di Renata Morresi
ci sono dappertutto bagnanti felici
(A. Porta)
essere molti e saline
vive e più mobili
del mare, abitanti
confusi a risalire
all’indietro, ad uno
stile nobile, le antiche
genealogie anfibie
di Renata Morresi
ci sono dappertutto bagnanti felici
(A. Porta)
essere molti e saline
vive e più mobili
del mare, abitanti
confusi a risalire
all’indietro, ad uno
stile nobile, le antiche
genealogie anfibie
F. Couperin da Terza Lezione di Tenebra [1714]
[ da Il comune sentire [2012] BUR saggi]
⇨ «Chiesa indietro di 200 anni » L’ultima intervista: «Perché non si scuote, perché abbiamo paura?»
⇨ “Correva l’anno” [puntata del 21/03/2011] CARLO MARIA MARTINI il cardinale del dialogo
5. Pensanti, non pensanti. Da quanto detto fin qui appare che, dal punto di vista della metodologia dell’incontro, la differenza da marcare non sarà tanto quella tra credenti e non credenti, ma tra pensanti e non pensanti, tra uomini e donne che hanno il coraggio di vivere la sofferenza, di continuare a cercare per credere, sperare e amare, e uomini e donne che hanno rinunciato alla lotta, che sembrano essersi accontentati dell’orizzonte penultimo e non sanno più accendersi di desiderio e di nostalgia al pensiero dell’ultimo orizzonte e dell’ultima patria. La sfida pastorale che ne deriva è allora quella di ascoltare le domande vere del pensiero davanti al mistero dell’esistenza, ponendosi insieme, credenti e non credenti pensosi, a capire ciascuno le ragioni dell’altro. Per chi crede ciò potrà significare una purificazione delle motivazioni dell’atto di fede e al tempo stesso una nuova possibilità di proporle a chi non crede con la fedeltà del testimone e il rispetto del compagno di strada, che si riconosce nell’altro e scopre l’altro in sé.
di DaniMat
QUESTA STORIA E LE SUE SORELLE
I bambini della Ginestra, romanzo di Maria Rosa Cutrufelli (Frassinelli, pagine 275), ha come punto di forza la scrittura, pacata e vibrante. L’autrice, originaria di Messina, dunque confidente con la propria madre terra, da sempre aperta alla sperimentazione nella lingua e alla esplorazione di generi letterari diversi, realizza qui una scrittura di forte impegno civile, sorretta da un’accuratezza documentale da saggista, da una voracità d’osservazione da repoter. Il romanzo prende forma dall’importanza delle carte (giudiziarie o d’archivio) e delle testimonianze: si struttura sul prudente riavvicinamento epistolare tra i due protagonisti, oltre a comporsi indicativamente di una serie di corollari documentali che non solo suffragano il vero romanzesco con la carne dei fatti, ma acclarano con l’intuizione, che è solo della letteratura, tutto il vero mai ammesso dalla Storia, e men che mai nei tribunali. Ribadisce l’importanza della letteratura nel custodire e diffondere la memoria di fatti e persone finiti spesso manipolati o dimenticati, questo libro, che segue a: D’amore e d’odio (2008), romanzo in cui per voce rifratta sette donne vivono e narrano le vicende che hanno fatto la storia del ’900; La donna che visse per un sogno (2005), su Olympe de Gouges che nel 1791 scrive una Dichiarazione della donna e della cittadina; o La briganta (1991), in cui Margherita, novella Medea, in una Sicilia magnogreca declassata a terra fuorilegge dai venti della Storia, si ribella e, senza un inutile sacrificio d’innocenti, elimina il proprio Giasone.
LA VERITA’ DEGL’INNOCENTI
I protagonisti/narratori erano bambini al tempo dei fatti che ingoiarono le loro vite: Calogero detto Lillo, divenuto orfano di padre, e Enza, figlia del farmacista di Piana degli Albanesi o dei Greci, che dal 1° maggio 1947 comincia a guardare ai grandi in modo diverso, delusa dalla scoperta bruciante che gli adulti della propria famiglia non possono più assicurarle una verità preconfezionata, ma contestualmente stimolata dalla rivelazione che anche loro con onestà intellettuale, offrendole un modello dunque, devono compiere un lavoro delicato per comprendere realtà ambigue senza lasciarsi ingannare sulla loro reale natura, sui misteri che le costituiscono. Lillo e Enza (e Giacomo, fratello di Enza e coetaneo di Lillo) avevano 10 e 7 anni quel giorno in cui tutto cambiò, e tornano a parlarsi solo nel ’72 in uno scambio di lettere che sigla il loro ritrovarsi, dopo che la vita, nella stessa tragedia, li ha uniti e subito separati, e tenuti a distanza di studio e in reciproco controllo, per diffidenza, eppure in sottile confidenza.
UN LUOGO, UN CONTESTO
Il 1° maggio 1947 accade il primo sanguinoso mistero della Prima Repubblica italiana, rimasto come poi molti altri sostanzialmente irrisolto. La strage di Portella della Ginestra, appioppata a un colpevole di comodo, il bandito Salvatore Turiddu Giuliano, cioè neutralizzata come delitto mafioso locale (contro ogni sensatezza – Giuliano non avrebbe avuto alcun interesse a sterminare la propria gente, semmai ne avrebbe avuto a difenderla), travolge i lavoratori e le loro famiglie in un paesaggio petroso che ha le caratteristiche magno–greche della grande tragedia classica, di vicende rese immediatamente epiche dallo stesso contesto che le contiene. Il toponimo, Portella, ci illustra un passaggio angusto, una porta stretta per usare l’immagine gidiana, unico accesso allo slargo dove anche quell’anno si celebra la Festa del Lavoro: si moltiplicano attorno al luogo e ai suoi fatti le indicazioni visuali di direttrici, vie e strettoie, per raggiungere aggirare sorvegliare o lasciare quel preciso tassello cartografico.
TRA TERMOPILI E FORCHE CAUDINE
Per quel passaggio stretto, quella gente va a morire alla Ginestra dominata da una piattaforma petrosa: il Sasso Barbato, da Nicola Barbato, medico socialista di origine arbëreshë (i greco–albanesi migrati in Italia lungo la sponda adriatica e in Calabria e Sicilia dal XV secolo dopo la calata dei Turchi ottomani a Bisanzio). Barbato, fondatore dei Fasci Siciliani dei Lavoratori, poi repressi dal Governo di Francesco Crispi (anche lui siciliano, e arbëreshë), da quella piattaforma aveva tenuto comizi ai lavoratori di Piana degli Albanesi, già Piana dei Greci. Nicola Barbato era riuscito, nell’area palermitana, a coagulare attorno a sé gl’interessi politici, e le lotte, dei lavoratori siciliani, e aveva condotto il successo delle forze socialiste e comuniste – la Sicilia, tra ’800 e primo ’900, era una terra libertaria, certo segnata dal brigantaggio, ma legata al resto d’Italia nelle lotte progressiste, o più semplicemente anticonservatrici. Tutta la repressione successiva non solo rafforzò la mafia (chiamata in correo dalla politica conservatrice pur che fosse), anche col ritorno dei picciotti indesiderati, per fedina criminale, in America (Giosef, picciotto ’sperto, pomatoso ne è degno esemplare nel romanzo della Cutrufelli), ma tolse respiro alla Sicilia, la arretrò in un arcaismo senza gloria, e senz’aria. Tutto finì tumulato (da vivo!) in un vicolo cieco depressivo, in una strettoia appunto, in cui la vita delle vittime, dei loro disgraziati congiunti superstiti, un intero villaggio, Palermo e tutta la Sicilia, e che dir se ne voglia l’Italia intera, tutti senza eccezioni salvo colpevoli mandanti e profittatori, tutti rimasero intrappolati – come accade per certi labirinti verso i quali c’è solo il viaggio di andata, senza che mai emerga una via di fuga da cui tornare alla circolazione libera.
LINGUA COME IMPASTO
Nel romanzo della Cutrufelli, com’è logico in un’opera d’ingegno in cui la base è costituita da una fittissima documentazione (giudiziaria, storica, giornalistica), e l’invenzione dà voce a creature coinvolte e condizionate per sempre nella strage senza autori di Portella della Ginestra del 1°maggio 1947, è mirabile il tessuto della lingua, pulitissima e lineare. Da essa si ricava un intero glossario di ‘sporcature’ siciliane: schiffariati (nullafacenti), carnezzeria (macelleria in senso figurato), mutangolo (un ‘falso amico’: sembra voler dire ‘mutevole’ e invece significa ammutolito, anzi ’affetto da mutismo’), meschino/meschinello, babbaluci che dalle mie parti sono le ciammaruche (le lumache), trazzera (tracciato, sentiero), scògnito (sconosciuto, ignoto) – una sfilza di termini che spesso scivolano in terminologia idiomatica, figure del discorso, metafore: la carne dei fatti appunto, la femmina pittata, i dorminterra (come il nonno di Enza, a sfregio e con spregio, designa i contadini).
La lingua, dunque. Dei due superstiti protagonisti, Lillo e Enza: è l’italiano buono di chi ha studiato, in cui spesso si affacciano le espressioni della loro terra, come retaggio confidente e insopprimibile di radici ben custodite, che disegnano una cultura d’affetti; dei capimafia e dei picciotti: processati a Viterbo in una chiesa sconsacrata, in gabbia (gabbia grande e gabbia piccola secondo gerarchia) nell’abside, parlano un siciliano stretto che negl’interrogatori e nelle fasi interlocutorie tra magistrati o avvocati e imputati richiede degl’interpreti, ed è un codice chiuso, denso di simbolismi e tessuto sui rapporti di forza, sulle relazioni sociali intentate a dominare territorio; e dei campieri, di zu’ Cicco, di zio Alfio, della gente di Piana degli Albanesi, di San Giuseppe Jato, di Cipirello: è l’italiano in dialetto, un canale molto mosso – lingua ancorata alla terra, però comunicante.
ORFANO, VITTIMA, DISGRAZIA, BOMBARDINO, INVERITA’.
