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STAFFETTA PARTIGIANA gli esiti del concorso

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di Redazione

Come molte lettrici e lettori sapranno, Nazione Indiana ha deciso di onorare l’ottantesimo anniversario della Liberazione italiana dal nazifascismo con un concorso per testi inediti. Un concorso rivolto agli under 35 perché (citiamo dalla nostra call di autunno) “pensiamo sia importante un passaggio del testimone, che quindi una nuova generazione di italiane e italiani assuma il compito di ricordare e raccontare la Resistenza“.

A fine gennaio abbiamo ricevuto i racconti, e ringraziamo tutti per i contributi inviati. In questi tempi bui, in quest’onda autoritaria, essere controcorrente non è una cosa scontata e raccogliere il testimone di valori e storie è sempre più importante e significativo.

I testi ricevuti condividono un pregio non irrilevante, una volontà civile di raccontare quelle storie di antifascismo che, di per sé, va premiata e merita il nostro ringraziamento. Ma il nostro è pur sempre un concorso. Quindi abbiamo valutato i testi dividendoci in due giurie, e ne abbiamo selezionati 12 che ci sono sembrati i più meritevoli di pubblicazione su Nazione Indiana. In realtà 11 testi + uno: c’è una menzione speciale a un’autrice (Alice Ghinzani, 2010), una ragazza che ci ha colpiti per la sua giovane età e che abbiamo voluto premiare.

E così anche Nazione Indiana ha un concorso letterario e una… dozzina. Ci voleva l’ottantesimo della Liberazione per spingerci a tanto.

Le giurie (composte da: Mariasole Ariot, Gianni Biondillo, Silvia Contarini, Francesco Forlani, Lisa Ginzburg, Andrea Inglese, Renata Morresi, Davide Orecchio, Orsola Puecher, Ornella Tajani) si sono poi unite e hanno individuato il racconto vincitore: Sotto la terra di Claudia De Angelis. Il testo si ispira alla storia di un borgo tra Terra di Lavoro e Ciociaria, San Pietro Infine. I suoi abitanti, nel dicembre 1943, cercarono scampo dai bombardamenti nelle grotte della valle. Lo pubblicheremo il 25 aprile.

Ecco l’elenco dei vincitori con il calendario di pubblicazione sul sito.

  • 14 aprile
    Jenide Russo (Alice Ghinzani, 2010)
  • 15 aprile
    La staffetta (Federica Grasso, 2000)
  • 16 aprile
    Il canto (Sean Ashmore, 1993)
  • 17 aprile
    Nascondino (Nicola Maria Fioni, 1996)
  • 18 aprile
    Nun si parti (Sofia Rigoli, 2003)
  • 19 aprile
    Galline di Montagna (Rodolfo Sgro, 1994)
  • 20 aprile
    Vattinne (Giorgia Giuliano, 1994)
  • 21 aprile
    Nebbia di guerra (Chiara Cassaghi, 1998)
  • 22 aprile
    Io sottoscritto Parmigiano racconto e rinvengo il mio operato (Alessandro Tesetti, 2000)
  • 23 aprile
    Il brutto male (Camilla Pasinetti, 1994)
  • 24 aprile
    Nelle retrovie (Linda Farata, 1994)
  • 25 aprile
    Sotto la terra (Claudia De Angelis, 1992)

“Racconti vincitori”… ma dovremmo usare il femminile prevalente. Dovremmo parlare di “vincitrici”, visto che in 8 casi su 12 si tratta di autrici. Nel nostro concorso, insomma, c’è stata una piccola Resistenza delle donne, anzi delle ragazze, ed è forse un elemento virtuoso in più entro un’iniziativa che è sì culturale e letteraria, ma è soprattutto civile e politica.

Un aspetto comune ai testi ricevuti – che li abbiano scritti donne o uomini – è che pressoché nessuno (a parte qualche eccezione) ha scelto di mostrare la guerra vera e propria, né la violenza resistenziale. Ci sarà da riflettere su questo dato più esistenziale che estetico. La guerra resta sullo sfondo. Si incarna in un fratello, o in un padre, o in un figlio che combatte al fronte o in montagna, o che è già morto. In un’assenza. I fascisti e i nazisti ci sono, certo, eccome se ci sono, con le loro torture, con i loro rastrellamenti e i lager. Ma il racconto del combatterli (o del resistere nel sopravvivere, nel durare più che nel fare la guerra) predilige i sotterfugi, le astuzie e le manovre clandestine. E poi l’attesa ctonia in grotte e nascondigli.

Che sia un sintomo del nostro tempo, a suo modo attonito e impotente, più che del tempo che ci liberò ottant’anni fa? Avremo modo di tornarci sopra e rifletterci ancora.

Buone letture e buon anniversario della Liberazione.

“STAFFETTA PARTIGIANA” concorso letterario

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Nazione Indiana promuove un concorso per racconti e scritture brevi inedite sulla Resistenza e la Liberazione.

[Aggiornamento 2 febbraio 2025] Ringraziamo tutti per i contributi inviati. In questi tempi bui, in quest’onda autoritaria, essere controcorrente non è una cosa scontata e raccogliere il testimone di valori e storie è sempre più importante e significativo. Cominceremo a breve le letture dei testi.

Nazione Indiana ha deciso di onorare l’80esimo anniversario della Liberazione italiana dal nazifascismo, che si celebrerà il 25 aprile 2025, con un concorso per testi inediti.

Il concorso è rivolto agli under 35 perché pensiamo sia importante un passaggio del testimone, che quindi una nuova generazione di italiane e italiani assuma il compito di ricordare e raccontare la Resistenza.

La nostra iniziativa può fare per te se hai meno di 35 anni e ami le storie della Resistenza, le storie di chi ha lottato per liberare l’Italia dal nazifascismo.

Pensiamo che valga la pena di leggerle e narrarle ancora perché la memoria storica cambia, si evolve, ma raccontare la Resistenza non perde il proprio valore morale e politico, anzi farlo diventa ancora più importante nell’Italia di oggi, governata da forze che non hanno mai fatto i conti col proprio passato fascista e neofascista, che non lo rinnegano, che al contrario lo alimentano e lo tengono più in vita che mai.

Se ti vuoi mettere in gioco provando a raccontare in un testo – in un racconto appunto, o una biografia, o una scrittura breve o ibrida – una storia della Resistenza e della Liberazione, ecco le regole d’ingaggio di questo concorso:

  • I testi inediti (inediti anche sul web) dovranno essere lunghi minimo 12mila battute e massimo 24mila battute spazi inclusi. I testi che non rispetteranno questa lunghezza non saranno letti.
  • Dovranno essere inviati in formato .doc alla mail staffettapartigiana.ni@gmail.com.
  • La data ultima per la ricezione dei materiali è il 31 gennaio 2025.
  • Per comunicare l’età del mittente basterà un’autocertificazione.
  • Le redattrici e i redattori di Nazione Indiana leggeranno e valuteranno i testi e i migliori saranno pubblicati su Nazione Indiana a partire dal 25 aprile 2025.
  • Il racconto che giudicheremo più riuscito sarà premiato con la pubblicazione su Nazione Indiana il 2 giugno 2025, e il suo autore sarà invitato a leggerlo in occasione della Festa annuale di Nazione Indiana.
  • I migliori racconti ricevuti saranno poi raccolti in un e-book che si potrà scaricare gratuitamente dal sito di Nazione Indiana.
  • Hai carta bianca e piena libertà di invenzione, oppure puoi ispirarti a una storia realmente accaduta, usando e citando documenti e fonti, attingendo dagli archivi, dalle biblioteche o dalle risorse online.

Aspettiamo di leggerti!

VOLANTINO STAMPABILE PER CHI VOLESSE DIFFONDERE LA NOSTRA INIZIATIVA

Oh my bike! Ruote, caucciù e colonie

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di Jamila Mascat

(Tim & Puma Mimi, Oh My Bike, 2019)

Nonna Anna avrebbe detto “sempre meglio che una disgrazia”. Lo ripeteva con nonchalance ogni volta che – e, spesso, per quel che mi sembra di poter ricordare – perdeva un documento, un portafoglio, una chiave di casa. Perfino dopo uno scippo che nel 1985 le era costato trecento o quattrocentomila lire. Da piccola non riuscivo a immaginare una disgrazia senza contemplare la fine del mondo, perché tutto il resto apparteneva alla categoria del sempre meglio. Crescendo, però, ho imparato che anche il dispiacere vuole la sua parte, discretamente e senza clamore. A volte le cose semplicemente dispiacciono. Come la settimana scorsa che mi hanno rubato la bicicletta. Ho reimparato ad andare in bicicletta a 42 anni, dopo 30 anni di astinenza, senza aver mai coltivato alcun feticismo delle due ruote, senza aver mai partecipato a una Critical Mass, senza aver mai nutrito un grammo di ammirazione per i ciclisti vestiti da ciclisti che affannati in fila indiana arrancano sulle strade provinciali la domenica mattina presto, i fanatici del vélib parigino, gli irriducibili che si lanciano nel traffico maleodorante di Roma con o senza casco, gli inossidabili impermeabili che sfidano la pioggia battente di Amsterdam. Al culmine dell’orrore i sellini: stretti, squadrati, appuntiti, rigidi, ridicoli anche se ergonomici, per cui ho sempre provato un’inspiegabile repulsione. Poi sotto la pioggia di Amsterdam, che non è sempre così battente come la credevo, ci sono finita anch’io e sono stata catapultata in un universo della mobilità fino ad allora sconosciuto, ad andamento lento ma non troppo, alternando omafietsen (le bici della nonna, che frenano retropedalando) e bakfietsen (le bici cargo su cui si caricano bambini, cani o oggetti di grandi dimensioni).

(Shadi Ghadirian, Qajar #6, 1998)

La scoperta della bicicletta è stata un’iniziazione alla settima dimensione dei trasporti terrestri. Perché la velocità e la visuale in bici non hanno nulla a che vedere con quello che offrono piedi, treni, auto, tram, bus, quad e motorini. Pedalare è panta rei. Un pezzo pubblicato sul San Francisco Chronicle il 25 gennaio del 1879 – San Francisco a fine Ottocento è l’avanguardia ciclistica degli Stati Uniti –  e intitolato “The Winged Heel” (Il tallone alato) rende omaggio a “l’euforia della bicicletta” celebrando “un’estasi di trionfo sull’inerzia, la gravitazione e gli altri pigri vincoli che ci trattengono”.  In bici, conclude, “You are traveling! Not being traveled!”

(San Francisco, 1870).

Così, l’euforia della bicicletta ha riattivato anche in me quel residuo di ostinazione infantile, a dispetto dell’età, che di fronte al non sapere rivendica ossessivamente il diritto di capire tutto, l’utile e l’inessenziale – Come si raddrizza un manubrio storto? Come si allacciano i catarifrangenti ai pantaloni? Come decorare a festa i raggi delle ruote, ma soprattutto perché? – fino ad essere risospinta alla domanda sulle origini – ma chi ha inventato la bicicletta? –  per rimbalzare sugli orrori estrattivi del caucciù.

Come nel caso di tante invenzioni, perfezionate nel corso dei secoli, anche la bicicletta è il frutto di un general intellect che si è dispiegato lungo circa un secolo per arrivare a produrre un dispositivo su due ruote che somiglia alle bici che conosciamo. In questa staffetta di eureka si susseguono il velocipede (o draisina), ideato nel 1817 dall’aristocratico tedesco Karl Drais, la Treadle bycicle (1839) a pedali, ma senza catena, costruita dal fabbro scozzese Kirkpatrick Macmillan, la Michaudine di Pierre e Ernest Michaud (1869) che sposta i pedali in avanti, sulla ruota anteriore, quest’ultima in crescita esponenziale fino ad arrivare al Grand bi che sfoggia 150 cm di diametro (1870). E ancora la prima bici con catena (1880), fabbricata dal londinese Harry Lawson, e infine la Hirondelle (1900) – la bici dei poliziotti francesi il cui nome deriva proprio dall’aspetto dei ciclisti che indossavano un mantello nero e si aggiravano con ali di rondine –  la cui sagoma già ricorda da vicino la silhouette di una bicicletta dei nostri giorni. Senza addentrarsi nei meandri delle catene, degli ingranaggi e dei freni, di cui l’evoluzione meccanica rimane per me incomprensibile, non si può parlare di bici senza inciampare nel mistero delle ruote e dei materiali di fabbricazione di questi cerchi magici, e poi la fattura, la consistenza, la resistenza, la resilienza. E come per incanto le ruote delle biciclette dischiudono il sipario sugli imperi coloniali.

È soltanto alla fine del 1800 che la gomma diventa un ingrediente fondamentale per la costruzione delle biciclette, mentre fino ad allora circolavano soltanto ruote rigide e non ammortizzate, di legno e metallo Nel 1888 sembra che il chirurgo veterinario scozzese John Boyd Dunlop, osservando il figlio pedalare con fatica in sella ad un triciclo su un pavimento accidentato, si sia posto il problema di come fare per ridurre i contraccolpi. Allora avvolge le ruote con strisce di gomma incollate e gonfiate con una pompa meccanica creando la prima rudimentale camera d’aria della storia. Nasce così il pneumatico, e nasce nel 1890 la Dunlop Rubber che brevetta e commercializza con successo le ruote di gomma. Édouard Michelin l’anno successivo perfeziona l’invenzione di Dunlop e costruisce il pneumatico smontabile, facile e rapido da riparare, con cui Charles Terront nel 1891 vince la corsa ciclistica Paris-Brest-Paris. Inizia così l’età dell’oro della bicicletta che realizza il sogno di libertà di chi non può permettersi le carrozze (né le neonate automobili) e delle donne della buona società.

Nel 1895 si contano 7 milioni di biciclette in tutto il mondo. Dunlop, Michelin, Good Year, Continental, Pirelli fanno impennare la domanda di caucciù per fabbricare pneumatici di gomma. La gomma non è una novità assoluta, già intorno alla metà dell’Ottocento viene utilizzata nelle ferrovie o nell’industria militare per produrre scarpe, stivali, protezioni per baionette, teli, borracce, bottoni, e anche protesi ricostruttive. Soltanto l’invenzione del pneumatico e il boom del ciclismo, però, inaugurano la corsa al caucciù. La gomma sintetica fa la sua comparsa solo dopo la prima guerra mondiale; fino ad allora viene ricavata dal lattice prodotto dagli alberi della gomma (l’Hevea bresiliensis o siringueira) in Amazzonia e dalle viti selvatiche (Landolphia) del Congo. La giungla congolese e la foresta amazzonica (e solo successivamente le piantagioni del Sud-est asiatico) saranno per un quarto di secolo circa i luoghi di estrazione del caucciù per excellence. Così, mentre l’Europa e l’America del Nord si godono la libertà delle due ruote, sotto l’Equatore milioni di individui vengono condannati dalla gomma ai lavori forzati.

In The Thief at the End of the World: Rubber, Power, and the Seeds of Empire (2008), lo storico Joe Jackson racconta che la popolazione dello Stato Libero del Congo, in realtà proprietà privata del re del Belgio Leopoldo II dal 1885 (Conferenza di Berlino) fino al 1908, passò da 25 milioni a 10 milioni, sacrificando 15 milioni di morti sull’altare del caucciù. Un simile destino toccò in sorte alle popolazioni indigene del Putumayo tra il Perù e la Colombia. Leopoldo II non mise mai i piedi in Congo, amministrando a distanza i proventi del caucciù prodotti dalla Anglo-Belgian India Rubber Company, rifondata con capitale unicamente belga nel 1898 come ABIR Congo Company. A vegliare sui dannati del caucciù furono predisposte le milizie della Force Publique, truppe di mercenari, volontari ed ex ufficiali degli eserciti europei (belgi, italiani, danesi, svedesi, norvegesi) amanti dell’avventura, del sangue e delle punizioni corporali.

Alice Seeley Harris, missionaria inglese in Congo considerata come l’iniziatrice di una delle prime campagne internazionali per i diritti umani, raccoglierà centinaia di foto con la sua Kodak, documentando per la prima volta gli orrori delle mutilazioni inflitte quotidianamente alla popolazione congolese per sostenere il ritmo della produzione della gomma. All’inizio del 1906, Alice Harris e suo marito John viaggiano negli Stati Uniti proiettando in 49 città, con il supporto delle lanterne magiche in voga all’epoca, le immagini scattate da lei. Alcuni di questi scatti, quello stesso anno, saranno pubblicati dal quotidiano New York American durante una settimana.

Nel King’s Leopold Soliloquy (1905) Mark Twain aveva indirettamente reso omaggio alla fotografia militante di Harris per bocca del re Leopoldo che, nel corso di un’oscena apologia di se stesso, agita lo spauracchio dei missionari  – “They travel and travel, they spy and spy!”-  e della macchina fotografica – “Then that trivial little Kodak, that a child can carry in its pocket, gets up, never uttering a word, and knocks them dumb”.

Nsala, di Wala, nel distretto di Nsongo a sud di Kinshasa, fissa la mano e il piede di sua figlia Boali, amputati. 14 maggio 1904 (Alice Seeley Harris).

