile, confermata, in maniera ancora più lancinante, dal compimento del rapporto amoroso: il contatto dei corpi e la penetrazione sessuale (Fermo qui vicinissimo/ amandoti con molto mio,/ mentre tuo, tutto il tuo/ – ferma qui vicinissima – / diminuire, rimpicciolirti, / con strazio non so (piccolo?) / mi sgorga per te via.). Ecco il paradosso tragico, più i rapporti, le relazioni, diventano intensi, più c’è un coinvolgimento che mette in gioco tutto l’essere che siamo (al di là, o, meglio, al di qua, della posticcia distinzione mente/corpo), più si sperimenta l’impossibilità di afferrarsi, tanto più si scopre la propria strutturale solitudine ontologica. Solitudine estrema, perché è la persona amata che ce la rimanda in maniera irrefutabile (debole come ora e tradito/ da tanta mia spesa dolcezza/ non sapevo vedere di te/ che il nero, la cupa forma che mi assorbe). E come dire questo in versi che siano veri? Senza cadere nel trabocchetto lirico dell’anima a nudo, che non fa altro che isolare un’interiorità che non può, senza cadere nella deiezione del luogo comune, essere isolata dal mondo a cui appartiene? La verità del nostro stare al mondo emerge, nei versi di Pastorale, nell’orizzonte insuperabile del desiderare. La strategia poetica adottata da Cesarano è quella del “romanzo naturale” ossia, nel superare qualsiasi lirismo attraverso un racconto espressionistico, dialogato e a volte ruvido . Dove l’affidarsi al racconto è dovuto, però, a un controllatissimo uso del verso e del periodare, in cui sintassi e metro quasi mai si incontrano e il ritmo è un alternarsi vertiginoso d’improvvise accelerazioni e frenate, di movimenti ellittici, spesso spezzati nel dettato metrico, e discese a precipizio nel vortice del verso, in cui il sovrapporsi dei piani narrativi, descrittivi, dialogati è tutto teso e convergente in una rivelazione che ha quasi sempre, però, la luce accecante del negativo. Negativo insito nel nostro stare al mondo e dato da quel muro invalicabile, anche per l’incessante desiderare, che è la morte come possibilità ultima e irredenta; desiderare, che proprio per questo, non risulta mai veramente nostro, a nostra disposizione, ma si mostra in un’alterità radicale che si concretizza in noi nell’inesauribilità del desiderare stesso che nessun essere, nessun altro, nessun momentaneo soddisfacimento potrà mai colmare del tutto (Tu alzi uno sguardo/ di cuoio e “amore tu mi hai dato tanto”/ dici e “caro non sono capace di dare niente”). In questo impatto tra il desiderare incessante, di cui l’amore è l’aspetto centrale, e il morire, della vita e nella vita, consiste la dimensione strutturalmente disperata della condizione umana (mi vedi partire/ “non sono capace di vivere” immobile a un palmo/ mi vedi che taglio la corda che me ne vado/ “non sono capace di vivere senza di te”/ filando seduto morto a un palmo da te). L’unità di parola che dice e cosa detta, nei versi di Pastorale è il tentativo di rimarcare fino in fondo la disperazione della logica del possesso amoroso e di qualsiasi logica di possesso. Più ci si sprofonda nell’autenticità del rapporto amoroso, come possibile compimento del desiderio, tanto più ci si scopre nudi, inermi, distanti – anni luce o solo un millimetro – dalla persona o dal fantasma amati (tutto perché/ hai quella tremenda/ faccia della mia// (anima) perché mi spacchi/ il ventre e mi/ (anima) il ventre e mi/ nuda ridi e tu/ sprofondo dentro il corpo e non ti tocco/ (anima) e non ti tocco/ per quanto è lunga una notte duro/ dentro il tuo corpo stremato e non/ e non ti tocco, anima,/ sprofondante faccia della mia/ vita (anima) mai.). È la struttura del desiderio stesso che ci consegna alla nostra disperazione di essere finiti, di essere gettati nell’esistenza e di non aver creato nulla e dove le parole servono sì a dare un senso, ma anche nella loro ossessiva e spesso elusiva ripetizione, ci riconsegnano all’estraneità di ciò che ci sta davanti e che non possiamo fare nostro mai definitivamente. Possedere l’altro significa sentirlo lontano radicalmente e senza speranza, perché anche l’estrema vicinanza, l’incontro dei corpi, l’unità sfiorata è la lontananza più incolmabile, in quanto quel corpo, che ci accoglie, ci dice in maniera irrefutabile che non sarà mai nostro, perché è esso stesso un centro desiderante altro da noi, che la storia che lo abita è altra da noi. Questo rifiuto oggettivo dell’essere ci porta a sprofondarci, una volta ancora, nel suo essere altro, per vivere in carne ed ossa la logica di questa esclusione, del dolore lancinante di non aver creato noi l’altro che amiamo in maniera inguaribile (d’un mio dentro di me che quanto a me t’include/ ma quanto al tuo sentirti qui di fronte/ e al mio fissarti e nominarti altra/ da me, esclusa, e con tutta la tua/ vita – ecco la fitta/ illogica che addolora i miei occhi:/ il non averti fatta/ io, non averti io generata come questa cosa/ amabilmente intima dell’aria/ buia e dei suoi suoni, dei quali, remissivo/ patisco d’essere fin sulla pelle vestito e fino/ alla pelle dentro nudo/ in un gelo lampante, irrefutabile). In questi versi lucidi e strazianti è detto poeticamente quello che poi Cesarano metterà sempre più in chiaro nel suo lavoro critico e, in particolare, nelle tesi di Insurrezione erotica. In Due, nelle due persone che si amano e si cercano e si desiderano fino allo spasimo, si apre la possibilità di scoprire la radice profonda della dimensione amorosa, in cui “l’oggetto d’amore — il feticcio dell’essere — si fa trasparente fino a svelare d’essere una via, un movimento, una sovra-agnizione, un’iniziazione, quando perde la sua opacità d’oggetto e fascinazione di feticcio, che veramente l’amante scorge, non il fondo, ma il principio dell’essere