Alcune parole si impongono nelle vite di Enza e Lillo. ORFANO: lo è Lillo per la strage della Ginestra che gli ha ucciso il padre – Enza scopre con sgomento che non solo può capitare di nascere orfani, ma (non si è al sicuro mai) si può anche diventarlo. VITTIMA: lo è il padre di Lillo, e come lui i morti nella strage del 1° maggio (tra loro anche dei bambini), ma anche chi è rimasto (vedove, orfani: come Lillo e sua madre) – una parola che ha in sé un curioso senso di esclusione isolamento e vergogna, un assurdo senso di colpa: la sensazione di disagio di chi è reso diverso da un delitto. DISGRAZIA: da qui per Enza e Lillo si avvia un percorso di verità, di sovvertimento dell’assurdo corrente che è finalmente un cammino di liberazione, perché ciò che è accaduto a Portella della Ginestra non è una mera fatalità o una calamità naturale, ma un vero e proprio attentato, un omicidio su larga scala – prenderne coscienza recuperando la piena padronanza di sé e sulle proprie vite è il riscatto civile che il romanzo realizza contro il traffico della INVERITÀ, altra parola–chiave del libro. Come spiega lo zio Alfio, tutore di Lillo, ciabattino saggio come lo è il popolo sano, l’INVERITÀ non è il contrario della verità ma la sua addomesticazione, una sua ufficializzazione a scapito del vero che mistifica i fatti secondo il comodo dei potenti. L’ultima parola è BOMBARDINO, che designa un correlativo oggettivo vero e proprio: metonimia che racchiude per sineddoche ciò che resta del padre di Lillo, il suo flicorno baritono appunto, ottone da banda suonato dal comiziante – di lui, tumulato come le altre vittime in una fossa comune (come un delinquente!), non ci sono spoglie ma solo questo ingombrante strumento, finito a campeggiare su un comò.
PAROLE COME PIETRE, VERITA’ COME SASSI
Una tragedia dunque corale e orale, in cui parlare serve a mettere ordine, e a trovare la verità, mentre tutto il contesto cerca di dettare la regola aurea e comoda del silenzio. Dunque non solo acquista valore epifanico il paesaggio petroso, arido e duro, dentro cui i fatti si sono svolti (e chi è rimasto stenta eppure si ostina a muovercisi, per non perdere per sempre il valore della perdita), ma diventa significativo un dettaglio: il cane di casa, Giosi, ha l’abitudine di trovare sassi e nasconderli sotto il letto di Enza. Si fa luminosa la corrispondenza tra questa abitudine del cane e la sensazione da parte di Enza di avere sull’anima lo smarrimento e il peso del silenzio sui fatti della Ginestra, proprio come se portasse un sasso in bocca – un segnale, mettere un sasso in bocca a qualcuno che viene punito per non aver saputo rispettare l’ordine del silenzio, anche mafioso. A proposito di mafia, troviamo nel romanzo una traccia potenziale della misteriosa origine di questa parola: kalimàfion era l’alto cilindro nero dei papàdes, i preti del rito grecobizantino introdotto in Sicilia fin dalla migrazione grecoalbanese del XV secolo, mentre i cattolici di rito latino non ebbero dopo la strage della Ginestra a propria consolazione neppure la benedizione dei parrini…
CHIUDE UN’APERTURA
L’ultima immagine è un salto che Enza dovrebbe trovare il coraggio di compiere in macchina, imboccando un viadotto dal corpo sottile sospeso nel niente con le sue esili e tese volute da macro nodo scorsoio in cemento: un balzo che la riporti dove è attesa, alla Ginestra, dove tutto era rovinosamente cominciato, mentre nel cuore resta a pulsare il grido di Nicola Barbato, Pane pace e poesia.
di Franco Buffoni
Siamo tra la crisi del ventinove
E la nomina di Hitler alla Cancelleria,
Siamo qui nell’interim
A cavalcare
Nel timore di farci scavalcare…
Da Atene Roma Madrid e Lisbona?
No, da Berlino Nord Sud Est e Ovest.
di Antonio Sparzani

Lubiana è Ljubljàna nella sua lingua madre slovena, così più dolce, e vicina al richiamo semantico inevitabile a chi abbia anche una vago orecchio per le lingue slave, ljubóv’ in russo, ljubézen in sloveno ― stessa famiglia indoeuropea del tedesco Liebe, ― significano amore, e il nome della città, con l’accento ritratto, ljúbljana, significa amata, e questa è la sensazione che dà (trascuro qui senz’altro le incertezze dei filologi sulle origini del nome) se ne parlate con qualche sloveno autoctono: guardare Lubiana è il riconoscimento di un centro, di una vera capitale, che di una capitale ha lineamenti e atmosfera.
Mi è piaciuto arrivarci in macchina, attraversando con calma quartieri periferici che non davano alcuna impressione di squallore da periferia abbandonata, ma al contrario di una tranquilla vita di quartiere. Un po’ alla volta si arriva in centro, lo si capisce dalle grandi piazze, dalla gente, dai negozi, dai bistrò numerosi, dove comunque ti servono cibo dai forti connotati locali, dall’aria un po’ di festa che sembra di scorgere sui visi della gente; sarà che è estate, tempo di mercatini, colori e sapori per noi insoliti, richiami e grida in un’altra lingua. Qui l’italiano non si parla, se chiedete informazioni meglio l’inglese o il tedesco, l’Italia è davvero lontana. quella stolida annessione di guerra degli anni 1941-42 alla regione Friuli Venezia Giulia non lasciò certo ricordi o segni positivi.
È attraversata da un piccolo fiume, per l’appunto la Ljubljanica (attenzione che la c si pronuncia z), navigabile dai turisti con comodi battelli sui cui sedili sono sorprendentemente appoggiate delle morbide pelli di pecora, e questo piccolo fiume in qualche modo modella la pianta della città, come potete vedere dalla piantina del centro storico:

il largo ed elegante viale modellato dalla forma del fiume e che a sua volta racchiude il castello è chiamato trg, che significa piazza, o mercato, come a dire che si tratta di un unico complesso abitativo, che comprende anche il suo interno. E lungo di esso sfilano i palazzi di un potere nazionale orgoglioso della propria relativa ricchezza, della rapidità con cui fu conquistata l’autonomia allo smembrarsi della Jugoslavia di Tito, e orgoglioso delle sue antiche tradizioni. A un centinaio di chilometri da Trieste e a trecento metri sul livello del mare, il Mediterraneo è lontano, e Vienna è vicina: Lubiana è una città imperiale.
A pochi chilometri dalla città la Ljubljanica si getta nella Sava, uno dei grandi fiumi dell’Europa orientale, lungo quasi mille chilometri, che nasce in Slovenia, attraversa tutta la Croazia, passando per Zagabria, e a Belgrado si getta infine nel Danubio, di cui è l’affluente maggiore.
Il simbolo di Lubiana è un drago, guardate che bellezza, questo è uno dei quattro situati ai quattro angoli dello Zmajski most, il ponte del drago: la leggenda vuole che si tratti del drago sconfitto da Giasone, di ritorno con gli Argonauti dalla conquista del vello d’oro, mentre con maggior probabilità il riferimento è a un’altra storia di sconfitte di draghi, quella di San Giorgio. Ma poco importa, il drago domina lo stemma della città ed è dipinto sulla torre del Castello, non si sfugge al suo sguardo che infuoca e consuma, ma che insieme dà forza e vigore a chi sa sopportarlo e farlo suo. Lo Zmajski most fu costruito negli anni 1900-01 ― epoca austroungarica, stile art nouveau ― da un ingegnere austriaco su progetto dell’architetto dalmata Jurij Zaninović che aveva studiato a Vienna alla scuola di Otto Wagner, e fu chiamato originalmente Franz Josef I. Jubiläumsbrücke, il ponte del giubileo di Francesco Giuseppe I. Nel 1919, alla caduta della vecchia Austria felix, si poté poi decidere di cambiare il nome, e si scelse quello, più proprio per la città, di ponte del drago.
Questo bisogno di scelta, se non più di identificazione con un animale più o meno fantastico ma molto potente, credo sia davvero un tratto che permane in Homo Sapiens a partire da qualcosa di assai antico. L’aquila sta negli stemmi di Vienna e di Belgrado, il leone rampante in quello di Praga. Ed è su questo punto che vorrei concludere citando Il rituale del serpente, di Aby Warburg (Adelphi 2011, quarta edizione) scritto dall’autore nel 1923. Anzitutto l’esergo al volume: Come un vecchio libro insegna / Atene e Oraibi sono parenti, che è una citazione modificata del Faust di Goethe (II parte, atto II, vv. 7742-43 ― non c’è importante autore tedesco che non citi il Faust, prima o poi) che suona letteralmente ― in bocca a Mefistofele: Bisogna sempre sfogliare lo stesso libro: dallo Harz all’Ellade, sempre dei cugini, e questo a dire che Homo Sapiens è uguale ovunque: Warburg l’ha tirato fino a Oraibi, la località dove era stato qualche anno prima per conoscere e studiare delle comunità di nativi americani detti Pueblo, dal nome spagnolo dei loro villaggi. Warburg studia attentamente i riti dei Pueblo, sia quello delle antilopi che quello dei serpenti. Leggete qua:
«Essi non sono più dei veri raccoglitori primordiali ma non sono neppure degli europei rassicurati dalla propria tecnologia … I Pueblo si trovano a metà strada tra magia e logos, e lo strumento con cui si orientano è il simbolo». Mettono, è vero, il serpente al posto del fulmine, che cercano di evocare con un rito propiziatorio (e che raffigurano come un serpente dalla testa a forma di freccia), ma non si fermano a questo atto di sostituzione metaforica. Per l’indiano il serpente non è ancora diventato pura immagine (verbale o pittorica): esso è un simbolo animale vivente, un antagonista della cerimonia. D’altra parte oggi il serpente non è più oggetto di sacrifici cruenti. L’atto dell’incorporamento, dell’unione fisica con l’animale avviene solo in forma mimetica: si infila il serpente in bocca, poi però lo si libera e lo si invia in veste di « messaggero ».
La danza indiana del serpente non è un esercizio estetico fine a se stesso, ma un cerimoniale magico che deve produrre un effetto reale. Identificando nel serpente il potere del fulmine (potere sul quale vuole influire) e unendosi fisicamente all’animale nella danza, l’indiano cerca di diventare egli stesso il principio da cui dipende l’effetto desiderato, ossia la pioggia: «… all’inafferrabilità dei fenomeni naturali l’indiano oppone la sua volontà di comprensione, trasformandosi egli stesso nella causa di quei fenomeni. Istintivamente egli sostituisce, nel modo più intelligibile ed evidente, l’effetto inesplicato con la causa. La danza mascherata è causalità danzata».
Amici di Rizzoli, ristampate D’Arrigo? Potreste inserirlo nella BUR, collana “Scrittori contemporanei” (se vi avete pubblicato L’arcobaleno della gravità, si può fare anche questo!).