 

“Esperimento su Bòttego”: un nuovo e-book di Nazione Indiana

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Un nuovo e-book di Nazione Indiana

di Andrea Inglese

Nazione Indiana, nonostante la sua un po’ spaventosa longevità, mantiene una sua giovanile inquietudine, una sua curiosità onnilaterale e poco addomesticata, anche se nel mondo letterario più si è domestici più si vive tranquilli. Segno di questa irrequietezza sono i suoi slanci editoriali, che in passato hanno prodotto incursioni puntuali, ma meditate. Alludo ai tre titoli della collana “Murene”, tutti volti all’altrove (Stephen Rodefer, poeta statunitense, curato e tradotto da Andrea Raos; Ingo Schulze, narratore tedesco, curato e tradotto da Stefano Zangrando; Miguel Torga, scrittore portoghese, tradotto e curato da Massimo Rizzante) e nati da una costante passione di condivisione, che ancora oggi non può non caratterizzarci, in quanto blog collettivo, entità policentrica e dialogante. Ai tre volumi cartacei di “Murene”, si affiancano però anche quattro e-book, che hanno la principale caratteristica di raccogliere una pluralità di voci, sia interne che esterne al blog. A parte 25 passi in file indiani, nato come raccolta libera di pezzi apparsi su Nazione Indiana a firma dei suoi redattori, sorta di “carotaggio” estemporaneo rispetto alla ricchezza dell’archivio, gli altri tre si concentrano su questioni d’attualità, cercando di “stringerle” attraverso la diversità degli approcci (e-book sulla “responsabilità dell’autore”, sugli “attacchi terroristici in Francia del 2015”, sull’esperienza della “pandemia di Covid-19”). A queste iniziative va ad aggiungersi, il volume collettivo Piccolo vocabolario autostradale a uso dei contemporanei, a cura di Gianni Biondillo.

Oggi vi presentiamo un nuovo e-book, stavolta non si tratta di una traduzione né di un lavoro collettivo. Il caso come sempre lavora per noi, dal momento che tendenzialmente anarchici come siamo non potremmo permetterci programmi di lungo periodo. Esperimento su Bòttego nasce da un “primo” esperimento, da un primo pezzo che Fabrizio Bondi, amico e attento lettore del blog, mi ha proposto di pubblicare (26 aprile 2022). La prima frase diceva: “Esperimento su Bòttego è un progetto che parte dalla mera e quasi disarmata descrizione di uno specifico oggetto culturale: il monumento parmigiano all’esploratore Vittorio Bòttego, appunto”. Il carattere anomalo, installativo, sperimentale, politico, di quel testo (corredato da fotografie), mi aveva subito convinto. E la sua fuoriuscita dal laboratorio privato ha permesso a Bondi di testarne la “resistenza” alla pubblica lettura e, chissà, ha magari contribuito a suscitargli il desiderio di radicalizzare quel primo accerchiamento / malmenamento di una celebrata figura di esploratore, militare, scienziato, avventuriero, a cui il colonialismo crispino aveva lasciato mano libera nel Corno d’Africa.

L’attuale e definitiva (?) versione di Esperimento su Bòttego arriva giustamente in ritardo rispetto a una recente ondata di attivismo decoloniale diffuso, che si è tradotto in più o meno riusciti sbullonamenti di monumenti possibilmente equestri, o comunque agghindati d’elmi, panciotti e sciabole. Ma è questo che c’interessa: con una zampata che accoglie il lato più corrosivo del post-moderno, Bondi sganghera ludicamente e perfidamente il Vittorio Bòttego, che campeggia intatto davanti alla Stazione di Parma. Mette mano alle opere di questo, riscrivendo, rimontando, sforbiciando. Nello stesso tempo, ne fa un racconto della propria infanzia, della propria vocazione mancata, di naturalista. Una tale opera imbarazzerebbe ovviamente l’asse editore-libraio. In quale collana e genere lo infiliamo? E in quale scaffale? Nazione Indiana non s’imbarazza di questa incollocabilità, nata da una del tutto avverata attitudine sperimentale. Ringraziamo, quindi, Fabrizio Bondi, che conoscevamo come studioso del Rinascimento e critico militante. Ora lo scopriamo scrittore di ricerca.

Un’ultima riga sul tema. Il pensiero decoloniale non è estraneo a Nazione Indiana, così come non lo è l’attenzione alla storia del Ventennio fascista, che riportò in auge miti, velleità e atrocità dell’imperialismo colonialista inaugurati nell’era crispina. (Ricordo, per altro, che Igiaba Scego è stata per un certo tempo, e sicuramente non invano, in Nazione Indiana.)

Il testo che segue, di Giuditta Bassano, introduce più approfonditamente di quanto abbia fatto io il nuovo e-book di Nazione Indiana. Un grazie particolare a Orsola Puecher e Jan Reister, senza i quali nulla di queste prelibatezze digitali sarebbe possibile.

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L’esploratore esplorato

di Giuditta Bassano

Vittorio Bottègo (1860-1897), giovane aitante capitano d’artiglieria, è stato protagonista di una serie di avventure nel Corno d’Africa; attraverso queste vicende, assurse a eroe del colonialismo crispino. Come esploratore di alcune aree fluviali della Somalia e dell’Eritrea Bòttego fu naturalista ma anche uomo d’armi di indiscussa violenza, emblema di un razzismo italico alquanto poco transeunte. Vittorio Bottègo era nato a Parma: davanti alla stazione della sua città esiste tutt’oggi un monumento che ne commemora il coraggio e le imprese. Fabrizio Bondi parte da qui, cioè dall’eredità sinistra di un monumento, “l’accrocchio”, di cui appare difficile riconoscere oggi l’appropriatezza. L’autore si immerge allora nella “pelle linguistica” del Bòttego, perché l’eroe parmigiano aveva eretto “un altro monumento, un monumento a se stesso” mettendo per iscritto i suoi viaggi. Potremmo parlare di una guerriglia ventriloqua, o di una poetica (sperimentale) della vendetta.

Ariostista e professore di letteratura italiana, Bondi arma infatti la  propria sensibilità letteraria e il proprio dominio della metrica italiana (contro la retorica italica dei resoconti dell’eroe) per “montare” una testimonianza su Bòttego con le sue stesse parole. Un esperimento di pidgin politico, in cui le immagini dell’esploratore, le sue impressioni in terra africana, la cosmogonia patriottica di epoca crispina forniscono un bacino semantico che Bondi stravolge attraverso una sintassi inaudita. Saggio e testo letterario insieme, un po’ in prosa e un po’ in versi, “Esperimento su Bòttego” è un lavoro che più che leggere si può piuttosto frequentare e abitare, entrando da un punto qualsiasi del suo congegno narrativo, persino cominciando, se si vuole, dalle note finali. In questa esplorazione ci si imbatterà in una serie di appunti filosofici sul concetto di monumento, nei rapporti tra Bottègo e Carlo Dossi, nelle raggelanti descrizioni dell’efferatezza coloniale, ma non meno nella fauna del Corno d’Africa e nella saggia battaglia che le piante di fico muovono indefesse contro le statue e le opere umane di ogni sorta. È probabile che se ne riemerga convinti, con Bondi, che la “pasta, la materia della lingua, è tutto”.

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Esperimento su Bottego – Fabrizio Bondi – formato epub

Esperimento su Bottego – Fabrizio Bondi – formato mobi

Esperimento su Bottego – Fabrizio Bondi – formato pdf

Faccio vestiti con le foglie

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di Tito Pioli

La conoscono tutti a Parma la chiamano SiviaSfoglia lavora come spazzina nel giardino pubblico di Parma guarda sempre in basso tutti i giorni perché raccoglie le foglie secche in basso c’è la vita dice a tutti
Un giorno SilviaSfoglia ha visto quanti senzatetto dormivano sotto gli alberi durante il freddo inverno quasi ogni platano c’era un senzatetto un albero un senzatetto e allora SilviaSfoglia ha pensato ma perché buttare via queste foglie quando possono servire a qualcosa a qualcuno
SilviaSfoglia ascolta in cuffia la canzone Me llaman calle perché lei è sempre in strada lungo i viali del giardino pubblico di Parma
“Non servono a niente le foglie secche” gli urlano nelle orecchie a SilviaSfoglia dei giovani e ridono e calciano le foglie in segno di disprezzo
Silvia invece pensa che le foglie secche siano esseri viventi e addirittura trova un nome per tutte le foglie secche che incontra e le chiama Lucia Alessia Simona Paola Giulio Germano Antonio Luca
Ogni foglia un nome proprio
Ogni albero un senzatetto
Ora SilviaSfoglia con le foglie secche fa per i senzatetto gonne fa cappelli da donna fa camicie intesse sciarpe e i senzatetto la guardano attorno al fuoco mentre lavora per loro quasi fosse una Dea una statua che può salvarli dal freddo e dalla morte
Solo a Parma fanno i vestiti con le foglie secche per i senzatetto
Al giardino pubblico di Parma se andate tutti la conoscono SilviaSfoglia
Spesso SilviaSfoglia sembra incinta perché si riempie la pancia di foglie incinta delle foglie incinta del mondo e qualche bestia umana prende la rincorsa e con la testa punta la pancia di SilviaSfoglia vuole farla abortire
Ma SilviaSfoglia non ha paura lotta è incinta tutto l’anno delle foglie e partorisce colore decine di volte l’anno
Delle volte SilviaSfoglia deve litigare con i vigili  e urlare che dicono che le foglie secche sono da buttare e che non servono a niente e che se continua così qualcuno la denuncia
La spazzina non ha paura di nessuno raccoglie centinaia di foglie e fa vestiti adesso sono sue figlie le foglie secche
E’ arrivata la lettera di licenziamento del Comune per SilviaSfoglia che non fa il suo dovere ora è una disoccupata una fallita  ma per i senzatetto è una Dea una Fortuna una davanti cui pregare la seguono mentre lei corre lungo i viali del giardino pubblico ogni giorno SilviaSfoglia fa un vestito per una donna senza tetto per un uomo senza tetto per un bambino che ha freddo
SilviaSfoglia è utile alla terra  come le foglie secche
Me llaman calle me llaman SilviaSfoglia fo vestiti con le foglie per i senzatetto

 

L’immagine: Figura antropomorfa (cultura Chancay), Musée de la Manufacture de Sèvres

Massimo Salvati: Oblio Mucido

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di Massimo Salvati

È da poco uscito, per Alter Ego, il romanzo Oblio Mucido di Massimo Salvati.

Ospito qui un estratto, in anteprima.

***

Dissolvenza, mani intrecciate davanti agli occhi che si sciolgono. Luci e fosfeni, le nuove forme sfumano nelle vecchie. Per un po’ nessuno dei due è stato lì: hanno viaggiato lontano, oltre il vetro, fuori dalla finestra, in una regione sconosciuta.

Buio, corpo, fuori corpo.

In fondo, tra gli strati della penombra, accanto al letto un abat-jour illumina un paio di occhi sbarrati, puntati sull’ingresso: un volto di gesso. La fronte ha un’inarcatura sospesa. Le braccia rigide calate sul lenzuolo. Il corpo poggiato a mezzo busto alla testiera.

Una luce gialla investe gli occhi di Matteo. Entra dalla finestra aperta e si sposta sul soffitto; dalla forma conica si allarga e Matteo reagisce scattando verso la sorgente: guarda fuori: non vede nulla. Sente un ritorno di onde infrangersi, un profumo di mare e salsedine. Attende un attimo per scrutare tra il nero e l’informe. Il freddo e il buio indeboliscono qualsiasi pensiero e comincia a sfregarsi le mani; le compatta più che può, il gelo le ha impallidite e non si scaldano; sfrega più forte: piccoli granelli bianchi si staccano dalla pelle come fosse sale, sfarinandosi nell’aria. Li vede nei solchi delle nocche e sotto le unghie. Il pavimento di linoleum trema e una mattonella si incrina. Dalle crepe spuntano fuori delle sottili ife bianche. Le guarda: una vertigine gli fa mancare l’equilibrio e chiude gli occhi. Lì dentro, nel buio dietro le palpebre, le immagini tornano a ondate spezzate: l’asciugamano sul pavimento, le dita di Enrico sul fianco di Elena, lo sguardo di lei. Lo stesso che adesso sente puntato su di sé.

«Dottore può chiudere la finestra. C’è aria nuova».

Matteo si avvicina per un’ultima occhiata prima di chiudere i vetri. Fuori non c’è nulla. E si siede. Prende gli appunti dalla sedia accanto e annota: “02:02 attività verbale ancora consistente. Espressione rigida, smorfia facciale variabile (?), possibili spasmi muscolari e allucinazioni notturne. Nessun segno di miglioramento. Persistente confusione identitaria proiettiva”.

Rimane in ascolto del proprio respiro lento e irregolare. Poi, nel silenzio pieno di spigoli, Simone parla, quasi sussurrando: «Sei tu che te ne sei andato».

Matteo solleva la testa di scatto. Lo guarda. Simone ha chiuso gli occhi. «Cosa hai detto?». Non riceve risposta. Solo un breve respiro più profondo, un movimento involontario delle dita.

Lo guarda ancora un attimo, poi torna a sfogliare gli appunti meccanicamente, fino a quando da una pagina non cade a terra una fotografia; la raccoglie: è una vecchia foto di Simone ed Enrico in riva a un lago. Sorridono.

Una voce fuori campo, dentro di lui, mormora: Chi sta ricordando cosa, adesso?

La stufa a pellet riscalda l’aria, un tepore si insinua lentamente crepando la vista. Le pareti sembrano muoversi, pulsare con lui. C’è una fessura sul muro che non ricordava. Sottile. Viva.

È l’aria che cambia le cose. O forse è la luce.

Si alza. Riapre il taccuino e le righe oscillano. Le lettere si piegano, si fondono. Compare una frase: “Sei tu che te ne sei andato”. La sente risuonare, anche se nessuno ha parlato.

A Matteo l’immagine di Simone sembra sfumare, contorcersi; si sgretola in strati, in due, in quattro, riprendendosi e agglutinandosi in pezzi sempre più piccoli. Anche l’espressione è scorbutica, ora allegra, ora goffa. Non riesce a riconoscergli un volto: solo una voce che si interrompe.

Il corridoio è un’orchestra di luci; uno scintillio di pannelli elettrici, monitor e schermi mostrano le direzioni. I padiglioni sono indicati da strisce viola segmentate sul pavimento, il colore che Matteo segue. Passa oltre l’insegna “area B, sala 4”. Attraversa il corridoio pensando a Simone e alle azioni da compiere; la monotonia di certe architetture facilita la levitazione dei pensieri. La struttura è stata costruita con questo scopo, un manicomio ideale: un muro corre lungo il perimetro dell’edificio composto da due ali, per dividere i pazienti in base al sesso. All’ingresso, in un’ex infermeria è stata ricavata una grande sala comune, con due file di divani, tv con cuffie wireless, tavolo da ping-pong, tre grandi tavoli di legno smaltato con tovaglie a pois; schermi messi in loop di vecchi talk show nazionalpopolari; puzza di disinfettante e fumo di sigaretta.

Lungo il corridoio si sviluppano le camere, tutte sullo stesso piano. Sono state ricavate da camerate ridotte in box più piccoli. Ogni camera ha una smart tv programmata: l’ideale è che si resti a letto tutto il giorno, collegati agli apparecchi. La coscienza alleggerita dal supporto elettronico. E il tempo scorre.

Nella sua stanza privata tutto grida alla replicabilità: non più grande dello spazio di due sedie e un tavolo, con un piccolo bagno, le pareti mancano di qualsiasi quadro o dettaglio. Al centro, la scrivania è semplice e funzionale, di un finto legno pressato, dalla superficie liscia, con una finitura opaca e bordature rifinite senza spigoli, disseminata di opuscoli: qualche foglio scritto, dei pezzetti di carta con cui a volte Matteo fa i filtri delle sigarette che fuma di nascosto in bagno; tante penne di cui la maggior parte senza tappo; libri di cui non ricorda il titolo. La scrivania è un bazar archeologico.

Il computer è un blocco opaco, lento, con una schermata che lampeggia dopo ogni inserimento: “ACCESSO IN CORSO…”. A volte Matteo lo accende e lo guarda senza fare nulla. Aspetta che da lì esca una risposta, un’immagine, una voce.

Ha messo un post-it giallo accanto allo schermo. Sopra c’è scritto: “Non pensarci troppo”. Non ricorda quando l’ha scritto. La calligrafia è la sua, anche se lo guarda con sospetto. Forse era uno scherzo.

Nel cassetto inferiore ci sono dei guanti in lattice, dei lacci emostatici e una piccola confezione di benzodiazepine con un’etichetta staccata. Non le usa mai, ogni tanto le conta. Dieci. Sempre dieci. Si rassicura.

Carta e penna: “Conclusioni: dalla valutazione neuropsicologica emerge un quadro neurocognitivo caratterizzato da gravi difficoltà soprattutto nel dominio mnesico (in particolare nella memoria a lungo termine) e in quello attentivo (attenzione selettiva, divisa, alternata). La consapevolezza è a livello emergente: quindi, la persona non è in grado di riferire né di descrivere i propri disturbi motori e cognitivo-comportamentali. Alla luce dei dati raccolti in sede valutativa e delle informazioni anamnestiche, dell’osservazione comportamentale e del colloquio clinico, si conclude per un probabile deterioramento neurocognitivo grave (DSM-V) in base alle linee guida (LG, 2024)”.

Soddisfatto, allunga la mano e apre un secondo cassetto; frugando a memoria, estrae un contenitore con dentro rasoio e schiuma da barba. Ho proprio bisogno di concedermi un attimo, resterò qui ancora a lungo.

AzioneAtzeni – Discanto Quindicesimo: Carlo Grande

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Azione Atzeni – Discanto Quindicesimo: Carlo Grande

Discanto Quindicesimo*

Ruggero Gunale esiliandosi dalla città e discutendo con se stesso di principi morali
ha una visione mistica

  da Il quinto passo è l’addio, di Sergio Atzeni

L’ultimo esilio
di
Carlo Grande


Il primo passo è la lotta
bracciate controcorrente
chiedo agli occhi e alle braccia
di essere forti
esser forti bisogna,
che a Carloforte sono.
Al largo, e son solo.


