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Assediamoci

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(Riceviamo e volentieri pubblichiamo. G.B.)
Un sit-in al Pirellone
Il 31 marzo, ore 10.30-13.00, piazza Lombardia, palazzo Lombardia – simbolo del sistema di potere di Formigoni, ASSEDIAMOCI. Anche se non vi portate la sedia da casa ve la troviamo noi. Stiamo cercando di mobilitare tutti quelli che pensano che anche in Lombardia è stata superata la soglia della sopportazione e della decenza. Ci piacerebbe che sabato mattina vi uniste a noi, insieme ai tantissimi che stanno aderendo allo stesso appello.

“Perché non mobilitarci in modo nuovo, per denunciare l’incredibile situazione in cui versa la Regione Lombardia? Loro non se ne vogliono andare, anzi, e non capiscono il motivo di tante critiche e a volte si offendono, pure. Insomma, restano lì seduti, come se niente fosse. E tutto si immobilizza, come a voler negare il passare del tempo (forse perché abituati a occupare quelle posizioni fin dai tempi in cui i Camuni istoriavano la famosa Rosa). E se allora noi, e per noi intendo tutti i cittadini lombardi, di tutte le parti politiche, che trovano che ci sia parecchio che non funziona nei confronti dell’istituzione che dovrebbe rappresentarli, ci organizzassimo per sederci anche noi? Fuori dal Pirellone, con le seggiole portate da casa. Non per urlare slogan o denunciare quello che si sa già, né per aggiungere chissà quali altri particolari delle vicende di cui sono piene le pagine dei giornali, ma per discutere insieme, per confrontarci, per immaginare una Lombardia diversa. Politici e cittadini, seduti tra loro e gli uni con gli altri, per dare un segnale: ci vuole qualcosa di nuovo. Al di là del colore politico di chi vincerà le prossime elezioni, c’è bisogno di un sistema impostato diversamente, che sappia affrontare le questioni di cui si parla purtroppo solo dal punto di vista giudiziario: la concezione del potere, come abbiamo spesso ripetuto in questi giorni, le modalità (e l’eccessiva discrezionalità) delle nomine politiche, la negoziazione infinita in campo urbanistico, la sottovalutazione della questione ambientale, il pericolo che alle spalle di tutto questo ci sia addirittura la criminalità organizzata, come emerge da alcuni atti processuali. Un confronto franco, sereno, all’aria aperta. Sulla soglia del Palazzo. Come si dovrebbe fare in una democrazia, quando le porte e le finestre del Palazzo si chiudono. E l’aria diventa ogni giorno più pesante. E le parole sempre più vuote. Un messaggio ai lombardi e al Paese, perché rappresentanza e credibilità sono proprio le questioni fondamentali con cui la politica deve fare i conti, ed è doloroso registrare che sembra non avere più gli strumenti per affrontarle. Sabato prossimo potrebbe essere il momento giusto. E di Pirelloni, come si sa, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Uno dei due, quello nuovo, è preferibile per un dato eminentemente organizzativo: che ha una volta che copre la piazza sottostante. E con tutto quello che è costata ai lombardi adottarla in termini politici potrebbe dare finalmente una qualche giustificazione alle spese sostenute”
(dal sito di Pippo Civati)

metti una sera al…

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di Maria Angela Spitella

La sera andavamo al Kino E se l’ultimo mercoledì del mese ci si vedesse tutti al Kino? Ma tutti chi? Tutti noi di Audiodoc, e tutti quelli che ci vogliono seguire in questa iniziativa un po’ speciale, che è quasi una scommessa. Così il Kino, piccolo cinema in Via Perugia nella zona del Pigneto a Roma, è diventato, ogni ultimo mercoledì da gennaio 2012, un punto di ascolto, non per cuori solitari, o per chi ha problemi di qualsivoglia natura, ma per chi ha voglia di ascoltare una storia orale. Audio documentari, sì state leggendo bene, e non cadete nel tranello di chiedere: “ma dove è il film?”, di film da vedere non ce n’è. La sala del Kino accoglie poco pubblico ma buono, mi viene da dire con una facile battuta.

L’amore segreto di Fatima

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di
Azra Nuhefendić
Tra le strette mura di Dubrovnik ha trovato dimora una piccola comunità di bosniaci. Sono i discendenti di manovali, braccianti, lavandaie, domestiche, di poveri e di avventurieri che nel passato erano arrivati dalla Bosnia Erzegovina in cerca di lavoro e di una vita migliore. Oggi la comunità bosniaca è fatta di capitani, medici, artisti, professori, pittori, ingegneri.
A Dubrovnik ci sono nati, ci vivono, frequentano le scuole, lavorano, si innamorano, muoiono. Durante l’ultima guerra, quando i serbi bombardavano la città per “costruire una Dubrovnik più antica e più bella” (come diceva il camionista Bozidar Vucurevic, il capo dei serbi durante la guerra), 23 musulmani persero la vita difendendo la propria città. A differenza dei concittadini cristiani, i bosniaci portano un peso che, con l’età, preme sempre di più. Nel cimitero non c’è più posto per la sepoltura dei musulmani, e le autorità locali rimandano la decisione di trovare un altro luogo vicino e idoneo. Il decesso per i musulmani di Dubrovnik è l’inizio di un viaggio, non verso la pace e l’eterno riposo, ma verso terre lontane e sconosciute.

L’immediato entroterra di Dubrovnik, l’Erzegovina, oggi appartiene ai serbi e ai croati. Entrambi con la guerra hanno ottenuto zone etnicamente pure, e non ci pensano proprio di concedere agli infedeli un pezzetto di terra, neanche per la sepoltura. Così i musulmani che muoiono a Dubrovnik subiscono una sorta di pulizia etnica, vengono trasportati a centinaia di chilometri di distanza, in luoghi sconosciuti sia al defunto che ai suoi antenati. Quando si viene seppelliti così lontano, l’addio è definitivo e per sempre.

A soli duecento chilometri da Dubrovnik, sempre in Croazia, nella città di Imotski i politici locali si contendono, con i bosniaci e i serbi, il possesso di una donna musulmana, morta circa tre secoli fa. “È nostra, è sepolta qui”, pretendono i croati. “No, è nostra”, dicono i serbi e avanzano la teoria secondo cui i musulmani sono comunque autoctoni serbi. “Non si discute, è ovvio dal suo nome che è nostra”, dichiarano i bosniaci.

I croati sono passati dalle parole ai fatti. A tale Fatima Pintorovic Arapovic, appunto una musulmana, stanno costruendo un monumento a due secoli e mezzo dalla sua morte. Sul blocco solido di marmo pregiato sarà scolpito il nome della buon’anima, in ben 15 lingue. Il monumento lo stanno edificando sulle ripide rocce che racchiudono una meraviglia naturale, il Modro jezero, (il Lago Blu).

A Imotski sperano che il lago e il monumento, insieme, saranno un solido sostegno per il turismo e per promuovere il nome della Croazia “come altri prodotti o invenzioni di origine croata tipo la cravatta, la vegeta, il prosciutto crudo”, sostiene un patriota locale, tale Milan Puliz.

Il nome Fatima Pintorovic Arapovic così com’è non ci dice niente. Ma, con la precisazione Hasanaginica, milioni di persone in tutto il mondo riconoscerebbero lei e la sua storia.

La Hasanaginica (che letteralmente significa la moglie di Hasan-aga,) era la sposa di un nobile bosniaco, tale Hasan-aga, ed è il titolo dell’omonima ballata che, secondo gli esperti, è tra le più belle del mondo. La poesia epica, che narra di un amore tragico, è apparsa intorno al 1645. Per un secolo fu tramandata oralmente presso le genti che abitavano nella Dalmatinska Zagora, cioè nell’entroterra dalmata. L’ha salvata dall’oblio il viaggiatore ed etnografo italiano Alberto Fortis. Egli fece un viaggio nella zona considerata all’epoca incognita e barbara. Fortis cercava “la poesia e le virtù primitive”, e trovò “la sincerità, fiducia ed onestà di queste buone genti, sì nelle azioni giornaliere della vita come ne’ contratti, che degenera qualche volta in soverchia dabbenaggine e semplicità”, nota Fortis nel suo libro “Viaggio in Dalmazia”, pubblicato nel 1745.

Fu durante quell’avventura che Fortis scoprì quella che lui chiamava una “ballata morlacca”, conosciuta in seguito come Hasanaginica, e la pubblicò nel suo libro, simultaneamente in italiano e in serbo-croato.
La ballata racconta che Hasan-aga Arapovic, mentre giaceva ferito in seguito a una battaglia, chiamò sua moglie affinché andasse a fargli visita nel campo. Anche se tormentata dal desiderio di vedere il marito, Hasanaginica, rispettosa delle regole della società patriarcale cui apparteneva, rimase a casa, per pudore. A quei tempi alla donna non era consentito mostrare i propri sentimenti per il marito, né le era permesso uscire di casa. Profondamente irritato e indispettito, Hasan-aga invia alla moglie un messaggio ordinandole di lasciare il castello, ma senza portare con sé i loro cinque figlioletti, di cui uno in culla. Il fratello Pintorović- bey la conduce allora a casa dai genitori, a Klis, e si affretta a fare risposare la sorella con un ricco cadì. Hasan aga, guarito, torna al castello ma per orgoglio non vuole ammettere di aver sbagliato. Lei, invano, supplica il fratello di non darla in sposa a un altro. Come ultimo desiderio, prima delle nozze, Hasanaginica chiede al fratello di coprirla con un lungo velo in modo da non poter vedere i propri figli nel passare davanti al castello di Hasan-aga. Ma i suoi figli la vedono, la chiamano, il corteo nuziale si ferma, lei vuole baciare per l’ultima volta i suoi bambini, ma le si spezza il cuore e muore.

Dopo la pubblicazione, la ballata ebbe un successo istantaneo. Tale entusiastico interesse può essere paragonato a un moderno “best seller”. Alcuni grandi letterati dell’epoca ne furono impressionati. In tedesco l’ha tradotta Goethe, in inglese Scott, in russo Puskin e poi Anna Achmatova e Lermontov, Mickiewicz, in francese Mérimée.

Ancora oggi si discute sul fatto se la ballata sia una finzione poetica, oppure basata su eventi reali. Di preciso si sa che i principali personaggi sono realmente esistiti. La Hasanaginica, cioè Fatima, e suo fratello appartenevano alla nobile famiglia bosniaca dei Pintorovic. Le proprietà dei bey Pintorovic, nei pressi di Imotski, dopo la cacciata dei turchi passarono ai frati francescani che vi costruirono un monastero. La tomba di Hasanaginica si trova a sud-ovest del Lago Blu. Hasan Arapovic, è stato ucciso alla fine della guerra di Candia (Creta) nel 1669. La vicenda si è svolta a Vrdol che una volta apparteneva alla Bosnia (oggi Zagvozd), vicino alla montagna Biokovo dove Hasan-aga Arapovic aveva un latifondo. Le rovine delle torri di Hasan-aga esistono ancora e i suoi discendenti si possono individuare tutt’oggi.