Ho chiesto a Michela Calledda di farci un reportage sulla questione delle miniere del Sulcis. A lei la linea . effeffe
Cronaca
di
Michela Calledda

Sono sulcitana e la storia della mia famiglia è una storia mineraria: mio nonno era minatore e, prima di lui, fu minatore suo padre. Quella del Sulcis è una storia di lotta per il lavoro e per la sopravvivenza, il mio è un territorio abituato a vedere i propri operai barricarsi col tritolo a centinaia di metri di profondità per rivendicare il diritto al lavoro. Eppure, nonostante i precedenti, l’occupazione di una miniera è sempre qualcosa di sconvolgente.
Presa dall’ansia e dall’emozione, ieri sono stata a Nuraxi Figus a portare solidarietà ai minatori asserragliati a 400 metri di profondità con 350 kg di esplosivo. E’ stata una giornata intensa, una di quelle giornate che ti costringono a fare i conti con la tua gente e con la tua cultura. Avevo già avuto la fortuna di visitare una miniera scendondo fino alle viscere della terra, ma si trattava di miniere morte, ingoiate dalla storia. Mai, invece, mi era capitato di vivere un’occupazione vera, con gli operai asserragliati sottoterra e l’esplosivo che incombe, alle loro spalle. Mi colpisce subito la disponibilità di quelli che, in superficie, gestiscono l’ordine e si occupano di filtrare le visite per i minatori in sottosuolo. Mi accoglie Sandro che mi sistema un berretto corredato di pila, una cintura e degli anfibi enormi.

Saliamo in ascensore e in cinque minuti raggiungiamo il nocciolo duro dell’occupazione. Gli occupanti sono quaranta, in mezzo a tanti uomini mi colpiscono subito le donne: ce ne sono quattro e sono agguerritissime. C’è Valentina, addetta ai controlli ambientali, Valeria che fa l’ingegnere, Giuliana, responsabile per la sicurezza e Alice, analista di laboratorio che vedendomi stupita mi fa notare che su cinquecento dipendenti le donne sono circa sessanta divise tra uffici, lavori tecnici e sottosuolo. Un’altra cosa che mi colpisce e mi dà idea di quanto sia alterata la mia concezione della vita mineraria, è vedere quanti giovani siano mescolati ai minatori più “vecchi”. Scopro così che recentemente sono state fatte ottanta nuove assunzioni e che tanti giovani laureati lavorano dentro quella miniera. Valentino, 28 anni mi racconta la pesantezza di quel lavoro, “l’unico”, mi dice ” che però mi dà la certezza di mangiare tutti i giorni”e in mancanza di alternative, fanno eco gli altri attorno a lui, abbiamo il dovere di difendere il nostro diritto al lavoro e di pretendere risposte.

E finché non arriveranno non si muoveranno. Mauro, ormai prossimo alla pensione mi dice che è là sotto per i più giovani, che è importante conservare la garanzia di un posto di lavoro in un territorio come il nostro, devastato dalla povertà, violentato dalla politica dell’assistenzialismo. Con un po’ di malizia, lo confesso, chiedo a tutti se ritengano opportuna la presenza di quell’ ex presidente della Regione sulcitano, oggi parlamentare , tra i maggiori responsabili del dissesto socio-economico di quell’area. Le risposte sono molte e discordanti: c’è chi dice è strumentale alla visibilità mediatica dell’occupazione come se 350 kg di esplosivo, da soli, non fossero abbastanza; c’è chi sussura che, forse, avrebbe fatto comodo qualcuno che in parlamento gridasse le ragioni della lotta ed esigesse risposte. Nicola, un ingegnere sulla trentina, mi dice di non pretendere l’impossibile: “Non voglio andare via dalla Sardegna, voglio tornare a casa dopo il lavoro, prendere la bicicletta e scappare al mare”; è così che mi rendo conto che quei ragazzi, più o meno miei coetanei, rivendicano il diritto a una vita normale che una crisi economica, politica e strutturale gli ha violentemente scippato. Tra una domanda e l’altra è già passata un’ora, Sergio ci porta via. Torniamo su e una volta fuori mi libero del casco, del cinturone e degli anfibi e realizzo che quel peso che mi sembrava opprimente, non è che la parte più leggera del lavoro di un minatore.
di Davide Orecchio
Alfa incontra per strada lo smemorato e lo riconosce. Quello gli fa un cenno e lui si ferma. Iniziano a parlare.
Lo smemorato – Mi sono perduto. Potresti aiutarmi?
tratte da La Fine del mondo (Poesie 1942-1991), Librairie José Corti e Edizioni Joker, 2012.
Traduzioni di Alfredo Riponi, Rita R. Florit e Giacomo Cerrai
LE RÊVE EN ACTION
la beauté de ton sourire ton sourire
en cristaux les cristaux de velours
le velours de ta voix ta voix et
ton silence ton silence absorbant
absorbant comme la neige la neige
chaude et lente lente est
Poesie
di
Francesco Tomada

Nostra Signora del Disordine
Stiamo sempre a riempire e vuotare scatole
spostare i vestiti negli armadi
portare qualcosa in soffitta o in cantina
(Leggo due pezzi, entrambi scritti il 25 agosto scorso. Il primo è una lettera indirizzata al sito delle pagine milanesi del Corriere, di Francesco Muraro, il secondo è un articolo inedito di Bijoy M. Trentin. Sapete trovare la differenza fra quello di fantasia e quello vero? G.B.)
Ho passato il concorso da preside. Vi racconto la mia estate da incubo
di Francesco Muraro
Sono uno dei 406 candidati idonei del concorso per dirigenti scolastici in Lombardia. Ma questo non vuol dire che, a Milano e in Lombardia, saranno assegnati nuovi dirigenti scolastici alle scuole che ne sono prive (più di un terzo). A luglio le operazioni del concorso – 4 prove distribuite in quasi un anno – erano ormai concluse; si aspettava la pubblicazione delle graduatorie e le nomine.
Poi il colpo di scena: il Tar Lombardia annulla l’intero concorso. La motivazione? Le buste contenenti i dati dei concorrenti, se messe in controluce, facevano intravvedere il contenuto. Si presume che, volendo, si sarebbe potuto violare il principio dell’anonimato, fondamentale in un concorso pubblico.
Nessun fatto specifico viene però rilevato. Ma non voglio entrare nella questione azzeccagarbugliesca. Non voglio nemmeno esprimermi sulle ragioni pro “idonei” – che hanno superato tutte le prove con merito – o pro “ricorrenti” – che si ritengono vittime di una ingiusta selezione.
Mi preme soprattutto raccontare la vicenda umana, mia e non solo mia, e l’effetto disastroso che potrebbe avere questa vicenda sul sistema scolastico lombardo e milanese, se il Consiglio di Stato confermerà la sentenza del Tar. Tra fine luglio e inizio agosto gli “idonei” si sono organizzati. Ci siamo visti in faccia e anche raccontati. Vacanze saltate, interrotte – o, al meglio rinviate – sconforti e rabbie: c’è chi ha iniziato a preparasi per questo concorso da 3/4 anni, ha frequentato (e pagato) master, corsi, seminari; comprato e letto quintali di dispense, manuali, monografie. Insomma, ci si è preparati, come si presume noi si insegni a fare ai nostri studenti.
Tralascio le situazioni personali, anche drammatiche, che ho ascoltato; giusto una per farsi un’idea: vinto il concorso la moglie del candidato idoneo, proveniente da altra regione, si licenzia. Il progetto familiare è questo. Il concorso annullato costerebbe assai caro, a questo punto.
E se non andasse bene per noi? per quest’anno scolastico le scuole milanesi e lombarde avrebbero dirigenti – quelli già in ruolo – a mezzo servizio, assegnati a più scuole. Se combiniamo questa ipotesi a quanto indicato dalla legge che chiede alle scuole di “dimensionarsi” per arrivare ad accogliere almeno 1000 studenti – magari distribuiti in 4/5 edifici diversi – non è difficile immaginare cosa potrebbe succedere: scuole con una organizzazione precaria, temporanea, senza la possibilità di progettarsi, costrette al carpe diem. Forse qualche transumanza verso il privato.
Attendiamo quindi che il Consiglio di Stato si esprima.
***
Al via il concorso per Ministro dell’Istruzione
di Bijoy M. Trentin
Finalmente verrà bandito un concorso per 735 Ministri dell’Istruzione dello Stato italiano: è dal 1861 che non accade. Per la piena valorizzazione della meritocrazia, il titolo potrà essere considerato retroattivo: per esempio, sarà possibile concorrere persino per il Ministero dell’Educazione Nazionale degli anni 1936-1943; se necessario, a tal fine, saranno emanati specifici regi decreti dalla monarchia assoluta oggi viciniore. La lista dei Ministri dell’Istruzione dello Stato italiano sarà considerata rivedibile ogni tre lustri. A partire dal 2013, il concorso verrà bandito ogni tre anni. L’incarico di Ministro dell’Istruzione potrà essere ricoperto per non piú di 30 anni (in deroga al sistema pensionistico vigente): in caso di decesso del titolare, l’incarico verrà affidato al relativo coniuge, convivente o coinquilino.
Secondo le indiscrezioni, le prove del concorso saranno tre. La prima, preselettiva, consisterà nel cercare, tramite posta elettronica certificata, fortunate lettere di presentazione. Superata la preselezione, il candidato dovrà affrontare un quiz volto a testare le capacità logiche e critiche: il test si considererà superato se il candidato risponderà correttamente a 20 domande su 250. Dopo la prova scritta, il candidato accederà a quella pratica: in 30 giorni dovrà approntare tutti gli atti ministeriali per riformare i cicli scolastici. Questa prova si riterrà superata solo se tutti i sindacati, unitariamente, scenderanno in piazza almeno una volta nel corso dei 30 giorni a disposizione: sarà probabilmente possibile concordare con i sindacati stessi le manifestazioni di protesta. Qualora abbiano davvero superato le prime due prove, i candidati diversamente abili, diversamente eterosessuali o di sesso diversamente maschile dovranno dimostrare di saper svolgere la prova pratica in 20 giorni. Non saranno richieste specifiche conoscenze e competenze di pedagogia, didattica o politica scolastica, ma sarà indispensabile la capacità di produrre un discorso di insediamento che contempli l’apertura al dialogo con gli studenti e l’aumento degli stipendi degli insegnanti.