Nulla sapevo
di distanze fra le stelle
qualcuno raccontò
ma era già troppo
e ora ritorna, parola per parola
il gioco di specchi della vita
(che non è poi quel granché)
di quel cane sciolto
nipote di servo, figlio di calzolaio
pecora nera
la sua testa spiumata di neonato
e fiamme e miraggi e sogni di mirto
l’ebrezza di ginepro e rosmarino
la cuccia sottotetto nel tormento.

Il secondo passo è il ricordo
rivedo me stesso sempre fuori posto
i concorsi truccati
i sogni al giornale
il Poetto e Torino
vie e piazze e Carli Alberti, Felice, Emanuele
i boulevard e l’Ecce homo, torre pazza
il fallimento e l’addio all’isola
ai compagni
al partito
l’anima salva a fatica,
gli argini al dolore
che schiudono le porte della poesia

Ricordo, sciamano di spalle larghe
nuotatore sardeuropeo
le fumate di canapa
e Lei
acquattata in ogni pensiero
donna e occhi color carbone
ritmo pazzo del corpo
nudi artigli sulla schiena
nella stagione dei gatti in amore
A Lei chiedo perdono
per l’avarizia di me stesso
per l’energia scomposta
di sesso, lotta, pugilato e scrittura
chiedete a Lord Byron
chiedete a me
del nuoto, dell’acqua e della morte
dell’alveare di pesci
che di sotto stanno a guardare

Sono al largo, sono solo
e sono antico
sono vero
capelli di alghe e di nuvole
mille radici mescolate alle onde
l’acqua antica mi battezza
ignobile e folle come un muflone.

La mia stagione all’inferno
aggrappato allo scoglio
nel Grande Scacco
nell’ora estrema
il terzo passo è il delirio
sotto gli occhi di tutti
sognando la poesia
nel teatro del mondo
solo fumo e chiaroscuri
passi sul palco e lame d’ombra
freddo carnale
senza soccorso
una barca è vicina
urlano qualcosa
io sono qui
sangue di antichi erranti
stirpe ebrea marrana
sarda e genovese
araba e catalana
son perduto
su questo scoglio arroccato
sulla mia ultima nave

Il quarto passo è l’agonia
occhi umidi, muscoli di pietra
uomo di antica stirpe
principe della zolla e dell’onda,
figlio di fabbro e di bruscia
quale fantasma mi salverà
mi strapperà a questa terra di nessuno
all’esilio
di onde e di sale
nel cui grembo scivolo
aghi di luce
fino all’ultimo respiro
che è l’addio.
Diranno: “Se l’è mangiato il mare”
Questo dite: “Passò leggero
come una bella persona”.

 

 

* Azione Atzeni- mode d’emploi

di

Gigliola Sulis e Francesco Forlani

‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, accompagnati dalle registrazioni dei podcast a cura di Orsola Puecher, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale. * Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia Gigliola Sulis, Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012  

Si può seguire il PODCAST su:

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Da “Scritture digitali. Dai social media all’IA e all’editing genetico”

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[Faccio parte di coloro che, da tempo, portano avanti un discorso di critica della “ragione tecnologica”, ossia di critica nei confronti della modalità attraverso cui le tecnologie, nella odierna società capitalistica, ci vengono allo stesso tempo imposte (come frutto di progresso ineluttabile) e raccontate come docili strumenti, di cui gli utilizzatori possono con accortezza trarre grande profitto (per le loro vite individuali). Sono quindi sempre molto felice d’incontrare gente della mia tribù, che ritengo comunque meno numerosa di quel che sarebbe necessario. In coda un mio pezzo satirico, è intervenuto, grazie alla mediazione di Fabrizio Venerandi, Roberto Laghi, di cui non conoscevo il lavoro. Lavoro di cui posso oggi proporvi alcuni estratti. Si tratta del suo ultimo libro: Scritture digitali. Dai social media all’IA e all’editing genetico (Meltemi, 2025). a. i.]

di Roberto Laghi

Lo sviluppo delle tecnologie digitali ha seguito una direzione definita soprattutto da questioni economiche, politiche, ideologiche prima ancora che tecniche. Se oggi abbiamo i dispositivi e i servizi digitali che abbiamo è perché “la tecnologia non è e non potrà mai essere una cosa a sé stante, isolata dall’economia e dalla società”, ma ciò significa anche che “l’inevitabilità tecnologica non esiste”[1]. Non dobbiamo quindi farci ingannare dal discorso dell’industria tech, dalle sue semplificazioni e dalla sua retorica del progresso:

[…] il motivo per cui il discorso industriale si basa su questa ideologia è piuttosto banale: per vendere nuovi prodotti, un’azienda deve spiegare perché la nuova versione meriti. […] Il progresso spinge all’acquisto. […] La seconda parola chiave del discorso industriale è profondamente legata alla prima: semplicità. […] L’argomento della semplicità è pericoloso perché implica un ampio movimento verso la standardizzazione e perché riduce la possibilità di pensiero critico. Gli utenti non devono sapere come funzionano le cose, né chiedersi di cosa hanno bisogno: la soluzione viene prima della domanda.[2]

Vitali-Rosati rimarca alcuni concetti già considerati nel discorso sulla relazione tra l’essere umano e la tecnica. Il fatto che gli utenti (considerati come acquirenti di dispositivi digitali, quindi consumatori[3]) non debbano nemmeno arrivare a chiedersi come l’oggetto tecnologico funzioni né di cosa abbiano realmente bisogno mette in luce due aspetti chiave. Il primo riguarda l’assenza di educazione tecnica illustrata da Simondon ma portata su un piano più profondo: la non conoscenza della macchina diventa, con le tecnologie digitali di massa, una condizione auspicata, indotta intenzionalmente da chi le produce e commercializza ed è incorporata negli oggetti stessi; questo complica la nostra relazione con la tecnologia, di fatto limitando le nostre possibilità di uso (nel senso che facciamo ciò che ci viene consentito e non ciò di cui possiamo avere bisogno). Il secondo aspetto conferma la tendenza alla percezione sacrale della tecnologia, che orienta così la tecnologia stessa e il nostro modo di viverla verso il soluzionismo e l’aspirazione tecnocratica a un potere incondizionato di cui parla Simondon. Vale la pena, inoltre, sottolineare la componente di previsione insita nelle tecnologie digitali odierne; se la soluzione arriva prima della domanda significa che la tecnologia è in grado di prevedere questa domanda (modificandola, guidandola e forse anche imponendola): ma non si dà previsione da parte della macchina digitale senza che ci siano anche sorveglianza e individuazione[4].

La storia dei media, inoltre, è

etimologicamente politica, riguarda il concetto stesso di socius […] e determina dunque la riorganizzazione complessiva del nostro sopravvivere in quanto specie, sicché ogni modificazione nei mezzi di comunicazione (ma sarebbe meglio definirli di informazione, vale a dire di ‘programmazione’) ridisegna la scena del mondo, e la parte in essa che ci viene assegnata.[5]

Le tecnologie, scrive ancora Frasca, “estendono i nostri sensi, e dunque, nello stesso momento in cui ridisegnano un modello di mondo, programmano una gerarchia sensoriale e una modalità di percezione”[6]. A questo proposito e con un riferimento specifico al reality shaping che le aziende Big Tech compiono costantemente attraverso le piattaforme, Seymour avvicina il funzionamento di queste ultime a quello delle post-democrazie occidentali, il cui obiettivo sarebbe la gestione della popolazione. Le piattaforme digitali, infatti, attraverso gli algoritmi “colpiscono al di sotto dell’intelletto, lavorando sotto la superficie della persuasione, costruendo realtà nella nostra esperienza quotidiana. Non negoziano con i nostri desideri, ma modellano ciò che siamo in grado di desiderare”[7].

[…]

Siamo già stati inconsapevolmente travolti dalle precedenti novità tecnologiche, con l’espansione di Google, i social media e gli smartphone. Ma quale impatto ha la produzione automatica di scrittura? Nonostante i risultati che possono sembrare sorprendenti, i modelli linguistici non sono in grado di produrre una scrittura veramente originale perché ripropongono, statisticamente, le sequenze di parole con cui sono stati condizionati. Secondo lo scrittore di fantascienza Ted Chiang, i modelli linguistici come ChatGPT sono più o meno delle fotocopiatrici che producono risultati della qualità di immagini JPEG sfocate[8]. Chiang si interroga sull’utilità di questa scrittura per gli esseri umani, in particolare se usati come punto di partenza per scritture creative originali (narrative o saggistiche) e sostiene che “iniziare con una copia sfocata di un lavoro non originale non è un buon modo per creare un lavoro originale”[9]. Se il lavoro dello scrittore consiste nell’affinare la sua capacità di costruire un testo denso di significato, consegnare questi tentativi alla produzione del modello linguistico limita il tempo di elaborazione che un autore mette nella produzione della sua scrittura. Le conseguenze di questo approccio potrebbero essere una produzione standardizzata e meno originale, così come sta accadendo per la produzione culturale in senso lato in un mondo dominato da algoritmi di raccomandazione.

In questa corsa all’IA, che fa pensare a una nuova bolla tecnologica che si prepara a esplodere[10], i modelli linguistici sono integrati in servizi usati quotidianamente ma i rischi per gli utenti sono alti, dato che le risposte generate possono essere false e non affidabili[11]. Siamo potenzialmente davanti a un ulteriore scollamento tra la realtà fattuale e la capacità di pensare questa realtà da parte degli esseri umani. Davanti ai rischi concreti, un approccio etico al tema è più che mai necessario, ma potrebbe non essere sufficiente, poiché il digitale impone una radicale trasformazione anche delle categorie di pensiero che strutturano la cultura occidentale.

Se l’umano non è più al centro dell’infosfera (nel senso che le macchine possono trattare e organizzare l’informazione in autonomia), occorre cambiare la nostra relazione con le macchine digitali. Per liberare l’immaginazione umana, il filosofo della tecnologia Yuk Hui propone tre nuove premesse: prima di tutto “sospendere l’antropomorfizzazione delle macchine e sviluppare un’adeguata cultura della protesi”, perché “la tecnologia dovrebbe essere usata per realizzare il potenziale dei suoi utenti […] invece di essere un loro concorrente o ridurli a modelli di consumo”. Poi, “comprendere la nostra attuale realtà tecnica e la sua relazione con le diverse realtà umane, in modo che questa realtà tecnica possa essere integrata con esse per mantenere e riprodurre la biodiversità, la noodiversità e la tecnodiversità”. Infine, “invece di ripetere la visione apocalittica della storia […] liberare la ragione dal suo fatidico cammino verso una fine apocalittica. Questa liberazione aprirà un campo che ci permetterà di sperimentare modi etici di vivere con le macchine e con gli altri non-umani”[12]. È necessario ripensare il ruolo degli esseri umani all’interno di un contesto più ampio, in cui coesistono diverse forme di cognizione e di intelligenza e in cui l’umano non sia più al centro, ma attore tra tanti all’interno di un (eco)sistema complesso.

[…]

Era chiaro sin dall’inizio che era fondamentale adottare una prospettiva radicalmente critica per analizzare le tecnologie digitali, ma il bisogno di trovare strumenti teorici anche al di fuori del campo umanistico si è fatto ancora più evidente durante lo studio delle scritture prese in esame, che ci hanno infatti portato al cuore delle domande sollevate dall’emergere della società digitale in cui siamo ormai immersi.

L’approccio critico che ha guidato la ricerca ha reso evidente che le tecnologie oggi diffuse non sono l’unico orizzonte digitale possibile, quanto piuttosto l’espressione di un modello economico ben preciso: l’evoluzione del capitalismo al tempo dei big data. Immaginare (e costruire) altre declinazioni del digitale è necessario. Abbiamo visto gli esperimenti di intelligenza artificiale localizzata e comunitaria creati dalla coppia Iaconesi e Persico, ma ci sono anche altre realtà più conosciute e diffuse: l’enciclopedia collaborativa Wikipedia o, ancora, forme di social media comunitarie e no profit, come il fediverso[13]. Per immaginare e creare tecnologie diverse, però, occorre anche un immenso lavoro di alfabetizzazione ed educazione critica al digitale, non solo per poter essere cittadini consapevoli e attivi, ma anche perché ci permetterebbe di capire meglio la relazione che abbiamo con i dispositivi digitali, anche perché è sempre più spesso attraverso questa relazione che facciamo esperienza della realtà.

*

Note

[1]S. Zuboff, op. cit.

[2]M. Vitali-Rosati, On editorialization, cit., pp. 100-101.

[3]Sul concetto di utenti (users) dei servizi digitali commerciali rilancio la (relativa) provocazione di Richard Seymour: “siamo ‘utenti’ quanto i tossicodipendenti da cocaina sono ‘utenti’” (R. Seymour, op. cit., p. 24).

[4]J. Bodini, Le repubbliche sentimentali e l’in-formazione del desiderio, in M. Carbone, A.C. Dalmasso, J. Bodini (a cura di), I poteri degli schermi, cit., p. 239.

[5]G. Frasca, La letteratura nel reticolo mediale: la lettera che muore, Luca Sossella Editore, Roma 2015, p. 24.

[6]Ivi, p. 26.

[7]R. Seymour, op. cit., p. 173.

[8]Il JPEG è un formato di compressione per immagini definito “lossy”, cioè che perde molti dettagli dell’immagine per riuscire a ridurla di peso. Si differenzia dai formati “lossless” (senza perdita) che invece conservano tutte le informazioni delle immagini originali.

[9]T. Chiang, ChatGPT is a blurry jpeg of the web, in “The New Yorker”, 9 febbraio 2023, https://www.newyorker.com/tech/annals-of-technology/chatgpt-is-a-blurry-jpeg-of-the-web.

[10]L. Floridi, Why the AI hype is another tech bubble, 18 September 2024, https://ssrn.com/abstract=4960826.

[11]K. Jiang, Google’s new AI search function is revolutionary – but don’t believe everything it says, experts say, in “Toronto Star”, 15 giugno 2023, https://www.thestar.com/business/technology/2023/06/15/googles-new-ai-search-

function-is-revolutionary-but-dont-believe-everything-it-says-experts-say.html.

[12]Y. Hui, ChatGPT, or the eschatology of machines, in “e-flux Journal” #137, giugno 2023, https://www.e-flux.com/journal/137/544816/chatgpt-or-the-eschatology-of-machines/.

[13]Con il termine ombrello fediverso (che fonde le parole inglesi “federation” e “universe”) si intende un network costituito da diversi social network che, pur se installati e amministrati indipendentemente, possono comunicare tra di loro, in base al protocollo ActivityPub, in modo decentrato, senza manipolazione algoritmica e senza pubblicità.

