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Mangiare Bere Abitare

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È un detto popolare lancinante quello che il Forum dei bisogni – Mangiare Bere Abitare ha scelto per chiudere le attività del 2012. “Il sazio non crede al digiuno” significa infatti che il bisogno è incomunicabile, che è impossibile per gli esseri umani capirsi quando c’è da condividere la mancanza. Una impossibilità ancor più inquietante quando si pensa che il bisognoso è di solito il “senza-parola”, colui che non può dire da sé la propria condizione. “Il sazio non crede al digiuno” significa pertanto che noi tutti non riusciamo a credere a nessuno dei discorsi che ci vengono proposti a proposito della povertà: nonostante i tempi che corrono, nonostante l’evidenza che è oggi sotto il naso di ognuno.

Dopo aver invitato a discutere economisti, antropologi, operatori sul territorio, filosofi e artisti affinché incrociassero saperi, competenze, modelli e proposte di soluzione, il Forum chiude la prima fase dei suoi lavori facendo il consuntivo di cinque intensi mesi (luglio-dicembre) e rilanciando verso le attività del 2013 con tre brevi interventi di Giancarlo Alfano, Carmelo Colangelo e Gabriele Frasca.

Il ponte tra la fame e l’abitare, tema del prossimo anno, è invece affidato a Enzo Moscato, che per l’occasione propone un suo monologo sullo statuto insidioso del domestico a Napoli: quale fame e quale abitare ci stanno intorno? Quali presenze ribattono sul presente?
A partire da gennaio 2013 si comincerà una sorta di call for paper (o richiesta di contributi), un appello a partecipare alle iniziative del Forum anche per costruirlo insieme. Cos’è oggi il bisogno abitativo? Un tema senza dubbio adatto a chi condivide lo spazio di Nazione indiana.

La terra di Scajola dove scorrazzano i clan

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di Giuseppe Conte

Due elicotteri e 200 carabinieri in azione prima dell’alba, sul cielo e per le strade di Ventimiglia. È un dispiegamento di forze che fa pensare a una azione di guerra. E di guerra ormai si tratta. La’ndrangheta: vi ricordate la smorfia tutta ligure di fastidio con cui Sandro Pertini pronunciava questo termine?
C’era in quella smorfia la riprovazione e l’orrore che dovevano essere riservati a un fenomeno paragonabile a un cancro nell’organismo di una società.
Che smorfia comparirebbe oggi sul volto di Pertini sapendo che l’estremo Ponente della sua Liguria è in mano alle cosche calabresi, che dai tavoli di un ristorante di Marina San Giuseppe, il lungomare di Ventimiglia, un anziano signore di nome Peppino Marcianò tesseva le fila della politica, dell’amministrazione, dell’economia di una ricca fetta della regione, e distribuiva consigli, raccomandazioni, avvertimenti, appalti, secondo il più collaudato stile mafioso?
Quello che preconizzò un magistrato coraggioso come Anna Canepa si è avverato: Ventimiglia è diventata come Gioia Tauro.
E Vallecrosia e Bordighera non sono da meno. Avevo dalle colonne di questo giornale lanciato un grido d’allarme quando i consigli comunali di Ventimiglia e Bordighera furono sciolti per infiltrazioni mafiose.
Invitavo a ribellarsi, perché, al di là dell’aspetto giudiziario della vicenda, c’erano tutti i segni di un degrado etico, culturale e soprattutto politico contro cui bisognava agire. Oggi lo scenario è ancora più vischioso, si sono aperte voragini ancora più profonde, il fango sta schizzando dappertutto.
Due ex sindaci, di Ventimiglia e Bordighera, vengono indagati per concorso esterno in associazione mafiosa, il sindaco in carica di Vallecrosia per voto di scambio. Indagato è anche un ex city manager, espressione pomposa, a un filo dal ridicolo, per chi, secondo le indagini, ha dedicato la sua indubbia intraprendenza a far aggiudicare il grosso degli appalti a ditte di proprietà delle cosche. Non finisce lì: un ex vigile urbano è accusato di fare da cinghia di trasmissione tra cosche e municipio. E dalle intercettazioni si evince che Marcianò era in contatto con un ispettore di polizia, con un finanziere: e che il vecchio boss tirava in ballo con calcolata disinvoltura un generale e un giudice genovese cui doveva passare 10 mila euro per avere un trattamento di favore. È una ragnatela di crimini e sospetti che soffocherebbe qualunque società.
Com’è potuto accadere? Avevo ed ho una sola risposta: la’ndrangheta ha trovato terreno fertile nell’estremo Ponente soprattutto perché qui si è verificato ancor più che altrove un pericolosissimo vuoto morale e politico.
L’onnipotente leader di Imperia, quello che non fa muovere foglia senza che lui voglia, quello che poteva far nominare sindaco del capoluogo,non dimentichiamolo, anche Paperina, quello che oggi dice agli avversari interni (quasi tutti uomini inventati o cooptati da lui) di conoscere i loro peccatucci grazie ai suoi contatti con i servizi segreti, voglio dire Claudio Scajola, si è sempre distinto nel sostenere a muso duro che la mafia qui non c’è.
Punto e basta. Se in queste terre la politica è lui, queste terre sono state abbandonate e indifese.
Se la politica è diventata affarismo, speculazione, favoritismo, arroganza, era quasi naturale che la ’ndrangheta ci si infilasse comodamente. Spesso i mafiosi sono, “purtroppo”, come aggiungeva Leonardo Sciascia, più intelligenti degli altri. Stupisce allora scoprire che il vecchio Peppino Marcianò aveva in mano sindaci, amministratori, imprenditori? Il blitz che ha portato al suo arresto viene chiamato “la svolta”. Ma se una svolta vera deve esserci, il repulisti deve essere completo.
I nodi ambigui tagliati. La politica deve ritrovare con energie nuovissime il suo primato morale e ideale.

(questo pezzo è apparso sul “Secolo XIX” del 06.12.2012)

Marina Abramović, in fila al discount delle emozioni

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di Veronica Raimo

Per quasi quaranta anni Marina Abramović ha fatto di tutto per portare a termine la sua missione: dimostrare 1) che lei non era matta, 2) che la performance art è arte.

Tanto zelo ha dato i suoi frutti e nel 2010 il punto numero 2 della questione è stato definitivamente dimostrato in modo inconfutabile: il MOMA le ha dedicato l’imponente retrospettiva dal titolo “The Artist is Present”, il che – secondo la logica dell’Abramović – spianerebbe i dubbi anche rispetto al primo punto: se la performance art è arte, lei è un’artista e non una matta. Ciò che è stato abilmente rimosso è però un’altra questione: la possibilità di giudicare l’arte dell’Abramović una volta dimostrato che si poteva chiamare arte. Lei stessa non sembra porsi questo problema, si descrive sempre come una guerriera, una stacanovista, una che ha cercato di spingere il suo corpo e la sua mente forzando sempre più i limiti dell’umana sopportazione, proponendosi come una specie di Karate Kid della performance. Parlando di sé ricorre a una sintesi interessante: un forte senso religioso e spirituale ereditato dalla nonna, una ferrea disciplina ereditata dai genitori (comunisti). Grazie a una sintesi del genere l’Abramović si trincera in una doppia botte di ferro, da un lato mette in campo un’idea dell’arte legata a un elemento mistico e insondabile (“la paura ancestrale”), dall’altro si assicura un’inattaccabilità di diverso tipo, connessa alle potenzialità del suo corpo allenato militarmente attraverso l’esercizio fisico e la meditazione.