I candidati che non risulteranno vincitori saranno inseriti in una Graduatoria a Esaurimento, riaperta e aggiornata ogni tre anni: tale graduatoria verrà utilizzata nel caso in cui sia necessario nominare un Ministro tecnico, che non potrà avere un incarico retroattivo, ma che avrà la facoltà di riformare il Concorso per Ministri dell’Istruzione. I Ministri in esubero o ritenuti inidonei potranno essere dirottati alla guida delle Pari Opportunità o dello Sport. Con la finalità di rilanciare i giovani nella politica, i candidati vincitori non potranno avere piú di 30 anni e, contrariamente, i candidati della Graduatoria a Esaurimento non potranno essere nominati prima di aver raggiunto il 60° anno di età.
I sindacati, anche se con molti dubbi, accolgono favorevolmente l’annuncio di un concorsone. Permangono, tuttavia, molte perplessità per quanto riguarda l’articolo della bozza del bando in cui non si prevede piú il cosiddetto “Ministero a cascata”: chi diverrà Ministro dell’Università e della Ricerca non potrà piú divenire automaticamente anche Ministro dell’Istruzione; sarà necessario aver superato lo specifico concorso. Inoltre, non vi dovranno essere ulteriori oneri per lo Stato: tutte le risorse per il diritto allo studio saranno diversamente canalizzate.
di Antonio Sparzani

Trieste chiama Trieste: per il mio compleanno del 1963 qualcuno mi regalò Mediterranee, di Umberto Saba (Trieste 1883 – Gorizia 1957), collana Lo specchio di Alberto Mondadori, copertina rigida di colore uniforme, marrone chiaro. Sono andato ieri, 55 anni esatti dalla morte del poeta, a ripescarlo e ho letto, cosa che forse non avevo mai fatto, la lunga lettera indirizzata appunto “Caro Alberto” che Saba premette alla raccolta, con amicizia e affetto per l’editore. Una parte di questa lettera contiene considerazioni sulla poesia, che ripropongo qui, perché, pur se formulate in un linguaggio che consideriamo datato, mi pare possano essere un utile contributo a un discorso sulla poesia, che non è mai – giustamente – risolto e che ancora conosce una notevole pluralità di approcci. La lettera si riferisce esplicitamente alla poesia “Ulisse”, endecasillabi sciolti, l’ultima della raccolta, databile agli anni 1945-46, che dunque qui vi copio.
Nella mia giovanezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.
Ed ecco il testo della parte finale della lettera-introduzione:
“Voglio raccontarti, già che ci sono, quello che mi è accaduto, ancora uno di questi giorni, con un giovane letterato, persona a te nota, ed a me carissima.
Ero seduto con lui al Caffè; egli leggeva alcune delle Mediterranee, che avevo appena, con amorosa cura, ordinate e trascritte. Ulisse era una di queste poesie. La poesia, nel suo complesso, gli piacque. Ma ecco che, come ne rileggeva il primo verso, vidi Aldo Borlenghi fermarsi ed arricciare il naso. Il verso dice:
Nella mia giovaneza ho navigato
Gli chiesi il perché del suo visibile disappunto. Mi rispose che il verso non era « bello »; lo trovava anche troppo « scoperto ». Ora quel verso (tecnicamente ineccepibile) non è, in sé stesso preso, né bello né brutto; è solo un inizio, che vive in funzione del componimento di cui fa parte, dei dodici versi che lo seguono, ai quali dà e dai quali prende rilievo. Non è né « brutto » né « scoperto »; è semplicemente « immediato », non cioè passato attraverso nessun alambicco di nessuna, più o meno sapiente, più o meno di moda, deformazione letteraria. Dice, con rara spontaneità, quello che deve dire, nel modo più semplice e diretto possibile. Diventa bello (molto bello anche, e felice) quando, nella memoria del lettore, fa corpo col resto della poesia.
Guardavo la faccia del mio interlocutore. Bella era; e, nel senso nobile della parola, mediterranea. Consunta, logorata e segnata da qualche interna difficoltà a vivere; negli occhi — dietro gli occhiali, chiarissimi — un estremo d’intelligenza sembrava unirsi ad un estremo di malinconia. La sua faccia — che mi ricordava uno di quei paesaggi toscani troppo e da troppi secoli elaborati dalla mano dell’uomo, diventati avari — concordava esattamente col suo giudizio. Quell’uomo doveva necessariamente aver paura di un’immediatezza come di una bomba; ammirare — come egli stesso volentieri confessa — assai più Petrarca che Dante. Era, in una parola, un petrarchista. Soffriva di un male, europeo per estensione, ma italiano alle origini; e di questo male almeno, io, nato agli estremi confini della patria, o non ho mai sofferto, o solo, e non in profondità, nella mia prima giovanezza. Attraverso l’innocente verso citato e la disapprovazione che esso suscitava in Aldo Borlenghi, mi sono persuaso una ultima volta che gli italiani (che sono nella loro vita istintiva e — vedi Verdi — nella musica, uno dei popoli più immediati della terra) non sopportano, in poesia, la vita, senza averla preventivamente uccisa e mummificata. Perché poi questo processo (che essi chiamano di « astrazione lirica », ed io di « congelamento » o di « involuzione ») sia avvenuto proprio per la poesia, oggi come oggi, o non lo so ancora, o non voglio ancora dirlo. Ma che sia avvenuto è certo; come pure è certo che va cercata in esso una delle ragioni sia, in generale, del loro — sotto la varietà delle apparenze univoco — petrarchismo, sia, in particolare, della, fino a ieri almeno, contrastata fortuna della mia poesia. Altre, per quanto mi riguarda, ve ne furono; ma di queste mi propongo di parlare nel difficile libro che sto per te scrivendo, e che s’intitolerà Storia e cronistoria del “Canzoniere”.
Ti saluto, caro Alberto. E faccio voti che non ti preoccupi troppo della « crisi ». Anche questa passerà, la gente ritornerà a comperare libri, e tu venderai perfino Scorciatoie e Raccontini del tuo
aff. Umberto
Milano, maggio 1946.”
[qui brevi notizie su Aldo Borlenghi]
di Andrea Raos
1.
Acqua fa frusta, cane cede voglia: voglia acqua cede, fa cane frusta. Frusta voglia cane, acqua fa e cede; cede frusta, fa voglia acqua al cane. Cane cede acqua, frusta voglia fa. Fa cane voglia, cede frusta acqua.
2.
Dove c’è carne, lì rimane tempo. Tempo dove rimane, c’è lì carne. Carne, tempo lì dove c’è, rimane. Rimane carne, c’è tempo, dove, lì. Lì rimane, dove carne al tempo c’è. C’è lì tempo, permane carne, dove.
3.
Piede dà slancio, pianto forte resta. Resta piede, forte dà pianto slancio. Slancio resta pianto, piede dà forte. Forte slancio dà, resta piede pianto. Pianto forte, piede, slancio resta, dà. Dà pianto, resta forte slancio, piede.
4.
Sa morto stelo dove fiore cade. Cade, sa, fiore morto, dove stelo. Stelo cade dove sa morto fiore. Fiore, stelo morto cade, dove sa. Sa fiore dove stelo cade morto. Morto sa, cade fiore, stelo dove.
5.
Cresce pioggia, cede viola e si spegne. Spegne, cresce sì, pioggia viola cede. Cede, spegne viola, cresce pioggia sì. Sì, cede pioggia, spegne, cresce viola. Viola sì cresce, cede, spegne pioggia. Pioggia viola spegne, si cede, cresce.
6.
Vedo che neve sta, so che tu cadi. Che cadi vedo, tu, neve sta, so. So che cadi, sta’, vedo, neve, tu. Tu, so neve, che cadi vedo, sta. Sta’, tu, che vedo, so che cadi, neve. Neve sta, cadi tu che vedo, so.
di
Francesco Forlani
Europeana è un libro uscito per la prima volta nel 2005 e riproposto un anno fa in una nuova edizione dalla siciliana duepunti. Se ne parlo oggi, in questa fine estate del 2012 è perchè la sensazione che ho, avendolo acquistato a Mesagne, alla libreria del mio amico Domenico Pinto, la Lettera 22, è che il libro sia effettivamente uscito nel momento in cui, su consiglio di un amico critico con cui sono spesso in disaccordo, l’ho comprato. Sensazione, per certi versi, verificata quando parlandone in giro, certo non con addetti ai lavori , nessuno ne sapeva niente.
Nel 2007, proprio su Nazione Indiana, Giorgio Vasta pubblicava un’interessante intervista all’autore di Europeana, Patrik Ourednik, facendola seguire a una bella recensione del libro pubblicata sempre qui. Europeana è in verità un libro la cui prima edizione è del 2001: “Europeana. Stručné dějiny dvacáteho věku”, Rep. Ceca. Dunque, ricapitolando, noi oggi, domenica 26 agosto 2012, parleremo di un libro scritto presumibilmente prima del 2000, pubblicato in Repubblica Ceca nel 2001 e in Italia, una prima volta nel 2005, una seconda nel 2011 e che ha tutta l’aria di essere non solo appena stato pubblicato ma, mo mo, scritto dal suo autore. Prima di entrare nel vivo di questa mirabolante Breve storia del XX secolo proporrei a chi non avesse ancora letto il libro, la fulminante e precisa sintesi che ne ha fatto The New York Times Book Review, sottoscrivendola in pieno,.
« Toccando temi ed eventi diversi tra loro come l’invenzione del reggiseno, delle bambole Barbie, Scientology, l’eugenetica, Internet, la guerra, il genocidio e i campi di concentramento, scandisce un ritmo implacabile che diventa inaspettatamente coinvolgente, addirittura toccante. »
Regolata, se così si può dire, la mise en claire delle ragioni per cui vale la pena leggere, presumibilmente acquistare, questo libro, anche perchè è bello, attuale nella sua inattualità, sperimentale nella forma, godibile, edito da una valorosa e indipendente casa editrice siciliana, proposto da critici letterari autorevoli, posso finalmente parlarvi di un percorso di lettura un po’ particolare con la speranza che la cosa faccia conquistare altri lettori al libro, certo che altri lettori, Europeana, ne conquisterà a prescindere.
Forse non tutti sanno che
Bene. La prima cosa a cui ho pensato, a lettura ultimata, è stata la Settimana Enigmistica. Ma non il mirabolante mondo dei rebus, o i giochi di logica a incastro, le parole crociate quanto la storica rubrica del “forse non tutti sanno che“. Leggendo infatti una dopo l’altra e in rapida successione tipografica e non affatto cronologica, le notizie allestite dall’autore, vuoi per la lunghezza dei paragrafi più o meno dello stesso numero di battute, vuoi per la mancanza di una logica compositiva tra un fatto e l’altro, è a quel fortunato cabinet des curiosités che ho pensato. Ovvero agli “studioli” del Rinascimento italiano, in cui vi si trovavano raccolte d’arte e di oggetti rari, collezioni enciclopediche di oggetti preziosi o semplicemente insoliti, noti anche come Wunderkammer.