Uno dei misteri ancora irrisolti è il vero significato del termine “morlacchi” (morlak). Fortis l’ha usato per distinguere il popolo che abitava nell’entroterra dalmata dalla gente che viveva sulla costa. Morlacchi oppure “mavrovlachos”, “karavlah”, “crni vlah”, “karagounides” o “crnogunjci”, tutti questi termini si riferiscono ai valacchi, provenienti dai Balcani orientali che, fuggendo dai turchi, si erano stabiliti nell’entroterra dalmata. Secondo una versione il nome deriva dal fatto che portavano dei mantelli neri.

A causa dei loro metodi crudeli e dei combattimenti irregolari, i Morlacchi erano considerati un popolo primitivo e spietato. Mi ricordo, da piccola, quando volevano spaventarci, gli adulti ci minacciavano con i caravlasi.

Questa percezione sui Morlacchi, Fortis non la conferma nel suo libro. Egli scrive che “sono per la maggior parte di maniere dolci, rispettosi, docili; quelli di Vergoraz aspri, alteri, audaci, intraprendenti.” “I Morlacchi riescono in ogni sorta di ingegno. Nel mestiere dell’armi, quando sono ben diretti, prestano un ottimo servigio.”
Riguardo poi al valore forte e sacro dell’amicizia presso i Morlacchi, il Fortis, assistendo a una cerimonia tra due fanciulle davanti all’altare e alla presenza di tutto il popolo, scrive: “La contentezza, che trapelava dagli occhi loro, dopo d’aver stretto quel sacro legame, provava agli astanti quanta delicatezza di sentimento possa allignare nell’anime non formate o, per meglio dire, non corrotte dalla società, che noi chiamiamo colta”.

Nel corso del diciannovesimo e ventesimo secolo il nome “morlacchi” sarebbe caduto in disuso. È plausibile sostenere che, come popolo, sono stati riclassificati in base alle denominazioni nazionali più persuasive.

L’intreccio tra realtà e fantasia, lo scontro tra il dovere e l’amore, l’impossibilità di conciliare le regole sociali e la passione intima, un insieme di personaggi veri e di popoli sconosciuti o scomparsi, l’innocenza e l’ingiustizia, tutto questo rende la Hasanaginica, ancora dopo tre secoli, affascinante. La drammatica storia piena di grandi passioni d’amore e di dolore, l’obbedienza, l’orgoglio e la vergogna, è servita da pretesto per una serie di drammatizzazioni. In Serbia, Croazia e Bosnia sono stati fatti due film, tre testi teatrali, e la ballata servì come libretto per la prima opera lirica bosniaca.

Leggere i versi di “Hasanaginica” per me è come guardare delle fotografie. Sono tantissimi gli Hasan-aga che vedo intorno a me tra i vicini, gli amici, i cugini. C’è una somiglianza incredibile, anzi sembrano specchiarsi a vicenda. Sono quegli uomini prijeki, si dice in Bosnia, quelli che prima distruggono e poi ci ripensano, ma orgogliosi a tal punto da rovinare se stessi e quelli che amano, piuttosto che riconoscere di aver sbagliato. Disposti a morire per una sciocchezza, in nome dell’amicizia, e per una stupidaggine capaci di ammazzarti senza pensarci due volte.

La Hasanaginica, Fatima Pintorovic Arapovic, è una delle figure più tragiche della letteratura europea. La sua personalità riunisce tutte le norme che, nei secoli, la società prescriveva alla donna: di essere una moglie fedele, una madre tenera, una che si sottomette alle esigenze e all’onore della famiglia. È proprio la sua perfezione che la mette al centro di una tragedia.

La Hasanaginica, non aveva diritto di decidere sulla sua vita. Il suo destino era nelle mani del marito e del fratello. Sono gli altri che decidono per lei, che la comandano. Il suo destino è segnato dal fatto di essere donna, non dalla sua debolezza. Mai di se stessa, sempre di qualcun altro.

In questo “mai di se stessa, sempre di qualcun altro”, si accostano la tragica sorte individuale e quella della Bosnia. Fin dall’antichità, quando la Bosnia faceva da limes, cioè da frontiera, per l’impero romano e quando il Papa nell’undicesimo secolo inviava gli emissari da Roma per mettere ordine tra i bosniaci che pregavano e praticavano la propria fede. Poi durante i 400 anni di dominazione ottomana, cui seguirono l’annessione austro-ungarica e la breve incorporazione nello stato fascista NDH degli ustascia croati, fino alle odierne pretese dei serbi e dei croati.

La Bosnia è sempre stata contesa e contestata, sempre violata, messa a ferro e fuoco per aver rifiutato di essere qualcos’altro tranne se stessa.

la confusione è precisa in amore

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di Luca Alvino

Uno dei meriti più importanti della poesia è quello di saper rendere il disordine tollerabile. Come ogni potente rappresentazione artistica, essa è capace di incastonare i sentimenti più prorompenti dell’animo umano in un’espressione formale compatibile con i tempi pacati della conoscenza. In tal modo, ha il potere di sollevare dalla quotidiana fatica del vivere, incantando i movimenti caotici del divenire e imbrigliandoli nel ritmo addomesticato dei versi. Essa proietta nella misura del metro il precipitoso fluire del pensiero, appagando così l’esigenza di coordinate stabili nel risalto conferito alla precisione lessicale, e compensando lo squilibrio della precarietà nella rassicurante liricità del canto.

«A poem is an arrest of disorder», scriveva Robert Frost, e Vittorio Lingiardi – noto psichiatra, psicoterapeuta e docente di psicologia dinamica presso l’Università di Roma – ha scelto proprio questa frase come epigrafe per il suo esordio poetico, La confusione è precisa in amore (nottetempo, 2012). In psichiatria il termine «disorder» viene utilizzato per definire una serie rilevante di disturbi psicologici e comportamentali. In generale, con esso si intende la perdita di un equilibrio in un determinato contesto socioculturale, e dunque l’alterazione di una situazione di normalità. Ripensando alla scelta della frase di Frost, dunque, l’avvicinamento alla poesia da parte di Lingiardi sembrerebbe evidenziare una sua esigenza di quell’ordine e di quella stabilità che raramente lo circondano nella sua prassi terapeutica abituale.

Pensiero ballabile: Lucio Saviani e Pasquale Panella

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Il mio amico filosofo Lucio Saviani ha pubblicato qualche tempo fa una riedizione di un libro di cui conosco bene la genealogia, il suo farsi e disfarsi. Voci di confine. Il limite e la scrittura (Moretti & Vitali). Il compositore di parole, Pasquale Panella e il musicista Gianni Bisori   a queste pagine si sono ispirati per un nuovo lavoro, Pensiero ballabile, ovvero “Tredici canzoni nuove e chiacchiera danzante intorno, da e circa le Voci che girano al limite del vivere, del pensare e dello scrivere, quindi al limite del ballo, nel libro Voci di confine di Lucio Saviani. Musiche: Gianni Bisori. Libretto e testi: Pasquale Panella”.

CONTRAPPUNTO.

LIEVI CONTRASTI D’APPARENZE

di

Lucio Saviani

 

 

 

“La mia visione è così retta,

 così pura è la mia sensazione,

 la mia conoscenza è così perfettamente completa, 

così acuta, così netta è la mia rappresentazione

 e la mia scienza è così perfetta 

che io mi comprendo dall’estremità del mondo

 fino alla mia parola silenziosa;

 e dall’informe cosa che si desidera alzandosi, 

lungo le fibre note e gli ordinati centri,

 io mi sono, io mi rispondo, io mi rispecchio e mi rifletto,

 io fremo dell’infinità degli speccbi –

 io sono di vetro”. 

P. Valéry

 

 

Guardi una persona e la vedi da parte a parte 

quasi fosse una sfera di cristallo 

che tu stesso hai appena gonfiato con un soffio.

V. Nabokov

 

 

ABISSI SUPERFICIALI

 

Dov’è più, nel fondo, la trasparenza? Il fondo può essere osservato, raggiunto soltanto grazie a un trans-, un attraverso, grazie a cui apparire, essere visto o pensato. Abita sempre dietro, o sotto; ha l’abitudine di non essere mai sottomano né a prima vista. Così il fondo è da raggiungere, svelare, avanzando o scavando. (Lo si avvicina per passione ma poi lo si tocca per disperazione. E poi qualcuno, una volta toccato il fondo, comincia a grattare…). Non è mai apparente, cioè sospetto; in due parole, è sempre “profondo”o, il che molte volte è lo stesso, “alto” (come sentimenti, i pensieri, le intenzioni). Un po’ come la verità…

Ilfondo dice allora anche la superficie, o una stratificazione di superfíci. Superficie e fondo si rendono a vicenda, uno dà conto dell’altra. E’ da questo rendere conto, ritorno redditizio, che ci si abitua a dare fondo ad ogni energia, ad ogni distanza, per “rendere” trasparente una superficie: ritorno d’immagine. Eppure fin da qui qualcosa, qualche conto, comincia a non tornare.

Trasparire è dunque “apparire, essere visibile attraverso un corpo diafano oppure translucido”. Ma già questo apparire manifesta un certo gioco di complicità, attese e tradimenti. Sentimenti, pensieri, intenzioni possono rivelarsi attraverso qualche indizio: una felicità, non detta, può trasparire dagli occhi mentre da tante parole può trasparire una noia scaltra. Ma poi, la stessa cosa si può sempre far trasparire e lasciar indovinare… Tra cose velate e rivelazioni involontarie, tra il mostrare e il nascondersi, appare a prima vista come l’antico gioco erotico della seduzione (e) della verità.

Ma allora, ciò che traspare e il trasparente? E invece no, per il momento ciò che viene alla luce, che traspare, è solo apparente (ma qui, una volta tanto l’apparente sta dietro, sul fondo, non davanti, sulla superficie). Trasparente è invece un corpo o un mezzo (una superficie) che si lascia attraversare dai raggi della luce: a volte si può dire anche del cielo, o di un colore che non abbia corpo. Addirittura si può parlare, in modo trasparente: si lascia intuire (trasparire) il vero  significato di un sentimento, di un pensiero, di una intenzione senza rivelarli esplicitamente. Si può cioè parlare esponendo, contemporaneamente, la filigrana del discorso. In effetti, più che con le parole, la trasparenza ha a che vedere con l’occhio: guardare in controluce ponendo la superficie tra l’occhio e, nel fondo,`la sorgente di luce.