Fin da una delle sue prime performance, Rhythm 0, a Napoli nel 1974, in cui si autoriduceva alla totale passività mentre il pubblico poteva accanirsi sul suo corpo con una serie di oggetti contundenti (fino al rischio scongiurato di arrivare allo stupro o al linciaggio), l’Abramović ha costantemente rivendicato che tutto ciò che accade nel momento della performance è reale, generando quella tautologia secondo cui la performace art è vera perché vera. Se nel teatro, come ci tiene a precisare in una delle sue distinzioni preferite, il coltello è un giocattolo e il sangue è ketchup, nelle sue performance il coltello è un coltello e il sangue è sangue. L’autenticità diventa dittatoriale e autoassolutoria. Il paradosso è che se da un lato l’Abramović ha lottato per non essere considerata una matta, dall’altra ha usato il ricatto dell’autenticità come il vaticinio che si accorda ai matti. Se il sangue è vero, se il dolore è vero, se il corpo è martoriato, se la ferita è reale perché è reale, che categorie critiche possiamo usare? Che ci resta da fare se non annuire e constatare la vulnerabilità umana? La performance, per l’Abramović, congela il tempo in un presente totalizzante. Il pubblico partecipa all’evento e ne diventa parte sostanziale. Se questo negli anni ’70 aveva il senso di una rottura per i modi di fruire l’arte, oggi le performance dell’Abramović sono degli spacci di emozioni per chi ha bisogno di farsi una dose. Non importa che emozioni siano, perché siamo di fronte a un’altra tautologia: se provi un’emozione vuol dire che provi un’emozione. L’azzeramento del pensiero in nome di una dittatura dell’emotività, l’annullamento del passato e del futuro in nome di un presente denso e astorico, è ciò rende ingiudicabile l’opera dell’Abramović se non attraverso un rapporto osmotico di visceralità in cui ci si sente di aver provato qualcosa.

Nella retrospettiva al MOMA, documentata nel film “The Artist is Present” di Matthew Akers e Jeff Dupree, l’Abramović è restata per tre mesi, impassibile, seduta su una sedia mentre a turno i visitatori potevano accomodarsi su una sedia di fronte. È impressionante vedere la quantità di gente che è scoppiata a piangere, o che si portava la mano all’altezza del cuore all’apice dello struggimento, mentre lei non faceva altro che fissarli uno ad uno col suo sguardo addestrato, con disciplina ferrea, a sembrare constatemene intenso.

“È stata una specie di catarsi per loro” spiega l’Abramović, “piangevano come bambini, si sentivano smarriti”.  Klaus Biesenbach, il curatore della retrospettiva al MOMA, rincara la dose: “il pubblico si abbandona incondizionatamente”, “alcuni si innamorano di lei”. Arthur Danto, sottolinea come davanti a “La Gioconda” la gente non resti più di trenta secondi, mentre davanti all’Abramović può passare anche le ore. Cosa dovremmo dedurne? Che se qualcosa ci induce a piangere abbia un intrinseco valore artistico? Che la sofferenza è immediatamente catartica? Che la soggezione provata se qualcuno ti guarda intensamente negli occhi ci eleva nello spirito? Che la durata di visione di un’opera è proporzionale al suo valore?

Tra le persone che si sono sedute di fronte all’Abramović al MOMA c’è stato anche il suo compagno storico, Ulay, che ha lavorato insieme a Marina dal 1976 all’89, separandosi da lei con una performance impegnativa: novanta giorni di camminata per dirsi addio sotto la grande muraglia cinese. Guardarsi in silenzio uno dinnanzi all’altro era un loro cavallo di battaglia ai tempi in cui la performance art stava ancora studiando per prendersi il diploma di arte. Rivedere Marina e Ulay sotto i riflettori del MOMA con lei che si lascia andare alla commozione e gli tende la mano ha scaldato il cuore del pubblico e fatto scattare un applauso, ovviamente anche quello catartico. Il dio dell’autenticità stava di nuovo lì a reclamare il suo sacrificio emotivo. Ma c’è un altro momento nel documentario “The Artist is Present”. Ulay che va a trovare Marina nel suo appartamento di lusso a New York, che è il contraltare perfetto del furgone dove hanno vissuto insieme per anni, lui è impacciato, vestito con dei jeans sformati, un paio di Clog coi calzini, lo sguardo malinconico di chi è rimasto fermo al sogno indistinto degli anni ‘70, si aggira per lo spazio asettico di quell’appartamento senza sapere cosa fare. L’Abramović è l’Abramović. Perfetta. “La nonna della performace art, o la diva”, Ulay non sa come chiamarla. Si dicono le frasi sceme di chi si è amato tanto e si è perso di vista. “Siamo nel terzo atto della nostra vita”, confessa lei. Ulay osserva il ragazzino vestito in puro stile Williamsburg che è diventato l’assistente dell’Abramović, le distinzioni sono chiare: il vecchio e il nuovo, il fallito e l’arrivista, la barba bianca, la barba da hipster. Non succede niente in quello spazio, niente performance, niente gesti eclatanti,  solo il disagio e la tristezza di un incontro che non è più possibile, e quando tornerà – sotto forma di performance – dentro al MOMA – sarà il funerale definitivo di quell’impossibilità. L’emozione infiocchettata di cui il pubblico ha bisogno.

[Questo articolo è stato pubblicato su Orwell. La fotografia è tratta da qui]

Raccontare l’Italia postcoloniale: note sparse su identità e cultura nei documentari Aulò e La quarta via

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di Daniele Comberiati

Nel documentario La quarta via. Mogadiscio Italia di Simone Brioni, Ermanno Guida e Graziano Chiscuzzu, contenuto nel libretto Somalitalia. Quattro vie per Mogadiscio a cura dello stesso Brioni e distribuito da Kimerafilm, viene intervistata la scrittrice Kaha Mohamed Aden, già autrice per Nottetempo del bel libro di racconti Fra-intendimenti. La narrazione qui ha inizio attraverso un paradosso: “È molto difficile per me raccontare Mogadiscio”, attacca Kaha, ed è da questa difficoltà, dalle parole che non vogliono rendere concreto il ricordo, che la capitale somala inizia a prendere forma. Curioso che anche nel documentario Kaha si serva di carta e penna per disegnare la città, per tracciarne linee e confini, così come aveva immaginato qualche anno fa Igiaba Scego in un suo racconto, Il disegno, nel quale una Mogadiscio dimenticata, ricordata e infine ripensata e ricostruita veniva disegnata ad un bambino che non l’aveva mai vista. “Esiste ancora questa città, mamma?” chiedeva il bimbo nel racconto della Scego; la scrittura dunque come luogo della ricostruzione, della negoziazione delle identità e della riformulazione dei ricordi. In La quarta via, se possibile, il segno è ancora più rarefatto; non sono figure ad apparire sul foglio che i registi inquadrano costantemente, come a scandire i tempi della narrazione, ma linee orizzontali ondulate, “vie”, che nella loro giustapposizione (una sopra l’altra, quasi a voler mostrare i segni archeologici della storia, ma anche la complessità delle loro relazioni) rendono il senso di un passato spezzato. La quinta via, di fatto, ancora non c’è, poiché la nostra narrazione si ferma alla quarta, il cui colore grigio (un colore “metallico, senza vita”, dice Kaha) indica la cancellazione dei segni precedenti. La stessa dinamica appariva nel racconto della Scego: anche lì era la matita a dover soccorrere la memoria, quasi che nell’atto fisico, quale ricordo automatico, fossero presenti elementi che il pensiero razionale si rifiutava di mettere a fuoco, per nostalgia, tristezza o paura.