possibile, e la sua semplicità luminosa e terribile. È in questo istante che l’amante conosce la gravità dell’impresa, è ora che vede l’amore come conquista e superamento, come comunione al di là del sé, lotta per la vita, come comunicazione concreta e pragmatica del possibile, come insurrezione” . Che cos’è qui l’insurrezione? È il riconoscimento della libertà del desiderare umano, che insorge contro qualsiasi ingabbiamento definitivo. Libertà che però non ha nulla di rassicurante, ma è lo stare nella dimensione inquietante dell’esistenza, nel gioco serissimo del riconoscersi reciproco delle individualità, come possibilità gettate nel nulla dell’esistenza, ossia di una dimensione che è impossibile irrigidire definitivamente, come, secondo la prospettiva storica in cui si trova Cesarano, fa la logica del Capitale. E quindi l’amore è platonicamente il luogo in cui noi siamo consegnati alla nostra dimensione più propria, attraverso la contemplata e desiderata bellezza. La differenza fondamentale, tra la dimensione classica dell’amore e l’esperienza che ne ha la nostra epoca, è che il desiderio non si inserisce in una gerarchia salvifica il cui fine è il Bene, l’Agathón, ma è il luogo in cui noi scopriamo il grado zero del nostro essere, la ferita profonda che ci abita. Anzi più siamo nell’impresa dell’amore, nella sua apparente armonia, nella sua anelata armonia, più siamo consegnati alla nostra radicale imperfezione e di chi ci sta innanzi (Con educata e toscana voce e per eufemismi/ dici la tua imperfezione./Dici dei due mariti dici dei genitori.), all’angoscia della nostra impossibilità, della nuda possibilità del nostro essere e all’inadeguatezza del nostro dire. La parola, o dice troppo o non dice abbastanza, e qui il verso di Cesarano, al di là di qualsiasi abbandono espressionistico, ha il tratto disperato di una ricerca impossibile della precisione assoluta nell’esprimere il mondo come si dà nel suo divenire (emozioni, cose, idee, sensazioni, ombre, luci) e quest’accostamento alla cosa del dire che rende strazianti le poesie di Cesarano (Ma l’armoniosa cosa che sopra la tovaglia/ (e in una sua intimità con l’aria buia/ dove splende) risplende: l’armoniosa/ testa, l’armonioso viso – che mi commuove/ e mi angustia e mi frena/ nella bocca il più delle parole – troppo/ deboli, o troppo, ancora, intense). Strazio reso ancora più lancinante dall’uso accortissimo e rivoluzionario delle figure retoriche, come nel raddoppiamento di Epitaffio o, sempre nello stesso testo, la figura della sospensione, che rende spasmodico l’andamento dei versi, in una tensione crescente che si risolve in un finale vertiginoso (ultimo crampo di inguaribile amore). E se la poesia dice l’inguaribilità del crampo amoroso e se questo crampo, che è esso stesso il dire poetico, non può andare oltre la costatazione drammatica della nostra finitezza e imperfezione all’interno di un desiderare trascendentalmente incessante, anche la poesia deve finire, se vuole rimanere fedele alla sua dimensione veritativa e non trasformarsi in un gioco insensato che scimmiotta, ma non svela, il senso profondo dell’esistere.
In questo limite strutturale della poesia, oltre che in motivazioni personali e storiche, si può spiegare l’abbandono del poetare da parte di Cesarano, già a partire dalla fine degli anni Sessanta e, invece, il rivolgersi esclusivamente alla critica sociale del Capitale . La scelta irreversibile di Cesarano dimostra, ancora una volta, l’indissolubile legame tra teoria e poesia, il dialogo inestricabile tra queste due diverse dimensioni, che però si confrontano con la stessa cosa: l’enigma dell’esistenza dell’uomo e del suo rapporto con il Mondo. E qui assume un senso la scelta del genere pastorale, come dice il titolo di queste tre poesie. Esso è il tentativo, come evidenziato in precedenza, di uscire dalla ristretta dimensione lirica e di ridefinire il rapporto dell’uomo con il mondo, con ciò che definiamo natura e che naturale non può mai essere fino in fondo, perché dove c’è uomo non c’è più solo natura, ma anche ciò che natura non è più o non ancora: simbolo, quel rimando continuo a qualcos’altro, quel cerchio mai definitivamente chiuso, come il desiderare: “Come tutto che è secondo natura/ e non può ferire”/ ma secondo natura feriti sediamo/ ammutoliti tenendoci per gli occhi/ con sorrisi). In questo senso il genere pastorale da Cesarano è usato in senso ironico – nel senso dell’etimologia di rovesciamento dissimulatorio, demistificante – e anti-idillico. L’evidenza di questa operazione si mostra soprattutto in Altri. Qui Cesarano, con sguardo da entomologo (che, però, proprio nel distacco che tale atteggiamento comporta, nasconde una segreta e più autentica compassione, retta dal voler cogliere le relazioni nella loro spietata verità), costruisce vari “quadretti idillici”, in cui sono colti vari momenti amorosi: la crudezza dell’accoppiamento, il rapporto fisico e il momentaneo appagamento del desiderio o il dolore. In queste situazioni, fotografate poeticamente quasi sempre di nascosto, non c’è nessuna armonia edenica ma panico di teste/ negli interdetti calori dei grembi,/ niente di niente. La natura, il paesaggio, è erba cresciuta negli spurghi e insetti loschi ; e in questa natura, antropizzata e paradossalmente selvaggia, originaria e degradata, ognuno vive in quel che rimane di una logica, l’unica che l’uomo sembra conoscere, quella del potere dell’uomo sull’uomo e solo con una remota, ancestrale memoria d’un filo di passione, in chi in questa logica è sottomesso, di cui rimane soltanto una fame inesauribile e senza speranza (ma l’estate d’erbe/ cresciute negli spurghi e insetti loschi/ (ognuno della sua residua logica/ padrone interamente e servo forse/ con memoria