Un aspetto curioso della trasparenza viene qui a chiarire, ma per poi complicarlo molto, il discorso sullo sguardo: “trasparente” è il nome di un elemento tipico dell’architettura barocca, che consiste in un diaframma (che può essere un inestricabile intarsio di marmi, bronzi, balconi e capitelli come nella cattedrale di Toledo) dall’esuberante decorazione che ha la funzione di far trasparire in modo surreale, tra la navata e il coro, l’altare. Dunque, ancora una volta, stratificazioni di superfici e lì, nel fondo, traspare la Verità.

Ad ogni modo, in un rapporto meno stratificato di sguardi, la trasparenza rimane soprattutto questione di limite e di superficie: in un corpo trasparente, proprio grazie alla trasparenza, “sono individuabili due superfici limite, una di entrata, l’altra di uscita. La trasparenza del corpo sarà maggiore o minore secondo che sia maggiore o minore il rapporto tra la luce uscente e la luce entrante”. Dunque, all’interno della stessa superficie, traspaiono ora due superfici limite: di nuovo, per incanto, una stratificazione.

Si ritorna, così, al fondo; e a quel ritorno redditizio, di immagine, da cui parte quel lavoro incessante, quella passione e quell’oscuro desiderio di “rendere” chiara, trasparente, ogni superficie.

E’ probabilmente da questo fondo che traspaiono le ragioni autentiche di un fallimento. L’utopia occidentale dell’assoluta “autotrasparenza”,  dal programma hegeliano della realizzazione dello spirito assoluto, della piena autotrasparenza della ragione, all’Aufklärung – in tutte le sue direzioni: condizione emancipata e disalienata dell’uomo, annullamento del limite tra teoria e prassi, dell’intervallo tra fatto e valore – ha scoperto  l’impossibilità della propria definitiva realizzazione proprio nella società contemporanea in cui, paradossalmente, la tecnologia sembra da una parte rendere possibile il “punto di vista di un soggetto centrale” – la trasparenza di una storia universale – costituendo invece, per una sorta di entropia, una moltiplicazione e stratificazione di centri di storia, cioè di sguardo e di discorso. Probabilmente “autotrasparenza” (trasparenza da sé) è un termine paradossale: sembra incantarsi, cioè sospendersi, l’eterno gioco di fondo e di superfici, quel movimento seduttivo di trasparire e lasciar apparire. Sembra ci si avvicini, invece, a un fondo senza superfici e dunque anche senza fondo. Avvicinarsi sembra anzi un falso movimento. Ciò che è in superficie è il fondo: una superficie-fondo.

L’autotrasparenza è dunque l’ideale che sottende alla fatica di “rendere” trasparente ogni superficie (limite, schermo, filtro) e di raffinare, illuminare, assottigliare ogni opacità.

L’ideale di una superficie-fondo in cui il limite tra ciò che lascia apparire e ciò che traspare non si dia più.

 

SIPARI FONDALI. DI LÀ DAL VETRO

 

Se dallo sfondo viene emergendo come ragione di fallimento e di caduta, l’ideale dell’autotrasparcnza appare in superficie, in tutta evidenza, nelle ben diverse sembianze della perfetta trasparenza. La trasparenza perfetta rimane infatti  l’estrema luce di quel limite che si tende a far svanire: il fondo ri-esce visibile attraverso una superficie che “renda” tutto del fondo, ma che resista in quanto superficie. Ad essere trasparente rimane sempre la sola superficie, ma così essenziale al fondo stesso.

Questa idea di perfetta trasparenza sembra intantosubito assumere, a prima vista, due sembianze e prendere due direzioni diverse: la sovrapposizione (più che l’illuminazione e il rischiaramento) e la seduzione. La sovrapposizione (ancora stratificazione) di una superficie trasparente ad un’altra superficie che diventi fondo appare immediatamente poggiata su di un discorso di utilizzabilità (l’unico, pare, praticabile). Perché, infatti, far aderire una superficie perfettamente trasparente su di un’altra? E poi, quale può essere la sua funzione?

L’uso del trasparente appare troppo comune per non pensare ad un lavoro di schermatura, difesa, protezione; ri-paro e custodia per ciò che, di sotto, appare. Dalle vetrine dei negozi, dei mobili, delle sale di esposizione alle veline e alle sovraccoperte trasparenti dei libri, al vetro o al cellophane per alimenti si evidenzia (così come si usa evidenziare, per frammenti, un discorso fra le righe tramite tratti di colore trasparente) una cura, un’attenzione tutta tesa a preservare una integrità, purezza e pulizia. (A loro volta queste superfici sono sempre minacciate dalla polvere che, a strati, attenta alla trasparenza – esibita spesso anche come pulizia. Insomma, vanno curate e lucidate). Nitore, pulizia e integrità restano in primo piano anche nell’uso di lucidi, veline e trasferibili per ricalcare un disegno, in particolare frammenti e mancanze – come nei rilievi archeologici.

La vita stessa può entrare tutta in una sfera di cristallo in cui pochi occhi, purtroppo, riescono a intravedere gli oscuri percorsi del destino e del futuro. Quando invece interessa guardare attenti nelle oscurità e tra le veline del presente e del passato (le cataratte del potere o i suoi fantasmi, trasparenti e invisibili) è la politica a mostrarsi cristallina, pulita, trasparente, dallo sguardo lucido e dai Palazzi di Vetro. Qui le idee, i programmi e i discorsi si propongono chiari nella sostanza e trasparenti nella forma, come in quei souvenir in cui entrano città da ammirare e capovolgere o come, ancora meglio, negli oggettini di vetro soffiato, fatti solo d’aria e di superficie trasparente. Invece della materia oscura, il “soffio creatore” modella ora il vetro, l’aria stessa sembra coprirsi di vetro assumendo forme precise: pensieri soffiati, idee divenute cristallo fragile (La fragilità diventa poi fatalità quando si pensa alle bolle di sapone…). Insomma, la politica diventa trasparente per chi “non ha nulla da nascondere”, per chi non prevede doppiezze e occultamenti (Il doppio fondo rimane sempre cosa da ladri, illusionisti e contrabbandieri: inganno e custodia di refurtiva. Hanno molto successo, intanto, quegli orologi da polso il cui vetro non protegge più il fondo-quadrante ma lascia trasparire, come la sabbia nella clessidra, tutta la verità degli ingranaggi e dei meccanismi…). Ma c’è un’occasione, niente affatto rara, in cui la trasparenza come sovrapposizione di superfici si incontra con l’altro sembiante, la seduzione (di nuovo, l’eterno gioco assenza/presenza: del resto, cos’è la seduzione se non il lasciarsi desiderare e, contemporaneamente, sviare, allontanare e confondere?), l’altra delle due direzioni che, a prima vista, l’idea di perfetta trasparenza sembrava andare assumendo.

Nell’uso di tessuti trasparenti, o di un complicato gioco di aderenze, velature e trasparenze (di nuovo, la pelle-superficie diventa sfondo) l’assenza/presenza, il mostrarsi e il ritrarsi diventano la verità di un corpo che si racconta (contro la nuda, carnale verità della pelle). Qui, nel gioco di assenza e presenza in cui ci attira la trasparenza, le due (a prima vista) direzioni della sovrapposizione e della seduzione rivelano invece un unico senso. E questo si fa evidente in uno strano, ma decisivo, differimento di senso: dallo schermo/riparo allo schermo/sipario. In realtà è proprio lo schermo che, qui, diventa centrale e su cui si proietta tutto il discorso sulla trasparenza, perfetta e seducente: da scudo, ostacolo, filtro lo schermo diventa ora tramite trasparente, una leggera e consistente barriera trasparente, (come un sipario sempre calato ma allo stesso tempo sempre aperto).

Nella “civiltà del plexiglas” lo schermo è il vetro del televisore, del monitor, di un microscopio, oppure il telone di proiezione al cinema, ma è anche il vetro dell’obiettivo fotografico (le diapositive, le loro immagini e poi le pellicole trasparenti del “mondo della celluloide”), la lastra di una radiografia (trasparenza compiuta?) e, perché no, i finestrini di un treno o di un pullman per viaggi organizzati. Lo schermo trasparente è schermo proprio in quanto nello stesso tempo avvicina e separa, rende visibile e irraggiungibile, allontana un  mondo proprio mentre rende una visione ben chiara, se non familiare e quotidiana: appunto il darsi/celarsi di un mondo. Il plexiglas permette di instaurare un rapporto con le cose fondato sulla familiarità con l’intangibile, sull’avvicinare contemporaneamente mondi lontanissimi con particolari effetti (transfert) sulla nostra percezione del tempo e dello spazio, del nostro desiderio e del suo dileguarsi.

(A volte basta sfiorare uno schermo con un dito che si aprono davanti agli occhi orizzonti fantastici e mondi remoti). Probabilmente è per questo che il vetro che protegge la Pietà in San Pietro o il Papa durante le uscite in automobile bianca,più che sicurezza e custodia sembra riflettere questo particolare movimento di avvicinamento e separazione, familiarità e distanza nei confronti di un altro mondo, quale è la dimensione del sacro.

Ad ogni buon conto, per il plexiglas, schermo trasparente, il riflesso fa problema proprio come l’opacità e la polvere: nei vetri antiriflesso per quadro e dei più recenti televisori, nella cura per la massima trasparenza dello schermo, traspare il conflittuale rapporto tra sguardo e specchio (Sono speculari, in questo caso, da una parte il riflesso curioso di una vetrina che mostra l’interno ma anche l’altrettanto curioso sguardo del passante, oppure la fastidiosa attrazione di un paio di occhiali a specchio; dall’altra, l’imbarazzo e l’inquietudine che suscita l’attore che “guarda la in camera”). L’ “anima maledetta”, così superficiale e non trasparente, degli specchi rende, più che lo sfondo, una profondità che ritorna alle spalle di chi guarda: di nuovo, ma in un senso pervertito, un ritorno d’immagine (ai luna park, di paura si ride molto di più nei labirinti di specchi che non in quelli di semplici vetri trasparenti … ).