Fra le vie segnate, all’interno del film, c’è molto altro, come ad esempio gli spezzoni di un documentario del 1960, che descrive la fine dell’Amministrazione Fiduciaria Italiana in Somalia. Ad ascoltare oggi quelle parole, si comprende con facilità quanto siano radicati, nella cultura italiana, il retaggio coloniale e gli stereotipi ad esso legati. D’altronde è lo storico Antonio Maria Morone, in uno dei saggi introduttivi del libro, a mettere in guardia dalle banalizzazioni e dai luoghi comuni sul colonialismo italiano: che è stato feroce, violento, inscindibilmente legato alla costruzione dell’identità nazionale quanto quello di altri stati. E non si può certo pensare di addurre ad un progetto politico di “colonizzazione dal volto umano” eventuali carenze organizzative o tecniche che hanno impedito che il programma di violenza e segregazione prendesse ancora più piede.
Vi è inoltre nel film una tensione continua, quasi ossessiva, fra l’immobilità e il movimento; Kaha è intervistata quasi sempre in stato di immobilità, ma in una quiete nervosa: muove gli occhi e le mani sul divano, prende libri, impugna la penna e inizia a tracciare le vie; guarda la macchina all’esterno mentre il Ticino dietro di lei scorre e la riporta col pensiero a Mogadiscio; persino nelle scene girate all’università di Pavia lo spettatore è distratto dai movimenti in campo delle altre persone, perfettamente a fuoco, che interrompono brevemente la stasi del corpo in primo piano. Alcune note finali, a questo proposito, creano un legame fra radicamento e distanza, appartenenza e migrazione, situando il documentario, che va visto “insieme” ai libri che lo accompagnano, all’interno di una riflessione che, da una storia coloniale che potrebbe anche apparire lontana, riporta quasi con veemenza all’attualità e alla riformulazione, oggi, dell’identità italiana.
Nel libro allegato un intervento di un’altra scrittrice somala, Shirin Ramzanali Fazel, che con Nuvole sull’equatore (Nerosubianco, 2010) ha ben descritto i dieci anni di Amministrazione Fiduciaria Italiana, si sofferma sull’Arco di Trionfo, uno dei pochi monumenti rimasti in piedi e risparmiato dalla guerra civile. A partire da questo monumento si intrecciano le storie dell’Italia e della Somalia, che dal periodo coloniale giungono fino ai nostri giorni. Un procedimento, quello di sovrapporre passato e presente, evidente anche nell’altro documentario della duologia distribuita da Kimerafilm, Aulò. Roma postcoloniale (prodotto dalla Redigital di Roma), dove ad essere in scena, questa volta, è la scrittrice di origine eritrea Ribka Sibhatu.

In questo caso gli autori hanno optato per una contronarrazione italiana, la voce e il corpo di Ermanno Guida che fa da controcanto alle parole e alle poesie di Ribka. Documentario prezioso, questo (scritto da Sibhatu e Brioni, per la regia di Brioni, Guida e Chiscuzzu), perché porta almeno a due riflessioni importanti. La prima riguarda l’impiego del mezzo cinematografico nel recupero e nella trasmissione della cultura orale, come già si poteva intuire in La quarta via. La seconda riguarda le relazioni fra Roma e le capitali delle antiche colonie e più in generale le dinamiche fra centro e periferia: nel film Roma è percorsa attraverso le tracce coloniali che vi rimangono e secondo i luoghi che la nuova postcolonialità ha riformulato. Asmara poteva apparire provincia durante il ventennio, eppure già vi si sperimentavano conflitti che rendevano il nostro centro molto più marginale di quanto si poteva pensare.
“Una città è di chi la vive”, conclude Ermanno Guida. E non poteva essere altrimenti, visti i complessi percorsi migratori (coloniali, postcoloniali, ma anche riferiti alla cosiddetta “nuova mobilità”) che i due testi mettono in gioco. E bisognerebbe anche chiedersi, seriamente, quanto stia cambiando la cultura italiana grazie ai processi di immigrazione, ma anche grazie alle nuove emigrazioni, poiché sono sempre di più le persone che si trovano a lavorare sulla cultura e sulla letteratura italiane all’estero (in maniera precaria o strutturata), cercando di ricontestualizzarne le dinamiche di potere e di rimetterne in discussione il canone.

I film trattati nell’articolo sono a disposizione sul sito di Kimerafilm

Simone Brioni, a cura di. Somalitalia: Quattro Vie per Mogadiscio. Somalitalia: Four Roads to Mogadishu. Con allegato il documentario La quarta via: Mogadiscio, Pavia. Roma: Kimerafilm, 2012. Pp. 37. € 15.00. ISBN 978-88-907714-0-8

Ribka Sibhatu. Aulò!Aulò!Aulò! Poesie di nostalgia, d’esilio e d’amore. Aulò!Aulò!Aulò! Poems of Nostalgia, Exile and Love. Con allegato il documentario Aulò: Roma postcoloniale. A cura di. Simone Brioni. Roma: Kimerafilm, 2012. Pp. 41. € 15.00. ISBN 978-88-907714-1-5

 

Daniele Comberiati è chargé de recherches Frs-Fnrs presso l’Université Libre de Bruxelles. Ha pubblicato la raccolta di interviste La quarta sponda. Scrittrici in viaggio dall’Africa coloniale all’Italia di oggi (Roma, Pigreco, 2007; seconda edizione Roma, Caravan, 2010), i saggi Scrivere nella lingua dell’altro. La letteratura degli immigrati in Italia (1989-2007) (Bruxelles, Peter Lang, 2010) e Tra prosa e poesia. Modernità di Sandro Penna (Roma, Edilet, 2010), autore per il quale ha curato la traduzione in francese di Peccato di gola (De la gourmandise, Paris, Ypsilon, 2009). Nel 2010 ha curato per le edizioni Nerosubianco di Cuneo la raccolta di racconti postcoloniali Roma d’Abissinia. Asmara, Mogadiscio, Addis Abeba: cronache dai resti dell’impero. Nel 2012, sempre per Nerosubianco, ha pubblicato Di eredi non vedo traccia. Storie di tani, mericani e tripolini, raccolta di racconti che affrontano momenti legati all’emigrazione italiana. Nel 2013 vedranno la luce il saggio «Affrica». Il mito coloniale italiano attraverso i libri di viaggio di esploratori missionari dall’unità alla sconfitta di Adua (1861-1896), presso l’editore Cesati, e la curatela, insieme ad Emma Bond, della miscellanea Il confine liquido. Scambi letterari e interculturali fra Italia e Albania, presso l’editore Besa.

 

Chiusa nella mia stanza in un’abissale solitudine

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«il Fatto Quotidiano» 10/12/2012

diario immaginario di Susanna Camusso

di Evelina Santangelo

 

Scrivere aiuta a capire chi siamo, dove stiamo andando…

Scrivere aiuta a capire chi siamo, dove stiamo andando. Per questo di tanto in tanto la sera, scrivo.

Conosco il mare aperto, non lo temo. So orientare la mia rotta, con vele e timoni. Conosco i venti e li so dominare e anche le correnti. L’ho imparato e praticato… come ogni bravo velista, d’altro canto, che sa quel che bisogna fare.

Posso ritenermi una donna dotata di un certo coraggio, dunque, che sa affrontare il mare aperto e che ha partecipato a battaglie sociali e civili coraggiose. E il coraggio, in battaglie del genere, è una qualità che si nutre anche di contagio. Ho contagiato coraggio e ne sono stata contagiata.

Ostalgie canaglia

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Gian Piero Piretto, La vita privata degli oggetti sovietici – 25 storie da un altro mondo, 208 pagine, Sironi, 2012

 

di Gianluca Veltri

L’Ostalgie è la nostalgia per l’impero socialista perduto. Rimpianto o demonizzato che sia, il passato sovietico conosce diverse declinazioni nel blocco dell’ex patto di Varsavia. Nella Germania unificata, nei territori dell’ex DDR, si dispensano memorabilia d’epoca socialista: dagli oggettini-ricordo da basso turismo alla rimessa in commercio dei prodotti autarchici del tempo che fu (detersivi, alimentari), per anziani cittadini della vecchia Germania Orientale. Siamo dalle parti del film Goodbye Lenin.