d’un filo di passione)/ minima e tutta inferociti getti/ defunti presto per veleni, fame.). Ecco, scoprendo la nostra fame, mai nostra perché non la scegliamo, scopriamo la tensione lacerante che ci abita, si arriva alla radice del proprio essere: un nulla che desidera ciò che non ha, ciò che non è. L’esperienza del nulla prima che valoriale è ontologica, essa è il cuore delle poesie di Cesarano, ed è la fonte della gioia, sentimento limite e necessario, come l’angoscia, del nostro stare al mondo (allora quei versi non me li seppi spiegare,/ partigiano della gioia e così sordo all’inferno./ Disceso ora con te dove brucia l’inverno). Il partigiano della gioia è colui che ha fatto esperienza della fine, della radice finita e disperata di ogni cosa, del gelo, dell’inverno definitivo, che abita ogni cosa, perché è già da sempre con un piede sul baratro della morte senza rimedio, del vero inferno del niente. La gioia è il sentire di chi scopre la natura gratuita del suo stare al mondo ed è quindi già oltre ogni pre-occupazione ed è gettato, proprio a partire da questa disperazione, in un insensato, inerme e furioso amare, sperare .
Quindi amare, desiderare, è scoprirsi finiti, il sentimento della fine produce angoscia, disperazione ma, secondo la logica dei contrari, la disperazione si rovescia in gioia, che nell’etimo richiama al goduto a ciò che si è desiderato e che per un attimo si è fruito, senza l’illusione di averlo posseduto. In questo la gioia è accettazione incondizionata del nulla, di ciò che incombe già da sempre sull’incessante divenire di ogni cosa e, quindi, la gioia non può non essere sguardo radicale sulle cose finite. Ora da qui riparte, inizia tutto, tutto il possibile, l’alba di ogni cosa (Con la testa sul mio cuscino/ dormivi nei tuoi capelli/ sanguiformi nell’alba), senza più nessuna gabbia salvifica o logica del rimedio al nulla che ci pervade – il crampo amoroso è e resta inguaribile -, ma abbandono rabbioso d’amore, che è un aprirsi al desiderio nella sua dimensione di tensione feroce, senza la pretesa di raggiungere un bene definitivo (Gli altri che t’amano e io/ – è finita, finita, finita -/ Gli altri che t’amano e tu e io/ giustamente per sempre feroci, noi che ci perdiamo sempre/ apparendoci in lunghi corridoi,/ noi siamo (…)/ i morti della vita). Ma insito nel desiderio vi è anche una dimensione di nostalgia verso un bene già da sempre perduto e i cui contorni sono sempre più sfumati e che, però, continua a spingerci verso un orizzonte futuro – l’origine è la meta – che redima anche il passato ormai irrimediabilmente svanito (aveva i tuoi occhi/ la ragazza che in questo stesso hotel/ d’ironico nome Victoria/ quand’ebbero gli anni principio d’amore/ venne diritta,vita.) e che nessuna contemplazione (-ora ti guardo mentre perdi luce/ piangendo nei tuoi capelli all’addio,/ sul campo è l’ora dei pipistrelli-), per quanto emotivamente coinvolta, può restituire, anzi non può che confermare, nel presente amoroso (Gli occhi che ora si sognano, tuoi, chiusi/ di me che discendendo li raggiungo.), la lancinante perdita che accompagna ogni attimo passato. E qui può essere visto ciò che Cesarano ritiene che l’amore rievochi, cioè l’altro come possibilità, come una tendenza a fruire della realtà, cioè a godere autenticamente di essa, senza rimuoverne la dimensione intrinsecamente dolorosa, lasciandola essere ciò che è, non assimilandola a sé. In altre parole, se il desiderare, come è stato mostrato, è la struttura trascendentale, cioè tale da abbracciare e superare ogni realtà determinata, dello stare al mondo dell’uomo, esso sarà intrinsecamente inesauribile, infinito e nessun oggetto potrà soddisfarlo. Quindi, la logica del possesso come appropriazione definitiva della cosa desiderata, è uno snaturare l’intrinseca essenza del desiderare, come fa, secondo Cesarano, il Capitale, trasformando tutto in feticcio. Il desiderio non può morire nell’opacità di un oggetto, ma aprirsi alla luminosità semplice e terribile del principio amoroso, che, consegnandoci alla nostra nudità e nullità, ci proietta in una relazione possibile con altri centri desideranti, a loro volta, già da sempre decentrati perché proiettati in un altro, che al tempo stesso li accoglie e li respinge. Forse il gesto finale di Cesarano contraddice tragicamente questa possibilità o forse le dà il sigillo dell’irrevocabilità. Resta comunque una consegna nell’esperienza di Giorgio Cesarano, quella di esistere radicalmente, ossia mettendo in luce la radice autentica, finita, tragica – se tragico è ciò che, per dirla con Hegel , continua a finire – dell’esistenza umana, in ogni gesto politico, poetico, intellettuale, amoroso. Infine, per tornare ai versi con cui abbiamo aperto queste considerazioni, lo spaccarsi le mani è il destino dell’uomo, che decide di affrontare la sfida di corrispondere in maniera autentica alla natura amorosa del proprio stare al mondo. Questo spaccarsi le mani non può che essere finalizzato al riconoscimento dell’altro, perché l’amore non è un sentimento singolo e la condizione umana è protesa verso un compimento che non può venirle da se stessa. Di conseguenza ogni uomo non può che essere teso a farsi riconoscere come amante dall’altro, senza il quale altro, senza il reciproco irriducibile riconoscersi – nel grano, non più Vero, ma solo verosimile, perché lo stesso vero diventerebbe un feticcio – nessuno potrebbe essere sé stesso, ossia quel crampo di inguaribile amore che continuamente chiede un senso profondo al suo stare al mondo, a questa vita che, comunque, è, ineluttabilmente e sempre, persa. (i morti della vita, e tu tersa/ faccia, che ci trattiene veri di dolore,/ della sorte, della vita che è persa,// ultimo crampo di inguaribile amore).