Seta e ragnatela

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di Letizia Dimartino

Il tremore della sua voce al mattino, quando il letto non aveva più un calore, quando si faceva marzo come improvvisamente e il vento spingeva tutto, i vetri appannati, il cielo con la burrasca del mare, la luce appena gialla dell’alba. Allora prendeva un bicchiere d’acqua e lo trangugiava di fretta e il corpo aveva un sussulto e le dava il segnale del vivere. Il vivere possibile. Lasciava le coperte, pantofole e pigiama e attendeva che lui la chiamasse. Era un momento di difficoltà grande, bisognava uscire dal sogno della notte e poi dal dolore che la accompagnava. Pettinava un ciuffo, si sedeva abbracciando un cuscino e pensava che non avrebbe più avuto desideri. I cristalli della casa lucevano e la palma in giardino sembrava girasse in tondo, e il mare brillava ancora. Lui era puntuale. La prima domanda riguardava la salute. Lei prendeva una pillola durante la conversazione, sorrideva con fatica, a volte invece leggera di speranza. Immaginava che lui avesse un basco, il colletto del giaccone rialzato, il vento che lo sospingeva lungo il viale, il sapore del caffè nelle labbra, le mani ghiacce. Gli raccontava della sua nottata e del giorno prima e delle gambe che la reggevano poco, della città che avrebbe voluto vedere e degli uccelli nel cielo sopra la casa, del libro poggiato sul comodino e lasciato aperto. Dell’abito che avrebbe voluto indossare, del bacio che non aveva più un tempo. Lui aveva il freddo nella voce, l’aria nel respiro, la città alle spalle e i suoni allarmanti dei clacson e le fermate dei tram. Le diceva che non l’avrebbe abbandonata ma che doveva pazientare e attenderlo, che lui curava il dolore e la teneva stretta, ma avrebbero avuto solo le loro voci e un amore che non era un amore, però la pensava e lo avrebbe avuto sempre così e poteva bastare. Lei, durante, vedeva un coniglio attraversare la campagna e poi un uccello con le ali aperte posarsi in cima all’albero più alto e capiva che loro avevano due mondi lontanissimi eppure vicinissimi. Lui la salutava con un po’ di fretta, col tono alto e sicuro, lei con le parole sospese e che si affievolivano man mano. E poi, esausta, si abbandonava sulla poltrona e il sole inondava d’un tratto la stanza e il verde fuori, e il mare luceva e lei sapeva che stava esistendo lo stesso. Che tutto poteva essere la pagina di un romanzo o anche niente.
La sera stava sdraiata, accendeva le lampade, il corridoio in penombra, le tende accostate, il rumore spaventoso del mare che conosceva bene, il paese puntellato da luccichii. Il cellulare squillava ed era il solito colpo al cuore, la punta di un dolore alla tempia, il timore di non sentirlo più. Lui tornava a casa, chiudeva lo studio, abbassava le serrande, spegneva i lampadari, chiudeva la porta e intanto parlava con lei. Per non perderla. Le chiedeva se aveva cenato, se aveva rimpianti, e intanto il respiro era affaticato lungo la strada che percorreva, lei sentiva i suoi passi sul selciato. Gioiva lui se lei rideva, le diceva di pensare ad un albero prima di addormentarsi, e lei allora guardava gli alberi neri del giardino e li credeva complici del loro parlare. Lui sapeva che lei ormai conosceva solo il dolore, in una commozione crescente. Le raccontava di un viaggio antico, di una preghiera imparata con sollievo, dei pazienti che credeva restassero nel per sempre, del Gange e della neve, di ciò che lei sapeva dire e pensare, di come l’avrebbe accompagnata nei giorni. La notte scendeva per ambedue, in due case diverse, in due menti lontane, in due stanze, in due passati mai vicini. Lei gli dice sorridendo: ti ricordi quel film dal titolo “Noi due sconosciuti”?
E lui le dice: leggi il libro che ti ho consigliato, ci sei tu lì dentro. Tutta tu.
E il saluto arriva gioioso e un po’ imperioso. E lei socchiude gli occhi. E pensa. Ed è ciò che sa fare: pensare.
Sa che dormirà a stento, che guarderà a lungo fuori, nel buio, sa che avrà ricordi strani e sogni duri, che accenderà la lampada e il tetto della stanza avrà un ghirigoro traslucido e asciugherà i suoi occhi stanchissimi, e sentirà il freddo dell’inverno a mare, quello che fa appiccicare le lenzuola e non fa trovare spazio nel letto. Poi leggerà un poco, fermandosi più volte, toccando il suo viso e guardandosi allo specchio per ritrovarsi. Lui sarà distante e come inesistente, un pensiero estraneo, un amore mai nato.
La città di lui ha tetti rossi, strade strette, portici antichi, ombre. Il paese di lei ha colori irriverenti, sfacciati a mezzogiorno, tenui al mattino, aranciati sul finire del giorno. Ma lei vorrebbe andare dove lui vive, sentirne il freddo deciso che perfora il petto e i pensieri, i filari in periferia, la neve sui monumenti, i cappotti pesanti e i guanti alle mani, il brodo della cena, le risate forti, il vino scuro, il profumo denso dei pranzi domenicali. Lui le racconta delle sue passeggiate sotto i portici e i comignoli che fumano. Lei lo aveva voluto quest’uomo, lo aveva afferrato con le mani e con le parole. Per non perderlo mai. La sua voce nel cavo dei polmoni e nel cervello. La sua vita al mare stravolta. Il futuro di seta e ragnatela. Le ore da sopportare in silenzio e in attesa. Il futuro inventato nel per sempre.
Di lei nessuno saprà nulla. Di lui nemmeno. Vivrà lei ancora un poco. Poi resteranno le sue cose e lui non le vedrà più. Lui camminerà nelle strade della sua città dai tetti rossi. La ricorderà così: la mano nella sua, quel giocherellare con le dita, contandole, dieci e poi venti. E poi dieci e poi un bacio sul palmo. Sarà per anni e anni un pensiero sciupato, un incontro smarrito.

 

Per una “eternità piena di parole”. Il nostro ricordo di Anna Toscano

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Anna Toscano in una foto tratta dal suo profilo su Facebook

di Davide Orecchio

Abbiamo perso Anna Toscano. Una letterata alla quale non mancava alcun talento. Poeta, giornalista culturale, docente, fotografa. Era bravissima in tutto quello che faceva. La notizia della sua morte l’ha data il marito, compagno di vita, il poeta Gianni Montieri, ieri, 8 dicembre, in un giorno che avrebbe dovuto essere di festa e di riposo.

Anche noi di Nazione Indiana, come tante e tanti in queste ultime ore, siamo vicini a Gianni e alla famiglia di Anna. È sempre difficile, impossibile, spiegare l’inesplicabile. Ma oggi lo è ancora di più. Una donna ricca di doni e capacità ci ha lasciati prematuramente. Una coppia così unita da tutto, dall’amore reciproco e dall’amore per la poesia, per la letteratura, è stata spezzata. Non si può spiegare. E forse non si deve. Perché è semplicemente ingiusto.

Gianni ha dedicato parole commoventi alla sua compagna:

Anna, la mia Anna, la mia adorata Anna, da stamattina è libera, è andata. (…) Mi è scivolata dalle dita. (…) Ci siamo amati tanto, ci ameremo per sempre. Questi 16 anni sono stati i più felici, i più brillanti di questa vita.

Nel suo commiato da Anna, Gianni cita anche una poesia della moglie che si conclude così:

"Voglio un'eternità piena di parole, libere". 

Cerchiamo anche noi, qui, di dare il nostro piccolo contributo perché questo desiderio sia esaudito.

Negli ultimi due anni Anna aveva iniziato a pubblicare su Nazione Indiana. Era iniziato tra noi un discreto scambio epistolare che funzionava in modo molto semplice. Anna mandava delle proposte, e io le accettavo tutte. Devo ammettere che ero felicissimo di riceverle, tanto quanto sono triste perché non ne riceverò più. In questi testi critici Anna aveva iniziato a ricomporre la foto di gruppo di un Pantheon letterario che ospitava le autrici da lei più apprezzate e studiate. La prima fu Lisetta Carmi. L’ultima è stata Hope Mirrlees.

Ma non mancano incursioni d’autrice, più artistiche che critiche, che oggi non riesco a non leggere con gli occhi e nel colore di quanto è appena successo. Ad esempio questo lungo e toccante reportage tra le epigrafi e la memoria dei defunti, dove Anna scrive:

Ciò che si nota nelle foto delle epigrafi appese ai muri in questi ultimi anni è la vita che straripa, fino al punto che a volte i bordi paiono espandersi, e basta tendere una mano, un braccio, alla persona per farla uscire di là e trovarsela in corridoio, come in un vecchio video degli a-ha.

O queste parole dettate da una visita alla casa museo veneziana di Rossana Rossanda:

Plausibile dunque che, come molte persone hanno scelto di vivere a Venezia e molte altre di venir seppellite nell’isola di San Michele, chissà quante avranno chiesto di trascorrere qui l’eternità.

Allora eccole qui, nell’indice che segue, tutte le parole “libere” che Anna Toscano ci ha donato. L’unica e ultima eccezione è un articolo di Antonella Cilento, pubblicato lo scorso settembre, che ricostruisce il prezioso lavoro di Anna nella riscoperta e divulgazione dell’opera di Goliarda Sapienza.

Buona lettura, e buona memoria.

Cento di questi anni Lisetta Carmi 

15 Febbraio 2024

Personaggi oltre le righe. Rileggere Brianna Carafa nel suo centenario 

17 Giugno 2024

Per un ritorno dei libri di Janet Frame. Cento di questi anniversari 

28 Agosto 2024

Epigrafi a Nordest 

18 Ottobre 2024

Grace Paley e l’essere fuori luogo. Un anniversario 

11 Dicembre 2024

L’eredità del corpo memoria nei libri di Goliarda Sapienza 

18 Maggio 2025

Viaggio nelle stanze, e nell’isola, di Rossana Rossanda 

11 Giugno 2025

Marina Jarre, una scrittrice da riscoprire in occasione del suo centenario 

3 Luglio 2025

Viaggiare in versi con poete di inizio Novecento 

11 Agosto 2025

La doppia vita di «Ancestrale» di Goliarda Sapienza 

di Antonella Cilento
24 Settembre 2025

Una passeggiata artica

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di Flavio Stroppini

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Riportiamo di seguito tre estratti da “Passeggiata artica”, di Flavio Stroppini, pubblicato di recente da Ediciclo, che ringraziamo; i disegni che accompagnano il testo nel volume sono di Bianca Di Prima

Nel bianco

Il bianco è accecante, i raggi del sole riverberano ovunque. Non ci sono ombre. Il buio è un sipario nero quando non si vedono le stelle. Si perde l’equilibrio. Tutto è in quantità estreme, non ci sono mezze misure. Questi paesaggi portano alle allucinazioni. Qua è un fenomeno tipico, e ognuno racconta le sue. La più comune è avvertire la presenza di qualcuno e poi vederlo, che si avvicina o che si allontana. O ancora peggio, che ti insegue. Il cuore accelera e si viene invasi dalla paura. È successo anche a me.
Stavo tornando al Manguier dopo una passeggiata di media lunghezza. Tirava un vento debole, sollevava qualche centimetro di neve, che, come un fiume uscito dagli argini, mi scorreva ai fianchi, e dietro, e davanti. Ridevo sollevando il tuk, come un modello sciamano che governava i venti. Il sole era di un rosso pallido e tramontava sulle montagne a tribordo della nave, che vedevo a un paio di chilometri sulla banchisa. Attorno il cielo con un po’ di foschia che stemperava le pennellate di blu, azzurro e rosa del cielo. All’improvviso, alla mia destra, ai confini di una caletta ho visto qualcosa muoversi, rapida. Vista la distanza doveva essere grosso. Ho immediatamente pensato a un orso polare. Ho accelerato il ritmo della camminata. Il cuore tambureggiava, forte. Lottando contro il mio istinto mi sono fermato. Ho cercato di dosare la paura. “Non ci sono orsi bianchi in questa zona, in questo periodo” mi aveva detto Phil. Ma cos’era quello allora? Si avvicinava, rapidamente. Ho preso il binocolo ma per l’ansia non riuscivo a mettere a fuoco. Ci ho messo un bel po’. Non c’era niente. Mi sono convinto che l’animale si fosse spostato. Sono animali intelligenti gli orsi. Mentre mettevo a fuoco le lenti del binocolo, ne aveva di sicuro approfittato per portarsi alle mie spalle. Ho tolto i guanti per stringere meglio il tuk con entrambi le mani e ho iniziato a marciare all’indietro come un gambero. Due chilometri, infiniti. Poi su, di corsa, sulla scaletta del Manguier.
Dopo essermi calmato e scaldato le mani sulla stufa a legna ho raccontato del mio incontro a Phil. Lui è scoppiato a ridere e stappando una bottiglia di rum ha voluto brindare alla mia prima allucinazione artica.
Ne sono capitate altre, fortunatamente non sono andate a toccare paure ataviche, ma sono state esperienze stranianti. Una slitta trainati da cani, una schiera di inuit, una motoslitta, un branco di caribù. Tutti incontri quasi possibili che però non si sono avverati. Nel mio tempo passato nell’Artico ho capito che è più semplice tenere al riparo il corpo che la mente.

 

 


19 febbraio 2023

I giorni iniziano a scorrere molto rapidamente. Sveglia, riscaldare la nave, colazione abbondante. Mappatura del territorio. Registrazione. Ritorno. Scaricare il materiale. Prendere appunti. Cenare. Scrivere. Mettersi in cuccetta ben coperti e leggere un’oretta. Ricominciare.

Nel bianco

Il paesaggio si apre. Niente più montagne. Niente più colline. Niente se non ghiaccio, all’infinito davanti a me, illuminato sottilmente di taglio dal sole che cala a ovest. Ai lati del mio sguardo una dozzina di iceberg che sembrano origami giganteschi ed emettono una misteriosa luce azzurra. Il vento, soffiando basso, crea correnti di neve che compongono e disfano mandala bianchi per tutta la banchisa. Al centro, a coprire l’orizzonte, un iceberg solitario. Raggiunge una ventina di metri di altezza, sviluppandosi su tre picchi che sembrano i tre alberi con le vele al vento di un veliero di ghiaccio. Riconosco il paesaggio del mio sogno ricorrente. Ma l’iceberg non sembra volare a qualche centimetro dal suolo. No, la sensazione è che galleggi al pelo della banchisa. Non si muove. Sembra solo leggero, come una nuvoletta disegnata da un bambino. Chiudo gli occhi per le troppe emozioni che mi stanno facendo vibrare. Ho troppe domande a cui non saprei rispondere. Mi sento parte di tutto questo. Sono tutto e niente. Sono fermo e in rapido fluido movimento interno. È come se tutto quello che ho sommerso dentro di me si fosse trasformato in un paesaggio fisico. Chiudo gli occhi ma continuo a vedere. Ho i piedi ben saldi a terra ma quel che accade è qualcosa di più grande di me. Tengo gli occhi chiusi, così da non perdermi niente.
Quando li riapro sono passati secondi, stagioni, secoli, tutta la mia vita e altre prima ancora, minuti.
Il cielo gocciola luce lunare.
Piango.
Non posso fare altro che andarmene.
Per vivere, tornare.

presque un manifeste #3

0

di Francesco Ciuffoli

une lecture italienne de l’affaire

***

cronostoria degli eventi che hanno portato a questo articolo:

11 | 2008 – 09 | 2011 – 04 | 2018 – 10 | 2024 – 12 | 2024 – 02 | 2025 – 04 | 2025

7 date riportanti gli eventi descritti nel testo e quelli più nascosti, personali.

7 saranno anche le sezioni che comporranno dunque questo quasi-manifesto.

+ + + + + + + + +

indice in cui tradiamo già da ora quanto detto

 

Parte 1

Section 5. La questione rivoluzionaria è ormai una questione musicale

Section 6. Appendice #2. Ai fotografi

Section 10. Workbook

Section 1. 26 indici per un indirizzo

 

Parte 2

Section 8. Piccolo manifesto di una nuova estetica

Section 4. Appendice #1. Ai poeti

Section 2. Il punto di vista estetico

Section 3. Poesia, capanne, skené

 

Parte 3

Section 7. Un epilogo. A tutte le persone che amo

Section 9. A questa cosa mai accaduta, mai appianata

+ + + + + + + + +

 

Section 7. Un epilogo. A tutte le persone che amo

nella mia vita ho registrato – dai sedici ai ventisei – così poco di tutte quelle foto che ho fatto? nulla, sicuro non immagini

***

+ + + + + + + + +

Section 9. A questa cosa mai accaduta, mai appianata

da un libro che non è finito, da un titolo di un libro che ho letto

***

Il pacifismo funziona quando si muove parallelamente alla paura del governante.

Ogni protesta pacifica è stata sempre accompagnata parallelamente da una lotta.

Ci sono molti più feriti e morti dietro King, Mandela e Gandhi che dietro il 68’ o il 77’.

Il pacifismo non produce niente. La pace infatti l’hanno fatta Stati Uniti, Israele.

 

***

 

I

 

Tutto ciò che cerco è un’atmosfera familiare, sentirmi a casa,

rivivere ancora tutti quei momenti con qualcuno

tutti quelli che poi penso io-solo ho perduto

 

dove, come, oggi – mi chiedo –

perché a me perché

.

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.

.

I tre libri fondamentali del buon reporter:

Gaia Scienza; Essere e tempo; Differenza e ripetizione.

 

A cui potremmo aggiungere: Messa in scena,

Ritmanalisi, Lefebvre.

 

.

.

.

.

oggi sento di non amarmi più come un tempo,

non che io poi ne sia mai stato in grado

non che l’abbia fatto

 

ma è questione (forse) anche qui per cui bisogna

esserne predisposti

 

guardarsi, attendere, sorridere (sempre)

non sembra?

.

.

.

.

Vedi. È come se certe volte

Affacciandoti su quanto accade nel mondo

Si potesse scorgere ogni dettaglio

Come se tutto fosse ripetibile

 

A quel punto è l’aura delle cose, nella loro disposizione

e in-disposizione che ci permette di

 

comprendere e analizzare, prendere la decisione giusta

nell’esatto momento

.

.

.

.

da quando la borghesia ha conquistato il sole

 

In questo infinito crescendo: emancipazione, lotta-

politik e resistenza,

 

estetica ≠ estetizzazione; l’estetizzazione è il problema

nella pratica; dovrebbe

 

essere come vivere; tra due mondi

nell’intersezione viva delle cose; in fondo è

l’in-mondo che ti permette di: unire i pezzi; provare

a cucirne le parti

.

.

.

.

 

Nel caos significativo delle cose

Oggi re-imparerai così a scrivere

 

poco per volta

 

Questo è lo stato del consuntivo

 

  1. Bilancio c. (o il consuntivo s.m.), rendiconto dei risultati di un dato

periodo di attività di un ente o di un’impresa; estens..

“fare il c. della propria vita”

  1. Attinente al consumo di godimento, in antitesi al consumo

riproduttivo.

“impieghi c.”

 

In somma, un giro di chiavi

che si divora (di continuo)

.

.

.

.

«No, il 4 non sto andando. Ho paura della DASPO, ho paura che con il fermo

mi giochi anche la possibilità di trovare casa, lavoro, per davvero.

.

.

.

.

 

Il riassorbimento simbolico –rappresentazionale e poi semantico è qui

sempre previsto dalla logica del valore astratto dal Capitale,

non ti far fregare. Non farti / fregare mai.

 

Te ne prego

.

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.

La lotta non deve Essere, deve Passare

anche da questo. La lotta

come attraversamento

per il cambiamento

.

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.

In fondo, non era Deleuze che diceva / affermare l’esistenza

solo nel movimento; da uno stato a un altro, il ripetersi dell’identico;

il mai più di ogni preciso momento che seppur confuso esiste ed è

esistito senza “se”, senza “ma”; l’annullamento

della dialettica (hegeliana), del turn

 

on / off

 

T          flip-flop

.

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Esistono numerose applicazioni dei flip-flop a T nei sistemi digitali,      ne elenchiamo alcune di seguito:

 

Contatori: i flip-flop a T vengono utilizzati nei contatori. I contatori contano il numero di eventi che si verificano in un sistema digitale.

 

Memorizzazione dei dati: i flip-flop a T vengono utilizzati per creare una memoria che memorizza i dati quando l’alimentazione viene interrotta.