Gli oggetti dell’Unione Sovietica, balalajke, matrëske, colbacchi, distintivi, cabine telefoniche, bicchieri, porta-bicchieri: Svetlana Boym parla di «souvenirizzazione del passato socialista». Lo studioso di cultura russa Gian Piero Piretto racconta in “La vita privata degli oggetti sovietici – 25 storie da un altro mondo” (Sironi) la vita privata di alcune “cose sovietiche” — lampade, profumi, polpette, vodka, samovar e molto altro — per indagare attraverso esse le svolte culturali di cui sono state responsabili. Non tutti gli oggetti raccontati hanno perso la loro funzione originale: ma in qualche modo sono diventati testimoni di un passato sul quale lo studioso si sofferma con straordinaria efficacia, senza indugiare su eccessi emotivi o mitologie personali. Però è inevitabile che un’aura mitologica l’abbiano acquisita, questi simulacri sovietici. Nati con i presupposti del costruttivismo russo — negazione di design, praticità e resistenza, spartana sobrietà, eliminazione di tracce d’arte fini a se stesse — gli oggetti tornano in una risemantizzazione, con un design ben definito. Il consumismo occidentale doveva offrire all’uomo sovietico uno spettacolo di pornografia commerciale: eccesso e spreco di merci, continua sostituibilità, fruizione indistinta, assenza di affezione. Come afferma Ol’ga Gurova, invece, «la vita delle cose nella cultura sovietica era pressoché infinita»: le persone avevano una forte difficoltà a separarsi dai loro oggetti, caricati da investimenti emotivi, sentimentali e persino etici. In questo giocava anche, certo, la difficoltà a reperire un nuovo esemplare: la penuria delle cose. Comprendiamo meglio ciò nei capitoli dedicati ai barattoli e alla carta igienica. Quest’ultima conosceva una distribuzione privilegiata (alberghi stranieri, istituzioni) e scarseggiava nelle case. A questo dovette il suo incremento l’acquisto dei quotidiani, con utilizzo secondario, se non indebito, della carta dei giornali. Che però era più dura, senza contare che l’inchiostro poteva provocare effetti antipatici. I barattoli, dal canto loro, riempiti di conserve d’ogni tipo, dai funghi ai pomodorini, dai cetrioli alle mele, facevano bella mostra nell’intercapedine delle doppie finestre. Con coperchi sovente di fortuna e improvvisati: carta, stoffa, elastici e cordini. Personalizzazioni domestiche, private, in un mondo uniforme e pubblico. I poeti russi erano tutt’altro che insensibili alla vita degli oggetti: negli anni Sessanta Evgenij Evtušenko ricorda i tritacarne con cui si produceva l’impasto per le polpette, negli appartamenti comunitari dei quali rimpiangeva la solidarietà. La poetessa Bella Achmadulina celebra i distributori di acqua gassata nell’era in cui era ignoto l’usa & getta: cassoni grigio-azzurri — oggi smantellati e oggetto di nostalgia, emblemi mitologici — che popolavano le strade cittadine d’estate. C’era la coda alle macchinette: bastava una copeca, unità minima nel sistema monetario sovietico. Il bicchiere, incredibilmente, era sempre lo stesso, di vetro, perché la plastica non esisteva. Altro che monouso. Rarissimi i furti del bicchiere (!). Proprio al bicchiere a faccette, spesso e indistruttibile, è dedicata una canzone popolare composta nel 1943, a riprova dell’attenzione che l’arte varia nutriva nei confronti delle cose sovietiche.

Esemplare il capitolo sulla borsa a rete, la reticella sovietica inseparabile nelle croniche difficoltà di approvvigionamento. In russo il suo nomignolo era avos’ka, che significa più o meno “magari, volesse il cielo”. Ti tagliava le mani quand’era troppo piena (magari!), di mele, scarpe, farina. In un’epoca di tessere annonarie e mercato nero, il travet sovietico, con la reticella in tasca, in cuor suo pregava: «Volesse il cielo che potessi tornare a casa portandoci dentro qualcosa».

[pubblicato su Mucchio Selvaggio n. 701, dicembre 2012]

 

Per nuove regole d’ingaggio

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di Luca Lenzini

Di ritorno dai funerali di Pinelli annotava nel dicembre ’69 Franco Fortini: «Non so come ma ho la certezza che con la strage di pochi giorni fa, l’orrendo coro dei giornali e questo assassinio del Pinelli, è davvero finita una età, cominciata ai primi del decennio.» Così fu veramente e oggi lo comprendiamo meglio, se appena alziamo lo sguardo dallo scialo delle ricorrenze e di quanto le accompagna.

Vonnegut, Nabokov, Handke. Lezione, declamazione, rabbia

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di Davide Orecchio

LEZIONE (VONNEGUT)
Nel 1965 Kurt Vonnegut tenne un corso di Teoria e forma della fiction in un laboratorio di scrittura. Una sua studentessa, Suzanne McConnell, ha conservato il compito che Vonnegut le aveva assegnato per le sue esercitazioni (ne parla Slate in questo articolo). È scritto in forma di lettera (ed è stato pubblicato in Kurt Vonnegut: Letters):

«Vorrei che le tue tesine fossero ciniche e religiose allo stesso tempo. Voglio che adori l’universo e che sia facile piacerti, ma che tu sia pronta anche a trattare con impazienza quegli artisti che offendono le tue convinzioni più intime riguardo a cosa è o dovrebbe essere l’universo. Ti invito a leggere i 15 racconti in Masters of the Modern Short Story (…). Leggi per il tuo piacere e soddisfazione, cominciando ogni racconto come se, solo sette minuti prima, avessi bevuto un bicchiere di liquore prelibato.

(…) Riproduci l’indice del libro su un foglio di carta bianca, omettendo i numeri di pagina e sostituendo a ogni numero un voto dalla A alla F. I voti dovrebbero essere la misura infantilmente egoista e impertinente della tua gioia, o della sua assenza. Non m’importa che voti dai. Ma insisto che alcune storie ti debbano piacere più di altre. Prosegui oltre con l’allucinazione: sei l’editor minore ma utile di un buon magazine letterario non collegato ad alcuna università. Prendi le tre storie che ti sono piaciute di più e le tre che ti sono piaciute di meno, sei in tutto, e fa’ finta che ti siano state proposte per la pubblicazione. Scrivi un parere su ciascuna di esse immaginando di doverlo sottoporre a un superiore saggio, rispettato, spiritoso e un po’ stanco del mondo.

Non scrivere come un critico accademico, né come un fanatico (…). Scrivi come una persona sensibile che abbia un paio di intuizioni pratiche su come le storie possono avere successo o fallire. Elogia o stronca a tuo piacere, ma fallo in modo categorico, pragmatico, con attenzione per i dettagli che disturbano o soddisfano. Sii te stessa. Sii unica. Sii una brava editor. Dio sa quanto l’universo abbia bisogno di bravi editor.»

FONTI:
Slate
The News-Gazette

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DECLAMAZIONE (NABOKOV)
1958, Nabokov declama ‘An Evening of Russian Poetry’. (Al link l’articolo su WNYC e l’audio della registrazione).

«Immaginate un professore di letteratura russa, ad esempio il professor Pnin, invitato a tenere una lezione in un college femminile da qualche parte nel New England. Di fronte a un pubblico di fanciulle appassionate (eager maidens) che lo interrompono con domande appassionate (eager questions)». «This is going to be an impersonation, in iambic pentameter, with fancy rhymes».

L’AUDIO

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RABBIA (HANDKE)
Il 10 agosto del 1965 Siegfried Unseld, grande capo di Suhrkamp, annuncia per lettera al giovane Peter Handke che pubblicherà il suo romanzo d’esordio, probabilmente nel 1966, sempre che l’autore sia disposto a rivedere rapidamente certi dettagli ed eliminare alcuni austriacismi.