 

[A questo indirizzo una sintetica antologia della poesia di Giorgio Cesarano, a cura di Gabriele Gabbia.]

#Prop (video) Art

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Gangnam Style / Ai Weiwei

La nonna di Lara

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di Giovanni Dozzini

Non sarò io, pensava la vecchia donna, a mettere becco su una faccenda del genere. La stufa di ghisa e smalto, color fango, color fiume, occupava quasi un terzo della piccola stanza in cui nel tempo suo figlio e sua nuora erano riusciti a comporre una cucina degna di questo nome: e adesso era addirittura moderna, o almeno così avrebbero potuto definirla se solo si fossero dovuti ritrovare a parlarne con qualcuno. Ma la verità, e la vecchia lo sapeva, era che le poche persone con cui avrebbero potuto discorrere di questo tipo di cose – di come appariva, alla fine di tutto, la loro piccola cucina – avevano già visto coi propri occhi il progredire, anno dopo anno, delle sembianze di ciò che era ricompreso tra quelle quattro mura.

Possiamo sbarazzarci dei classici italiani?

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di Matteo Di Gesù

La fotografia è di Olivo Barbieri

«Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire». Ogni tanto accade l’incresciosa evenienza per cui la citazione di circostanza, che dovrebbe ratificare una tesi, serva piuttosto a negarne i presupposti, ribaltandola e rivelando la fondatezza del suo contrario. Probabilmente la celebre sentenza calviniana, che, come un meccanismo a molla, scatta inesorabile a suffragio di qualche ciarla mondana sull’irrinunciabile necessità di leggere (di rileggere, ci mancherebbe) i classici, rientra in questa casistica. È possibile, insomma, che invece i classici, specie quelli italiani, abbiano finito di dire quello che avevano da dire, quantomeno per ora.

Sembrerebbero perpetuarsi, a dispetto dei tempi e dei costumi, e le notizie editoriali parrebbero confermarlo: una sontuosa raccolta Utet fresca di stampa, curata magistralmente da Carlo Ossola, Letteratura italiana. Canone dei classici, per la libreria del salotto; una collana Bur di classici italiani, edita in collaborazione con l’Associazione degli Italianisti, con nuovi commenti e apparati aggiornati, per lo zainetto. Libri che però permangono sullo scaffale come un complemento d’arredamento o durano in borsa il tempo di preparare l’esame di Letteratura italiana I. Sarebbe pure un fenomeno collaterale, nel lento collasso della nazione, ma resta il fatto che la nazione stessa abbia contratto con la propria tradizione letteraria un debito fondativo: se l’Italia è «un’invenzione letteraria», la marginalizzazione della sua letteratura dovrebbe riguardare una cerchia più estesa degli ultimi clienti della rateale Einaudi.