Ma anche qui, allo specchio, arriva un’occasione di incontro, ancora una volta, tra schermo, trasparenza e protezione. La scena è quella di un individuo, abbastanza sospetto, che parla davanti a uno specchio rivelando particolari, forse confessando senza saperlo. Dietro lo specchio, finto, al riparo di una trasparenza il testimone oculare si schermisce, vede e ascolta, non visto, l’individuo da riconoscere…

Dell’antico e innocente gioco della verità e del mondo, dell’apparire e del nascondersi, rimane un superficiale inganno. E, più in là, sullo sfondo, un criminale sospetto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Annave va

3

di
Anna Maria Papi

Golette e velieri, Billy Budd, Benito Cereno, Lord Jim, Joseph Conrad, Herman Melville, fino alla leggenda dentro la leggenda: Sinbad il marinaio, il Flyng Dutchman, e poi la realtà contemporanea; il Titanic, Andrea Doria, il Flyng Enterprise. Le guerre non contano. Ma chi ha detto: “E naufragar m’è dolce in questo mare…” Poeti, poeti, i poeti non contano. Neanche Ulisse conta, un addict del naufragio (zattera), naufragi a puri scopi sessuali. Vent’anni di naufragi pur di non tornare a casa, pur di giacersi con maghe, circi, calipse, nausiche verginali , matrone, veggenti e servette , – un latin lover – che appena ha cominciato a perdere colpi, a battere in testa, ha di colpo ritrovato la strada marina per Itaca, senza spettacolo, liscio liscio, ed eroe per burletta, (ma loro lo credevano eroe) si è riaffondato nell’innaufragabile Penelope mater e magistra ( l’enciclica non c’entra) che lo ha unto e bisunto per la millesima volta e se lo è stravolto che dire allo stralunar di pizzi e ciondoli di veli, i fioretti assaettati negli arrembaggi, ed in salto mortale nella scialuppa strabordante nei flutti, la Lei di Lui, irreversibilmente figlia del suo peggior nemico e per cui lasciata al suo destino, il cuore del Corsaro spezzato, ma neanche un fremere di ciglia.

E cosa poteva fare Shelley, romantico poeta inglese, se non naufragare con un barchino a vela nelle pacifiche acque davanti a un punto imprecisato tra Lerici e Viareggio? Povero Percy Bysshe Shelley, hai fatto persino finta di non saper nuotare, pur di essere immortale e diafano in quella sublime tragicomica performance, “affogato per naufragio barchino – categoria n 1 – con un supplemento categoria semilusso, riservata ai poeti. Puah “ (dal registro delle guardie di Viareggio) .
Ma le stupende carene dei naufragatori solitari, reclinate su un fianco di tropicali isole sconosciute, già aride di sole e di salmastro, depredate dei loro smilzi forzieri, e con il capitano che sembra l’uomo Camel, – levigati e sbiancati tra succo di mango, ananasso, cocco, stravaccati nelle rudimentali amache, in attesa di chissà cosa, forse di nulla: lì lo spettacolo ha del magico perché è offerto solo a loro stessi e neanche, – è un travalicare orizzonti e circostanze: forse bastava che Billy Budd ammainasse i parrocchetti, che la randa fosse sottratta al vento, ed il timone facesse un “avanti tutta” e perché no, un’“operazione uomo a mare”, e il semicerchio, puntuale, avrebbe evitato gli scogli. Ma perché poi evitarli, “in questa rotta sempre uguale, con questa noia che li uccide, da Plymouth a Laggiù?” , e allora che gli scogli siano, e vediamo che effetto che fa. Effetto speciale, senz’altro, le sartie gemono sulla chiglia incastrata, l’albero di poppa spezzato denigra frinzelli di vele, a babordo sciaguatta l’impatto con improvvisati sargassi, son e lumière di barbagli di sole nel mare inferocito, e per loro le amache, il cocco…

I Fenici naufragarono quel tanto che è bastato per ritrovare le loro navi intatte sui fondali tremila anni dopo, e ricostruire così gran parte della loro storia. Erano dei computer della marineria, tecnici insuperabili nella levigatura delle fiancate e nella calibratura del peso degli scafi: arrivavano dovunque con quel loro remare a singhiozzo scadenzato, e se proprio gli andava male si inabissavano senza strapazzi in un lento e bollicinoso gorgogliare di marosi interni trasparenti, anche se occhio umano non vide il superbo palcoscenico che assecondava il loro calare, calare, calare, rendeva lo show un kolossal senza biglietto e senza spettatori.
E i grandi naufragi nelle battaglie di mare? Spettacolari ma non spettacoli, in quanto esperienze collettive senza genialità.
E la piroga che sprofonda nelle rapide senza più riaffiorare? My God, che noia questi indigeni senza storia né futuro, che si inabissano, che spariscono, con la nostra benedizione.
E naufragar m’è dolce in questo mare. Poeti. Che non hanno mai visto l’acqua. Che sospirano alla silenziosa luna, “Conobbi il tremolar della marina”. Poeti. Ma questi poeti, tutti rappresentati dal bravo Percy Bysshe che naufragò davvero per salvare la faccia, che ci hanno dato ? “Soltanto questo: noi possiamo dirvi ciò che non siamo ciò che non sappiamo”. Gli è sfuggita ma aveva ragione. Poteva naufragare, come ha fatto, carico dei suoi inopportuni Nobel che non voleva, in tutta calma il genovese Montale, il cui padre vendeva sartie e cordami. Un Video Game antesignano del maroso che inghiotte.

Per le navi di Anna Maria Papi ( effeffe e soldatoblu )

“Quando poi naviga al largo, quasi scomparso lo scafo sotto la linea dell’orizzonte e appena visibili i tre fumaioli, più d’uno che dalla costa guarda sul mare si domanda se la nave si diriga al porto o s’immerga in una solitudine che l’uomo sulla riva non potrà mai concepire. Quando poi constata che fa rotta verso la costa, allora ognuno si conforta, come se quella nave gli portasse quel che ha di più caro o almeno una lettera da lungo tempo inconsciamente attesa. Talvolta laggiù, nella chiara nebbia del confine, due navi s’incontrano, e si vedono passar scivolando l’una accanto all’altra. C’è un attimo in cui i due fragili profili si fondono e diventano una cosa sola, un attimo di fragile sublimità, finché tornano dolcemente a staccarsi, dolci e silenziosi come la nebbia lontana dove avviene l’incontro, e ognuno per sé continua a scivolar solo per la sua strada.
Dolce, non mai adempiuta speranza.”

da Hermann Broch, I sonnambuli.vol 2, Esch o l’anarchia

L’editoria fra cartaceo e digitale: i numeri e le ragioni di una crisi

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Gino Roncaglia

Venerdì scorso, nella sala monumentale della Biblioteca Casanatense di Roma, Gian Arturo Ferrari – Presidente del Centro per il libro e la lettura – ha presentato i dati del rapporto L’Italia dei libri realizzato da Nielsen Company e relativo al periodo ottobre 2010-dicembre 2011. Una sintesi dei risultati del rapporto è disponibile qui, mentre queste sono le slide utilizzate nella presentazione.

Il rapporto, basato sulle risposte di un panel di 9.000 famiglie e relativo alla fascia di età ‘over 14’, fornisce un quadro di grande interesse sulle abitudini di lettura e sull’andamento del mercato librario nel nostro paese.

Stranieri alla terra

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(è in uscita una raccolta di sette storie scritte da Filippo Tuena, Stranieri alla terra, pubblicata da Nutrimenti. L’autore ci regala qui un’anteprima. G.B.)

di Filippo Tuena

Il viaggio del motociclista
Al Palazzo delle Esposizioni

Vedi il gioco è sempre lo stesso: desiderare di essere altrove. E non te lo dico perché dove mi trovo adesso, al Palazzo delle Esposizioni, in via Nazionale, mi stia succedendo proprio questo. Te lo dico perché mi è piaciuto il concerto, mi piace la mostra. Ma le cose accadono in questa maniera: che mentre ascolto il concerto vorrei visitare la mostra e mentre visito la mostra vorrei ascoltare il concerto o vorrei che le due cose accadessero assieme. Anche se poi sono convinto che neppure questa sarebbe la soluzione e certamente troverei qualcosa d’altro da desiderare e che non riesco ad avere. Mettici poi che stiamo qui, in queste sale davanti a questi quadri che vibrano per qualcosa che non riesci ad afferrare e smettono di vibrare non appena distogli lo sguardo ma riprendono a palpitare non appena ti volti di scatto per sorprenderli e per vedere se vibrano anche quando non sono osservati così che potresti passare le ore a fissarli e a stabilire quale sia la campitura di colore che fa da base al quadro e siccome sei certo d’averla individuata stai diventando pazzo perché hai l’impressione che invece non sia quella e che il colore di fondo sia al contrario proprio quello che Rothko ha dato per ultimo. Proprio l’ultima mano, voglio dire. Ma che è quella che rivolta tutto, che mette in discussione ogni cosa.
Dico, questi dipinti di Rothko m’è capitato di vederli qualche settimana fa, in penombra, a palazzo chiuso e luci spente. Sul momento m’era sembrata una cosa curiosa, persino divertente. Sai quanto mi piace guardare i quadri senza nessuno accanto, quanto detesti le mostre e soprattutto quelli che le visitano. E poi accade che mi viene voglia di sentire il concerto di Morton Feldman, per questo sono venuto qui questa sera, perché volevo scrivere del concerto che Feldman ha scritto per la cappella dove Rothko ha messo i suoi quadri – non questi, d’accordo, quelli giusti stanno a Houston dentro la cappella.
Ma chi mai ci andrà a Houston alla Rothko Chapel? E poi fa davvero differenza un quadro di Rothko piuttosto che un altro? Il buio è diverso dal buio? La luce dalla luce? Il nulla dal nulla? Perché è poi questo l’argomento, inutile girarci attorno: l’argomento è il nulla e, direbbe Pinter, una volta stabilito, sarà il nulla per sempre. Anzi, Pinter dice inverno. Se l’argomento è l’inverno, sarà inverno per sempre.
Soltanto che Rothko ha scelto il nulla e nulla sia. La verità è che il nulla si espande. Sai, non c’è niente che si espande più del nulla. Così anche la musica di Feldman alla fine gira intorno al nulla. Ed era impressionante sentire quel coro e le percussioni, le tubular bells e la viola andare a limare la scorza del nulla per vedere se sotto c’era qualcosa. Ma è ovvio che sotto il nulla c’è il nulla. Nonostante il percussionista che passava da uno strumento all’altro, nonostante i cantanti che rischiavano a ogni momento di stonare tra quei semitoni e quarti di tono che accarezzavano con la voce mentre cercavano di recuperare l’intonazione con i loro diapason d’argento e ce n’era uno che se lo sbatteva sulla tempia e poi lo avvicinava all’orecchio e ancora lo sbatteva sulla tempia con un colpo secco e un movimento rapidissimo per non lasciare che la nota si spegnesse prima di riuscire ad accostare ancora una volta il diapason all’orecchio e recuperare la nota perduta. A un certo punto erano così tanti a far vibrare i diapason che il coro sembrava un cielo stellato. E che cos’è un cielo stellato se non luci che brillano sul nulla?
C’era una bella ragazza, una di quelle che illuminano una serata, proprio bella e molto elegante, che prima del concerto, mentre aspettavamo che aprissero il cancello, era sulla scalinata aspettando qualcuno. Aspettava due volte, che il cancello si aprisse e che arrivasse il suo accompagnatore. Così era doppiamente sola. Aspettava e mentre aspettava io ho provato a cercare di capire che cosa pensasse. E mi sono detto, durante il concerto non mi dimenticherò di lei, perché una ragazza così non si dimentica mica tanto facilmente. Beh, non ci crederai, ma è svanita, inghiottita da quei gesti strani dei coristi, da quei diapason che luccicavano sugli abiti neri. La musica e Rothko se la sono portata via. O si sono portati via me?
Perché sono partito anch’io in cerca di qualche nulla e mentre ero seduto ad ascoltare la musica mi sono messo a sfogliare il catalogo e m’è caduto lo sguardo su una fotografia del figlio di Rothko ritratto su una panchina del giardino zoologico di Roma nel 1966 accanto a un cucciolo di leone e proprio non ce l’ho fatta a non tornare indietro con la memoria a una mia fotografia o alla memoria di una mia fotografia da bambino su quella stessa panchina vicino a un altro animale – una scimmia piuttosto dispettosa – perché il figlio di Rothko avrà almeno dieci anni meno di me e quella fotografia è stata scattata sulla stessa panchina a dieci anni di distanza dal ricordo della mia fotografia anche se in qualche modo era la stessa immagine, quella di un bambino vicino a un cucciolo di leone o a una scimmietta anche se io ricordo che quando mi scattarono quella foto era inverno e indossavo un cappotto di cammello e mi avevano calzato un berretto di lana e invece il figlio di Rothko si trovava allo zoo d’estate ed era in maglietta e così è successo proprio quello che ti dicevo all’inizio, che ero in quel posto, nella sala circolare del Palazzo delle Esposizioni, ma che volevo essere altrove immerso in una struggente malinconia ed è stato soltanto quando ho visto quella fotografia che ho scoperto dove avrei voluto trovarmi in quel momento mentre ascoltavo la musica di Feldman, mentre avevo smesso di pensare alla bella ragazza che aveva aspettato a lungo il suo accompagnatore, mentre ricordavo i quadri di Rothko che avevo visto poche sere prima in quasi perfetta solitudine quando ancora non sapevo che sarei tornato a quella panchina, a quel freddo inverno, perché come dice Pinter, se l’argomento è l’inverno, sarà inverno per sempre.