«Sono convinto che il suo lavoro non sfigurerà accanto a quelli di Peter Weiss e Ror Wolf e che porterà avanti la prospettiva di questi due autori.»

Il 25 agosto del 1965 Peter Handke risponde a Unseld dichiarandosi «felice oltre ogni misura» e pronto a intervenire sui dettagli segnalati dall’editore. Viaggerà al più presto da Graz a Francoforte per discuterne di persona.

Passa circa un anno. Il libro di Handke esce: I calabroni. Escono anche le prime recensioni. Non tutte positive. Ed ecco che il 20 giugno del 1966 lo scrittore riprende il carteggio con l’editore per denunciarne una, che l’ha fatto arrabbiare, uscita sulla Zeit. Handke non si capacita che il suo libro sia stato affidato in lettura a «persone prevenute e che neanche si premurano di nasconderlo». Denuncia le «critiche insensibili, stupide e scritte male» apparse non solo sulla Zeit, ma anche sulla Welt. Avvisa di volersi difendere per dimostrare che le recensioni sono «bugiarde e avventate».

«Vorrei scrivere un “grande” articolo contro tutti questi critici che pretendono di elevare a norma la letteratura di consumo, come ad esempio i romanzi di Günter Grass. Vorrei riabilitare il mio libro.»

Due giorni e Unseld risponde. La lettera è tutto uno “sconsiglio”:

«Non ha alcun senso reagire direttamente alle critiche. Ogni critico ha il diritto a esprimere la propria opinione e, se essa non contiene nulla di oltraggioso, chiunque entri nel dominio pubblico è tenuto ad accettarla».

Unseld invita Handke a non scrivere nulla, a non replicare né attaccare i recensori, le cui opinioni non sono «bugiarde né avventate». L’autore della recensione sulla Zeit, Wolfgang Werth, tra l’altro è «molto giovane» e «per nulla prevenuto».

FONTI:
Die Zeit
Per il 70mo compleanno di Handke, Suhrkamp ha pubblicato il suo carteggio con Unseld. 35 anni di corrispondenza. Circa 600 lettere.

P.S. «Vorrei scrivere un “grande” articolo contro tutti questi critici che pretendono di elevare a norma la letteratura di consumo, come ad esempio i romanzi di Günter Grass.» = Dal 1966 a oggi il concetto di “letteratura di consumo” è piuttosto cambiato.

La luce sui corpi

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Alcune riflessioni su Il tempo materiale di Luigi Ricca, dal romanzo omonimo di Giorgio Vasta.

di Vanni Santoni

Via via che la mia collaborazione con Tunué andrà solidificandosi, potrò parlare sempre meno dei suoi libri, il che è un peccato: se conoscevo già bene la casa editrice di Latina per il suo catalogo estero, nel quale spiccano capolavori come Rughe di Paco Roca o Perché ho ucciso Pierre di Alfred & Ka, sto scoprendo solo adesso la sua altrettanto interessante produzione italiana, nell’ambito della quale si va a inserire il nuovo progetto di adattamento di romanzi italiani recenti, la cui prima uscita è Il tempo materiale, fumetto di Luigi Ricca tratto dal romanzo omonimo di Giorgio Vasta, uscito per minimum fax nel 2008. La scelta, va da sé, è azzeccata: quando, quattro anni fa, per effetto dell’aver cominciato a scrivere, per così dire, “seriamente”, cominciai ad avvicinarmi anche alla letteratura italiana contemporanea dopo anni spesi soltanto su opere dei secoli scorsi, Il tempo materiale fu uno dei romanzi usciti in quel periodo che mi persuasero che anche qui e oggi si potevano fare cose ottime: che, insomma, valeva la pena. (Gli altri due erano Ultimo parallelo di Filippo Tuena e Puerto plata market di Aldo Nove, che non è del 2008, ma che comprai nella riedizione Einaudi Stile Libero di quell’anno, credendolo appena uscito).
Tornando a Il tempo materiale targato Tunué, sarebbe riduttivo definire quello di Luigi Ricca un adattamento: si tratta a ogni effetto di una nuova opera, nata per gemmazione, come sottolinea lo stesso Vasta nella postfazione, ma indipendente dal romanzo nelle modalità operative e nei risultati.
La cosa che colpisce immediatamente chi, come me, conosce già il testo d’origine, è il bianco, tutto quel bianco. Il tempo materiale di Giorgio Vasta è un romanzo cupo, denso, dettagliatissimo ed emotivamente opprimente, privo quasi di spazi vuoti e momenti di liberazione (anche per questo è essenziale il capitolo, prossimo al finale, dedicato alla sonda Venera 11: non soltanto per la sua funzione simbolica, ma anche per la boccata di “aria” siderale che concede al lettore), per il quale la rappresentazione a fumetti più naturale da immaginare sarebbe un lavoro giocato sui neri e sui retini, se non addirittura uno in graffiato, alla Thomas Ott o Maria Colino.
Invece Il tempo materiale di Luigi Ricca è un lavoro dominato dal bianco, pieno di luce, che di fatto, pur mantenendo una certa fedeltà filologica, sconvolge la percezione dell’opera da parte di chi già la conosce in versione romanzesca, fino a innervarla, nella memoria, di nuovi significati – un parallelo recente è quello che la visione del Cosmopolis di Cronenberg ha fatto alla mia percezione del romanzo di DeLillo: ha tracciato una possibile pista, la quale, lungi dal ridurre a sé stessa le possibilità di lettura, ha avuto l’effetto, con la sua chiarezza, di illuminarne di nuove.
Il tempo materiale di Luigi Ricca è altresì un’opera diversa da Il tempo materiale di Giorgio Vasta per un fatto semplice ma cruciale: se, nella mente del lettore del secondo, la dimensione allegorica e quella simbolica dei tre protagonisti Nimbo, Raggio e Volo prendono moltissimo spazio anche a causa della centralità della lingua, nel fumetto il fatto di averli sempre tutti e tre sott’occhio, lì disegnati, se da un lato limita le suddette dimensioni, dall’altro potenzia la vicenda sotto il profilo del crudo realismo, e ci si scopre a pensare “ma guarda che razza di piccoli, perfidi bastardi,” mentre li si guarda catturare Morana, “interrogarlo”, fotografarlo, ucciderlo, o a scuotere la testa di fronte alla messa in scena dei loro deliri ideologici.
Lo stesso Morana, che nel romanzo, a causa dell’assonanza del nome (ancor più “pesante” in un contesto di strapotere della parola), diventa inscindibile dal riflesso di Aldo Moro, nel fumetto recupera, tramite il disegno di un volto, di un corpo, di un’espressione, di una mimica, tessuto umano, e rende ancora più mostruoso il delitto dei tre bambini, strappandolo dalla dimensione delirante, quasi fantastica, del punto di vista di Nimbo, e riportandolo alla terribile oggettività della testimonianza oculare; allo stesso modo, ma in direzione inversa rispetto a Morana, la bambina creola da simbolo si fa carne (o, volendo, labbra, naso, codine e sopracciglia) e ci ricorda che sono i corpi, prima ancora delle anime, a covare segreti inesprimibili.

Il tempo materiale, Tunué 2012; pp.128, euro 14.90


Dov’è Ruby

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Karima El Mahroug, detta Ruby Rubacuori si trovava a Playa del Carmen, Quintana Roo, Messico, la settimana scorsa. Vi ha soggiornato varie altre volte in passato. Fonte: una persona che lavora lì.
Qualcuno dica a Ilda Boccassini di controllare i voli Milano-Cancun.