Più particolarmente, la domanda che mi sono posto era: cosa spinge un lettore in quel buco nero dell’aneddoto storico, in quelle Wunderkammer verbali, cosa lo fa rimanere incollato a informazioni che riguardano l’invenzione della cerniera lampo o dell’uso presso i romani di un tale abito in determinate circostanze.La risposta, ancora una volta, è nella filosofia, nella sua storia. Ha senso immaginare una storia della filosofia senza gli aneddoti che l’attraversano? Per quanto il rischio sia che ci si ricordi del fatto che gli abitanti di Königsberg regolassero i loro orologi quando vedevano passare il filosofo Immanuel Kant nelle sue passeggiate, dimenticando il resto. Certo ci sono aneddoti e aneddoti, e infatti Deleuze descriveva l’ «anecdote philosophique», quello che permetteva di cogliere quel misterioso punto “segreto” in cui “la même chose est anecdote de la vie et aphorisme de la pensée”.
A parer mio in un rovesciamento continuo della frontiera di senso, in Europeana, tra storia bassa e storia alta, tra fatti minimi e grandi narrazioni nella storia, il lettore trova in ognuno dei passaggi come una “casa di risonanza”, una casa che non c’è più ma da cui, in qualche modo, si provenga, come una casa dell’origine di cui sappiamo il nome ed è novecento. Un Novecento che si ripete, esattamente come certi rimandi che ritroviamo alla fine del libro, oltre il novecento alla soglia del 2000.
Ma cosa c’entra Ferrini, mo?
Per quei lettori la cui giovane età non ha permesso di “vivere” un importante momento della televisione italiana, ovvero il programma “Quelli della notte” creato da Renzo Arbore, Ferrini era un comico che faceva la parodia del militante comunista romagnolo che presentava la propria visione del mondo spesso citando, tra le proprie fonti, gli incontrovertibili documenti “documenti eh!” della settimana enigmistica. All’epoca, ancora vivevo a Caserta, ricordo che ogni qualvolta a tavola qualcuno se ne uscisse con un aneddoto storico particolarmente strano, strano ma vero, una curiosità inedita e speciale, tutti si pensava che la fonte fosse non tanto una voce tratta dal Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri o dalle milioni di enciclopedie vendute agli italiani, a rate, negli anni settanta e ottanta ma proprio « alLa rivista che vanta innumerevoli tentativi d’imitazione! » .
Un finale europeano
In epoche come la nostra, di accessibilità in rete immediata e portatile a tutti i saperi possibili, lasciandomi prendere la mano, come al solito, dalla curiosità, quando ho letto che La Settimana Enigmistica inventata dal Dottor Ingegner Giorgio Sisini, sul primo numero pubblicato il 23 gennaio 1932 al costo di 50 centesimi di lire recava in copertina l’immagine dell’attrice messicana Lupe Vélez, non so perchè, sono andato a cercarmi notizie su di lei. E allora?

Forse non tutti sanno che The Mexican Spitfire” (“La Lanciafiamme Messicana “) fu una delle prime star maledette, dalla vita tormentata, sposata una prima volta con l’attore Johnny Weissmuller, leggendario Tarzan del primo cinema, e che Il 13 dicembre 1944, dopo un’“ultima cena ” con le sue migliori amiche si suicidò. La filosofia dell’amore di Lupe Velez, si può riassumere con uno dei suoi più fulminanti aforismi “The first time you buy a house you think how pretty it is and sign the check. The second time you look to see if the basement has termites. It`s the same with men.” Un altro aneddoto riguarda il ritrovamento del cadavere. Pare che non ci fossero foto di Lupe sul letto di morte a commento dell’elogio funebre della Parsons, celebre cronista della vita hollywoodiana e voci più credibili, testimonianze più o meno dirette raccontavano “che in un impeto estremo si fosse svegliata durante la notte per vomitare e che, scivolando nel bagno fosse caduta battendo la testa nella tazza del water. Solo i grandi hanno diritto a una morte ridicola, credo abbia scritto Milan Kundera da qualche parte.
L’Insostenibile leggerezza dell’essere, che inaugurò la collana Fabula della casa editrice Adelphi fu pubblicato nell’ottobre del 1984 ma fu solo nella primavera del 1985 grazie al programma Quelli della notte, e al “tormentone” dell’inventore dell’Edonismo Reaganiano, Roberto D’Agostino che lo citava in ogni puntata che se ne decretò il grande successo di pubblico.
All’attrice messicana Andy Warhol dedicò Il cortometraggio “Lupe”(1965) interpretato da Edie Sedgwick e che ripercorre gli avvenimenti accaduti la notte del suo suicidio. Nell’agosto del 1969, nel reparto psichiatrico del Cottage Hospital, Edie Sedgwick conobbe Michael Post; si sposarono il 24 luglio 1971. Venne trovata morta dal marito a causa di un’overdose di barbiturici la mattina del 16 novembre 1971. A Edie Sedgwick, Bob Dylan che ebbe una breve e tormentata storia con la “bellissima” ragazza della Factory, dedicò la canzone, Just like a woman . “Femme fatale” dei Velvet Underground sembra cucitale addosso.
Nonostante la pubblicazione del libro “La fine della Storia” dello storico post-moderno Fukuyama, Patrik Ourednik, conclude scrivendo che « beaucoup de gens ne connaissaient pas cette théorie et continuaient à faire de l’histoire comme si de rien n’était. » (p. 151).

a cura di Francesco Forlani
Lo scorso Giugno sono stato a Lillehammer insieme alla Nazionale Scrittori per incontrare, culturalmente e calcisticamente i nostri omologhi norvegesi. I giorni trascorsi insieme mi hanno offerto l’occasione di frequentare autori, traduttori, giocatori davvero eccezionali. Poco dopo essere ritornato in Italia ho mandato a tre di loro un piccolo questionario su come gli scrittori norvegesi avessero elaborato la terribile esperienza dei due attentati dell’anno scorso, a Oslo e sull’isola di Utoya, in cui 77 persone hanno perso la vita. Di ieri la sentenza che ha condannato il loro autore Anders Behring Breivik a 21 anni. Ma anche e soprattutto il loro punto di vista sullo stato generale delle lettere, nel loro paese e nel nostro.
§
Effeffe: Prendendo spunto dai fatti di Utoya dello scorso anno c’è stata secondo voi un’elaborazione di quell’esperienza da parte degli scrittori? Qual è il vostro punto di vista sia sui fatti accaduti che sull’elaborazione in corso?
Simen Ekern (scrittore e giornalista corrispondente del quotidiano Dagbladet)
SE: I libri pubblicati fino ad oggi sulla tragedia Utøya sono resoconti di saggistica. I primi libri ad essere pubblicati sull’argomento sono state sostanzialmente indagini che descrivevano ogni mossa di Breivik nei mesi, giorni ed ore prima della bomba e della sparatoria. Poi vennero i libri -intervista sulla base di lunghe conversazioni con i sopravvissuti, come il libro di Erik Møller Solheims su Adrian Pracon.
Ora invece cominciano ad essere pubblicati saggi di tipo politico. «Motgift» (Antidoto), è un ambizioso progetto, un libro di 500 pagine che offre la possibilità a studiosi ben noti di rispondere al contenuto del «Manifesto» di Breivik. L’idea di fondo di questo progetto è di dimostrare, attraverso fatti e analisi equilibrate, che l’ideologia di Breivik si basa su presupposti falsi e incorretti. Ho scritto una recensione positiva di questo libro sul giornale per il quale lavoro, anche perché penso che sia impossibile ignorare la dimensione ideologica / politica dei crimini compiuti da Breivik. Breivik potrà anche essere un pazzo, ma le sue idee politiche sono condivise da molti, e devono essere prese sul serio, purtroppo.
Vari autori di narrativa, norvegesi hanno scritto articoli e pezzi d’opinione pubblicati su diversi giornali nazionali e internazionali. Più degni di nota, forse, sono gli scritti di Karl-Ove Knausgård, l’autore più di successo nel nostro paese nell’ultimo quinquennio. Ecco il suo saggio sul New York Times, scritto con un linguaggio riconoscibile ai lettori dei suoi romanzi.
Jon Rognlien (traduttore in norvegese di Saviano, Camilleri, Sciascia, critico letterario ed editorialista norvegese.)
JR: Sono usciti parecchi libri sul massacro: documentari, reportage, testimonianze. Gli autori sono comunque ancora troppo vicini agli avvenimenti per riuscire a rifletterci profondamente. Poi adesso, col processo, le informazioni si sono moltiplicate, e contemporaneamente si è completamente slittati nel discorso sull’eventuale sanità mentale del malfattore. Vera letteratura che mediti sopra ai fatti verificatisi nel luglio del 2011 non credo che ne uscirà prima di un paio di anni.
Astrid Nordang (scrittrice e traduttrice in norvegese delle Poesie in forma di Rosa di Pier Paolo Pasolini )
AN: La cosa che m’interessa di più su Breivik non è se lui fosse mentalmente sano o no, ma il linguaggio che usa nel suo cosiddetto “manifesto”. Ho solamente letto degli estratti, ma si vede subito che non ha una lingua sua. Il testo è pieno di frasi in inglese e clichés, una lingua da blog e commenti di tale sorta si trovano sui quotidiani. Il suo rapporto con la lingua sembra assomigliare a quella dei fascisti, dei nazisti; piange davanti alla Corte quando rivede un ritratto di se stesso in uniforme, mentre posa come un cavaliere/crociato. Solamente i simboli lo commuovono. Non gliene frega nulla delle testimonianze e delle vittime. Si può pensare a Freud, al super ego etc, ma questa è una domanda da girare agli psicologi. Proprio oggi si annuncia la conclusione del tribunale sulla condizione mentale di Breivik: è responsabile, sano mentalmente. Un foto mostra il malfattore con un sorriso vago. La sentenza: 21 anni. Come Rognlien già ti ha scritto, l’informazione è dappertutto, ma ci vuole un po’ di tempo per elaborare il misfatto. Personalmente sento la vicinanza – Utoya non è lontana da qui. Incontro ancora gente che era stata lì, che aveva partecipato alla ricerca, in barca, nel lago di Tyrifjorden dopo che tre giovani erano dati come dispersi.