 

Circuiti logici sincroni: i flip-flop a T possono essere utilizzati per implementare circuiti logici sincroni, ovvero circuiti che eseguono operazioni su dati binari in base a un segnale di clock. Sincronizzando le operazioni del circuito logico con il segnale di clock utilizzando i flip-flop a T, il comportamento del circuito può essere reso prevedibile e affidabile.

 

Divisione di frequenza: viene utilizzata per dividere la frequenza di un segnale di clock per 2. Il flip-flop commuta la sua uscita ogni volta che il segnale di clock passa da alto a basso o da basso ad alto, dividendo quindi

 

la frequenza di clock per 2. Registri a scorrimento: i flip-flop a T possono essere utilizzati nei registri a scorrimento, che vengono utilizzati per spostare i dati binari in una direzione.

.

.

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.

Nel presente di questa situazione

unisci il ricordo, l’emozione.

 

La funzione immaginifica fa miracoli.

 

*

 

II

 

Hai visto il morto? Mi dicono nell’atrio del condominio. Scopro così, il pomeriggio di quello stesso giorno, che sotto casa c’è morto, un uomo. L’hanno visto uscire dal palazzo affiatato, pazzo, correva ovunque, ha provato a rubare una bicicletta, poi l’hanno fermato, poco prima che si accasciasse da solo a terra, prima di morire di crepacuore. Io non ho visto o sentito niente, ero preso da altro, dal mio conflitto interno tra fare e dire.

 

Non ho visto nulla di ciò che era successo, né avrei neanche potuto dal lato del palazzo sui cui affaccio. Mi sono comunque, anche qui, disinteressato della faccenda, non mi interessa granché di questa storia. E poi, io non ho visto né sentito niente. Anche affacciarmi adesso, a posteriori, non mi interessa persino nel momento in cui mi sono trovato nell’atrio con il cadavere poco più in là, a cento metri, una volta usciti, avrei potuto osservare il corpo steso sull’asfalto, circondato magari dal nastro, dai poliziotti stessi, dalle auto della polizia.

 

No, non mi interessa. So solo che è stato coperto con un telo bianco a poche decine di metri dal portone, l’hanno visto su qualche servizio del tg locale. Ne hanno anche parlato al bar il mattino seguente.

.

.

.

.

da quando la borghesia ha conquistato il sole

 

«Non c’è modo di uscire dalla contraddizione»

Prendi l’esempio di Fisher, Kurt Cobain. CHE SUCCEDEREBBE SE

l’inquinamento luminoso fossero spie nel cielo

la città fosse come un corpo, senza organi

 

l’unico sforzo in-valido sarebbe

comunque quell’ultimo atto in-necessario.

 

A cosa servirebbe quindi vivere? Sopra-

sedere, vivere, per consumare e nient’altro?

.

.

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.

Esco dallo schermo, sono al bar. Ritorno nel mio silenzio concatenato di pensieri su pensieri, nel mio silenzio, del mio cervello e forse di chiunque altro veda qui ciò che è successo ieri. Scambio perciò qualche parola, incontro un paio di persone e ci parlo senza staccarmi da quello che è successo. Si sente, lo avverto: un cambiamento sta arrivando, bisogna essere pronti, pronti a fare di ogni piano una postazione di tiro. Un giorno poi qualcuno rintraccerà in questa progressiva violenza, non ancora preparata alla guerriglia, la premessa di quel discorso molto più in là, per adesso. Dovremmo aspettarci presto in ogni caso l’ascesa di una sommossa, l’occupazione di luoghi simbolici di potere, a livello economico e politico, una seria degenerazione, i proiettili di gomma, quelli in piombo e ferro – penso.

 

*

 

Sono arrivato più o meno a ventiquattro ore dai primi video degli scontri apparsi su instagram. Solitamente controllo anche come si sia evoluta la partecipazione in rete, questa volta no, non me ne frega niente. Questo discorso che mi preme, vige su altre regole. Le azioni sono importanti, le azioni giustificano sé stesse. Tornando sul discorso fatto quella mattina con quella mia amica penso a quanto è ridicolo e insulso come, nel nostro caso, l’impulso democratico sia ancora del tutto arretrato. Qui siamo al Sud. Facendo rapidi calcoli sulla popolazione in provincia, una delle più grandi del paese, considerando anche la popolazione del comune, ci si dovrebbe subito rendere conto di come basterebbe, qui in città, anche solo una persona su mille pronta a scontrarsi con la bassa presenza di forze dell’ordine, in ventimila (circa un quinto della popolazione totale del comune), non ci si mettere più di un’ora a occupare ogni singola struttura di potere, dichiarare l’occupazione totale, la comune.

 

«C’è una teoria secondo cui affinché avvenga un serio cambiamento della società, detto rivoluzione, questo deve anzitutto basarsi non sulla totale assenza ma sulla scarsità di risorse [di alternative]»

.

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.

Oggi mi dichiaro. Lo volevo e lo sono diventato

nemico di questo pianeta, sono nemico dell’umanità.

 

Vi detesto.

.

.

.

.

Sarà per questo: mi faccio schifo

il fegato manda segnali sulla pelle

 

sentirsi sulla pelle                     la città

lo schifo che c’è dentro

tutto quello che vorrei (e non-vorrei)

essere

 

e che purtroppo è / è che purtroppo sono

a volte, anche io

.

.

.

.

Ecco, adesso capisci? No, io -non-lo-capisco

 

questo dolore perenne dei genitori, la vendita della casa al Sud,

l’acquisto

di un bilocale a Nord, in prima periferia, l’attesa per potersi iscrivere

il lunedì sera

alla consegna dei pacchi del martedì, alla serata, quella prima della partita

di padel, di tennis, di calcetto, prima della palestra

del terapista

.

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.

.

Se fossimo poi capaci, come ho già tentato in altri tempi, SI POTREBBE

persino sviluppare un algoritmo: una serie di: variabili umani; indici

demografici, economico-strutturali; pensieri malsani sull’uso di

 

alcune psicopatologie comportamentali. SI POTREBBE PER ESEMPIO

calcolare il grado / la probabilità con cui si possono presentare

in risposta a un dato evento (politico, climatico, finanziario)

crisi, rivolte e persino golpe e rivoluzione

 

il ritmo degli ordigni

.

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.

Certo, questa è – e sembrerebbe – un’idea estrema.

Sicuramente, va detto: io non sono te

e tu non sei nulla

 

che il capitale non abbia già previsto. Tu sei

Kurk, commercializzato. Reso presente

 

– nella tua lotta – un prodotto,

ottimo per il mercato di controtendenza.

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Credere l’essere umano un attore razionale è errato. Credere però che non sia possibile calcolarne il punto di rottura; la percentuale di disagio medio; il substrato necessario allo sviluppo di una certa propensione alla lotta o meno; il movimento –micro e –macro che compongono certi stati d’animo; è forse peggiore, quasi sicuramente anche più ridicolo.

.

.

.

.

A poche ore di distanza, si era già scoperto che era uscito dall’appartamento di fronte al mio, un bnb utilizzato saltuariamente da famiglie di stranieri, coppie, qualche escort. Da quello che dicono, di fronte al palazzo di casa mia, il giorno delle manifestazioni, l’uomo, è stato visto accompagnato da una delle due ragazze che alternandosi usano l’appartamento per lavorare. Ha assunto prima dell’incontro della coca, prima di prendere anche il viagra, che è stato costretto a calarsi visto che si sa, con la coca l’uccello non ti si alza come si deve. Il mix di sostanze, tagliate anche male, ha prodotto in lui una specie di reazione di asfissia, calore, eccitamento tale che il cuore gli è in sostanza scoppiato, dicono. È collassato subito dopo essere stato fermato da due agenti che si trovavano lì nelle vicinanze, accasciandosi a terra, rimanendoci così secco, stecchito. Io rido, dico che non ho visto niente e continuo a parlare con gli habitué della via, mentre ciò mi fa ragionare anche sulla distanza che si intercorre tra ciò che è per noi Reale, puro, anche se distante e ciò che comunque rimane sul piano del Virtuale, anche se così prossimo, concreto, vicino (persino se succede di fronte casa tua).

.

.

.

.

Sono passate forse dodici ore dalla manifestazione a milano, da quegli scontri, e io mi trovo seduto vicino l’università come sempre (da cinque anni a questa parte), guardando ancora quei video, analizzando tutte le possibilità che c’erano di riorganizzare la violenza, veicolandola meglio, farla finita con gli scontri a perdere. Stiamo entrando in guerra, anche se una guerra civile non c’è mai stata davvero in questo paese. Mi manca un pezzo però, lo cerco non trovandolo. Non c’è nessun materiale video, sembra, rispetto al momento in cui si è passati dagli scontri ai cancelli della stazione e sotto la metro, alla fase di arretramento a centinaia di metri fuori dalla stazione, lontani ormai dall’obiettivo, Centrale. Dovrei chiedere a DM, gli ho pure scritto alla fine la sera stessa: ehi ciccio, come è andata? come state? al di là di quello che si è visto. Vedo un messaggio scritto sempre in serata: ti racconterò. Domani serve una mano. Nel frattempo avevo scritto anche a SP: comunque direi ottimo! Poi voglio i vostri racconti, anche perché sta cambiando il discorso della lotta a Milano, si nota anche da fuori. Reazione con il cuore, poi più niente.

 

«Si parla di iper-globalizzazione quando un evento concretamente più vicino è per noi irrilevante, rispetto alla percezione di altro evento spazialmente lontano ma al contempo emotivamente vicino»

 

***

 

III

 

Anche se oggi potrei morire

da un secondo all’altro

ogni giorno: puntualità di pagamento

Sul rapido calcolo delle spese: tutto

quello che non c’è; tutto quello

che serve.

 

Sembra quasi impossibile uscirne. Sarebbe di conseguenza

come dire

così, improvvisamente, di smettere

di respirare

il fumo; sarebbe sicuramente deleterio per il fisico: cuore,

fegato e cervello

.

.

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da quando la borghesia ha conquistato il sole

 

Il punto è non piangere. Nella cartella

del referto si può leggere

 

esofago regolare per morfologia. incontinenza cardiale. ernia

iatale da scivolamento. lago mucoso limpido.

 

tutto sommato – a voce – il corpo sembra reagire

bene

.

.

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Anche se oggi si è rapiti dall’insensatezza

è tutto così nitido, così prevedibile che non

ha quasi più senso distinguere

ciò che potrebbe, da cosa poi si dirà essere

già successo.

.

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.

In quel momento, sono immobilizzato, fermo davanti allo schermo come se attendessi di ricevere la notizia di un miracolo: i ragazzi a milano hanno occupato, a centrale hanno bloccato tutto, in migliaia si sono asserragliati dentro, la polizia è stata costretta a ritirarsi, i feriti, si, certo, non si contano più ma noi, noi tutti, abbiamo conquistato uno degli snodi nevralgici del paese, tutto rimane fermo finché non verranno accolte le nostre richiesta – penso. Sono ore che aspetto, sono qui a guardare instagram, a cercare di venirne a capo di quanto stia succedendo dalla parte opposta di dove mi trovo io, a lecce. Anche qui stanno manifestando però non ci sono andato, qui è un’altra storia, qui non c’è nulla che conti un cazzo, tutto è diverso. Faccio il giro di tutte le pagine di movimenti, associazioni e notiziari indipendenti lì sul posto. Guardo i video, li studio, ragiono, vagliando tutti gli scenari possibili in questo momento. Cosa si potrebbe fare, cosa succederà, come sarà se succedesse davvero. Esauriti i caricamenti fino a quel momento disponibili e nel frattempo che attendo di guardarne di nuovi o di leggere qualche nota di aggiornamento, mi capita, scrollando, di beccare anche un post che parla del libro di un amico lì a milano. Glielo condivido, mi risponde quasi subito: e io che pensavo soltanto a cercare di uscire vivo da centrale.

 

Ci scriviamo per pochissimo, uno scambio di battute a riguardo, poi più nulla. Non gli ho nemmeno chiesto come stesse, come fosse la situazione lì a centrale, in quel momento, non mi sembrava di sicuro il momento adatto per fare il giornalista, e poi sicuramente stava in mezzo al casino. Questa tortura però mi sta divorando, in certi momenti penso che non vorrei uscirne vivo sia da qui quanto se fossi in una situazione del genere, lì, a milano. Per distarmi dall’attesa, continuo con lo scrolling, e tra un riflesso dello schermo nero e un altro, noto che ci sono io seduto o steso sul letto, che esco e rientro più volte dalle diverse pagine, dallo stesso instagram. Si sta trasformando in un incubo, mi sto stremando. Cerco di analizzare ancora una volta ogni dettaglio dei nuovi video che vengono caricati. Per riprendere fiato, mi metto anche a stimmare: guardo le mail, anche qui niente di rilevante (come sempre).

 

«Durante il rituale sacro degli scontri, decade sempre l’importanza di altri aspetti della nostra vita. Ritenuta importante in qualsiasi altro momento, ogni cosa durante le proteste perde per noi interesse»

.

.

.

.

A cosa serve quindi – mi chiedo – migliorare nel tempo, seguire

le schedule? Fosse già, anche tutto questo previsto dal sistema?

 

COMPRESO la rabbia la ribellione la guerra, segue solo la rinuncia

la rabbia e poi il silenzio che segue dopo tutto questo,

di nuovo (ancora, prossimamente)

 

mi viene spesso una nausea a vederti lì in mezzo

credere davvero, fingere a te stesso di star producendo

qualcosa di in-utile. Io –non-posso-crederci.

.

.

.

.

Anche oggi si è rapiti dall’insensatezza

Anche oggi c’è bisogno di riappropriarsi in un certo senso

dell’estetica, innanzitutto, come forma

di riappropriazione, poi di

 

nomina, assimilazione,

accomodamento.

.

.

.

.

Ovvio [io] non so se tutto questo mi aiuta, migliora o peggiora la situazione, però voglio credere che sia giusto fare così. Mi serve.

.

.

.

.

Tu che non hai mai scambiato riso EU con pasta EU.

Tu non puoi dirmi un cazzo,

ancora io

 

rispetto la violenza

 

***

 

IV

 

morfogenesi del disimpegno:

 

 

a)

 

marcia dei quarantamila, caduta sociale dello statuto

del valore sindacale poi → legislazione [Thatcher, Raegan,

→ culturale [Sarkozy, Berlusconi

 

b)

 

G8 di Genova, la soppressione governativa della violenza inizia

dal basso (come una pistola di Cechov narrativa,

 

come quella pistola che ha sparato Carlo, per

sbaglio?)

 

c)

 

la mancata rielaborazione del trauma.

 

Il trauma collettivo, la paura di essere Carlo Giuliani

[se ne doveva parlare, non se ne è parlato]

La paura di perdere tutto ciò che si ha da perdere

durante una protesta all’improvviso [se ne doveva parlare,

non se ne è parlato]

 

Dalla lotta si passa al pacifismo, nessuno potrebbe

            mettere più a rischio la vita per fare la cosa giusta

            la lotta diventa in tutto e per tutto un atto perfomativo

 

d)

 

(mentre si continua a perdere tutto ma

piuttosto lentamente e progressivamente,

in forme comunque psicologicamente assimilabili)

 

i beni accumulati simbolici e economici dei genitori,

di quei 30 gloriosi, cominciano a consumarsi

 

nel discorso tra generazioni

 

Si vendono intere case per dei monolocali. Il potere d’acquisto

medio della gente scende, cala all’ultimo anche drasticamente

 

Grandi manager di gruppi aziendali e lo Stato assumono

il controllo, dividendo in porzioni più nette chi

deve possedere risorse e mezzi di emancipazione, libertà

e chi serve per estrarre e fornire questi mezzi

 

e)

 

Lo Stato poi interviene, agisce prima dei disordini,

dei pacifismi dei sit-in. Vietare rallentamenti è fondamentale

 

la restrizione del capitale procede inesorabilmente

 

e)

 

Neutralizzato il potenziale eversivo, si procede alla rimozione

dei suoi simboli. Lo smantellamento dei simboli sovietici

dopo la caduta del muro di Berlino, fa da perfetta analogia

 

 

Si deve colpire quindi i luoghi e i simboli

La rimozione storica di una carcassa, di una cultura morta,

che non sa più come opporre resistenza perché del tutto

inefficace, smilitarizzata, in loop all’interno del discorso

di sé stessa, della sua forma

 

un po’ come la fila alle poste. Il processo abbraccia l’ottica del tramonto

a occidente, del funerale, perciò si marcia insieme, si fa la protesta,

praticamente ci si raduna in questo discorso

prima di tornare, prima dell’aperol-spritz delle 20

 

davanti a noi, sempre

 

come in un’attesa del procedere, in forma di processione,

pronti alla carica, a farsi male

per espiare la colpa occidentale dell’urna da commemorare,

del reel da postare la sera

 

il giorno dopo

(faranno poi un attentato, l’Occidente ricomincerà a odiare

non importa chi è la parte lesa, l’importante è porsi mediaticamente

insieme alle vittime del sistema, farsi vittime senza esserlo

di conseguenza

non qui, non c’è stata nessuna guerra, nessun genocidio, solo sensi di colpa

in diretta dal festival del cinema di Venezia

Qui troviamo, il vero esercizio di dominio e di controllo fattuale

la chiusura dei simboli, del Leoncavallo

 

(tutti i vecchi movimenti sociali vengono smantellati

Muoiono le iniziative sul nascere, persino arte e musica

svuotate della loro capacità evocativa vengono regolate

con grande agevolezza, tutte le pedine seguono il gioco

 

contro i cari affitti e il DDL Sicurezza

 

I neolaureati in arte, lettere e comunicazione fanno domanda

di assunzione per lavorare presso centri, scuole, teatri dediti

all’intrattenimento, solo intrattenimento autorizzato:

spillando birre, promoviamo eventi a sfondo socio-culturale

 

(In fondo pur si deve mangiare! Pagare l’affitto e le bollette

non si può così facilmente rinunciare a vivere nelle grandi città

altrimenti poi chi le fa poi qui le proteste, i rincari sui prezzi

Tutti vogliono vivere nelle grandi città, tutti vogliono sentirsi di

 

«4 anni fa se ti avessero visto con la kefiah addosso, ti avrebbero sparato

Gli unici occidentali con la kefiah prima di questo erano soldati francesi,

americani, volontari (curdi), terroristi (ISIS), miliziani

adesso anche te

 

«Se volevo farla davvero la rivoluzione me rimanevo nel mio paese

a farmi massacrare, almeno qui posso socializzare condividere

il mio interesse nella causa, lo faccio per me stessa

 

 

 

e)

 

consumato il rituale, decostruito il valore degli oggetti

della rappresentazione (teatrale) del senso stesso

di un’appropriazione culturale vuota e inutile

ritornati nuovamente al punto zero di questo discorso

 

rimane ancora però la possibilità del corpo, della città e del suo ritmo

rinunciare a tutto per tentare il cambiamento, bisogna

rinunciare, rischiare tutto

 

straight edge,

 

nel nuovo ciclo di eventi, dovremmo essere tutti

contro tutti

armarsi a tutti i livelli, diventare inattaccabili

per attaccare

 

fare come San Francesco (il cristianesimo

 

è l’ultima guida rimasta

contro il Capitale e il mercantilismo) bisogna rendere

inattaccabile la militanza oppure di portarla su un piano successivo

quello nuovamente della lotta, della comune, della guerra civile.