Lettera al direttore del Corriere

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Caro Direttore,
abbiamo apprezzato l’articolo apparso lunedì scorso sul suo giornale a firma di Armando Stella, nonostante ci chiami, immeritatamente, “comitato del no”. Il pezzo era dedicato all’area prospiciente il Cimitero Monumentale (chiamata ex-Enel), investita da un progetto di edificazione assai discutibile. Grazie infatti alla nostra propositiva passione civile – una petizione, una raccolta di firme, un sito e una serie di articoli sui giornali – abbia rimesso in gioco quel progetto da tutti poco amato, innescando un processo virtuoso. Più che “no”, il nostro è stato un comitato “pro”.
Con un’azione popolare si è portata all’attenzione della Amministrazione comunale, e della cittadinanza, la pochezza di un progetto, e nel corso di quest’anno il Comune ha risposto positivamente convincendo la proprietà a indire un concorso per la valorizzazione di questi spazi pubblici (due giardinetti e una piazza). Il progetto in questione era eredità della precedente amministrazione, la giunta Moratti, ma in modo inerziale avallato anche dalla giunta Pisapia.
Come gruppo di cittadini che amano la loro città abbiamo suggerito una visione globale del progetto, dal momento che l’area in fondo a via Bramante, è stata suddivisa in tre parti, con tre diversi proprietari, senza una visione urbanistica unitaria, come è tipico della rendita fondiaria nella città di Milano. Il nostro intervento, recepito dalla Amministrazione ha avuto un esito parziale, ma importante, e il concorso ha migliorato la qualità dello spazio pubblico migliorando anche – perché non dirlo? – l’appetibilità delle stesse aree di proprietà privata.
A fianco al concorso (su cui il Comune si è potuto spendere) abbiamo trovato la generosa e intelligente disponibilità della Cooperativa delle Acli, che costruirà appartamenti di edilizia convenzionata e che ha cambiato il progettista incaricato, fornendo un nuovo e più interessante disegno del suo edificio prospiciente via Procaccini, di fronte al Monumentale. Tuttavia nonostante il successo di aver ripensato lo spazio aperto al pubblico, restano irrisolti i problemi di fondo di questo luogo: due dei tre edifici previsti nella zona – un albergo e un edificio residenziale, entrambi di nove piani, decisamente fuori scala – non hanno alcun progetto o disegno, neppure un rendering, che ci faccia intuire come saranno, il loro ingombro, chi li costruirà, con quale carattere o qualità architettonica. Questo perché le operazioni immobiliari sono ancora gestite come compravendita di terreni, come interventi commerciali, e non come progettazione di spazi, relegando le questioni architettoniche a fatti mercantili.
Ed è proprio riguardo a questo problema che abbiamo invitato il quartiere e la cittadinanza a un confronto pubblico con Salvatore Settis, (10 dicembre, ore 18, Fabbrica del Vapore) che su questo argomento ha pubblicato di recente un libro di forte impatto culturale, Azione popolare. Tutta la vicenda dell’area ex Enel è la dimostrazione che la democrazia è anche discutere in modo trasparente delle cose, pubblicamente e con spirito costruttivo. Per cooperare dialogando, partecipando. Nel nome dello stesso amore per Milano che ci accomuna.

Marco Belpoliti
Gianni Biondillo
Marco Biraghi
Paola Lenarduzzi
Roberto Marone
Luca Molinari
Alberto Saibene

(pubblicata ieri sulle pagine milanesi del Corriere della Sera. la vignetta è un regalo di Guido Scarabottolo)

Il mondo come prigione e la prigione come mondo

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di Antonio Sparzani

«Ora che, passati gli anni, ho smesso d’arrovellarmi sulla catena d’infamie e fatalità che ha provocato la mia detenzione, una cosa ho compreso: che l’unico modo di sfuggire alla condizione di prigioniero è capire come è fatta la prigione.» Così, nella puntigliosa e certo non filologica ricostruzione di Italo Calvino della narrazione di Dumas della saga di Montecristo, conclude Edmond Dantès riuscendo in qualche modo a ricostruire appunto un senso e uno scopo alla propria situazione così drasticamente costretta (dalla raccolta Ti con zero).

Totem & Tabù : Baricco

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di
Francesco Forlani

Nelle Cronache di Bustos Domeq, di Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares, c’è un breve racconto intitolato Esse est percipi, che riporta una conversazione fra due amici sulla realtà, piuttosto la finzione del calcio. Uno sport che abdica dalla imprevedibilità del gioco vero in nome dello spettacolo “organizzato”, truccato dietro le quinte dei media.
Quando ho letto l’ultimo libro di Baricco Tre volte all’alba, è stata proprio la frase di Berkeley a risuonarmi dentro. Vuoi per il risaputo amore di Baricco per il calcio, vuoi per l’anomalia Baricco, una su tutte quella di non potere come lettori prescindere dalle reazioni che suscita il nome, il personaggio, il simbolo, in una sola parola la mauvaise réputation che lo accompagna. Una cattiva reputazione che circa un anno fa fu proprio Baricco a raccontare suscitando tra le varie reazioni, quella di Antonio Moresco con un’accorata e bella lettera pubblicata da Repubblica.
Per fortuna, di Baricco, ma anche nostra in un certo senso, il tabù Baricco sembra interessare più la critica e un certo tipo di critica che i lettori, lettori in generale visto che le sue opere sono tra le più lette e vendute in italia e all’estero a cominciare dalle prime che pure avevano messo d’accordo tutti, come è possibile leggere in un documentatissimo dossier intitolato Castelli di rabbia, il caso editoriale, in cui lo stesso Goffredo Fofi non aveva esitato a definirlo “un inventore”.

Esse est percipi scriveva Berkeley e come Borges anche Beckett si era servito di questa tanto inoppugnabile quanto misteriosa tesi in Film. Proprio su questa idea di double, Berkeley vs Keaton/Beckett Gilles Deleuze aveva concentrato la sua analisi in Critique et clinique / 1993, ed è su questo paradigma del doppio che vorrei costruire la mia personale lettura del libro in questione.


Quando qualche giorno fa ho incontrato Alessandro Baricco per strada gli ho così detto che mi era piaciuto il suo libro e che ne avrei scritto nei giorni a venire. “Sorpreso eh!” o una cosa del genere mi ha risposto fulminandomi con ironia. Ho immediatamente realizzato che l’entusiasmo che gli aveva manifestato avrebbe potuto annunciarsi con una frase che rimaneva sotto testo, una cosa che sarebbe suonata tipo: roba da non crederci, non te l’aspettavi eh, incredibile ma vero, però il tuo libro mi è piaciuto. Insomma quel tipo di cose che partono come un complimento e finiscono per essere quasi un insulto.
E ho aggiunto a quel punto che il libro “tre volte all’alba” mi era piaciuto per due ragioni. Una per il coraggio di concepire un’opera interamente costruita su dialoghi, spartiti, in un momento in cui la letteratura sembra aver dimissionato da questi in nome delle descrizioni oggettive, e l’altra per la perentorietà della frase, un passo estremamente potente che proprio al teatro di Beckett mi ha fatto pensare.
Pubblico questa introduzione continuando la mia analisi nei commenti.

video arte #14 – guy ben ner

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http://www.youtube.com/watch?v=KDUrqKD9RHA

Guy Ben Ner, Stealing Beauty, 2007.

Scrittori in prima serata

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di Giuseppe Zucco

Nel migliore dei mondi possibili, questo post non avrebbe ragione di esistere. Gli scrittori avrebbero già un posto fisso nei palinsesti. Accanto ai programmi di puro intrattenimento, ce ne sarebbero altri in cui gli scrittori e le loro opere contenderebbero l’attenzione e la pazienza degli spettatori.

Poeti “appartati”: Federico Zuliani

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VI
Quaderno americano

di

Federico Zuliani

1.