Dislocatio [Punto di fine]

8

di Mariangela Guàtteri

<0.9>

Nuo è nel ventre malato senza la terra. sposta animine di cose. PostcardiVernissage. non ha da vedere – luoghi che hanno descritti – chiuse le stanze. senza movimento. fatica a risalire nelle vene (poche speranze appese alle pareti)

<0.8>

:-(non sono capace a nutrirmi. non mi so nutrire, forse mi nutrisco male)

non sa mangiare

Poesie # 2

6

di Franco Buffoni

Avrei detto “Quo vadis?”

Avrei detto “Quo vadis?” al mio amico
Che aveva fatto la seconda media,
Io che venivo dalla prima
Appena cominciate le vacanze
All’albergo delle alpi,
E appena l’avessi visto.
Glielo avrei detto sulla porta
Pronto a balzare fuori,
Era da marzo che ci pensavo,
Forse da febbraio
Dopo la terza declinazione.

CHARLES DICKENS [1812-2012] Lento, grave, silenzioso, s’accostò il fantasma.

1

OLIVER TWIST Fred Barnard [ 1875 ]
Per favore, Signore, posso averne un’altra pochina?

di Orsola Puecher

 
Da quasi due secoli, sopravvivendo a traduzioni in tutte le lingue e persino a quelle riduzioni ad usum Delphini che una volta si regalavano ai fanciulli, i personaggi dei romanzi di Charles Dickens, archetipi di qualità e difetti molto umani, infestano amabilmente il suo variegato e vastissimo pubblico di grandi e piccini, lettori semplici o raffinati esegeti che siano. In un alone di mestizia e monito etico, che nemmeno il canonico, ma sempre travagliato, lieto fine riesce a cancellare, ecco allora Oliver Twist venduto dal direttore dell’orfanatrofio all’impresario di pompe funebri Mr. Sowerberry per aver osato chiedere ancora un po’ di minestra, e messo a dormire nel sotterraneo popolato di bare scoperchiate. Ecco il piccolo David Copperfield staffilato ingiustamente dal patrigno Mr. Murdstone, ed ecco la silenziosa e tenace Amy Dorrit nata alla Marshalsea, la prigione dei debitori, mai tanto minacciosa come negli odierni tempi di crisi, nel suo accidentato percorso di riscatto sociale. E in quale epoca non c’è un qualche Mr. Merdle, nome omen, affarista truffatore che trascina tutti nella sua rovina finanziaria? O un avaro Scrooge con il suo insperato emendarsi in una notte? Insieme al fantasma lento, grave, silenzioso di Cantico di Natale, che sporge la sua mano cerea dal manto nero, sfilano come spiriti di un epoca senza tempo cattivi d’elezione e orfanelli maltrattati, comprimari tratteggiati con ironia, figurine ad acquerello di una lanterna magica, tremolanti e vive, ad accrescere e insieme esorcizzare la paura dell’abbandono, la crudeltà delle ingiustizie e i rovesci della sorte che insidiano tutti i destini. Per l’orfano di qualsiasi cosa che si nasconde in ognuno di noi, non possiamo non dirci dickensiani. Nel bene e nel male.
 
Quel Dickens verso cui ammette un profondo debito letterario anche un altro suo piccolo lettore:

Franz Kafka
DIARI
8 ottobre 1917 [800-840]

 
L’ammirazione è un termine di confronto: per Kafka è un modello inarrivabile la macchina romanzesca dickensiana, la struttura, che però quando sembra andare con il pilota automatico della convenzione, si rivela crudele dietro la maschera del sentimentalismo traboccante, e quindi è da superare. L’epigonismo, in cui Kafka si classifica con estrema chiarezza critica, deve riuscire a oltrepassare, a scardinare, a rendere diversa la struttura della trama con le luci taglienti della sua epoca. Bisogna far saltare con le mine dell’inconscio i massi di rozza caratterizzazione di Dickens. Ma insieme Kafka nota quanto la concretezza sfumi nell’uso di metafore astratte: la fervida gotica immaginazione di Charles Dickens si scontra suo malgrado continuamente con l’aspirazione a uniformarsi al realismo vittoriano e agli stilemi dell’epoca. Dei suoi romanzi la dark side è quella che resta più efficacemente impressa e le situazioni penose e oscure finiscono per avere il sopravvento su ogni soluzione di happy end.
In Kafka il processo avviene in senso inverso: il realismo delle descrizioni sconfina volontariamente nell’immaginario, reso verosimile dalla loro minuziosa esattezza che riesce a renderlo reale agli occhi del lettore. La realtà ha improvvisi scarti e il passaggio di stato è magistralmente, dickensianamente, costruito.
Nell’incipit del Il fuochista il lento avvicinarsi della nave, il delinarsi della Statua della Libertà che brandisce una spada, torreggiando minacciosa come una divinità guerriera dell’ostile metaforico Nuovo Mondo, si discosta e scarta senza alcuno sforzo dalla verità oggettiva del placido simbolo della democrazia americana, che in realtà brandisce invece una illuministica e prosaica fiaccola.
 

Quando il sedicenne Carlo Rossmann, mandato in America dai suoi poveri genitori dopo che una domestica lo aveva sedotto e gli aveva messo al mondo un figlio, a bordo della nave che avanzava a piccola forza entrò nel porto di New York, pensò che la statua della Libertà, già da un pezzo visibile, splendesse sotto una luce più intensa. Il braccio che brandisce la spada sembrava essersi appena alzato, intorno alla figura spiravano fresche correnti.
“Com’è alta!” fece tra sé, mentre la folla dei facchini, che passavano sempre più numerosi, sebbene lui non volesse muoversi,finiva con lo spingerlo contro il parapetto.

IL FUOCHISTA
Un frammento [ 1913 ]

 
In Cantico di Natale, un Natale che Dickens rivendica come momento sociale in cui lo spirito capitalista di utilitarismo si fa da parte, con l’utopia di fondare le relazioni sociali sull’etica dell’amore e non del danaro e del profitto, c’è un perfetto compendio dei motivi e dello stile dickensiano. Si possono immaginare i caseggiati londinesi giocare a nascondino in una loro fantasiosa infanzia edile, vedere seduto nella nebbia british il Genio dell’inverno assorto in una lugubre meditazione e dal momento in cui il picchiotto della porta della casa di Scrooge si trasforma nel viso del defunto socio, il mistero dilaga e la realtà non ha più pace e confini definiti. Il tutto sempre con una scrittura moderna, veloce, con frasi e paragrafi brevi, che non indugia in descrizioni prolisse, e una lingua diretta: ironica, colloquiale ma drammatica quando serve.
 

BENJAMIN BRITTEN A Ceremony of Carols
In Freezing Winter Night

 

 

Cantico di Natale [ 1843 ]

PREFACE
I have endeavoured in this Ghostly little book, to raise the Ghost of an Idea, which shall not put my readers out of humour with themselves, with each other, with the season, or with me. May it haunt their houses pleasantly, and no one wish to lay it.
Their faithful Friend and Servant,
C. D.
December, 1843.

PREFAZIONE
Ho tentato in questo libretto spettrale, di risvegliare lo Spirito di un’idea, che non metterà di cattivo umore i miei lettori verso se stessi, gli uni verso gli altri, verso il tempo o verso di me, Che possa infestare le loro case amabilmente, e che nessuno desideri cacciarlo.
Il loro fedele amico e servitore.
C. D.
Dicembre 1843

BENJAMIN BRITTEN A Ceremony of Carols
Wolcum Yole

 

The Morgan Online Ehxibitions [ pag. 8 ]

da Stave 1: Marley’s Ghost


Stave 1: Marley’s Ghost
Scrooge took his melancholy dinner in his usual melancholy tavern; and having read all the newspapers, and beguiled the rest of the evening with his banker’s-book, went home to bed. He lived in chambers which had once belonged to his deceased partner. They were a gloomy suite of rooms, in a lowering pile of building up a yard, where it had so little business to be, that one could scarcely help fancying it must have run there when it was a young house, playing at hide-and-seek with other houses, and forgotten the way out again. It was old enough now, and dreary enough, for nobody lived in it but Scrooge, the other rooms being all let out as offices. The yard was so dark that even Scrooge, who knew its every stone, was fain to grope with his hands. The fog and frost so hung about the black old gateway of the house, that it seemed as if the Genius of the Weather sat in mournful meditation on the threshold.
Now, it is a fact, that there was nothing at all particular about the knocker on the door, except that it was very large. It is also a fact, that Scrooge had seen it, night and morning, during his whole residence in that place; also that Scrooge had as little of what is called fancy about him as any man in the city of London, even including — which is a bold word — the corporation, aldermen, and livery. Let it also be borne in mind that Scrooge had not bestowed one thought on Marley, since his last mention of his seven years’ dead partner that afternoon. And then let any man explain to me, if he can, how it happened that Scrooge, having his key in the lock of the door, saw in the knocker, without its undergoing any intermediate process of change — not a knocker, but Marley’s face.