 

Le due vie possono andare in parallelo

pars destruens e pars costruens

 

Serve organizzazione, recuperare gli strumenti

intellettuali

in primis Nessuno sa come si fa a combattere né a vincere

 

cosa fare?

 

(la soluzione quindi rimane ancora lontana, qui si parla ancora

La condanna è però feroce, nelle storie della gente la condanna è

più feroce, nei discorsi dei movimenti e persino dei capi di governo

la condanna deve essere feroce, senza che nessuno faccia niente.

 

Qualsiasi protesta diventi mediaticamente influente è destinata a essere

riassorbita dalla logica del Capitale, oggi la kefiah sostituisce lo smile

Nulla è cambiato, l’ordine nazionale e mondiale non è stato scosso

Neanche questa volta i consensi della destra sono scesi di mezzo punto

 

Mentre veniva fermata la flottilla a largo della costa palestinese

In Marocco continuano le proteste, con scontri anche violenti tra manifestanti e polizia,

in diverse città, a margine delle mobilitazioni…

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Oscurati dal dibattito sulla libertà, la notizia arriva a cosa fatte (non prima)

Forse è così che si vincono le proteste. Hai visto che è successo in Madagascar?

 

In Italia il 2 ottobre è stata chiesta la dimissione del governo durante le pacifiche proteste

Stando ai sondaggi, gli italiani voterebbero

 

in caso di elezioni oggi, 29 settembre 2025.

 

Giorgia Meloni (guadagna lo 0,3% e sale al 30,5%).

Elly Schlein (che cresce dello 0,2% e arriva al 22,1%).

Giuseppe Conte (ora al 13,7%).

 

Alle spalle dei primi 3 partiti, tutto fermo.

 

La Lega rimane al 9%, Forza Italia non si sposta dall’8%.

In calo Verdi e Sinistra, che cedono lo 0,2% e scendono al 6,5%.

Più staccati Azione (3,1%), Italia Viva (2,2%) e +Europa (1,9%).

 

un’alternativa?

 

durante la Guerra Civile Spagnola, la percentuale di volontari comunisti tra le Brigate Internazionali è stata molto alta. Le stime totali parlano di circa 60.000 volontari nelle Brigate Internazionali, provenienti da tutto il mondo per combattere a fianco della Repubblica spagnola.

 

«Israele fascista! «Israele che non combatti ma manifesti

Dicendo che è ingiusto tutto questo

 

Poi le storie, i likes, che ricondivi, l’articolo per treccani, triennale,

Ti fai anche assumere da scomodo, dalla scuola, da una casa editrice

 

  1. f) francesco)

 

Il cambiamento arriva solo con l’affermazione di

una differenza

 

Nel concreto, l’irruzione di un Reale puro, un’utopia che si fa manifesta

oltre il piano del virtuale, del suo pensiero, del suo desiderio

 

Unisci i punti: Nietzsche, Deleuze, Lefebvre.

 

***

 

V

 

Tu vuoi aiutare per essere salvato dal tuo senso di colpa, dal desiderio

di te che vuoi cambiare il mondo, indisposto a rinunciare al tuo bene.

Tu non ti responsabilizzi davanti a niente, perché non serve, stai bene.

Tu fondamentalmente frigni, preghi e attendi che qualcuno faccia per te.

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Si è giusto, se ci si crede veramente, finire in carcere.

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Bisogna agire finché si ha tempo e risorse per farlo. Uscendo fuori dal pensiero in sé, dalle possibilità di futuri scenari sul conflitto, mi trovo poi a fare dei confronti tra un discorso e un altro (non tutti rispetto a questo tema). Non sarà di certo come il movimento del sessantotto. Il sessantotto è stato soltanto la forzatura di un ricambio generazionale tra vecchi e giovani piccolo borghesi. In più, a livello repressivo sarà sicuro peggio del G8 di Genova, il pericolo e la paura di un governo in fondo si mostra davvero quando cominciano a ammucchiarsi feriti e cadaveri – penso.  Non so davvero quanto vorrei pensare una cosa del genere eppure sembra che ormai sia questo pensiero a avere la meglio sul resto, su di me. Mi trovo anche a parlare con un’amica rispetto alle manifestazioni a lecce, del suo ieri. Mi dice che c’era poca presenza, che certe cose qui non ci sono e che comunque però si è portato in piazza una rappresentanza, una rappresentazione utile del dissenso.

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Anche oggi piovono bombe (d’acqua) dal cielo

tutto è cambiato, tutto è diverso

fedele solo a sé stesso, rimane

solo il movimento, il ripetersi

dell’identico, il Virtuale attendere di

 

un Reale così puro

 

– pensare di aver cambiato per un secondo

le regole, del gioco, realizzato

il sogno, disseminato il ruolo,

il senso di autodistruzione sarebbe quasi in-

evitabile

 

– la funzione della polvere e della cenere

potrebbe prendere

una città, in una sola ora, sommergerci

completamente

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una guida pratica allo scontro per giovani antagonisti, maranza e anarchici

 

Equipaggiamento:

 

         bandane, più di una. Una bottiglia di aceto e limone per bagnarla regolarmente;

         cipolle, dicono, riduce l’irritazione del CS a occhi, naso e bocca;

         occhialini da piscina, coprirne eventuali fori anti appannamento [usa colla o resina];

         parastinchi, gomitiere, bandane e caschi;

 

         puntatori laser potenti, alternativamente grandi torce;

         ombrelli come scudi leggeri;

         fuochi da artificio;

 

         compensato, polistirolo, plastica o cartone, a più strati,

strati più sottili e numerosi = scudi più leggeri e resistenti;

         tagliabulloni fino a 16 mm di spessore, oltre flessibile;

         piede di porco per aprire o per sbarrare dopo le porte.

 

*

 

squadre anti-CS: per neutralizzare due metodi veloci:

 

         statico: 2/3 persone: coprire e proteggere l’area con ombrelli aperti, poggiare al di sopra del candelotto un cono per il traffico stradale, versarci poi dentro 2/3 bottigliette di acqua, sabbia, fango.

 

         dinamico: 2/3 persone: prendere con guanti molto spessi il candelotto, inserirlo all’interno di borse impermeabili (o altri recipienti resistenti alle fiamme e all’acqua), riempite con acqua, sabbia e fango. agitare la borsa per circa due minuti, anche tre o quattro se in movimento.

 

Per il coordinamento dei vari gruppi bisogna considerare per il futuro, che le forze d’ordine possano adoperare disturbatori di segnale, i cellulari sarebbero fuori servizio. Adoperarsi preventivamente aiuta.

Senza coordinamento non si può fare nulla.

 

«Ogni insurrezione, per quanto localizzata essa sia, comunica [esiste] al di là di sé stessa, contiene immediatamente qualcosa di mondiale. In essa ci eleviamo [pari] tutti insieme all’altezza dell’epoca»

(Ai nostri amici, Comitato Invisibile)

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Ricorda

quando succederà / perché succederà

 

di non chiamare nessuno, di non dare mai

questo dispiacere

 

anche se, quasi sicuramente – trovandoti lì –

chiamerai anche tu qualcuno

 

Se non risponde, non pensare

Se ci pensi, non deve risponderti

 

Alla fine non è mai colpa di nessuno.

È fondamentale per crederci

cecamente

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[08/11/2024 11:45]

Ogni tanto, però

ho paura di appropriarmi di un dolore che non è mio

 

[09/11/2024 10:39]

Mi sento soffocare, mi sento morire

 

[09/11/2024 10:42]

Di seguito, dall’obliò: un casello abbandonato, in rovina, la montagna

tagliata a gradoni, la torrefazione,

di un complesso: industriale: paesaggio in ombra, vegetazione viva, morta, lungo il profilo, paesaggio

 

[09/11/2024 10:43]

Attraverso

Si vedono persino

 

[09/11/2024 10:45]

alcune strutture arrugginite e il treno

che si piega per attimo su sé stesso come abbandonato

a un suo possibile deragliamento che però sparisce

quasi subito, insieme al resto. In prossimità

 

[19/11/2024 10:39]

Ctrl+C, Ctrl+V, tutto finito.

 

***

 

VI

 

Da quando la borghesia ha conquistato il sole

 

Partiamo dal fallimento: C’è da chiedersi cosa significa

sentirsi vivo, corre più veloce la volpe o il cammello?

 

Anche questa volta non è stata salvata la Palestina.

La Palestina è stata rasa al suolo prima, mentre e dopo le proteste,

adesso si farà spazio

sui cadaveri si costruiranno nuovi resort e pozzi di gas, di petrolio

 

(tutto ciò che era stato annunciato sui post di Trump verrà realizzato

veramente,

l’uso di immagini IA serve a abituarvi rispetto a uno scenario

che poi vedrete)

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Non è questo il nostro tempo

Oggi è tornato l’inverno, il pacifismo è un cerchio piatto

Il pacifismo asseconda ancora

la logica dello status quo, dell’incertezza e del precariato

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Quando tornerà, l’inverno sarà rigido.

All’interno di un cerchio

gireremo ancora intorno, senza trovare

il punto del discorso,

dello scontro

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il pacifismo in Italia ha permesso per trent’anni alla DC di stare al governo

il pacifismo ha permesso la P2, Gladio, l’ingerenza americana, la morte di

giornalisti, procuratori e giudici, lo smantellamento progressivo del PCI.

La storia italiana con il suo pacifismo è una storia di guerre, sudamericana.

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il 2 ottobre c’è stata la prospettiva di bloccare tutto.

C’era voglia di cambiare. Una certa tensione reggeva il mondo. La nostra vita

in quel cambiamento, era alle porte. Bastava attraversarle

 

Il 3 ottobre però

tutti, i vecchi pacifisti protestano per la pace

accanto a giovani propal: sindacati, pensionati, bancari, famiglie e politici.

 

È vietato agli antagonisti di scontrarsi, la protesta diventa manifestazione

Lo scontro viene riassorbito dalla logica del pacifismo, del capitale

 

interponendo questa pace qui, di chi ha casa, lavoro e pensione da salvaguardare,

Si afferma in tangenziale il pensiero dei vecchi protestanti a difesa della statale.

 

Va detto, almeno tempo addietro ci si limitava a dire:

«Né con loro, né contro di loro.

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Da quando la borghesia ha conquistato il sole

 

Oggi chi siede allo stesso tavolo, senza aver mai patito

la guerra, l’incertezza, il precariato, la fame è da considerare parte

del sistema) parte del problema.

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Indipendentemente dai colori, il vecchio social-democratico non vuole

rivolte, bisogna fare pace, anche con il sistema

accettare tutto quello che viene, ciò che ti è stato dato da mangiare anche

quando la pace è sempre una pace cartaginese

.

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Vecchi protestanti da posto fisso fermano i giovani dallo scontrarsi

Impediscono ai giovani di farsi avanti, salvo poi far passare gli idranti.

 

Il social-democratico oggi vuole la pace, per poter tornare a consumare

tranquillamente, senza più i sensi di colpa per il suv e il monofamiliare.

.

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Mi dicono dal comitato: la gente è stanca, la gente ha paura. Qui ci bevono.

l’occasione si perde, per veicolare, si generano preoccupazione da una parte

e rappresaglie (a posteriori) dall’altra.

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.

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Questo vettore verso il cambiamento però non deve consumarsi. Se qui si infrange

il sogno, sarebbe meglio essere morti che vivere la devastazione sociale che seguirà

 

nei prossimi mesi, anni, decenni.

 

Bisogna tornare a organizzarsi, prepararsi come una volta, a tirarci fuori dalla terra

Soffiare sulla polveriera

Se lo sforzo emotivo e fisico non porterà domani ai risultati ci giocheremo tutto, tutti!

È finita l’epoca dei nostri

 

padri, dei nostri sogni! Ci siamo svegliati

e la realtà è ci sembrata peggio dei nostri peggiori incubi.

 

***

 

VII

 

Perché siamo se vuoi, due: idee perfettamente diverse di cinema:

tornare a Tarnac, fissare nella pianura il proprio orizzonte; oppure

come fai te, provando a ridare vita a una macchina

gioiosa (e, con gioiosa, intendo libera).

.

.

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da una conversazione con un poeta sia lirico che politico

 

[ciò che non significa la poesia civile]

Si chiama ansia.

 

Lo so fratello, lo so.

 

Terapia?

 

Soldi.

 

***

 

Poi mandami una foto dei pacchi alimentari

che avete

 

Perché

 

Voglio vedere se in questi anni hanno cambiato

packaging

 

Hahaha

[io] Non faccio Comida da un po’

.

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Per cambiare poi, ovvio, si potrebbe. È solo che avrei bisogno

di un bene, un bene che non possiedo, uno che non conosco

minimamente, uno per cui potrei persino perdermi con te

e così sarebbe

.

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.

.

Come dentro una lunga gonna nera, tu ti aprirai al mondo

Ti aprirai a quest’idea di cambiamento, all’idea che tutto possa

anche finire a un certo punto, improvvisamente.

 

Divincolati, se vuoi, per esistere davvero, considera

la tua posizione a partire dal fallimento

 

Guarda in altro, con una mano tirata verso il cielo,

l’inutilità del triste gioco a cui sei stato chiamato

 

e che continui

partecipando inesorabilmente

 

Inseguirai così, a partire da questo, un sogno

seppur minimo

 

Costruirai tutto dentro di te

ma al contrario

 

(solo così, inizierai a cambiare il mondo

al pari di come riuscirai a cambiare te stesso)

 

***

 

sulla chioma dell’albero, l’ordigno non è ancora esploso

corre contro il suo destino, un giovane ragazzo vestito da prete

 

 

Mots-clés__Rome

0
Massimo Siragusa, Roma, aprile 2016, via Prenestina (dalla serie “Roma”, Edizioni Postcart 2020)

 

Rome
di Luigi Di Cicco

Low, Rome (Always In The Dark) -> play

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Massimo Siragusa, Roma, aprile 2016, via Prenestina (dalla serie “Roma”, Edizioni Postcart 2020)

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Da: Marco Giovenale, palinsesto, 2025

[…] Non se ne va l’impressione di questa città come roba casuale, sbrindellata, inconsapevole, sporca e invecchiata male da sempre.
non città eterna ma eterno svacco. palinsesto autofago e autogamo del peggio di oggi sul peggio di ieri.

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[Mots-clés è una rubrica mensile a cura di Ornella Tajani. La prima domenica del mese Nazione Indiana pubblicherà un collage di un brano musicale + una fotografia o video (estratto di film, ecc.) + un breve testo in versi o in prosa, accomunati da una parola o da un’espressione chiave.
La rubrica è aperta ai contributi dei lettori di NI; coloro che volessero inviare proposte possono farlo scrivendo a:  ornellatajani@hotmail.it Tutti i materiali devono essere editi; non si accettano materiali inediti né opera dell’autore o dell’autrice proponenti.]