L’ultima apertura al pubblico del Sacrario della Letteratura Nazionale, in occasione del Centocinquantenario, d’altro canto, ha avuto i caratteri di una cerimonia memoriale funebre, piuttosto che quelli di una riscoperta vivificante. Questa voga monumentalizzante (proprio nel senso di pietrificare e rendere inerte qualcosa di mobile e accessibile), tipically italian, sembrerebbe rimandare a una delle cause storiche di questo processo, ovvero alla micidiale attitudine accademica di museificare i testi della tradizione, rendendoli inaccessibili direttamente e contemplandone soltanto una ricezione parcellizzata e mediata dall’autorità preposta, quella del professore sciamano, il solo in grado di divinare il testo e di restituirlo alle plebi incolte. Si tratta di un discorso del sapere le cui dinamiche di potere sono evidenti e non richiedono supplementi di indagine in questa sede.

Tuttavia, per una volta, non è il caso di prendersela con l’accademia (se non magari per deprecare la sciatteria deprimente della routine universitaria, speculare, e analoga negli esiti mortiferi, al culto per gli iniziati): troppo facile, specie di questi tempi. Anzi, a dirla tutta, molte delle interpretazioni meno conformiste e più innovative delle opere canoniche italiane le hanno elaborate proprio corrucciati professori universitari, confezionandole in robusti e minacciosi saggi accademici: possiamo pure trovare intrigante la lettura degli Appunti queer sui Promessi sposi, recentemente pubblicati, col titolo Aria di braveria, da Tommaso Giartosio su «Le parole e le cose», giusto per fare un esempio; ma andrà ricordato che a restituirci un Manzoni assai diverso da quello compitato svogliatamente al liceo avevano già provveduto tempo Ezio Raimondi e Salvatore Silvano Nigro, tanto per dire. O si pensi ancora a una recentissima Introduzione alla Divina Commedia, sempre di Ossola, che si legge come una passeggiata attraverso dieci secoli di letteratura occidentale. Come aria nuova circola finalmente in alcuni manuali di italianistica (la collana diretta da Battistini per Il Mulino, per dire). E non vale neppure avviare la solita tirata sulla scuola che ammazza la lettura: per quanti professori di lettere necrotici e necrofori affollino le aule cimiteriali italiane (scrivendo magari nel tempo libero appassionati pamphlet contro lo stolido studio della poesia in classe), ce ne sono altrettanti che spacciano Leopardi originali, senza tagliarli con l’anfetamina del cazzeggio paratelevisivo, con grande competenza e qualche successo didattico.

Ecco, a proposito di televisione et similia, ci sarebbe da chiedersi, semmai, se quell’antico, esiziale, ruolo del professore-sacerdote non sia stato devoluto, mutandosi in una versione pop ma conservandone inalterate le logiche di trasmissione escludenti e autoritarie, ancorché occulte, agli intrattenitori da festival letterari e letture di massa. Se, in altre parole, a dispetto della qualità degli show letterari e delle ottime intenzioni delle operazioni di divulgazione spettacolare, il pubblico-lettore non preferisca delegare il Benigni di turno a leggere e a comprendere al posto suo, come faceva un tempo con l’austero docente.

Poi ci sarebbe la questione della lingua (in Italia c’è sempre aperta una “questione della lingua”): ogni tanto qualcuno tira fuori questa storia della necessità di tradurre le opere del canone italiano, per agevolare gli italofoni del ventunesimo secolo: un pretesto per piallare la prosa di Machiavelli e Alfieri, fino a farla aderire a quella del Bruno Vespa saggista. Finalmente, spezzato il giogo dei tiranni parrucconi, il Carofiglio di turno non dovrà più imitare Petrarca: sarà semmai questo che dovrà adeguarsi a quello (un discorso diverso andrebbe fatto per il Busi “traduttore” di Boccaccio e Ruzante, nonché per le imperdibili Novelle stralunate dopo Boccaccio, curate per Quodlibet da Elisabetta Menetti e riscritte, tra gli altri, da Celati e Cavazzoni).

E se, interpellati da «Nuovi argomenti» a proposito del loro sentimento identitario nazionale, gli scrittori italiani sentenziano che la loro patria è solo la lingua, nondimeno i classici italiani non dicono più nulla alla gran parte di loro, specie agli autori dell’ultima generazione, che ne ignorano proprio la lingua, oltre che storia e tradizione. È bastato un ventennio di bulimia contemporaneistica e di sovradosaggi di best seller anglosassoni per far dimenticare, tra le altre cose, che proprio il nostro Novecento è una ininterrotta rivisitazione del canone nazionale. Calvino lo sapeva bene, ma ormai nemmeno lui lo si legge più: è un classico.