Stanza I: Lo spirito di Marley
Scrooge fece il suo malinconico desinare nell’usata malinconica osteria. Dié una scorsa a tutti i giornali e si sprofondò nel suo squarcetto, ammazzò la serata e si avviò a casa per mettersi a letto. Abitava un quartiere, o meglio una sfilata di stanze, già un tempo proprietà del socio defunto, in un vecchio e bieco caseggiato che si nascondeva in fondo ad un chiassuolo. Davvero, quel caseggiato in quel posto non si sapeva che vi stesse a fare: si pensava, mal proprio grado, che da bambino, facendo a rimpietterelli con altre case, si fosse rincattucciato lì e non avesse più saputo venirne fuori. Oramai s’era fatto vecchio ed arcigno. Non ci abitava che Scrooge: tutte le altre stanze erano date via in fitto per studi di commercio. Era così buio il chiassuolo, che lo stesso Scrooge, pur conoscendolo pietra per pietra, vi brancolava.. La nebbia incombeva così spessa davanti alla porta scura della casa, da far credere che il Genio dell’inverno stesse lì a sedere sulla soglia, assorto in una lugubre meditazione.
Ora, certo è che il picchiotto della porta, oltre ad essere massiccio, non aveva in sé niente di speciale. È anche certo che Scrooge, da che abitava lì, l’aveva visto mattina e sera; E lo stesso Scrooge, inoltre, era dotato di così temperata fantasia quanto alcun’altra persona nella City di Londra, compresi, con rispetto parlando, tutti i membri del corpo municipale. Si badi altresì a questo che Scrooge non aveva pensato un sol momento a Marley, dopo averne ricordato la morte, quel giorno stesso avvenuta sette anni addietro. E dopo di ciò, mi spieghi chi vuole come seguisse che Scrooge, ficcata che ebbe la chiave nella toppa, vide nel picchiotto, da un momento all’altro, non più un picchiotto, ma il viso di Marley

 
 
 
da ⇨ A CHRISTMAS CAROL [1910] di J. Searle Dawley per Edison Manufacturing Company

Marley’s face. It was not in impenetrable shadow as the other objects in the yard were, but had a dismal light about it, like a bad lobster in a dark cellar. It was not angry or ferocious, but looked at Scrooge as Marley used to look: with ghostly spectacles turned up on its ghostly forehead. The hair was curiously stirred, as if by breath or hot air; and, though the eyes were wide open, they were perfectly motionless. That, and its livid colour, made it horrible; but its horror seemed to be in spite of the face and beyond its control, rather than a part or its own expression.
As Scrooge looked fixedly at this phenomenon, it was a knocker again.
To say that he was not startled, or that his blood was not conscious of a terrible sensation to which it had been a stranger from infancy, would be untrue. But he put his hand upon the key he had relinquished, turned it sturdily, walked in, and lighted his candle.

Il viso di Marley. Non avvolgevasi già, come ogni altra cosa intorno, nell’ombra fitta; anzi raggiava un certo bagliore livido come un gambero andato a male in un oscuro ripostiglio. Non era crucciato o feroce; fissava Scrooge come Marley soleva fare, e lo fissava con occhiali da spettro alzati sopra una fronte da spettro. I capelli sollevavansi stranamente quasi mossi da un soffio o da un’aria calda; gli occhi, benché sbarrati, erano immobili; la faccia livida. Una cosa orrenda: se non che l’orrore era estraneo all’espressione di quel viso e in certo modo gli era imposto.
Scrooge si fermò e stette a guardare il fenomeno. Il picchiotto tornò ad esser picchiotto.
Non si può dire ch’egli non trasalisse e che il sangue non gli desse un tuffo, come non gli era mai avvenuto. Nondimeno riafferrò la chiave, che aveva lasciato un momento, la girò con forza, entrò e accese la candela.

John Leech [1843]

BENJAMIN BRITTEN A Ceremony of Carols
Interlude for Harp Solo

Stave IV: The Last of the Spirits
Th Phantom slowly, gravely, silently approached. When it came, Scrooge bent down upon his knee; for in the very air through which this Spirit moved it seemed to scatter gloom and mystery.
It was shrouded in a deep black garment, which concealed its head, its face, its form, and left nothing of it visible save one outstretched hand. But for this it would have been difficult to detach its figure from the night, and separate it from the darkness by which it was surrounded.
He felt that it was tall and stately when it came beside him, and that its mysterious presence filled him with a solemn dread. He knew no more, for the Spirit neither spoke nor moved.

Stanza IV: L’ultimo degli Spiriti
Lento, grave, silenzioso, s’accostò il fantasma. Scrooge, in vederselo davanti, cadde in ginocchio, perché in verità questo degli Spiriti era circonfuso di ombra e di mistero.
Un nero paludamento lo avvolgeva tutto, nascondendogli il capo, la faccia, ogni forma: solo una mano distesa sporgeva. Senza di ciò, sarebbe stato difficile discernere la cupa figura dalla notte, separarla dalle tenebre che la stringevano.
Sentì Scrooge che lo Spirito era alto e forte, sentì che la misteriosa presenza gl’incuteva un terrore solenne. Non sapeva altro, perché lo Spirito era muto e immobile.

“Cantico di Natale” di Charles Dickens
traduzione di ⇨ Federigo Verdinois
Ulrico Hoepli, 1888

Come è bella la città

1

INVITO PER L’INCONTRO
Come è bella la città
costruire, distruggere, conservare

Ancora una volta Milano sa cambiando faccia, cercando di tenersi al passo del mutamento globale, e ancora una volta è un esempio e un modello, sia in positivo che in negativo, per l’intera nazione. Ciò che accade oggi a Milano accadrà domani, inevitabilmente, in tutta Italia.

Le città vivono nel loro continuo mutare e nella capacità di assorbire il passato, rivitalizzandolo. Così, nella dialettica fra Storia e Contemporaneità, si definisce l’identità di un luogo e il suo destino. È nella metropoli che temi all’apparenza contrastanti, desueti o lontani fra loro – l’economia, l’estetica, la democrazia – si fanno corpo vivo, spazio sia di contraddizione che di partecipazione democratica.

Saper costruire le città, immaginarne il futuro, progettarle come luogo condiviso è il dovere della politica intesa come interesse della collettività, l’inverso di tutto ciò significa sottostare alle leggi di un mero interesse privato, indifferente ai temi della emancipazione collettiva della democrazia partecipata e della bellezza diffusa.

Il comitato Area ExEnel – dopo aver aperto un dibattito sui giornali nazionali e cittadini, e nel web, e dopo l’estensione dell’appello firmato da 100 intellettuali, artisti, scrittori, architetti, imprenditori, ecc. milanesi – ha organizzato su questi temi assolutamente strategici che interessano l’intera cittadinanza un appuntamento aperto a tutti il prossimo 28 marzo.

Parteciperanno all’incontro:
Andrea Boschetti, architetto e urbanista, responsabile scientifico del nuovo PGT milanese.
Luca Molinari, architetto, curatore del padiglione italiano della Biennale della architettura di Venezia 2010.
Salvatore Settis, storico dell’arte, ordinario di Archeologia classica presso la Normale di Pisa.

Coordina:
Gianni Biondillo

Mercoledì 28 Marzo alle ore 21,00
c/o Careof
Fabbrica del Vapore
Via Procaccini 4, Milano

pop muzik (everybody talk about) #16

0

Spontaneous Devotion / Random. 2007

The Betty Davis Variations (1)

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di Andrea Inglese

A 12 anni “Boy Music” (settimanale apparso nel 1979 e deceduto nel 1984) entra nella mia vita.