Accusatio manifesta

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Foto di PublicDomainPictures da Pixabay

di Alberto Comparini

Il protagonista di Incroci, Margini (parte 1 e parte 2) e Publish or Perish si chiama Alberto Comparini è nato a Genova il 12 maggio 1988 e da poco più di un anno lavora all’Università degli Studi di Bergamo. Fisicamente ci assomigliamo, è inutile negarlo, anche se le differenze ideologiche sono più marcate di quanto uno possa immaginare, ma più che assomigliarci quando scrivo vorrei essere lui mentre Alberto quando si legge su Nazione Indiana non vorrebbe più essere AC88 nelle storie su Instagram chi posta e scrive è Goppas88 a controllare le visualizzazioni su Facebook i like il numero delle condivisioni non si vedono le reazioni psicosomatiche delle tue ex i malcelati pettegolezzi dei colleghi o aspiranti tali ai Consigli di Dipartimento mentre ti guardano dietro a uno schermo scrollare avidamente tra i commenti sotto gli ultimi post scritti tra l’imbarazzo generale dei parenti acquisiti tra un cambio e l’altro di fidanzate femori e farmaci è comparso un gruppo indifferenziato di perfetti sconosciuti che dal 5 settembre 2013 sono diventati tuoi amici – sono loro a essere convinti che AC88 e Alberto Comparini sono la stessa persona, Goppas nel frattempo è morto

non ricordo esattamente quando e quale malattia immaginaria mi avessero diagnosticato negli Stati Uniti, non ricordo nemmeno quale malattia tra le molte che mi sono inventato negli anni per iniziare il dottorato e proseguire gli studi in Germania fino a diventare un dipendente statale a tempo indeterminato tra Trento e Bergamo ho pagato profumatamente medici che credevano o volevano farmi credere che io fossi un malato immaginario, dicevo di non ricordare quale di queste malattie immaginarie fosse responsabile del mio passaggio da un modesto liceo classico sportivo di Genova all’Università di Stanford, dalla diffusione del disturbo dell’umore alla sindrome di dolore cronico, che cosa mi avesse spinto per tre anni a fare avanti e indietro tra Redwood City e Palo Alto

i dottori dicevano che il dolore del corpo è alimentato dalle tensioni della mente che The Body Keeps The Score (2014) è un bel manuale per cercare di capire in lingua inglese che cosa stesse accadendo al mio sistema neurologico da una decina di anni a questa parte parlo con uno specialista due volte a settimana dicevano che sarebbe stata una buona idea anzi che fosse necessario in realtà per finire il dottorato e ottenere l’equipollenza del titolo di dottore di ricerca era obbligatorio bilanciare la fisioterapia e la terapia farmacologica sperimentale con uno specialista e che questo specialista doveva essere David Spiegel, proprio lui, il dottor S, un personaggio di un romanzo a cui avevi chiesto in un racconto se questi esercizî di finzione fossero iniziati meccanicamente nel 2004 quando questo insopportabile storytelling era già diventato un tratto del tutto trascurabile il ritardo dei treni è un pattern ricorsivo ripercorrere senza eccessivi cambi e coincidenze, sigle cifrate certificati medici e date, le tappe delle prime diagnosi, l’incidente in moto,

la carriera già finita prima ancora che fosse cominciata a Pesaro negli spogliatoi della serie A in mezzo a molti altri ragazzi della tua stessa età avevano qualcosa di diverso rispetto ad Alberto camminavano decisamente meglio, la loro postura era corretta ma erano più leggeri i loro arti inferiori crescevano in maniera uniforme anche se per giocare a basket era meglio avere un’apertura alare superiore alla propria altezza anche se agli occhi delle persone normali avere le braccia troppo lunghe risultava particolarmente problematico se oggi a quasi quarant’anni devi ordinare online le camicie di Andrea Morando per andare a fare lezione a Bergamo

era molto più semplice che indossare un camice azzurro all’Ospedale Santa Chiara ti avevano scambiato di nuovo per Alberto nel fascicolo sanitario che avevi lasciato come ricordo sulla scrivania del tuo ufficio in via Tommaso Gar 14 poco prima di andare via, nessuno si era accorto della tua assenza in Dipartimento eri conosciuto come l’americano AC88 il Casanova Trentino abitava effettivamente al terzo piano di via Lampi 14 a Trento Alberto me lo immagino come un Johnny Sins con più capelli in testa e un cazzo decisamente più piccolo ma a quanto dicono altrettanto performante come in My Name Is Professor Fucky (2013) AC88 era in grado di essere professore e pornodivo

per i colleghi eri insopportabile per i medici di turno un caso studio di prima fascia per gli osservatori del settore squadre nazionali non c’erano grosse differenze tra lui e Alberto, a quell’età la differenza di peso era pressoché impercettibile quanto può pesare una massa estranea se la sola l’anima arriva a pesare 21 grammi, nemmeno una risonanza con mezzo di contrasto avrebbe permesso loro di distinguere anzitempo le due vite che vivevano in perfetta armonia ormonale dentro questo corpo dalla sua nascita fino all’esplosione nell’estate del 2004 quando a Pesaro gli altri ragazzi che erano stati convocati avevano già barba peli e baffi, il capo della delegazione sapeva che non sarebbero cresciuti ancora i giocatori più forti venivano dal sud Italia ma non sapeva dirmi perché molti di loro non ce l’avrebbero fatta

un anno dopo li avevi rivisti comparire e scomparire a intervalli irregolari sul campo da basket i ventiquattro secondi per gli addetti ai lavori servono a regolare il ritmo del gioco i dieci minuti per quarto gli otto secondi possono anche bastare per superare la metà campo in realtà sono essenziali questi secoli per isolare i giocatori più forti sono loro che devono fare canestro con un tiro ad alta percentuale, l’obiettivo per tutti era vincere un male invisibile nel giro di pochi mesi la vita può cambiare all’improvviso senza una canotta della Nike nello studio privato di un medico di fama internazionale siamo tutti uguali, nudi e svestiti della stessa paura di non riuscire più a tornare come prima quando eravamo solamente Alberto e Goppas sul campo da basket avevi imparato a distinguere il dolore della mente da quello del corpo

a cosa cazzo sarà servito il dottorato di ricerca a Genova per un’estate intera il telefono non squillava l’allenatore i procuratori avevano cambiato interesse nei tuoi confronti adesso indossano un camice bianco, all’Istituto Ortopedico Rizzoli le code erano più lunghe delle liste d’attesa per rimuovere le tracce in eccesso della crescita inaspettata di un’altra vita dentro le ossa lunghe le vite si moltiplicano dilagano si espandono a una velocità incontrollata rispetto al tempo che avevamo a disposizione per mostrare ai selezionatori del settore giovanile più importante d’Italia le nostre qualità fisiche erano visibili a tutti gli assistenti del professor Mario Mercuri nella Clinica Ortopedica e Traumatologica III a prevalente indirizzo Oncologico più importante d’Italia, questi dati erano facilmente misurabili nel dossier cartaceo che hai conservato dopo la scoperta di queste nuove vite non era affatto scontato fotografare le macchie scure nelle ossa lunghe del ginocchio erano diventate brave a nascondersi tra le zone grigie delle analisi del sangue

in quegli anni il concetto di selfie non era stato ancora inventato un metodo meno invasivo per ricostruire il legamento crociato anteriore all’Ospedale Civile di Sondrio Alberto Branca aveva usato una porzione del tendine rotuleo per il femore invece bisognava intervenire di nuovo a distanza di diciassette anni la ferita è rimasta pressoché intatta a Bologna ha solo perso un po’ di consistenza e colore (e qualche compagno di stanza) questa cicatrice cheloide è il tuo marchio di fabbrica raccontare a dei perfetti sconosciuti di essere malato

da adulto è molto più complicato raccontare a dei perfetti sconosciuti perché ti chiami Alberto come il tuo ortopedico di Sondrio.

La consapevolezza del suolo nella rappresentazione del paesaggio

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di Costanza Calzolari

in occasione della Giornata Mondiale del Suolo 2025 pubblichiamo un testo inedito di Costanza Calzolari, scienziata del suolo del CNR, sulla rappresentazione dei suoli nella pittura italiana; lo scritto deriva da numerosi interventi orali tenuti dalla ricercatrice in diverse occasioni a partire dal 2004 e fino al 2022, nel corso dei quali è stato arricchito, limato, corretto

Il suolo è descritto raramente come tale nell’arte figurativa, almeno fino agli anni molto recenti, ma alcune sue caratteristiche e funzioni sono indirettamente riportate nelle rappresentazioni di paesaggio.  Lo sviluppo della rappresentazione di quest’ultimo nelle diverse epoche testimonia il rapporto fra l’uomo e il suolo/territorio e, allo stesso tempo, è fortemente condizionato dall’ambiente storico e culturale.

Il paesaggio come oggetto autonomo nell’arte diventa evidente nell’età ellenistica e romana. La natura tuttavia non è descritta mai nel suo aspetto realistico, mentre la presenza dell’uomo è una costante sia fisicamente che come conseguenza delle sue attività.  Malgrado la scarsità dei documenti pittorici esistenti, l’origine ellenistica della rappresentazione di paesaggio è testimoniata indirettamente dall’eredità nell’arte romana ed in alcuni significativi e begli esempi, come il Mosaico del Nilo dell’antica Praeneste, II secolo A.C., conservato a Palestrina.  In questo mosaico, la valle del Nilo è descritta, con l’ambiente umano in primo piano, nella parte inferiore del mosaico e l’ambiente selvaggio sullo sfondo, nella parte superiore, con le fiere, identificate con i loro nomi e le scene di caccia.  Il paesaggio è riprodotto nel mosaico come una carta geografica animata ed i differenti suoli sono riconoscibili dai loro differenti colori nell’ ambiente naturale.

L’arte romana è ricca di rappresentazioni di paesaggi e della natura, come testimoniato dagli esempi degli affreschi di Pompei, dove il paesaggio è dominato dall’acqua e dal cielo, e dal genere della rappresentazione del giardino, come l’esempio del affresco nella villa di Livia a Roma.

In entrambi questi esempi l’ambiente naturale non è rappresentato realisticamente, ma verosimilmente. Nella villa di Livia  i fiori sono descritti senza considerare il giusto momento della fioritura ma la scena è “mimetica”, potrebbe essere reale.  La rappresentazione dei suoli e della morfologia del terreno è molto rara, ma non tanti sono i resti dell’età romana.  Certamente l’acqua ed i cieli, i fiori e gli alberi sono preferiti alle montagne e ai pendii.  La rappresentazione del Vesuvio dell’affresco pompeiano “Bacco e il Vesuvio” è un raro esempio, dove le vigne sono descritte sulle pendici ai piedi del vulcano.

Nel periodo tardo antico l’approccio naturalistico è sostituito drasticamente da un’iconografia essenziale, da costruzioni schematiche che portano ad una visione allusiva e simbolica delle forme, e alla progressiva perdita di ogni aspetto naturalistico e idealistico.  La visione tridimensionale dello spazio e dei volumi perde la sua importanza; le proporzioni sono indotte gerarchicamente, i colori perdono la loro funzione naturale a favore di un cromatismo semplificato.  I mosaici del IV secolo DC della villa Romana di Piazza Armerina ben esemplificano questo fatto.

Il passaggio dalla rappresentazione idealistica e mimetica ad una visione formalistica è ben evidente nei mosaici delle chiese di Ravenna (V-VI secolo). Nel mausoleo di Galla Placidia (425-450) il legame con la tradizione classica è ancora evidente. Nel mosaico del Cristo buon pastore la chiara visione spaziale del paesaggio con la sua profondità plastica è controbilanciata dalla rappresentazione schematica delle rocce, dalla presenza ieratica di Cristo e dalla trama cromatica semplificata. È qui evidente una sintesi fra l’antico naturalismo e la nuova concezione schematica e simbolica. Il suolo è riprodotto con una insolita precisione, sulla roccia sullo sfondo, come riempimento della roccia calcarea, e in basso alla base del mosaico, con una serie di “monoliti”, con fessure e “profili” di differenti colori: In una visione simbolica del paesaggio il suolo è invece riprodotto fedelmente.

In altri esempi di mosaico ravennate la visione simbolica degli elementi paesaggistici prevale definitivamente, con una rappresentazione formalistica delle entità naturali, la perdita di qualsiasi prospettiva spaziale, amplificata dall’uso uniforme dell’oro, simboleggiante la divinità, per il riempimento degli spazi. Si vedano ad esempio i mosaici di Sant’Apollinare in Classe della metà del VI secolo.

In quest’epoca, e per i decenni e secoli a venire, l’Italia è percorsa dagli eserciti di popolazioni nordiche, dal sacco di Roma ad opera dei Goti di Alarico (410) e avanti per tutto l’alto medioevo fino alle invasioni dei saraceni dei secoli XI e XII. La disaggregazione del tessuto civile, politico ed economico, e conseguentemente anche del paesaggio agrario, si riflette nell’arte, che rinuncia alla rappresentazione classica della realtà a favore di una presenza schematica e simbolica di forme naturali disaggregate, controbilanciate dalla forte e rassicurante presenza delle figure sacre.

Nei mosaici bizantini del duomo di Monreale (XII secolo), gli elementi naturali appaiono come sfondo decorativo, drasticamente semplificati nell’aspetto e nei colori. La forma dei monti che l’arte bizantina eredita, semplificandola ulteriormente, dalla cultura ellenistica, si ritroveranno in tutta l’arte medievale e nel primo rinascimento. Una eccezione a questa tendenza è rappresentata dalle miniature che decoravano preziosamente i manoscritti. Queste però non vengono considerate in questo lavoro.

Il periodo definito del “paesaggio negato” lentamente evolverà nel XIII e XIV secolo verso la riscoperta dell’ambiente naturale ed in particolare degli aspetti paesaggistici. Gli elementi del paesaggio, la morfologia dei versanti e le diverse specie di piante, restano formali, ma nondimeno si iniziano ad intravedere gli spunti che porteranno all’approccio rivoluzionario di Giotto alla natura ed al paesaggio.

Nella pala agiografica di Bonaventura Berlinghieri (1235), prima rappresentazione conosciuta delle storie della vita di San Francesco, conservata a Pescia, si ha un’idea della rappresentazione delle forme naturali ereditata dalla tradizione bizantina. I versanti della collina sono qui rappresentati in modo molto schematico, ma la collina stessa diviene la scena sulla quale si svolge l’azione.

 

Con Giotto (1267?- 1337) l’arte italiana è a un punto di svolta verso la rappresentazione gotica della natura e del paesaggio. Nelle storie di San Francesco, nel ciclo di affreschi della chiesa superiore di Assisi, Giotto sperimenta volumi tridimensionali, mentre i cieli si colorano di blu per una rappresentazione più realistica dello spazio. Il paesaggio è sempre uno sfondo, ma è ora in qualche modo necessario allo svolgimento dell’azione. Il suolo non è rappresentato, ma può ospitare erbe e alberi, e la drammaticità del paesaggio rappresentato ricorda la drammaticità dei paesaggi calanchivi dell’Italia centrale.

La verosimiglianza del paesaggio è assicurata dalla rappresentazione realistica degli alberi. In mancanza di esperienze dirette (il primo viaggiatore di cui si abbia testimonianza che avesse scalato una montagna per semplice diletto è il Petrarca, nel 1336) la forma del monte è resa verosimile, “mimetica”, copiando in scala pietre rozze, non levigate, come testimoniato da Cennino Cennini, autore di un trattato di tecniche artistiche intitolato “Il libro dell’arte”, nel 1400. Ma è soprattutto la funzione del paesaggio che è innovativa: non più semplice sfondo, ma scena dell’azione, profondamente e plasticamente legato alle figure. Un esempio è dato dal “Miracolo della sorgente” (c. 1297- 1300) conservato nella Basilica superiore di Assisi.

Gli schemi di Giotto rimarranno un punto di riferimento per gli artisti attivi nel XIV secolo e la formula del paesaggio circondato da montagne e rocce e riempito di fiumi e villaggi sopravvivrà fino alla metà del XV secolo, riapparendo nel corteo dei magi di Benozzo Gozzoli.

A Siena l’approccio giottesco trova un’alternativa in Duccio da Buoninsegna (1255-1319) conservato nel Museo dell’Opera del Duomo a Siena. Nelle predelle alla base e sul retro della Maestà, il paesaggio è riprodotto in modo non così diverso da Giotto. Ciò non di meno i cieli sono d’oro e la prospettiva è assai meno importante. Le forme inoltre sono ammorbidite, in una ricerca del bello più che del reale.

Solo pochi anni più tardi, Ambrogio Lorenzetti (1290-1348), ci darà il primo paesaggio in senso moderno: l’allegoria del Buono e Cattivo Governo (1338-1339), affresco conservato nel palazzo comunale di Siena. Il paesaggio raffigurato negli affreschi del Lorenzetti non può definirsi propriamente reale, essendo probabilmente motivato da intenti propagandistici e pedagogici. Gli affreschi tuttavia ci dipingono una immagine vivida e realistica del paesaggio toscano del XIV secolo, un tipo di paesaggio ancora vivo e ben conosciuto ai nostri giorni. Anche i colori del suolo sono realistici, con la successione tipica sulle litologie argillose della toscana centrale (di Incepituoli grigiastri e di Vertisuoli bruno scuri) visibile nell’Allegoria del Buon Governo. Inoltre il ruolo produttivo del suolo viene definitivamente incluso in un’opera d’arte, sia pure con intenti di educazione civile. Gli effetti della trasandatezza nella gestione della terra è invece rappresentata nell’Allegoria del Cattivo Governo che ricorda certi trattivi calanchivi dei paesaggi senesi.

La modernità di questi affreschi è indirettamente confermata dal fatto che rimarranno un caso isolato per almeno un secolo. L’esempio di paesaggio a tutto campo più vicino è rappresentato dalla Tebaide (1410) ora attribuita a Beato Angelico e conservata oggi al Museo di San Marco a Firenze) dipinta ottant’anni più tardi e molto meno moderna, almeno nella nostra accezione del termine.

In questo esempio il paesaggio è meno verosimile, i lavori campestri molto limitati e simbolizzati, I monti stilizzati della tradizione bizantina prendono il posto delle colline arrotondate della campagna senese descritta dal Lorenzetti.

La nuova sensibilità per il mondo naturale cresciuta nella prima metà del XIV secolo, testimoniata da Ambrogio Lorenzetti, evolse nel movimento artistico e culturale policentrico europeo conosciuto come “Gotico internazionale”. L’interesse per i dettagli del Gotico Internazionale, riguardò sia gli abiti e le armature dei cavalieri rappresentati, ma anche il mondo naturale. I Calendari, diffusi nel medio evo, che ritraevano a scopo decorativo le attività e le occupazioni quotidiane, sono esempi di rappresentazione della natura e del paesaggio molto differenti dal ruolo simbolico cui questi erano stati relegati fino ad allora.