[Questo articolo è stato pubblicato su Orwell]

Abitare una lingua

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Lo scorso agosto ho vissuto una bellissima esperienza nel Parco nazionale del Pollino. Ne ho scritto un diario di viaggio che ora è disponibile gratuitamente in formato ebook (ad esempio qui, qui, o qui). Riporto di seguito un piccolo estratto del secondo capitolo.

di Gianni Biondillo

Franca è una di quelle che è tornata. Per amore. O meglio: è tornata perché il marito amava troppo la sua terra ed ha preferito lasciar perdere la sua specializzazione d’ingegneria meccanica e tornare, da Roma, qui in Basilicata; e lei, per amor suo lo ha seguito. L’amore per un amore. Una specie di amore al quadrato insomma. Me lo racconta mentre apre per me solo la sede del Museo della Cultura Arbëreshe di San Paolo Albanese. Il museo è piccolo, ha la classica sequela di oggetti tipici di tutti i musei della cultura contadina che si possono incontrare un po’ dappertutto nel Sud Italia. Un museo a ben vedere noioso, didascalico, senza quella capacità di stupire, di interagire col pubblico che hanno molti dei musei che ho visitato in giro per l’Europa. Ma Franca è albanese, arbëreshe, di nascita e per come la vedo non è il museo, è lei quella che mi interessa.

Lei porta con sé, sulla sua pelle, quella cultura che vorrebbe mostrarmi nelle teche, negli oggetti quotidiani che, se non usati, divengono lettera morta. Quindi la sottopongo ad un fuoco di fila di domande alle quali, educatamente, non si sottrae. Ha voglia di parlare, di interagire, di mostrare il suo orgoglio d’appartenenza senza arroganza, spesso, anzi, con una modestia che commuove. “Ho imparato l’italiano andando a scuola” mi dice. La sua seconda lingua. Perché qui, da quasi cinquecento anni si parla un albanese del sud, in parte cristallizzato a quell’epoca, in parte mutato col mutare dei tempi e dei contatti con gli abitanti e i dialetti del vicinato. “L’albanese moderno è molto diverso dalla nostra lingua” mi spiega, “ma se mi ci impegno lo capisco, un po’ come un italiano che intuisce uno spagnolo se gli parla lentamente”. Mi racconta della lavorazione della ginestra, di come i suoi nonni riuscissero a trasformarne la fibra in un filato per farne abiti, sacchi, coperte. Mi mostra i costumi tradizionali esposti ma ci tiene a dire che alcuni di questi abiti sono ancora usati quotidianamente dalle ultime vecchiette che girano per il paese. Nulla di folkloristico, insomma, ma vita quotidiana. Dopo di loro, probabilmente più nessuno vestirà così: mi sento nel cuore di un cambiamento epocale, ineluttabile. Come se stessi assistendo alla morte di una stella nel firmamento. In fondo è inevitabile, è inutile vivere di nostalgie per gli usi altrui. La storia di quegli abiti, di quegli attrezzi di lavoro, è anche la storia – per quanto gloriosa, per quanto leggendaria – di miserie, di fame, di fatica.

Immaginiamo, dagli studi di Ernesto De Martino in poi, la Basilicata come una terra immobile, relegata da noi in un eterno medioevo. Ma ciò che aveva affascinato l’antropologo oggi, prendiamone atto, non esiste più. Ed è giusto che sia così. Trovo snob il modo di vedere questa regione, questo insistere sull’idea che sia un popolo di vecchi, con usi e costumi sepolti nella notte dei tempi, questa idea mortuaria, funebre, fatta di riti contadini e tradizioni fossilizzate, che piacciono tanto ai cittadini frenetici del nord, lettori estatici di scrittori “meridionalisti”, così “autentici”, così “esotici”. C’è chi ci marcia su tutto ciò. C’è chi ha fatto la sua fortuna artistica, in un eterno, infinito neorealismo fatto di piccoli Rocco Scotellaro, di verghismi degli stenterelli, di Franceschi Jovine in pectore, di “buon selvaggi”, di briganti televisivi, di salsicce lucaniche e sagre popolari del fagiolo o della porchetta.

Ma questo non lo dico a Franca perché lei non fa parte di questa risma di persone. Lei, semplicemente, parla, canta, ama, sogna in arbëreshe.

Neppure una settimana fa ero in un’enclave ligure della Sardegna. Da Pegli negli stessi anni della fuga dall’Albania di questa gente, una comunità di pescatori di corallo s’era trasferita in Tunisia, a Tabarka. Due secoli dopo furono cacciati (“fuori di qui, stranieri che ci rubate il lavoro!”) e perciò il re sabaudo donò loro due isole in Sardegna: Sant’Antioco e San Pietro. Girare per quelle strade dal piano regolare, piemontese, e sentire parlare in un ligure stretto, o mangiare la focaccia proprio come potrei farlo a Genova, mi aveva straniato. Qui è ancora più affascinante. La resilienza di una cultura supera le più incredibili avversità. In fondo noi, prima ancora di un luogo, di un paese, tutti noi abitiamo una lingua. È quella, su ogni cosa, che ci forma, che ci identifica. Ogni volta che muore una lingua muore un mondo. Ogni volta che una lingua resiste, resiste la diversità, la molteplicità, la ricchezza dell’umano.

