di Enrico Macioci
È uscito per Senzapatria editore Bolaño selvaggio, a cura di Edmundo Paz Soldàn e Gustavo Faveròn Patriau e tradotto egregiamente da Marino Magliani e Giovanni Agnoloni. Si tratta d’una raccolta di venticinque saggi suddivisi in quattro sezioni (la percezione del mondo, la politica, l’estetica, le genealogie letterarie del cileno), più un’introduzione e due interviste inedite. È un libro che definirei necessario, perché mette a fuoco un narratore complesso e cruciale della contemporaneità, in Italia non ancora studiato a dovere.
La decifrazione di Roberto Bolaño si rivela ardua per almeno due motivi: 1) egli giunge a una pubblicazione costante e visibile tardivamente, intorno ai quarant’anni, ma da allora in avanti pubblica un libro l’anno, lasciando deflagrare l’energia letteraria accumulata nel tempo e accorciando le fasi d’un ordinario sviluppo; 2) si situa, da un punto di vista stilistico e formale, in un territorio di confine, a metà fra poesia e prosa e fra racconto e romanzo.
Il volume di Senzapatria, attraverso un caleidoscopio di voci che suonano però armoniche e coerenti, mette ordine all’interno dell’abbondante produzione di Bolaño, sgranando i nodi estetici che essa impone a ogni lettore accorto. Per esempio appare chiaro che certi libri sono emblematici della parabola di Bolaño, e si susseguono con regolarità passandosi il testimone d’una ispirazione in costante ascesa; sono La letteratura nazista in America (1996), I detective selvaggi (1998), Amuleto (1999), Stella distante (2000) e 2666 (2003, postumo, il capolavoro assoluto e la summa poetica). Come sottolinea Ignacio Echevarrìa nel magnifico pezzo dal titolo Bolaño extraterritoriale, le opere del cileno posseggono quella che, appoggiandoci alle nozioni della fisica, potremmo definire frattalità; sono cioè, a prescindere dalle dimensioni, schegge appartenenti allo stesso meteorite, parti d’un insieme enorme riprodotto ogni volta più o meno in piccolo ma con eguale efficacia e pregnanza; sono insomma opere sia autonome sia funzionali a un grandioso progetto collettivo – e in ciò Bolaño somiglia a tanti autori davvero padroni del proprio cosmo immaginativo, autori che lavorano sempre al medesimo progetto, che hanno una “missione”. Così Stella distante si riallaccia – riprendendo l’inquietante figura del poeta/aviatore/torturatore Carlos Wieder – all’ultima parte de La letteratura nazista in America, mentre Amuleto amplia un episodio de I detective selvaggi e lo stesso I detective selvaggi riecheggia in 2666, specie per quanto concerne i luoghi decisivi (in entrambi i casi il lembo oscuro del Messico dove sorge la città dei femminicidi Ciudad Juarez, nella finzione bolañana Santa Teresa).
Ma il volume di Senzapatria è esaustivo pure nell’analisi dell’originalità strutturale introdotta da Bolaño. Grande scrittore di racconti, romanzi brevi e romanzi-fiume, Bolaño giunge a mescolare i generi e le forme fino ad abolirne i confini e disperderne le tracce, creando un’ambiguità fertilissima, inedita e avvincente, e traversando un territorio dai molti angoli inesplorati. In tale audace procedere è aiutato dai trascorsi di poeta; per lui ciò che davvero conta è un ritmo interiore, una lingua che risuona nella lingua, nascosta eppure luminosa, irresistibile e rivelatrice; e la sua abilità tecnica non gl’impedisce mai di mollare le briglie, la sua scaltrezza non diventa mai una gabbia, la sua sterminata cultura è sempre al servizio dell’ispirazione – un’ispirazione capace di mantenersi fresca per centinaia di pagine.
Un altro punto/chiave di Bolaño selvaggio è la centralità di 2666, l’immenso romanzo postumo; un romanzo che getta sulla produzione antecedente, pur già vasta e profonda, una luce nuova ed enigmatica, come una torcia d’un tratto accesa in un crepaccio, fissando in via definitiva i temi che ossessionarono lo scrittore: la figura (esistenziale prim’ancora che letteraria) del poeta, la nozione di fuga o rinuncia o sparizione (non dimentichiamo che Bolaño ama e ammira Rimbaud, il primo grande autore “assente” della modernità), l’amore, l’esilio, la violenza, il Male puro (incarnato nel romanziere invisibile Benno Von Arcimboldi, che in gioventù partecipa alla seconda guerra mondiale e in vecchiaia risiede nella città maledetta di Santa Teresa, costituendo un trait d’union fra nazismo e femminicidio, i due buchi neri della vicenda, il doppio satanico, il doppio 666 del titolo, c’è da supporre).
Segnalo infine, oltre a quello già citato di Echevarrìa, alcuni saggi davvero brillanti (ma tutti hanno qualcosa da dire): quello di Peter Elmore, che analizza la componente escatologica e quasi mistica presente in 2666; quello di Rodrigo Fresàn che sottolinea l’approccio “eroico” e mai patetico di Bolaño nei confronti dell’arte – o dolce condanna – di scrivere; quello di Ròdenas che istituisce un parallelo fra le due opere-mostro di Bolaño, e cioè I detective selvaggi e 2666; oppure quello di Carmen Boullosa che con splendida, malinconica poesia rievoca gli anni settanta di Bolaño e degli infrarealisti a Città del Messico, in un clima culturale eccezionalmente fertile, fra Octavio Paz e Efraìn Huerta, Garcìa Ponce ed Elizondo, De la Colina e Verònica Volkow, Tomàs Segovia e molti altri ancora.
Vorrei concludere citando le parole che Bolaño pronunciò in occasione del discorso di Caracas, dove ritirò il premio Ròmulo Gallegos, riportato all’inizio del volume. Egli, scrittore senza fissa dimora per eccellenza, nomade per necessità e vocazione, sradicato, esule e vagabondo dall’infanzia alla maturità, sta parlando della patria dello scrittore finché sterza e afferma brusco: “Le patrie possono essere tante, ma il passaporto può essere uno solo, e quel passaporto è evidentemente la qualità della scrittura. Il che non significa scrivere bene, perché chiunque può farlo, ma scrivere meravigliosamente bene, e nemmeno quello, perché chiunque può scrivere anche meravigliosamente bene. Cos’è, allora, la scrittura di qualità? Be’, quello che è sempre stata: saper infilare la testa nel buio, saper saltare nel vuoto, sapere che la letteratura è fondamentalmente un mestiere pericoloso. Correre lungo il bordo del precipizio: da una parte l’abisso senza fondo e dall’altra i volti amati, i volti amati sorridenti, e i libri, e gli amici, e il cibo.” Ecco, Roberto Bolaño è tutto qua – specie nell’accenno agli amici e al cibo; il resto è letteratura.
































di Gianni Biondillo