Vita e morte di un ingegnere

2

Edoardo Albinati, Vita e morte di un ingegnere, Mondadori 2012, pagine 150

di DaniMat

Nell’unica presentazione tollerata dal suo autore, Elisabetta Rasy ha definito Vita e morte di un ingegnere un libro perfetto. Proprio ciò che intendo scriverne io qui, con ulteriori motivazioni ma confluendo allo stesso risultato.
Intanto le notizie: questo libro fu scritto vent’anni fa da Albinati a caldo, subito dopo la morte del padre, l’ingegner Carlo, e fu un modo per congelarne la memoria (i ricordi svaporano, scrive Albinati in una delle pagine terse del libro, e dico io, scriverne vuol dire oggettivarli, metterli sotto teca, dopotutto liberarsene, come scriveva Yourcenar, e poi dopotutto superarli, ricominciare a vivere oltre il limite/soglia che essi ci marcano lungo il cammino).
Scrisse questo libro, Albinati, per venire a capo della morte come fatto inevitabile dunque come nodo di vita, e per interrogare le dinamiche consuete della vita, che ci resta sempre misteriosa e poi in alcuni istanti preziosi quanto terribili ci mostra il fianco e si lascia per un bagliore almeno intuire.
Ma in fondo il vero scopo era un altro, ed era personale.
La vera necessità, l’urgenza, stava nel voler interrogare il mistero vivente che era stato sempre per Edoardo l’ingegner Carlo, a suo stesso dire (di Albinati, dico) l’affetto più prossimo e più distante della sua vita.
Cosa è dopotutto la morte del padre? È uno scatto di carriera umana.
Per riassunto e sostituzione. Quando muoiono i genitori i figli (magari già genitori a propria volta) guadagnano la prima linea, e smettono di trovar riparo, di raccontarsi alibi, devono rispondere – diventano definitivamente responsabili: se la vita li convoca e li interroga, è probabile che sapranno rispondere. Saranno i cosiddetti volontari involontari.
È un capovolgimento, una rivoluzione. Senonché Albinati, che si dichiara figlio a oltranza, patisce una inadeguatezza al ruolo, che per inevitabile che è, per ragioni storiche, forse, indica nelle generazioni di genitori nati sul finire dei Cinquanta (come Albinati) o intorno ai Sessanta e via via fin qui padri e madri che si confondono coi figli, che mancano d’autorevolezza forse ma di sicuro di autorità: è un segno dei tempi.
Con la morte dell’ingegner Albinati muore una classe di genitori, di padri soprattutto: uomini tutt’uni con la propria professione, inimmaginabili in pantofole, abbinati automaticamente con la scrivania, gli occhiali, gli strumenti professionali. Uomini poco avvezzi a una vera confidenza coi figli, così poco capaci di tenerezza o di comprensione al di fuori degli schemi narrativi codificati da rifugiarsi in una ironia spesso tagliente, involontariamente sprezzante, in sorrisi che sono paratie, pareti d’acciaio, in battute che sono spade, daghe affilate e pesanti che straziano solo i corpi dei figli, spesso di uno in particolare, il maggiore (lo scrittore Albinati nel caso), nel quale è riposto il termine di un rapporto tenuto in piedi su pali così zoppi.
Nel libro c’è stupore e rabbia.
Se penso a Affabulazione di Pasolini, a mio parere antecedente ideale di questo libro peraltro così diverso anche nel genere, rivivo lo smacco di questo dialogo impari in cui il figlio vince sul padre perché dopo tanto mancato rapporto è lui a rivendicare (accaparrandosene tutto il vantaggio) la pretesa di recuperare il discorso, e l’esigenza di puntualizzare, di fare i conti, di ribadire la giustezza della propria protesta, della propria volontà di lite, perché è lui, il figlio, ad aver patito, ad esser stato incompreso, è lui, non il padre, ad aver ricevuto poco o niente, salvo le istituzioni, cui si è puntualmente opposto allargando il solco e approfondendo il fossato – che però (accade qui per Albinati) ha anche stagliato contro il cielo il padre come splendido castello inespugnabile: una bellezza totale, prossima e inavvicinabile. Inebriante per gli occhi, bramato dal cuore e dalle braccia affamati e lasciati sempre a bocca spalancata, a stomaco vuoto: senza.
Cosa reclama il figlio? La concretezza della carnalità. L’ingresso vero nella vera Storia. L’accesso alla vita vera. Senza distanza, senza scarto.
Il padre che sorride e a volte bonariamente lo deride in pubblico irridendo il figlio è insuperabilmente tenero, specie per il bersagliamento che qui subisce senza possibilità di difesa. Il figlio è arrabbiato e non vede che lui, suo padre, lo ha guardato incessantemente, lo ha magistralmente guidato senza interferenze pesanti, come a volte i padri fanno quando sono padri violenti e invadenti. È stato maestro pur senza premere sul pedale della vantaggiosa superiorità, e gli ha offerto tutto quel che poteva offrirgli: un modello. Il figlio sente un bruciante senso di estraneità alla vita quando a quel modello ricorre come espediente imitativo: la domanda pregressa è forse, qui l’ingegnere come avrebbe risolto?
Il punto è qui. E qui è la vera, grande domanda, sulle nostre vite, se siano autentiche, e se sempre o mai o a metà tutte le vite lo siano, o se siano poi tutte spesso grandi, magistrali recite. Riproduzioni acritiche di modelli.
È qui tutto lo stupore vero, e il ricorso al modello letterario per oggettivare una simile scottante questione. Provare a spingerla, con tutta la sua grave zavorra di vita vera, dentro un cerchio in cui risplenda la sua riserva di sincerità cui attingere è il vero problema.
Questo libro che pure risale a vent’anni fa nella scrittura mentre esce solo ora (pare per riguardo alla madre) ha un parallelo in Profezia, racconto in seconda persona del fraterno collega di Albinati, Sandro Veronesi, il quale viceversa, poiché vive nella letteratura, ha subito distanziato da sé la morte del padre in quella risorsa spettacolare che è l’invenzione, una forma di mediazione che mentre assicura il distacco permette l’esattezza chirurgica e rende il servizio prezioso della memorabilità.
Ma Vita e morte di un ingegnere è letteratura di natura affatto diversa.
La letteratura davvero è respiro vitale, ed è respiro costante per Albinati.
Forse Albinati è l’unico scrittore italiano che nel tempo non si è lasciato attaccare dalla vita esterna della letteratura intesa come impresa editoriale. La scrittura di Albinati è (mutuo una sua definizione mutuata a propria volta) un lungo fiume tranquillo. Con metodo e sguardo anglosassone, con approccio scientifico, da studioso (ecco un punto d’orgoglio e dolente insieme, per lo scrittore: aver costruito una sua vita di studi distanti e aver quindi separato la propria strada professionale, ma insomma l’esistenza, da quella del padre), Albinati affronta con medesima pacatezza e intensità temi diversi che, come per tutti noi, ha scelto di seguire o con incursioni più o meno acrobatiche lo hanno investito: insegna a Rebibbia e scrive Maggio selvaggio; dal termine della Flaminia scende coi mezzi a via Flaminia Vecchia e giù fino alla Prenestina dove la famiglia ha un immobile, e allora scrive 19, epopea umana del tram che taglia tutta Roma; va in Afghanistan per le Nazioni Unite e scrive il diario del Ritorno. Ricordo bene quando nel ’93 nella redazione della rivista Omero un pomeriggio il fax sputò tre sue paginette che personalmente declamai gridando al miracolo in tutto Monteverde: erano i primi Orti di guerra, raccolta di prose poi uscita da Fazi nel ’97; come ricordo che anni fa per email Albinati mi inviò alcune pagine sull’anestesia da Svenimenti: che privilegi! E poi ripenso a certi suoi libri di poesia: Mare o monti (con Paolo Del Colle), Capodanno del Vam, Sintassi Italiana, La comunione dei beni, come i suoi romanzi, Il polacco lavatore di vetri per esempio, o Tutt’al più muoio in cui si è fatto interprete delle volontà narrative di Filippo Timi e confermato in ciò che già la lettura dell’amato Tolstoj gli aveva insegnato: che nel rapporto servo/padrone è il servo a condurre.
La scrittura di Albinati è tersa, è inattaccabile, ed è germinativa. Io credo che lui stesso goda delle sorprese controllate e puntuali che questo felice strumento gli riserva ogni volta. In questo, gentile Elisabetta Rasy, è perfetto il libro, ed è perfetto lo scrittore: nel dispositivo letterario, nel congegno scrittorio che governa ogni argomento, lo forgia e forgiandolo rivela tutte le risorse che esso promette e minaccia, cioè davvero dà la stura a tutto ciò che esso ha inesorabilmente in serbo: un congegno così efficace pur nella sua natura generativo/trasformazionale (per dirla con Noam Chomsky) che resiste da decenni all’attacco di qualunque tentazione di adattamento a una letteratura sempre invocata vendibile, semplificata e compromessa. Anche qui, nel crogiuolo del cuore, con questa scrittura Albinati ha domato la rabbia dell’amore mancato e credo abbia scoperto, forse meglio adesso, rileggendolo solo per sistemarlo esternamente, quanto questo libro gli abbia finalmente garantito la proprietà affettiva totale della propria dimensione familiare: un tema spinoso finalmente risolto, dunque rubricabile.
Chiudo con l’immagine che sigla il libro, il finale (mentre la fine è già scorsa davanti a noi) che a qualche autore ‘laico’ sembrerà scivolamento poetico, tonfo nella metafora, ma è letteratura della specie alta, è poesia senza sperpero di lirismo: è folgorazione che ripesca Ovidio e Apuleio – il cielo (eh, il cielo) è attraversato da un raro fenomeno, un doppio arcobaleno. Noi ingenui lettori ci vediamo Carlo Albinati trasformato in fenomeno celeste, e l’allusione al doppio nastro del DNA cioè al codice genetico come legame imperituro che tiene legati un padre e un figlio.

è nata una stella: Francesca English

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di
Francesco Forlani

Martedì sera io e il mio socio Marco Fedele siamo stati invitati a far parte della giuria di un contest organizzato dal Canevel Music Lab, al Jazz Club di Torino. Siamo stati invitati, ovviamente, come conduttori del fortunato programma radiofonico di Cocina Clandestina che trasmettiamo ogni lunedì sera su Radio Veronica One.. Presidente della giuria il mitico Edoardo “Catfish” Fassio. Vi confesserò che non amo i Contest né tanto meno dare dei voti, come ben sanno i miei studenti, ma con altrettanta sincerità devo dirvi che nessuna gioia è comparabile a quella di una scoperta. Che si tratti di un giovane autore, ma anche dell’esordio di un pre-postumo scrittore, di un piatto mai mangiato o uno speciale cocktail mai bevuto, la sensazione che si ha, dal principio, è sempre la stessa ovvero un mix di gioia fisica e consapevolezza di avere avuto fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto.
Quando Francesca English è salita sul palco, accompagnata dai suoi musicisti ( Egidio Perduca – chitarra, Eros Cristiani – hammond, Mauro Isetti – basso, Folco Fedele – batteria) così piccola, fragile, e la musica è partita con dei volumi, importanti, avrebbe detto Carmelo Bene, la prima cosa che ho pensato è stata: come cazzo farà mo a farsi sentire. Il miracolo, perché vi assicuro che di miracolo si è trattato, è successo quando le prime note della canzone scritta da lei, Notes and words, sono esplose e in molti, presenti in sala, abbiamo fatto davvero fatica a trattenere le lacrime.
Le braccia lungo il corpo, la “mise” semplice che sembrava dirti “ehi io sono qui per sputarvi addosso l’anima mica per fare la velina!” Francesca ha liberato un mondo popolato, una dopo l’altra dalle icone della Jazz, Blues, Soul music, regine consegnate all’eternità e di cui ti riecheggia dentro il suono verità, “Glad to be Unhappy” ogni qualvolta le si incontri. Così le ho scritto la sera stessa e non appena mi ha risposto siamo riusciti a incontrarci, appunto. Quella che segue è una conversazione che abbiamo avuto al Café des Arts, di Torino, cucina anarchica a conduzione familiare e scena underground tra le più interessanti della città.