Ovviamente nulla resta immobile e uguale a se stesso, sarebbe contrario alla vita stessa. La comunità arbëreshe subì persecuzioni, su tutto religiose. Furono “cattolicizzati” a forza. Ma residui di resistenza culturale restarono intrisi nei gesti e nelle abitudini di questa gente. Si mischiarono col nuovo per diventare altro (che è in fondo il modo migliore per conservare le cose). Nella chiesa principale mi viene fatto osservare un affresco scoperto da poco: mostra un’ostia quadrata e una scritta in greco. Nulla di che dal punto di vista artistico, ma dimostra come ancora nell’Ottocento il legame col rito bizantino fosse forte. E lo dimostra il fatto che agli inizi del Novecento la chiesa cattolica, dopo tanto inutile sottomettere, trovò una sorta di compromesso, inventando da zero la Chiesa Cattolica italo-greca di rito bizantino. Come a dire: se non riusciamo a piegarvi del tutto, vi inglobiamo. Mantenete le vostre abitudini orientali, basta che vi dichiarate cattolici. Don Francesco, l’attuale presbitero, ha preso con fin troppo zelo il compito conferitogli. Sta, negli anni, riempiendo la chiesa, che ha tutto l’aspetto di una tipica chiesa cattolica, di icone bizantine. Lui stesso è un pittore e studioso raffinato e molte delle immagini sacre poste sull’iconostasi (che non c’era mai stata prima) le ha dipinte lui stesso. “Dietro, nella parte riservata al clero, s’è fatto aiutare dalla figlia”, mi viene detto. Figlia? Ah, già… me l’ero dimenticato: i preti di rito bizantino possono avere una moglie, possono avere figli. Ed essere cattolici. Giusto per far capire che la chiesa di Roma è molto più pratica e malleabile di quanto immaginiamo!

Don Francesco vive con un po’ di fastidio la presenza di statue sacre all’interno della chiesa, vorrebbe ci fossero solo icone. Vorrebbe, insomma, ripristinare un passato perfetto, inamovibile. Illogico: ormai, dopo secoli di culto, la comunità arbëreshe ama le sue statue così cattoliche, così italiane, che senso ha imporre così tanto integralismo di ritorno? Mi avvicino alla statua di San Rocco, santo veneratissimo in questa parte del sud Italia. Mi mostra la ferita sulla coscia, e piuttosto che ad un bubbone della peste lo associo ai turgori delle punture di zanzare e di tafani che mi stanno mangiando vivo in questi giorni. Ad ognuno la sua pena, insomma.

Reality, un film e un genere televisivo fuori tempo massimo

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di Giuseppe Zucco

Di tutti i commenti che hanno tratteggiato l’inevitabile scia dietro il varo di Reality, il nuovo film di Matteo Garrone, ce n’è uno parecchio persistente. Il film sarebbe arrivato fuori tempo massimo. Per essere davvero incisivo – carico di indignazione, palpitante di una denuncia sociale – avrebbe dovuto sfilare nelle sale quando il fenomeno mediatico del Grande Fratello piantava la sua bandierina sulle vette dell’auditel.

Il ragionamento è molto curioso. Se da una parte eleva l’indignazione e la denuncia a valori estetici su cui fondare il giudizio critico, e quindi parte della fortuna di un film, dall’altra vorrebbe il lavoro dei registi completamente appiattito sull’orizzonte circoscritto dell’attualità. A misurare la storia del cinema con questo metro, un’opera come Apocalypse now di Francis Ford Coppola del 1979 sarebbe dovuta essere squalificata, per non dire di Full Metal Jacket di Stanley Kubrick i cui vagiti risalgono al 1987: i venti di distruzione e paranoia della Guerra del Vietnam, infatti, spirarono dal 1960 al 1975.

Ma un commento del genere è così appuntito che finisce per centrare un bersaglio quando ne ha appena mancato un altro. Effettivamente, in Reality crepita qualcosa di fuori tempo massimo: il sacro, nella versione cristiana. In un paese secolarizzato come l’Italia, dove le cattedrali sono visitate più dai turisti che dai fedeli, e le compiaciute ammissioni di colpa sono subentrate all’atto di dolore, e le sedute psicanalitiche hanno aggiornato le pratiche della confessione, e il più alto dei cieli è quotidianamente intellegibile grazie a sofisticate tecnologie meteorologiche, Garrone, dirigendo alla perfezione Aniello Arena, ci consegna un personaggio folgorante proprio perche i gesti che compie – gesti che lo avvitano sul piano lucidissimo della psicosi – sono guidati dal timor di Dio.

Non è azzardato definire questo film, più che religioso in senso lato, francescano: Luciano, il protagonista, proprio per entrare nella casa più spiata al mondo, rompe con i propri familiari, si spoglia di tutto donando i propri averi ai poveri, parla con frate grillo rimpinguando le figure presenti nel Cantico delle creature. Nel film di Garrone, il controllo sociale non si traduce più nell’occhio meccanico ma profondamente umano delle telecamere di sorveglianza di Truman Show, quanto nell’occhio indecifrabile di Dio che scruta l’intera vicenda dall’alto, come le illuminanti inquadrature di apertura e chiusura suggeriscono. Tanto che il pensiero viene pure: la lente deformata del reality, qui in Italia, sembra restituire più un’immagine del nostro passato che una visione, apocalittica o meno, del nostro futuro.