Effeffe: In che modo secondo voi la letteratura norvegese contemporanea dialoga con quella europea e qual è il vostro punto di vista sui filtri editoriali (Grandi Gruppi Editoriali, distribuzione, diffusione, critica letteraria, agenzie letterarie) e sulle scelte di questi. Quali sono gli autori italiani che sentite vicini alle vostre poetiche.
Simen Ekern : credo che si possa sostenere la tesi secondo cui la letteratura norvegese contemporanea è più influenzata dalla narrativa americana che da quella europea, almeno tra le giovani generazioni di scrittori. In generale credo che sia corretto affermare che la cultura anglo-americana abbia un’influenza più forte in Norvegia della cultura dell’Europa continentale. Vi sono, tuttavia, molti esempi contrari. Houellebecq è (abbastanza) letto, un suo iincontro con Péter Nádas ha riempito la Casa della Letteratura di Oslo di recente, il nuovo libro di Umberto Eco ha innescato lunghe interviste in diversi giornali (ovviamente). Nonostante ciò, l’influenza americana e il dibattito letterario intra-scandinavo sono più seguiti e sentiti che non le discussioni europee. Purtroppo.
Jon Rognlien: purtroppo la letteratura è quasi sempre vista e analizzata paese per paese, raramente si riesce a tracciare un disegno complessivo e internazionale. Gli scrittori norvegesi sono sicuramente più influenzati dagli autori americani che dagli europei. Ho però notato un certo interesse ultimamente per Erri de Luca, ho sentito che sta per uscire un articolo su lui su una rivista importante (Vagant) fra non tanto. Del resto qui non si vede oltre il proprio naso. Saviano è stato letto moltissimo, ma non ho sentito nessuno scrittore citarlo come fonte d’ispirazione. La letteratura è molto più chauvinista che non, per esempio, la musica.
Astrid Nordang : Leggo libri italiani e tedeschi per alcune case editrici. Sono d’accordo con Rognlien e voglio aggiungere che le agenzie purtroppo decidono quale tipo dei libri debba essere pubblicato qui. Un esempio, Nicola Lecca – mi sembra che non sia molto letto in Italia, ma il suo libro Hotel Borg è stato tradotto in tutta Europa. La letteratura francese e tedesca hanno avuto un grande impatto da noi, ma non dimentichiamo gli svedesi, specialmente per quanto riguarda la poesia. Per esempio Katarina Frostenson e Ann Jäderlund. La poesia scandinava è un campo dove i legami sono stretti grazie anche ai tantissimi festival organizzati. Secondo me il livello è alto e tutti questi “happening” offrono un’ispirazione anche ai romanzieri norvegesi, con la coscienza e l’esplorazione della lingua. Per quanto riguarda la narrativa, la letteratura inglese e americana hanno la maggioranza dei lettori, dato che la posizione dello “story telling” è privilegiata in Norvegia. Umberto Eco è molto letto, chiaro, ma forse è più un saggista che un romanziere. Vagant menziona Silvia Avallone (ne abbiamo discusso a Lillehammer) e Erri di Luca. L’interesse per Giorgio Agamben però mi sembra cresciuto ultimamente, è da due-tre anni che i suoi essays sono tradotti su riviste e libri.
Effeffe : Se poteste descrivere il lettore tipo norvegese, lo si può definire un lettore “forte” ? Esiste una schizofrenia editoriale come in Italia tra letteratura di qualità e letteratura di mercato?
Simen Ekern : I norvegesi comprano molti libri, e le case editrici sono sempre state in grado di pubblicare letteratura di qualità, e sono state disposte a fare uno sforzo per far si che le persone leggessero questo tipo di libri. Gli autori considerati i più importanti negli anni ’80 e ’90, come Dag Solstad e Jan Kjaerstad, sono stati anche dei best-seller a volte. Karl Ove Knausgård, da tempo uno degli autori preferiti dai critici, ha venduto più libri di quanto qualsiasi scrittore di romanzi gialli possa sognare. Nonostante ciò, le librerie iniziano a dare maggiore spazio ai romanzi gialli e alla letteratura di intrattenimento, e le case editrici si lamentano che è difficile trovare spazio sugli scaffali per «la letteratura di nicchia». C’è chiaramente un conflitto qui, e non è sul punto di essere risolto.
Jon Rognlien : Certo che esiste questa dicotomia (non mi piace definirla “schizofrenia”, che sarebbe una malattia, no?). C’è la letteratura della borsa e c’è la letteratura della cattedrale (così si dice qui da noi). Così è sempre stato e così sarà. Si legge comunque molto in Norvegia, specialmente gli scrittori di successo norvegesi, come i giallisti tipo Jo Nesbø (che sta avendo successo anche da voi, no?), ma anche scrittori considerati seri (ma poi, si può discutere su questo) come per esempio Erlend Loe, che ha scritto una decina di libri molto originali, alcuni pubblicati pure in Italia dall’editore Iperborea. C’è ne anche un bel gruppo di scrittrici giovani molto in gamba – Agnes Ravatn, Olaug Nilsen e Linn Ullmann, per citarne solo alcune. Abbiamo un buon livello tra i critici, a mio modesto parere, – tra cui parecchi giovani laureati in letteratura che leggono con attenzione e riescono ad andare giù nei testi, non solo nuotare sulla cresta, in superficie. Certo abbiamo anche i classici critici “giornalistici” che spargono cinismo e noia, ma non contano più molto. La nuova generazione di critici (28-43 anni) sono molto più seri. E i giornali gli danno la possibilità di scrivere. Bene.
Astrid Nordang : C’è un gran numero di scrittori norvegesi e anche parecchi buoni. Tra i poeti abbiamo donne come Ingrid Storholmen, Monica Aasprong, Tone Hødnebø, tra gli uomini Gunnar Wærness, Terje Dragseth e Øyvind Rimbereid. La situazione oggi è che una manciata di autori domina il panorama, come Dag Solstad (nella tradizione di Thomas Bernhard), Kjartan Fløgstad e Jan Kjærstad,a cui si contrappongono romanzieri storyteller, come Per Petterson e Linn Ullmann o il più sperimentale Thure Erik Lund. Ci sono anche Merethe Lindstrøm, Vigdis Hjorth per menzionare un paio di donne con all’attivo una ventina di libri e che col tempo stanno migliorando. Knausgård è un fenomeno, per esempio.
Effeffe: Tutti voi avete un legame con l’Italia, sia come scrittori, traduttori, saggisti, oppure per vicende personali. Qual è l’idea che vi siete fatti del “bel paese”?
Simen Ekern: Ho scritto due libri sull’Italia. Il primo, pubblicato nel 2006, si initola «l’Italia di Berlusconi», ed è un’inchiesta giornalistica dagli anni di Mani Pulite fino alla vittoria elettorale di Prodi. Ho voluto soffermarmi sui dibattiti di quel periodo, seguirne i personaggi principali, per descrivere l’Italia nell’era Berlusconi come una società contraddittoria, che a volte porta ad un cortocircuito nel dibattito pubblico. Ho cercato di descrivere in maniera onesta le impressioni dei miei viaggi, interviste e reportage, da Milano a Lampedusa durante gli anni di Berlusconi. Il secondo libro, intitolato Roma, è stato pubblicato nel 2011, ed è descritto così dalla casa editrice:
«Roma non è soltanto ricca di storia antica, ma è anche una metropoli moderna con un presente ed un passato recente che è allo stesso tempo sanguinoso, caotico e seducente. L’autore Simen Ekern porta i suoi lettori in un lungo tour a rotta di collo per le strade di Roma, dal dopoguerra ad oggi. Ci ritroviamo nel vicolo dove è stato trovato il corpo del politico assassinato Aldo Moro nel bagagliaio di una Renault 4. Prendiamo un caffè con un uomo che si rammarica amaramente di aver aderito alle Brigate Rosse. Incontriamo una donna che porta orecchini con l’immagine di Mussolini. Il libro si interessa in particolare dei movimenti militanti di sinistra estrema e nel fascismo che non è mai davvero scomparso. Roma è un racconto originale su una città molto speciale». Credo che i due libri riassumano bene la mia visione dell’Italia.
Jon Rognlien : Ah, serva Italia! Ohimè lasso! Sospiri e lacrimosi laï … e via dicendo: l’Italia di Ratzinger, Licio Gelli e Berlusca o invece l’Italia di Totò, Fellini e Dario Fo? L’Italia di Raffaela Carrà o invece quella di Pino Daniele? Di Emilio Fede o di Alma Megretta? Il “bel” paese è troppo grande e contraddittorio per potersene fare un’idea soltanto. Ce ne vogliono almeno quattro.
Astrid Nordang : Per me l’ Italia è il suo cinema, la letteratura, è Roma, la Sicilia, Napoli, Trieste. Pasolini, Fellini, Fo, Morante e Svevo (ho fatto un mio saggio su Svevo applicando le idee di Benjamin). Ungaretti, Montale. Amo la canzone italiana, Mina, per esempio.

di Davide Orecchio
La scrittrice Silvina Ocampo, compagna di Bioy Casares e amica di Borges (sebbene da lui, a torto, non del tutto stimata), in un giorno della sua vecchiaia prese in mano un libro di racconti e leggendolo se ne innamorò. A un signore che passava di lì, un vecchio amico che Silvina non aveva riconosciuto, proponendo di declamargliene un brano chiese:
di Silvia Contarini
Quest’estate, volendomi dedicare a letture impegnate, invece di Cinquanta sfumature di grigio ho comprato (la versione gratuita non è ancora disponibile online) Timira (sottotitolo “romanzo meticcio”), di Wu Ming 2 e Antar Mohamed. Ho cominciato a leggere con interesse, ho finito con irritazione, non solo per la qualità mediocre, ma anche per il buonismo che trasuda, quello di chi sta dalla parte giusta al momento giusto, magari cavalcando l’onda. Il romanzo ha suo malgrado il merito di sollevare alcune questioni.