Francesca, partiamo da te. Anni?
Ventidue
Nata a Torino?
No, a New York.
I tuoi genitori?
Papà giamaicano di Kingston e madre italiana, di Vercelli. Quando avevo tre anni ci siamo trasferiti da New York a Torino.
Alla musica non ci arrivi attraverso i canali tradizionali. Hai studiato prima al liceo artistico e poi scultura all’Accademia delle Belle Arti, come hai trovato la tua vocazione?
Grazie ai miei e alla loro sensibilità verso la musica. Mio padre suonava la chitarra, da autodidatta, ed è stato lui a introdurmi alla musica
Però non suoni dal vivo.
Non ho una sicurezza tale da poter fare su scena le due cose
La prima esperienza?
Tempo fa in un locale, un pub, con amici musicisti e mi sono accorta che avevo qualcosa dentro che voleva uscire, un’energia che non mi chiedeva altro che di esplodere. Così ho registrato quelle cover che hai visto anche tu su youtube. Un’amica di mia madre che aveva sentito i pezzi se n’era innamorata e poiché conosceva dei produttori a Tortona, che poi sono i musicisti che mi accompagnano, gliene ha parlato e siamo partiti con un nuovo progetto.
Le canzoni che hai presentato al Contest, a proposito ti auguro di vincere martedì prossimo a Verona!, le hai scritte tu?
Sì, la prima in assoluto che ho scritto per il nuovo progetto, ma che non ho presentato al contest è stata Holding your breath (trattenendo il tuo respiro) parla di questo approccio al canto, a questa esperienza per me nuova e sconvolgente. Sai, per me è stato come un vento di cambiamento nella mia vita.
La tua energia è incredibile.
Sì, soprattutto quando canto, quando mi sento in una situazione intima tranquilla, all’improvviso sento una cosa che mi travolge, una cosa molto fisica. Mi hanno detto che canto alla Janis Joplin, magari avessi quella stessa energia, ma una volta, non ricordo chi mi ha pure detto che ero una Joe Cocker al femminile, per via della postura che ho quando canto, con le braccia lungo il corpo.
E la seconda della serata?
Climbing step by step, arrampicarsi passo dopo passo, che sta per il principio del viaggio che sto compiendo
La scena torinese?
A Torino c’è una bella scena con tanti gruppi, molti soprattutto di elettronica e rock.
Ne hai scritte altre? Sai come si intitolerà l’album?
Non so ancora, quando magari avrò finito mi verrà sicuramente il titolo giusto
In italiano canterai?
Questo è un grosso dilemma. (sorride) In italiano non mi viene naturale cantare, come se fossi divisa nel sangue, non so come spiegarti. Ho provato a cantare in italiano ma non mi viene naturale come in inglese. Quando sono in famiglia parliamo in inglese, siamo anglosassoni, che dico anglofoni,(ride) forse ho detto così per via del cognome che ho e che non c’entra nulla! Comunque istintivamente mi viene da cantare in inglese.
Delle cantanti di oggi chi consideri come tuoi modelli?
Mi ha colpito tantissimo Rachel Ferrel che è molto virtuosa, però ha un’energia sconvolgente. E Lauryn Hill, il mio idolo in assoluto.


Cucina. Giamaicana o italiana?
Cucino italiano, e non è la sola cosa italiana che vince. Il mio modo di vivere le cose, per esempio è assolutamente italiano.
Resterai a Torino?
Ho sempre pensato di vivere a Torino però un tentativo di andare a vivere fuori lo farei volentieri
In quale città, paese?
In Giamaica, naturalmente.

carta st[r]ampa[la]ta n.47

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di Fabrizio Tonello

Gentile Signorina/Signora Mariarosa Mancuso,

come vedrà dai miei commenti qui sotto la Sua tesina “Addio al radical chic”, consegnatami domenica 18 marzo attraverso il suppemento “La lettura” del Corriere della sera, è piuttosto carente. Dallo svolgimento mi sembra di intuire che la materia era per lei interessante ma che la mancanza di abitudine a scrivere in modo preciso (mi riferisco tanto alla lingua quanto ai contenuti) ha lasciato il segno, rendendo l’elaborato sciatto e superficiale.

Comincerò dall’uso dei dati che Lei ha inserito a sostegno delle Sue argomentazioni. Con riferimento alle dimissioni dell’on. Silvio Berlusconi, Lei scrive: “Le trasmissioni televisive «contro», sempre a rischio di chiusura e di censura, dovrebbero godersi la vittoria. E invece no: gli spettatori calano, lo share diminuisce (o comunque non decolla).” gli spettatori calano? Dal grafico sembrerebbe piuttosto il contrario: “Invasioni barbariche” passa da 904.000 spettatori nel 2010-2011 a 923.000 nel 2011-2012, un aumento piccolo ma pur sempre un aumento.

Sempre nell’appendice statistica, Lei mette insieme due trasmissioni di Serena Dandini, “Parla con me” e “The show must go off”, trasmesse da due reti diverse (Rai e La sette) in orari diversi e in giorni diversi. Le sembra una procedura di comparazione scientificamente accettabile? Quanto aveva preso all’esame di Metodologia?

Di fronte alla legge

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di Helena Janeczek

Un procuratore milanese a fine carriera viene sollecitato da una giovane giornalista a occuparsi del caso di un tunisino condannato per un fatto di sangue che non avrebbe mai commesso, mentre la macchina della giustizia e l’opinione pubblica si aspettano proprio da lui una richiesta di inasprimento della pena. Un prete con il profilo di grande teologo ripara in un seminario sull’Appennino per fuggire alla fama di essere stato tramite della risurrezione di una bambina morta per un incidente, ma una letterale corte dei miracoli arriva da Roma per stanarlo.

Nove

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Non ho mai abitato in zona nove a Milano, né mai visitato la città di Nove, della gara dei nove colli nulla so, so però che nove sono i consiglieri indagati alla Regione Lombardia, che le figlie generate dal grande Zeus sono nove (Clio, Euterpe, Talia, Melpomene, Tersicore, Erato, Polimnia, Urania e Calliope) e che Aldo Nove fece parte di Nazione Indiana.
Che esiste da nove anni.

Come non detto (poema musivo ipertestuale)

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di Marco Cetera

On line all’indirizzo www.comenondetto.net

L’idea. Niente di nuovo.
Esperimento di scrittura musiva.
Come non detto è un mosaico. 2000 citazioni-tessere (lessie) per un totale di 2332 versi. Parole d’altri, minuziosamente ricomposte in un gioco di incastro che dà forma a un articolato intreccio polifonico di voci. Una specie di ready-made poetico che preleva i suoi pezzi dalla discarica indifferenziata della letteratura. Letteratura alta, bassa, giuridica, religiosa, filosofica, scientifica, artistica, storiografica, lirica, rosa, noir. Eccetera eccetera.
L’esperimento si inserisce chiaramente in quel vasto filone d’arte d’avanguardia che va dai papiers collés dei cubisti al polimaterismo degli assemblage proposti dai movimenti Neodada, Pop art e Nouveau realisme. Il debito maggiore, tuttavia, è con la poetica combinatoria di Nanni Balestrini: «per me il montaggio è la resurrezione» (Caosmogonia, Fino all’ultimo, 2).
Rispetto alla pratica balestriniana, però, Come non detto prevede anche il palesamento della fonte di ogni singola citazione, ponendosi in un atteggiamento quasi pedogogico. Come se l’opera volesse predisporre un mini kit culturale di sopravvivenza contro il sistematico depauperamento del sapere promosso dalle tecnologie mediatiche.

Lo stile. Collage vs Mosaico.
Anni Sessanta. I libri “d’artista” della conceptual art e suoi derivati. Flynt, Cage, Manzoni, Pistoletto, solo per fare alcuni nomi. In particolare, An anthology di La Monte Young e Mac Low. Il libro è stampato su carte colorate tutte diverse e al suo interno ci sono tavole sciolte con spartiti musicali, poesie, disegni, componimenti teorici, oggetti incollati sulle pagine, buste da lettera con oggetti da estrarre. Insomma, di tutto di più. Si tratta inequivocabilmente di un collage, tenuto insieme dalla colla e da un unico filo tematico, il movimento Fluxus.

Qualcosa di molto vicino ai papiers collés dei cubisti di un secolo fa.

In tempi più recenti (2010), anche il critico letterario David Shields ha realizzato qualcosa di simile. Fame di realtà. Ha utilizzato qualche centinaio (600 circa) di aforismi, interviste, citazioni (numerati) per comporre, con parole di altri, il suo personale orizzonte letterario.

In tutti questi casi, parliamo di collage.

Come non detto, invece, è un mosaico.

Tra le due tecniche vi è una differenza sostanziale: mentre nel collage i pezzi di materiale vengono spesso assemblati o sovrapposti tra loro in modo più o meno disordinato, le tessere del mosaico sono invece incastrate l’una accanto all’altra.

In un caso si ostenta la frattura degli elementi che compongono l’opera, nell’altro si ricerca la continuità e la fusione armonica delle tessere, per un risultato finale che mascheri il più possibile l’espediente tecnico.

L’ipertestualità. Enciclopedismo digitale.
Il layout del sito è piuttosto semplice e intuitivo. La composizione di lessie occupa in successione la parte centrale della pagina. La numerazione dei versi (di 5 in 5) è riportata sulla colonna sinistra, mentre il numero della lessia è indicato sulla colonna di destra preceduto da un piccolo simbolo a forma di freccia.

Cliccando sulla lessia si apre “a tendina” una nota che ci fornisce l’esatta indicazione bibliografica da cui il testo della lessia è tratto.

In calce a ogni nota bibliografica è presente un link che rimanda alla pagina Wikipedia dedicata all’autore della lessia.

I rinvii a Wikipedia (riordinati in ordine alfabetico e tematico nelle rispettive pagine dell’indice: http://www.comenondetto.net/indice-analitico/ ; http://www.comenondetto.net/indice-tematico/) consentono di comporre la basilare costellazione di un sapere che spazia dalla letteratura alla fisica teorica, dai fumetti alla filosofia.

La trama. Déjà vu kafkiano.
La tragicommedia della ripetizione si ripresenta anche nel plot narrativo.

Più o meno consapevolmente, Lui (pro-nome proprio del protagonista) si è macchiato di una grave colpa: l’elaborazione di un Nuovo Linguaggio.

Per questo, dopo un rocambolesco inseguimento, viene arrestato da due sbirri in borghese che lo conducono presso il palazzo del Supremo Consiglio Culturale.

Qui, al cospetto del Giudice Supremo, Lui deve dimostrare la Novità della sua invenzione. Ma, messo ripetutamente alla prova, non riesce a tirar fuori nulla di davvero originale.

«Tutto è stato già detto!»

Per aver tentato di contravvenire alla Prima Norma del Linguaggio Universale stabilita dal Consiglio Supremo («È impossibile dire qualcosa di nuovo»), Lui viene condannato alla deportazione forzata nella Penisola del Luogo Comune.

L’ispirazione. Poesia epistemologica immaginaria.
Poesia, Nanni Balestrini: «ci sono tante cose che possono andare insieme / senza sapere quale sarà il risultato / ogni ripetizione deve provocare un’esperienza del tutto / nuova» (Caosmogonia: Empty cage, 1 – 2010)

Epistemologica, Paul Karl Feyerabend: «Tutto può andar bene» (Contro il metodo – 1975)

Immaginaria, Jorge Luis Borges: «Tu, che mi leggi, sei sicuro di capire il mio linguaggio?» (Finzioni: La biblioteca di Babele – 1941)