Se questo accade, però, è anche perché il genere televisivo che Garrone indaga – il signore indiscusso del piccolo schermo negli anni duemila – già affonda le proprie radici in un territorio lontano nel tempo e del tutto legato alle consuetudini religiose. Prendendo alla lettera le parole di Guy Debord, lo spettacolo è la ricostruzione materiale dell’illusione religiosa, non dovremmo meravigliarci se in fondo i concorrenti dei reality non fanno altro che rinverdire le forme attraverso cui i mistici medioevali sperimentavano l’ascesi. Le interruzioni dei ritmi naturali, le veglie, l’inversione del giorno e della notte, il digiuno, l’astinenza sessuale, in molti casi la sopportazione del dolore, fisico e sentimentale insieme, fanno di questi concorrenti particolarmente disinibiti e ricercatamente spontanei la perfetta riproposizione postmoderna degli asceti – con la differenza che i primi, auspicando la redenzione, si ritiravano in un eremo sperduto, in un monastero inaccessibile, mentre la loro versione secolarizzata, rincorrendo visibilità e successo, occupa uno spazio predisposto sulla scena globale dei media, totalmente esposti all’attenzione morbosa sia del broadcaster sia degli spettatori.

Certo, la condotta di vita dei concorrenti non sarà metodica, le regole costanti, l’imperturbabilità ai richiami mondami assicurata, però è del tutto impossibile cancellare le tracce, i segni, le soluzioni, che l’ascesi consegna a chi la pratica. Del resto, già Max Weber nella Sociologia della religione faceva notare come la dimensione ascetica avesse avuto un ruolo fondamentale nella modernizzazione e razionalizzazione delle società occidentali.

Nello schema di Weber, gli asceti sono un gruppo sociale che, attraverso una maggiore disciplina e il controllo del proprio corpo, sperimenta e poi introduce in seno alle società dei mutamenti decisivi. Senza gli asceti, non ci sarebbero stati i Puritani – una comunità morigerata nei consumi, puntuale sul lavoro, rigorosamente casta, votata al successo solo per intercessione divina – senza i Puritani, non si sarebbe avverato lo spirito del capitalismo, prima di allargarsi alla borghesia ottocentesca, dice Weber. Gli stili di vita corporei, una volta estesi dal piccolo gruppo ai grandi insiemi, anche se in una soluzione sempre più diluita, non farebbero altro che contribuire alla diffusione di una particolare forma economica.

Allora, sebbene inconsapevoli, pronti una volta fuori dalla prigionia di una casa o di un’isola a conquistare i set e le location, proprio perché immediatamente e universalmente esposti agli occhi di tutti, cosa ha introdotto questa avanguardia di asceti postmoderni, oggi? In particolare, un modello di disciplina e una rappresentazione del corpo indifferente alla privacy, poco avvezzo al pudore, confusionario in fatto di pubblico e privato, docile al regime di visibilità assoluta – cioè, la benzina che alimenta il motore su di giri del capitalismo 2.0 della Silicon Valley, di Google, dei social network come Facebook e Twitter.

Così, anche se Luciano alla fine di Reality appare escluso dalla grande macchina spettacolare, in realtà, proprio per questa pervasiva e insostenibile trasparenza dell’essere, ne risulta completamente integrato – e se ride, ride per lo sconcerto e il disorientamento.

[Questo articolo è stato pubblicato, con altro titolo, su Orwell]

Crisi sulle terre infinite #1 : TFA o della lunga attesa: Lettera al Rettore dell’Università degli Studi di Palermo

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Quanti universi paralleli esistono! Leggermente uguali, leggermente diversi. Quanti mondi contemporanei, in cui ogni cosa è forse, per caso, un po’ se stessa, un poco altro, si ripete oppure no, ma in modo sempre vagamente differente. Eccoli qui, precipitati insieme su questa piatta terra. Come raccontarli? Partendo forse dal loro nome? Partendo da “Ministero della Pubblica Istruzione”, in parte divenuto “Ministero dell’Università e della Ricerca”, ritornato “Ministero della Pubblica Istruzione, Università e Ricerca”, divenuto “Ministero della [non più Pubblica] Istruzione, Università e Ricerca”, ri-scorporato in “Ministero della [di nuovo] Pubblica Istruzione”, ri-trasformato in “Mistero dell’Istruzione, Università e Ricerca” ad oggi detto MIUR? Ah, proliferazione di nomi!

A destra di Albert Camus: Andrea Di Consoli

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La contradiction est celle-ci : l’homme refuse le monde tel qu’il est, et pourtant, il n’accepte pas de lui échapper. En fait les hommes tiennent au monde, et dans leur immense majorité, ils ne désirent pas le quitter. Loin de vouloir le quitter, ils souffrent au contraire de ne pas le posséder assez, étranges citoyens du monde, exilés dans leur propre patrie.
Albert Camus, Roman et révolte, in L’homme revolté