Tu, che non mi scrivi più,
so però che vivi ancora oltre certe finestre
senza più libri, importanti, senza

permetterti le debolezze che
ti concedevi, soltanto, per farmi sentire
un po’ meno impotente, un po’

meno vinto. Tu sai nutrirti infatti
di questo buio che io invece temo
e che s’è annesso, ad uno ad uno, i miei

porti. La notte, poco s’adatta ai borghesi
– che credono ai giorni fasti, alle luci, alle case
dalle tovaglie stirate, coi monogramma.

Ma tu, che già allora sapevi
di questa era ventura di passaporti
negati, di cavalli di Frisia e di

desiderio d’Armenia, hai preso
per tempo la via dell’esilio
dalla convinzione che saremmo potuti

divenire ciò per cui le madri
c’hanno educato, in quel tempo, ad essere,
nei giorni dei calzini stirati, delle

certezze, repubblicane. Oggi
so che hai preso un posto, anche per me,
tra i tavoli dei reduci, dei colpiti, da proscrizione.

2.

Ci hanno insegnato la diaspora nei gesti
delle madri, delle possibili nuore,
da che parte andasse il coltello

sulle tavole spoglie delle feste avite
e dal sacro timore per le parole avvolte
nel vuoto greve del non pronunciato.

Ma oggi, di contra, ci ritroviamo
perché, come ultimo sfregio, chi possiede le chiavi
delle nostre vite, ci ha vietato

di andare incontro alla morte, indossando
le maschere funebri degli antenati.
Le maschere, che conserviamo negli atri

delle case, e che sono state prese
sui volti dei morti, sui corpi già vuoti
d’aria, ma ancora vestiti, ancora in possesso

degli oggetti che si lasciano ai vivi, che rimangono
a ricordarci dell’illusione che sta, tra noi,
e il credere che ci sarà dato di

avere, pure noi, quegli anni
che sono stati, prima, dei padri e dei nonni.
Ma oggi, in questo paese che ci chiama altri,

quelli, ci spiegano che è meglio
– per ragioni di salute pubblica –
che la morte esca dalla vita degli uomini

perché ricorda troppa se stessa, perché
priva del sonno i bambini. E così, nella diaspora,
i padroni ci impongono infine d’avanzare soli;

ci vogliono nudi, uguali, nel nostro essere nati
senza padre né madre, nel non essere
di nessuna gens, nel sapere nostro, solo il presente.

Come ad ogni legge ingiusta prima, anche a questa
obbediremo, per poi indossare le maschere
mentre siamo soli, in casa. La libertà

nelle case ci impone però, senza accorgercene,
nuovi confini, ma soprattutto, ce ne rende
i guardiani (gli schiavi) più attenti, i più fedeli.

Oggi che sono transenne tutto intorno a noi,
la morte ha smesso di uscire in strada,
è divenuta privata, come i parcheggi,

o il diritto proprio dei Greci di Ionia, su cui è costruita
l’illusione collettiva per cui, rinunciando
alla morte, si possa avere in cambio la vita.

3.

Avrei voluto portarti con me, Ossip Emili’ovic,
ma Marina ha ragione: l’America non si addice
ai tuoi piedi, e so che sei contento di aspettarmi laggiù

assieme a Proserpina, e agli dei della casa
a cui è stato interdetto il passaggio del mare.
Quaggiù, sappi, godo l’estate delle persone non grate

in questo deserto di grattacieli posti a difesa
del nulla che viene, e che vive nei fiumi,
nelle grandi pianure delle metropolitane.

L’Armenia, qui, è tavolini con tovaglie a quadretti
con i bordi macchiati, e non c’è spazio
per le nostre lentezze, per il tuo modo di

aspettare che la notte si alzi, che vengano a dirci
che è ora di andare. L’esilio si sconta nei tabacchi
ignoti, nel sali e scendi per i supermercati.

Mancano, poi, le pattuglie, e per questo
se ne sentono i passi avanzare, tra i tombini
sopra le tombe levigate dei mezzi piani. Il mondo,

oltre il mare, è fatto per chi crede ai profeti,
per i-senza-vergogna nel dire “io”. Mi
manchi. Aspettami, te ne prego. Tornerò

perché il buio di Mosca è diverso, con te
e pure la radio annuncia in un modo diverso
che è meglio dormire con le finestre sprangate.

4.

Viaggiando s’apprende a conoscere
l’attesa che anticipa lo squillo delle sirene,
mentre si fanno le scale, quando si è in coda

per la Comunione. Qui, di notte,
i miei amici sono tutti cinesi
mi confondo coi nomi, pretendo

che sappiano almeno come ci si ubriaca.
Diverso però è il ritornare, e trovare
che la propria città ha assunto i colori del buio

che s’è federata in nostra assenza coi barbari.
E così, spogliati lo zaino ed i gradi, non rimane
che augurarsi che presto venga il tempo

di un’anabasi ultima che ignori i sentieri
e che proceda tra i tetti, fra le ombre lunghe
dei sottoscala. Viaggiando, abbiamo tentato,

tante volte, ma invano, di spogliarci nudi,
di confonderci, nelle folle, di sparire
nelle strettoie anguste delle stazioni;

ma ogni tentativo, fatuo, ha lasciato
su di noi, più indelebile, la mera lingua
delle madri e dei padri, questa cosa

invincibile e atroce, che mi impone, anche ora,
di dire “noi”. Tornare, mi obbliga, così
ad accettare che questo vuoto che tocco

solo, ignoto, ma che ha saturato anche l’aria
di cui sono fatte le cattedrali, è il mio vuoto,
che questa indegna colpa, la mia colpa.

Federico Zuliani è nato nel 1983 a Milano, dove si è laureato in Storia del Rinascimento presso l’Università Statale. A partire dall’adolescenza ha vissuto lunghi periodi all’estero, tra Argentina, Scandinavia e Asia. Ha pubblicato alcune traduzioni da autori iberici e nordici su riviste e in volume (J. V. Jensen, Alla stazione di Memphis, La Pulce, 2005). E’ del 2008 Travelling South (Milano, Lampi di Stampa), la sua prima opera poetica, che raccoglie testi scritti tra il 2005 e il 2006. La dimora del tempo sospeso segnala tra l’altro Travelling South, di cui esiste una bella ricognizione su Absolute Ville

Riapparizioni

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di Davide Orecchio

Iniziano ad affiorare gli scomparsi.

Porto Palo 1996. Quindici pachistani annegati, trovati dai pescatori e rigettati in acqua, ora passeggiano sul molo tra barche ormeggiate, reti, persone incredule. Sono illesi: niente di loro l’ha trattenuto il mare. Conservano braccia e gambe e i bulbi degli occhi. La pelle non è neppure squamata. Ridono. Annusano molluschi e sugheri. S’informano se c’è lavoro in città.

Santiago 1975. Salvador Allende emerge davanti alla Moneda. Il suo cranio è intatto. Nessuna scorticatura sulla cute né cedimenti ideologici. Non indossa elmetto, non porta pistole. Mormora a un passante: “Ricominciamo”.