Il collettivo Wu Ming ripete da anni di essere un cantastorie di storie di altri che sono storie di tutti perché l’opera è sempre collettiva. Timira è la storia di un’italo-somala, Isabella Marincola, che la sua storia avrebbe voluto scriverla assieme a Wu Ming2, ma gli anni son passati, l’anziana Isabella è morta, e il romanzo meticcio lo hanno scritto il figlio e Wu Ming2, prendendo cura di avvertire il lettore: “questa è una storia vera… comprese le parti che non lo sono”. Destinati al lettore che ancora non avesse chiaro cosa sia una narrazione collettiva sono anche i “titoli di coda”, oltre venti pagine con centinaia di informazioni sugli ignari contribuenti al collettivismo involontario: oltre a qualche maître à penser (Agamben, Virno), molti siti, film, canzoni e libri, e soprattutto – perché la storia vera o inventata che sia va documentata – documenti d’archivio e una nutrita bibliografia su colonialismo, madamato, Somalia. Manca però qualcosa di importante: sono quasi del tutto assenti gli scrittori del postcoloniale italiano, eppur noti a Wu Ming2 che li menziona in un’intervista ma non nel libro; all’unica citata, Shirin Ramanzanali Fazel, andavano aggiunti almeno Igiaba Scego, Gabriella Ghermandi, Cristina Ali Farah, Carla Macoggi, Kaha Mohamed Aden, e andava fatto rimando alla letteratura postcoloniale.
Il riconoscimento del debito, a mio parere essenziale non tanto per l’ispirazione di scene o personaggi ma per il fatto stesso di scrivere oggi questo romanzo, sarebbe stato giusto: con la pubblicazione di Timira, Wu Ming si inserisce volontariamente ed esplicitamente nell’ambito della letteratura migrante e postcoloniale italiana che si sta imponendo all’attenzione di lettori e critici, in Italia e all’estero, proprio grazie agli scrittori di cui sopra e ad altri. Credo si tratti di scelta e non di dimenticanza da parte di Wu Ming. In una scena del romanzo, Isabella Marincola, cittadina italiana, di madre e marito somali, che abita a Mogadiscio ma non parla somalo, incontra Siad Barre e si lancia in una dichiarazione d’amore per la sua matria (in corsivo nel testo e ripetuto più volte), la Somalia, paese della madre, mentre l’Italia, paese del padre, è la patria. Ora, in un bel racconto del 2005, intitolato Dismatria, Igiaba Scego si interroga – in maniera ben più profonda – sul legame che unisce alla terra madre e sull’esilio al femminile.
Il caso vuole che tra le mie letture estive ci fosse un articolo di Carlo Ginzburg sulla microstoria, in cui si accenna alla “matria history” (storia del mondo femminile che ruota attorno alla madre, alla famiglia, al villaggio) elaborata agli inizi degli anni settanta dallo storico messicano Luis Gonzalez. Nella mia immensa ignoranza, credevo che matria fosse un neologismo! Consulto allora internet e scopro, su wikipedia spagnolo, che matria è anche concetto di matrice femminista usato per proporre una lettura nuova di concetti vecchi come identità, razza, lingua, religione, tradizione, sesso (linea della madre, opposta a linea del padre/patriarcato). Anche in italiano, scopro ancora, matria è lungi dall’essere un neologismo, è anzi una nozione tornata in auge di recente, ma in un senso diverso. Nel 1978, uscì un libro di Sergio Salvi a difesa delle lingue minoritarie intitolato Patria e matria. Dalla Catalogna al Friuli, dal Paese Basco alla Sardegna: il principio di nazionalità nell’Europa occidentale contemporanea; sulla scia, la rubrica “patria e matria” consultabile sul sito www.eleaml.org, a difesa di cultura e lingua del Meridione (versus Italia unita: colonialismo interno…). E Rigoni Stern avrebbe detto: “è patria, cioè terra dei padri, la Nazione; ma la terra più dolce, la terra madre o matria, è quella delle proprie origini”. Infine, le celebrazioni dell’Unità italiana hanno ispirato al filosofo Massimo Cacciari la riflessione seguente: la sua devozione va non alla Patria, ma alla Matria. Gli fa eco Tullio De Mauro, in un’intervista all’Unità intitolata “Dalla Patria alla matria. Ecco perché è la lingua che ci ha fatto italiani” (intervista disponibile sul sito del Partito Democratico).
Insomma, sembrano tutti d’accordo per buttar via la Patria, obsoleto riferimento al padre che trasmetteva la cittadinanza e pericoloso rimando al sentimento nazionalistico, e sostituirvi la Matria, legame alla terra natia e/o alla lingua delle origini.
A me, però, tutto questo entusiasmo per la terra madre e la lingua madre, mi lascia perplessa. Perché la matria addolcisce il concetto (si sa, il femminile è dolce) e sembra renderlo più frequentabile, ma aggira la questione delle radici e dell’appartenenza identitaria, e quasi rinsalda legami ineluttabili piuttosto che favorire la scelta.
Ecco, la lettura di Timira se non altro mi è servita a questo: riflettere sull’interessante nozione di matria. La problematica è assente nel romanzo? L’opera collettiva, ribatterebbe Wu Ming, include la partecipazione del lettore. Faccio parte anch’io della collettività automatica? In tal caso dichiaro di assumere ogni responsabilità solo per parole e fatti a me attribuibili.
(Marco ci regala un estratto del suo nuovo libro, in questo scampolo di fine estate. G.B.)
di Marco Candida
Mathias è l’eredità che Caterina ha ricevuto da sua zia Nivea («come la crema della pelle», rimarcava ogni volta che poteva il padre di Nero) una volta che questa circa sei mesi prima era passata a miglior vita, anche se per Caterina e Nero, da trentaquattro anni in quel di Tortona in provincia di Alessandria, era difficile immaginare una vita migliore da quella trascorsa in una casa di mille metri quadrati a Florianópolis, nello Stato di Santa Catarina nel sud del Brasile. «Da Santa Caterina a Caterina», rimarcava ogni volta il padre di Nero col suo insopportabile autocompiacimento, alludendo probabilmente al fatto che Caterina non fosse proprio una santa e che da Santa Caterina a Caterina ci passasse una differenza, come dire, dalle stelle alle stalle. L’ironia del padre di Nero non si era arrestata neppure davanti alla notizia dell’arrivo di Mathias in qualità di “eredità di Caterina”. «Adesso ne avrai due da coccolare», le aveva detto lasciando intendere che Mathias fosse un bamboccio esattamente come bamboccio era sempre stato, soprattutto da quando aveva cominciato la sua fallimentare carriera universitaria proseguita poi con la sua fallimentare carriera di lavoratore, “Nero”. L’ironia dell’uomo si era però dovuta smorzare quando era saltato fuori che Mathias era un bamboccio del valore economico di trecentomila euro. Sì, la faccenda era andata così.
Un giorno Caterina aveva ricevuto una e-mail da Lauro, il figlio di zia Nivea. Lauro viveva a Rio das Antas nello Stato di Rio Grande Do Sul, faceva l’ingegnere ma non appena sua madre aveva cominciato ad avere i primi problemi e a trovarsi in fin di vita si era trasferito a Florianópolis assieme alla sua famiglia, e la stessa cosa aveva fatto suo fratello Sanchez che abitava invece a Domingos Martins, nello Stato di Espirito Santo, e di mestiere faceva l’avvocato, e tutto questo, come Caterina aveva commentato con Nero, deponeva a vantaggio dell’idea che zia Nivea dovesse essere davvero molto ricca se Lauro e Sanchez avevano potuto piantare i loro studi privati per almeno un paio di settimane, pur per il nobile scopo di soccorrere la madre morente.
Nel messaggio inviato a Caterina, facilmente rintracciata da lui attraverso la rete, Lauro l’avvertiva che la madre era passata a miglior vita e che aveva disposto un lascito proprio nei suoi confronti. Caterina del resto con i suoi trentaquattro anni era la sola sopravvissuta in famiglia, essendo la madre morta di una malattia incurabile quando lei aveva ventisette anni e il padre giusto l’anno prima stroncato da un infarto, lasciandole quella topaia d’appartamento in Via Rinarolo, che peraltro aveva finalmente permesso a lei e a Nero di avviare una “parvenza di vita” insieme. Naturalmente il portafoglio del padre di Nero avrebbe avuto molto da raccontare a questo proposito giacché lo spostamento dalla casa dei genitori alla casa della fidanzata, e ora convivente, aveva visto quel portafoglio protagonista in diverse occasioni ma, dopo trentaquattro anni di vita vissuta assieme ai suoi genitori e gli ultimi sei spesso e volentieri in compagnia anche di Caterina come ospite fissa e ulteriore bocca da sfamare, almeno questa “parvenza di vita” (come la chiamava Nero, con Caterina dietro a far cenno di sì con la testa e a stringersi nelle spalle) era già qualcosa.
Quando Lauro aveva comunicato a Caterina in cosa consisteva il lascito di zia Nivea, manco a farlo apposta il padre di Nero si trovava con loro proprio nella stanza dell’appartamento dove stava il computer (era passato giusto per portare a Caterina un favoloso timballo preparato dalla madre di Nero) e non si era lasciato sfuggire l’occasione per commentare che dove c’è deserto la pioggia non cade mai – una specie di ripensamento al contrario del ben noto detto “piove sempre sul bagnato”. Dopo aver letto l’e-mail Caterina si era afflosciata sulla sedia davanti al computer. Aveva sperato per giorni assieme a Nero che zia Nivea, di cui i genitori le avevano sempre parlato come di una donna assai e assai facoltosa, ora che Lauro e l’altro figlio Sanchez l’avevano contattata per avvisarla del lascito, le avesse regalato una quantità di denaro cospicua, oppure un terreno o una casa in riva al mare. Per giorni Caterina aveva prospettato a Nero la possibilità di recarsi a Florianópolis di persona, come anche secondo Lauro e Sanchez sarebbe stato possibile; anzi da sempre Caterina aveva parlato con i suoi genitori della possibilità di visitare gli zii e i cugini brasiliani, nonostante la cosa sia sempre sembrata solo un sogno perché il biglietto dell’aereo costava troppo, e poi perché il viaggio aereo era troppo lungo, e poi perché sembrava tutto decisamente troppo lontano, complicato, ma a quanto pareva adesso c’era davvero questa possibilità concreta essendo stata contattata da Lauro e Sanchez (sempre questi due nomi, Lauro e Sanchez: Caterina non faceva che ripeterli a Nero). E così si era di nuovo informata sul costo del biglietto aereo e le distanze, e di nuovo aveva dovuto concludere che costava troppo, il viaggio era troppo lungo e tutto sembrava decisamente troppo complicato, lontano e che però questa volta, forse forse, questa volta…
Invece Lauro le aveva dato la notizia che il lascito consisteva in un bambolotto e le speranze di Caterina si erano afflosciate con lei sulla seggiola davanti al testo dell’e-mail proiettato dallo schermo del computer nella stanza. Del resto cosa avrebbe dovuto aspettarsi di meglio? Davvero aveva pensato anche solo per un istante di ricevere dalla sua ricca zia brasiliana una casa in riva al mare, un terreno o una cospicua quantità di denaro? Di sicuro a questo punto non avrebbe avuto senso spendere i soldi del biglietto e sobbarcarsi quel lungo viaggio oltreoceano di circa quindici ore al solo scopo di presentarsi come la beneficiaria di un lascito consistente in un bambolotto. Tanto meglio far passare qualche mese, se non qualche anno, e ripresentarsi ai cugini brasiliani in veste di semplice turista. Ad ogni modo Lauro aveva lasciato intendere a Caterina, forse solo per consolarla, che doveva ritenersi fortunata a ricevere un’eredità come quella perché il bambolotto era molto, molto pregiato, e poi le avrebbe portato tanta fortuna.