La resa della sera

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 di Luca Ricci

ai miei amici scrittori, bestie da macello

La mattina presto del giorno in cui uscì il libro del mio amico, verso le quattro o le cinque del mattino, la città venne messa in maschera da un acquazzone improvviso. Me ne accorsi da sotto le coperte e pensai che se fosse continuato a piovere la gente si sarebbe tenuta alla larga dalle librerie: tra scrittori succede sempre così, i libri degli amici sono accolti con un misto di curiosità e invidia. Quel sentimento ambivalente mi accompagnò anche durante la colazione, mentre notavo che il cielo si schiariva e le strade si asciugavano. Poco male, mi dicevo, una bella giornata non significa automaticamente una buona vendita. Mi vestii con sofferenza e decisi di fare una seconda colazione fuori. All’edicola comprai quei giornali dove ritenevo più probabile fosse uscita qualche recensione del libro, magari un’anticipazione o un pezzo concordato fatto da altri amici del mio amico. La sofferenza si tramutò ben presto in sollievo: anche se c’erano un paio di interventi molto elogiativi, in effetti se ne parlava poco o niente. Quando arrivò l’ora dell’apertura delle librerie non ebbi il coraggio d’entrare. Quello era il momento in cui i commessi aprivano i pacchi e sistemavano le novità sui banconi principali, quello era il momento in cui il libro del mio amico era incontestabilmente il libro più nuovo, l’appena nato. Me ne andai a contare le foglie dei platani lungo il fiume. Quante copie avrebbe potuto vendere, onestamente? Inviai un messaggino di congratulazioni al mio amico, e ancora camminai per cercare di svagarmi, di pensare ad altro. Verso mezzogiorno infilai l’ingresso di una libreria di catena e notai che il libro del mio amico, com’era prevedibile, se ne stava in un angolo oscurato dalle piramidi delle strenne natalizie. Pochi, pochissimi titoli occupavano la maggior parte dei metri cubi disponibili: proprio così, toglievano l’aria ancor prima dello spazio, e non c’era davvero modo di non notarli. Si trattava di quei libri che erano arrivati prima di quello del mio amico, e che con ogni probabilità sarebbero rimasti esposti anche dopo. Occupavano anche le vetrine ed erano gli stessi di cui avevo lungamente letto sui giornali. I soliti nomi, i soliti libri, nessuna sorpresa. Mi sentii un po’ meglio e rincasai per mettere qualcosa sotto i denti. Controllai la situazione su internet: chi non ha una visibilità immediata può sempre contare sulla remota possibilità di un passaparola in rete. Senza nascondermi un’oscura soddisfazione constatai che non stava succedendo nulla di particolare. Sì, del libro del mio amico si parlava ma entro margini del tutto accettabili: e in fondo di quale libro non si parla in rete? Non era scoppiato un caso, un interesse particolare, un’onda di commenti e feed-back e tweet anomala. Nel primo pomeriggio il sole venne di nuovo inghiottito da un cielo senza colore, e cominciò a fare freddo. Se fosse ricominciato a piovere la partita si sarebbe chiusa prima del tempo. Mi diressi verso un’altra libreria e chiesi al commesso una copia del libro del mio amico. Il commesso, vagamente disorientato, ci mise qualche minuto a ricordarsi dove mai potesse essere. E ancora non potei fare a meno di guardare allibito le torri di quei pochi titoli fortunati che la filiera editoriale aveva insindacabilmente scelto di vendere quell’autunno. Era divertente il fatto che la loro presenza aggressiva in libreria in genere fosse direttamente proporzionale alle opinioni piene di buon senso progressista della maggior parte dei loro autori. C’era parecchio intrattenimento e molta saggistica di denuncia. Mi venne da pensare, stavolta con inequivocabile malinconia, che dalle librerie era stato espunto il mistero della letteratura. Pensai proprio così, che certa narrativa ormai subiva lo stesso trattamento della poesia. Uscii con una copia del libro del mio amico sottobraccio, ma non ebbi il coraggio di cominciare a leggerlo. Mi sembrava già una concessione straordinaria, un fatto quasi inammissibile, che fossi stato proprio io a comprargliene una copia, a dargli quello scandaloso aiutino. In un modo o nell’altro comunque si erano fatte le cinque del pomeriggio, e la parabola della vita del libro era entrata nella sua fase discendente, il suo destino stava per compiersi. Forse il mio amico lo starà presentando da qualche parte, riflettei ironico. Sapevo che quella mossa sarebbe servita soltanto a rendergli meno amara la sconfitta. Mi chiamò qualcuno, un altro amico scrittore, chiedendomi a bruciapelo: “Allora quand’è che ti decidi a scrivere dei gialli seriali con un bel commissario che entri nel cuore della gente?”. Attaccai livido di rabbia e proseguii il giro delle librerie. Alle cinque del pomeriggio il libro del mio amico era stato spostato dal bancone delle novità agli scaffali. Alcune librerie l’avevano già parcheggiato in magazzino, segno inequivocabile di ciò che sarebbe successo tra poche ore. La cosa mi dette un tale sollievo che mi ripromisi di non pensarci più. Cadde ancora qualche goccia di pioggia, il che fermò diversi acquirenti nell’ora solitamente ritenuta di punta per quanto riguarda lo shopping. Con gioia – una gioia torva che poteva ben riassumersi nell’adagio “mal comune mezzo gaudio” – restai a guardare le strade un po’ meno affollate del solito. A casa poggiai il libro del mio amico sul comodino e ancora non ebbi animo di dargli un’occhiata: e se fosse stato buono? E se fosse stato molto buono? Mi cambiai velocemente e decisi che la mia giornata si sarebbe conclusa con un po’ di jogging. Fuori, il cielo era nuovamente tornato lindo. Tutta quella pioggia l’aveva pulito eccessivamente, e adesso soprintendeva le cose del mondo con la stessa indifferenza con cui, alla fine della corsa liberatoria, mi soffermai a contemplare le saracinesche abbassate di alcune librerie. Era tutto finito, per il mio amico. Tre lunghi anni per scriverlo e un giorno appena per venderlo. La novità del mattino si era trasformata nella resa della sera.

 

(Pubblicato su Orwell, l’inserto culturale di Pubblico, il 24-11-2012)

 

“Avere il coraggio dell’incertezza”: le culture della precarietà

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Convegno internazionale

Université Paris Ouest Nanterre La Défense, 6 e 7 dicembre 2012

Qui il link all’Università e al programma

Colloque organisé par le Centre de Recherches Italiennes (CRIX-EA 369 Études Romanes), avec le soutien de l’École Doctorale 138 LLS (Lettres, Langues et Spectacles) et l’UFR LCE. Avec la participation de l’Institut Culturel Italien de Paris. Dans le cadre du projet “Precarity and Post-autonomia : the Global Heritage”, avec le soutien du NWO (The Netherlands Organisation for Scientific Research).

Projet scientifique et organisation : Silvia Contarini (Université Paris Ouest Nanterre La Défense) et Monica Jansen (Utrecht University)

Collaboration : Luca Marsi et Christophe Mileschi (Université Paris Ouest Nanterre La Défense), Judith Revel (Université Paris 1)

Aide à l’organisation : Estelle Paint, Manuela Spinelli et Alessio Berré (Université Paris Ouest Nanterre La Défense)

Les partenaires du projet « Precarity and Post-autonomia : the Global Heritage » : Vincenzo Binetti (University of Michigan, Ann Arbor), Joost de Bloois (University of Amsterdam), Silvia Contarini (Université Paris Ouest Nanterre La Défense), Frans-Willem Korsten (Leiden University/Erasmus University Rotterdam), Federico Luisetti (University of North Carolina, Chapel Hill), Monica Jansen (Utrecht University)

La terra con la t minuscola

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di Giacomo Sartori

Oggi è la giornata mondiale del suolo. Il suolo è quella sostanza sporca che chiamiamo comunemente terra, nello stesso modo cioè della Terra, il globo terrestre, che invece i suoi quarti

El prologo alucinante

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 di Reinaldo Arenas, a cura di Gianluca Cataldo

 

Foto: “Baracoa”, di Eleonora Quadri

 

Pubblichiamo di seguito la traduzione di una parte del prologo scritto da Reinaldo Arenas in contemporanea, si presume, alla revisione del romanzo El mundo alucinante, un atto di difesa della propria visione poetica della Storia, fatta di storie incastrate in un frenetico e semplice fluire del tempo. Nella speranza di vedere presto un’edizione italiana delle sue prime opere, mi scuso per gli eventuali errori di traduzione, e ringrazio Fabio Burani per l’aiuto.