Caterina aveva ringraziato Lauro e lo aveva fatto anche Nero che passava gran parte del suo tempo ormai a letto a dormire non avendo nemmeno più la voglia di affrontare la luce del giorno per quanto depresso era a causa del fatto che non trovava lavoro. Dopo aver lasciato l’università a ventiquattro anni e aver lavorato per due anni come addetto alla qualità in un’industria che produceva conglomerato bituminoso, infatti, Nero non aveva più trovato un lavoro vero: campava di questo e di quello. Una volta aveva aiutato un suo zio (né brasiliano né ricco, ma di Bettole, una frazione di Tortona) a fare l’imbianchino, ma Nero, che aveva frequentato il liceo classico e aveva studiato Lettere antiche fino a quando non aveva lasciato, consumandosi la vista non facendo altro che leggere per qualche tempo, era anche diventato nel frattempo piuttosto imbranato. Aveva combinato solo disastri e dopo pochi mesi, d’accordo con il padre, suo zio aveva dovuto chiedergli di starsene a casa. Così Nero s’era convinto di essere veramente un buono a nulla. Usciva poco, stava in casa con Caterina, anche lei un tipicino chiuso, asociale che Nero aveva conosciuto in un centro per anziani dove aiutava e si era ridotta a fare le pulizie, guardava i bambini degli altri, faceva queste cose, e anche lei aveva vissuto a casa dei suoi genitori, come aveva fatto Nero, e poi a casa dei genitori di Nero una volta che aveva conosciuto Nero facendosi sfamare dalla famiglia di Nero, come l’avrebbe in realtà raccontata il padre di Nero. Entrambi se non altro avevano come qualità quella di non spendere troppi soldi e così riuscivano a mettersi qualcosa da parte, con tutto che dopo la morte di sua madre e poi quella di suo padre Caterina aveva preso eredità ben più dignitose di un bambolotto portafortuna di nome Mathias proveniente da Florianópolis, Brasile.
È un po’ strano raccontare la storia di Nero e Caterina perché dopotutto è veramente tutta qui: come passavano le giornate è così, Nero per lo più ormai dormendo, Caterina per lo più raccattando denaro con qualche lavoretto, entrambi restando in casa senza uscire guardando la televisione o stando davanti al computer, senza pensare assolutamente al futuro. Viene quasi da dire, osservando le cose messe giù sulla carta in questo modo, che una storia dove non ci sia tensione verso il futuro, dove non si tenga conto del futuro non solo non è una storia, ma non è nemmeno un frammento credibile di storia. Certo, il portafoglio del padre di Nero racconterebbe forse la storia diversamente limitandosi ad affermare che questa faccenda era stata possibile perché irrorata dal denaro che proprio da lui saltava fuori. Senza quel portafoglio lì probabilmente Nero non avrebbe potuto permettersi di dormire dodici a volte quindici ore al giorno (il padre di Nero aveva saputo da Caterina che suo figlio aveva persino cominciato a tenere un diario dove appuntava i sogni che bello e pacifico si faceva) e neppure Caterina avrebbe potuto concedersi di bere (contro la volontà di Nero) quelle bottiglie che poi allineava in cucina sotto il lavandino, a formare quel che lei chiamava “il cimitero delle bottiglie”. Senza quel portafoglio lì Nero e Caterina avrebbero avuto storie tutte diverse – ad esempio senza computer e connessione internet, tanto per dire, ad esempio senza riscaldamento d’inverno, tanto per dire.
Il padre di Nero si chiamava Vincenzo ed era stato amministratore delegato di un’azienda facente capo a un supergruppo nel settore del conglomerato bituminoso (altrimenti Nero come avrebbe fatto a trovare un impiego proprio in quel settore?) che poi a causa della crisi, poco dopo che Vincenzo andasse in pensione (cosa che lo aveva salvato da ogni disonore), era fallita e aveva chiuso. Vincenzo percepiva una pensione alta, aveva da parte dei risparmi e aveva incamerato anche grazie a sua moglie lasciti veri. Giacché, se dove c’è deserto non piove mai, invece piove sempre sul bagnato e ringraziando Dio e anche la tempra di Vincenzo, che lo aveva portato così in alto col suo solo diploma di geometra, a casa sua c’era sempre stato bagnato a sufficienza, ossia una discreta base di soldi che chiamavano altri soldi: altro che bambolotti.
Disgraziatamente Vincenzo aveva messo al mondo un figlio coglione (ed è difficile a credersi conoscendo lui e sua moglie) che come unico pregio aveva sempre avuto quello di essere piuttosto belloccio e di non essersi mai messo davvero nei guai. Tutto sommato a trentaquattro anni (ma già a venticinque, già a ventotto) avrebbe potuto farlo, eppure non toccava praticamente una goccia d’alcol e ancora meno faceva uso di sostanze stupefacenti: è che Nero era semplicemente coglione. Non aveva voglia di lavorare. Non aveva voglia di lottare. Non gli piacevano le persone che doveva frequentare. Si faceva presto odiare da tutti. Come facesse, accidenti, lo sapeva solo lui! Comunque proprio perché dopotutto non aveva mai fatto nulla di male se non essere totalmente inadeguato a stare al mondo e a vivere nella società civile, dove occorre essere forti e non delle mezze cartucce, Vincenzo lo aveva sempre aiutato economicamente anche perché se non lo avesse fatto avrebbe dovuto vedersela con sua moglie. E poi, suvvia, anche se non lo avrebbe mai confessato espressamente, in un angolo del suo orgoglio Vincenzo si sentiva contento di essere ancora, a sessantanove anni, il faro della famiglia, il pilastro incrollabile sul quale poggiavano i destini di tutti quanti, di essere ancor’oggi il migliore della casa. Per molto tempo s’era sentito schiacciare dalla presenza del padre che aveva fatto la guerra, un generale di ferro che lo aveva sempre trattato come una specie di essere inferiore. Solo che lui, a differenza del figlio che poi avrebbe generato, un coglione non lo era mai stato e nel tempo si era preso tutte le sue rivincite provando il proprio valore al padre, passato a miglior vita a ottantasette anni (e per chi abita a Tortona in provincia di Alessandria in un appartamento sia pure di duecento metri quadrati in zona centralissima questa espressione ha più senso di chi abita a Florianópolis nello Stato di Santa Catarina in Brasile e pure in una casa di mille metri quadrati). Gli aveva lasciato la casa e dei soldi messi da parte che fortunatamente sua madre non aveva sperperato in donne delle pulizie e badanti prima di morire a sua volta all’età di ottantanove anni, sei anni dopo il marito.
In tutti gli anni che Caterina e Nero erano stati insieme non avevano mai parlato di sposarsi né tantomeno di avere dei bambini per il semplice fatto che si sentivano entrambi troppo inadeguati. Certo, Caterina a volte si lasciava sfuggire di volere un bambino e aveva detto a Nero che con un bambino entrambi si sarebbero forse responsabilizzati di più, ma poi subito pensava di non essere adatta ai bambini, che anche se li guardava agli altri lei era troppo distratta e anche Nero lo era, e poi in fondo concordava con Nero che mettere al mondo una creatura, in questi tempi e con la quasi consapevolezza che dopo la morte non ci sia nulla, fosse quasi un atto di cui sentirsi colpevole. Ora che però aveva scoperto che Mathias valeva trecentomila euro Caterina si domandava se la loro vita se non da un bambino sarebbe stata invece messa a posto da un bambolotto.
Lauro e Sanchez le avevano spedito Mathias per posta aerea dentro un cartone solido e ben imballato. A pensarci col senno di poi era stato ben rischioso quello che quei due avevano fatto, considerato il valore altissimo della merce, ma d’altra parte alternative non ce n’erano, a meno di tenere Mathias a Florianópolis o trasportarlo a Rio das Antas o a Domingos Martins o come diavolo si chiamava – e poi nessuno di loro sapeva ancora quale fosse il valore reale di Mathias. Il bambolotto era arrivato dopo qualche giorno. Dopo due giorni che era stata messa nella buca delle lettere la cartolina che l’avvisava di dover andare a ritirare un pacco alle Poste, Caterina anche un po’ controvoglia era andata a prenderlo. Il bambolotto se non altro era molto bello, assomigliava a Nero. Aveva capelli castani, con la riga da una parte, occhi marroni molto grandi, era paffuto come un bambolotto e indossava una camicia, un maglione, un paio di pantaloni e le scarpine di cuoio, proprio tutto come Nero…
continua
di Roberto Bolaño
Per un po’ la Critica accompagna l’Opera, poi la Critica svanisce e sono i Lettori ad accompagnarla. Il viaggio può essere lungo o corto. Poi i Lettori muoiono uno per uno e l’Opera va avanti da sola, sebbene un’altra Critica e altri Lettori a poco a poco comincino ad accompagnarla sulla sua rotta. Poi la Critica muore di nuovo e i Lettori muoiono di nuovo e su questa pista di ossa l’Opera continua il suo viaggio verso la solitudine. Avvicinarsi a essa, navigare nella sua scia è segno inequivocabile di morte certa, ma un’altra Critica e altri Lettori le si avvicinano implacabili e instancabili e il tempo e la velocità li divorano. Alla fine l’Opera viaggia irrimediabilmente sola nell’Immensità. E un giorno l’Opera muore, come muoiono tutte le cose, come si estingueranno il sole e la Terra, e il Sistema Solare e la Galassia e la più recondita memoria degli uomini. Tutto quel che inizia come commedia finisce in tragedia.
[da Detective selvaggi, di Roberto Bolaño, Sellerio, p.672. La fotografia è di Cristina Garcia Rodero.]