Un ben noto esempio e,  in Italia, il “Ciclo dei Mesi” affrescato nel castello del Buonconsiglio di Trento (1400). In questi esempi la funzione produttiva del suolo è molto ben rappresentata. Le attività dei nobili, dipinti in primo piano impegnati nelle loro attività venatorie o semplicemente ludiche, sono accompagnate dalle descrizioni dettagliate dei lavori dei campi: la lavorazione del suolo, le semine, la vendemmia, la fienagione. Nel mese di aprile del Ciclo dei Mesi, il suolo lavorato è bruno scuro e contrasta vividamente con le montagne stilizzate e colorate vivacemente in secondo piano. Nel paesaggio alpino, ed in particolare in quello trentino, questa è una condizione reale, dove i suoli coltivati sono ricchi in humus e le montagne dolomitiche sono rosate e dorate.

L’attenzione per i dettagli del mondo naturale si mantiene anche in opere molto differenti dello stesso periodo. L’Adorazione dei Magi, con relativa predella con La fuga in Egitto, di Gentile da Fabriano (1370-1427) conservato agli Uffizi di Firenze, è uno splendido esempio di questo interesse. Il realismo del paesaggio è qui esaltato dalla luce che si irradia sulle forme. I suoli sono rappresentati nei loro colori reali, sui campi si riconoscono i segni delle lavorazioni e ciottoli sono sparsi in modo naturale sul suolo nudo di un ambiente semi-arido.

La concezione della centralità dell’uomo dell’umanesimo rinascimentale, associato alla fiducia nella possibilità della conoscenza razionale del mondo, porta alla riscoperta della cultura classica, con la sua visione mimetica e idealistica della realtà. Un naturalismo che supera la descrizione dettagliata, ma frammentaria, del gotico internazionale, per una visione globale del mondo ed in particolare del mondo naturale. E’ l’epoca degli studi sull’anatomia umana, della ricerca di Brunelleschi sulla prospettiva, dell’approccio matematico alla profondità dello spazio. I cieli dorati o uniformemente blu lasciano definitivamente il posto a cieli nei quali si registrano gli eventi atmosferici, le nuvole, i temporali. I paesaggi ancora restano sullo sfondo, ma sono descritti nella loro interezza, spesso attingendo alle personali esperienze dei luoghi vissuti dagli artisti. Tra gli innumerevoli esempi, alcuni sono particolarmente rappresentativi per una prospettiva di un pedologo.

A metà del XV secolo (1459-1460) Benozzo Bozzoli dipinge i suoi famosi affreschi di palazzo Medici Riccardi a Firenze: il Corteo dei Magi. Nei suoi sontuosi paesaggi Benozzo unisce il vecchio approccio al paesaggio con la nuova visione, dipingendo i monti stilizzati della tradizione bizantina accanto a più realistici paesaggi, pieni di particolari precisi.

Nella parete destra della stanza, che rappresenta la giovinezza, le rocce bianche formano una specie di scena teatrale nella e sulla quale agiscono i personaggi. Anche il colore delle rocce sembra funzionale alla variazione cromatica della parete piuttosto che indice di rocce differenti. Le forme sono paragonabili fra le rocce di diversi colori. L’elemento di realismo si ritrova casomai nella disposizione della vegetazione che si ritrova nelle incisioni e, meno di frequente, isolata in ciuffi. A parte la palma, questo può ricordare le zone di accumulo di un calanco. Sullo sfondo, nella parte destra, sotto il villaggio, compaiono segni di lavorazione del suolo (campi però sono verdi). Ancora segni di lavorazioni sono sotto il castello. Il corteo procede sulle rocce (fosso di erosione sulla sua strada in alto a sinistra) o nella gola fra le rocce.

Sulla parete di fondo, rappresentante la maturità, il paesaggio cambia completamente. Le rocce stilizzate, lasciano il posto ad un verdeggiante paesaggio “naturalistico”. Le rocce restano ancora in primo piano come base di appoggio del cavaliere e del corteo. Nel paesaggio vengono riprodotti: una fustaia con cipressi in primo piano e latifoglie dietro. Il sottobosco è nudo e appaiono i suoli bruni. Al centro-sinistra è raffigurata una valle: il fiume scorre in meandri ed è raffigurata erosione della sponda. Si riconoscono terrazzi fluviali con le scarpate inerbite.

Al centro è raffigurata una serie di colline e versanti sui quali si riconoscono i segni delle lavorazioni, a rittochino e a cavalcapoggio. Sono raffigurate colture arboree con sesti di impianto regolari, e colture intensive, fra siepi, nelle zone più pianeggianti.

Sulla parete sinistra, simbolizzante la vecchiaia, la scena è nettamente divisa in due con la parte destra caratterizzata dalle solite rocce bianche. Nella parte sinistra un paesaggio più selvatico del precedente. Ci sono bestie, ci sono i boschi, inerbiti in superficie, e non ci sono segni di colture agrarie. Sullo sfondo le rocce diventano vere e proprie montagne, i versanti sono interrotti da scarpate erose, con i suoli esposti.

Sullo sfondo, nella vallata, c’è una forra da erosione.

Nel Botticelli, (1444-1510), famoso per il suo interesse per la botanica e nella floristica, i paesaggi perdono di precisione. Il Botticelli non è interessato alla rappresentazione scientifica del paesaggio che è sostituita da una natura ideale, ricca di simboli, rappresentati come usuale dalle diverse specie vegetali, fatto che gli attirerà le critiche di Leonardo, che non poteva capire questa mancanza di interesse per il paesaggio.

Sempre nel XV secolo, l’influenza fiamminga fu ampiamente sentita fuori dalla toscana e principalmente in Veneto, con uno dei più grandi pittori di paesaggio mai vissuti: Giovanni Bellini (1426-1516), considerato il primo vero interprete del paesaggio in senso moderno.

Egli probabilmente conobbe Antonello da Messina (1451-1500), l’erede italiano della tradizione di van Eyck, che fu in Veneto. Come afferma Kenneth Clark, Bellini realizza nelle pitture del paesaggio la “suprema istanza dei fatti trasfigurati dall’amore”. Tale amore universale “abbraccia ogni ramoscello, ogni pietra …” ed è attraverso l’uso della luce che questo si manifesta.

I suoli sono ben rappresentati in alcuni grandi dipinti del Bellini, primo fra tutti il San Francesco in estasi, (1480-85 o 77-78, Frick collection, New York), e nella Madonna del prato (1505, National Gallery, London, 67×86).

Nel San Francesco in Estasi, le forme sono dipinte nella loro individualità mentre la luce pervade la scena. I suoli agrari sono riportati sullo sfondo, attorno e sotto le mura della città. Suoli inerbiti sono descritti con i loro colori bruni, e con l’intreccio delle radici erbacee. Specie erbacee crescono sui colluvi delle rocce calcaree.

Nella Madonna del Prato un suolo pietroso, tipico dell’alta pianura veneta, è realisticamente riprodotto in primo piano, in una fredda luce autunnale, evidenziato nel suo aspetto naturale dalla presenza di una sottile ombra.

Una rappresentazione verosimile del suolo è di difficile reperimento nell’opera di un grande del rinascimento italiano, Leonardo da Vinci, che unì nelle sue pitture l’approccio scientifico della sua mente con la fantasia della sua arte, che seppe trasformare l’osservazione naturalistica con la fantasia. Ancora Clark si riferisce ai paesaggi di Leonardo come al prototipo del genere del paesaggio fantastico.

Nel 1473 Leonardo da Vinci, a 19 anni, disegnò il suo Studio di paesaggio, conservato agli Uffizi. Non c’è accordo sulla veridicità del disegno, se si tratti di un luogo fisico o di un frutto della fantasia, ma questo è il primo esempio fiorentino di un paesaggio puro, privo di presenza umana, se si eccettuano le linee squadrate dei canali di irrigazione sullo sfondo. Il paesaggio è rappresentato nella sua interezza e su tutti i piani visivi.

Sappiamo bene che Leonardo studiò a fondo i fenomeni naturali ed in particolare l’erosione idrica e fluviale, ma nei suoi dipinti, nelle sue montagne i processi morfologici non sono evidenti. I monti, molto ben conosciuti da Leonardo, sono trasfigurati dalla fantasia. I monti e le valli dipinti sugli sfondi sono visti generalmente attraverso il filtro di un’aria leggermente nebbiosa, le rocce sono molto ben descritte, ma spesso disposte irrealisticamente (Vergine delle rocce), e il suolo è solo una volta riprodotto con accuratezza, come base pietrosa nella Vergine con Bambino e Sant’Anna del Louvre.

Alla scuola fondata a Venezia dal Bellini, si formarono tra gli altri Giorgione (1477-1510) e Tiziano (1488-1476). La loro opera offre alcuni dipinti con interessanti rappresentazioni del suolo. Circa la Tempesta del Giorgione (1500- 1505), conservata all’Accademia di Venezia molto è stato scritto, sul simbolismo e sul significato, e sull’importanza per la storia dell’arte, ma cosa si apprezza in quanto scienziati del suolo è il fatto che nella Tempesta è rappresentato un profilo di suolo in primo piano: la donna (una gitana, una figura allegorica?) giace sul prato e questo è rotto lasciando vedere il suolo. Anche grazie alla tecnica pittorica del Giorgione, questo spaccato appare assai diverso da altri analoghi visti in altri artisti: qui, sebbene non siano riconoscibili veri e propri orizzonti di profondità, è riprodotto qualcosa di molto simile ad un suolo bruno con un ben espresso orizzonte di superficie (orizzonte A).

Più giovane di Giorgione, Tiziano lavorò con lui in alcune opere tarde di questi. Anche se famoso soprattutto per i ritratti e per le composizioni di figure umane, i paesaggi dipinti sullo sfondo di questi rappresentano una pietra miliare nella storia della pittura del paesaggio (Clark, 1949), come esempio del “paesaggio ideale”, cioè del concetto ideale di paesaggio.

Nello sfondo dell’Amore Sacro e Amore Profano (1514, Galleria Borghese, Roma) è riprodotto un paesaggio nella luce della sera. Sulla destra il prato è rotto e appare il suolo: vi è riprodotto un piccolo movimento di massa.

L’eredità di Tiziano è direttamente riconoscibile nei paesaggi di Annibale Carracci (1560-1609) che  con il fratello ed il cugino lavorò ed insegnò a Bologna e poi a Roma, interpretando un’alternativa al dilagante manierismo italiano.

La sua Fuga in Egitto (1603, Galleria Doria-Pamphili, Roma) influenzò profondamente la storia della rappresentazione del paesaggio ed in particolare l’opera di Poussin e Claude Lorrain. In questo classico paesaggio ideale le forme del suolo ed i suoi colori sono ben riprodotti, seppure in un paesaggio idealizzato, privo dei suoi aspetti produttivi, eccetto che per la presenza di un formale gregge di pecore.

Con il XVII e XVIII secolo il paesaggio e più in generale la natura diventa un genere di per sé, ma qui solo l’opera di due grandi pittori di paesaggio verrà ricordata: Claude Gellée o Lorenese o semplicemente Claude e Nicolas Poussin.

Claude Lorrain (1600-1682), nato in Lorena, lavorò principalmente a Roma. Il paesaggio ideale trova in lui uno dei più grandi interpreti. Forse a causa delle sue umili origini le forme di suolo rimangono in certo modo naturali ad esempio nel suo “Paesaggio con figure danzanti” del 1648, conservato presso la Galleria Doria Pamphili a Roma

Anche Poussin (1594-1665) era francese, ed operò principalmente a Roma. I suoi paesaggi, così come quelli di Claude, sono influenzati dall’opera di Tiziano e Carracci, ma l’idealizzazione finisce per prevalere, col risultato di una perdita di tutti gli elementi naturalistici, almeno per quanto riguarda le morfologie ed i suoli. Si veda ad esempio il “Paesaggio con Diogene” (1647) del Louvre.

Il paesaggio idealizzato privilegia la rappresentazione naturalistica della luce e l’aria e l’acqua, mentre le morfologie e conseguentemente i suoli, con la loro ovvia dimensione terrestre, sembrano non interessare molto gli artisti, in una visione molto formale. Tra le centinaia di dipinti di paesaggi dell’arte italiana del XVII e XVIII secolo, tra le rovine e i ponti e i pastori sontuosamente vestiti, la percezione del suolo sembra persa, o almeno molto povera. Dobbiamo arrivare alla seconda metà del XIX secolo per vedere il colore del suolo apparire nell’arte italiana, improvvisamente e prepotentemente.

Ed è ancora in Toscana, nell’ambiente intellettuale della borghesia, favorito dal clima relativamente liberale del regime del Granducato di Toscana, che il nuovo approccio alla natura si rende manifesto. Soggetto della pittura diventa il mondo reale, la vita di tutti i giorni, osservata nei diversi momenti del giorno e dell’anno. Immagini neutre e semplici sono i soggetti preferiti: i campi, i contadini, i fiumi ed i canali di irrigazione, le marine battute dai venti, le boscaglie. Gli artisti dipingono le loro opere dal vero, su cavalletto, su piccole tele o tavole facilmente trasportabili all’aperto, senza l’ausilio degli schizzi preparatori. Il movimento prende il nome dal termine dispregiativo con il quale venne indicato dai primi critici del genere: “macchiaioli”, dall’aspetto a macchie delle loro opere. Esso nasce autonomamente e in qualche modo procede parallelo all’impressionismo francese, con il quale tuttavia i legami sono profondi, sia per la continuità fisica di alcuni esponenti che, nati nella macchia, crebbero nell’impressionismo, sia per la continuità culturale. Si rammenta qui tra i tanti possibili esempi, il “Pagliaio” (1880?) di Giovanni Fattori (1825- 1908), conservato a Livorno; e di Telemaco Signorini (1835-1901), “Fine di Agosto a Pietramala”.  I due dipinti rendono vividamente i diversi paesaggi: la campagna livornese dai colori ocra accesi e quella della Romagna interna dalle tinte tenui dei suoli delle marne appenniniche.

Lo stesso colore del suolo pervade i capolavori di Paul Cezanne, che colse nei suoi paesaggi tutta la luce e la brillantezza, il calore e il croma dei suoli della Provenza e della Francia meridionale; e ancora, in Italia l’opera di Giorgio Morandi (1890-1964), che riprese i colori rarefatti e trasparenti della sua Emilia (ad esempio in “Paesaggio a Grizzana”, Galleria di Arte Moderna, Firenze), e di Ottone Rosai (1895-1957) che ci ha lasciato i colori severi della collina fiorentina, ancora coltivata nel XX secolo come nel tardo rinascimento  (ad esempio “Paesaggio toscano”, Stazione Centrale di Firenze).

Mi piace terminare questa breve carrellata citando Tullio Pericoli (1936), straordinario narratore di paesaggi.  I colori del suolo sono i veri protagonisti dei suoi quadri, qualunque tecnica espressiva utilizzi. Impossibile sceglierne uno, impossibile per uno scienziato del suolo non amarli tutti.

 

NdR segnalo, a proposito della giornata Mondiale del suolo, questo convegno a Venezia, e quest’altro a Roma

 

➨ AzioneAtzeni – Discanto Quattordicesimo: Elvio Carrieri

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Azione Atzeni – Discanto Quattordicesimo: Elvio Carreri

Discanto Quattordicesimo*

Vai a Guspini, i guspinesi hanno buona memoria, era un loro compaesano, sanno tutto, se chiederai racconteranno. E scoprirai quel che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui. Forse così la smetterà di venire nei sogni a rimproverarmi.

da Il figlio di Bakunìn, di Sergio Atzeni

L’apocrifo capitolo XXXII di Elvio Carreri

Che, ti offendi? Ti hanno trattato tutti con gentilezza prima di me? Non credo proprio. E poi io non sono diventato quello che sono diventato perché sono gentile, ma perché so poche cose, donne uomini e ottoni conosco, non prenderla a male se ti suono un po’ burbero, so solo questo. Scrivilo. Stai scrivendo? Stai prendendo nota? Bene. Possiamo cominciare. Parti dal fatto che tutto quello che ti hanno detto i miei colleghi è merda murigata, come dicono da te, lo sai, l’avrai capito anche tu che i musicisti e i guspinesi hanno una cosa in comune: sono delle teste di cazzo. Per questo non suono e non torno più a Guspini da non so quanto tempo. Ora sto dall’altra parte, sono tornato a casa mia dall’altra parte del mare, Guarda qui, sporgiti un attimo dal balcone. Lo vedi come è piatta, questa linea? Da voi solo scogli, scogli e monti, avrete pure l’acqua più blu del mondo ma è rabbiosa che vi circonda, ma una bella pianura, una distesa, una luce come questa dico l’hai vista mai? Non mi interessa che non vivi più lì. Sei venuto fin qua per sapere di un uomo che lì ci ha vissuto, ci ha fatti tutti cornuti come mufloni e se n’è scappato. La terra vostra è come voi, la terra nostra almeno a noi ci lascia in pace. Ma non ce l’ho con lui, non sono mica fesso, non covo rancori, il chitarrista con cui hai già parlato, quello sicuro vuole vedermi morto. Ma non lo biasimo. Essere sostituiti è un brutto fatto. Eppure si vedeva da lontano dove andava a parare quella storia. Uno scatafascio. Quello ne uscì col femore… Ti avranno parlato di me, non mi sorprende. Non te ne hanno parlato? Sono sorpreso. Ma chi dice che i guspinesi hanno buona memoria e sono brava gente ti prende per fesso, scusa se mi permetto, ti tratto con un po’ di familiarità perché mi sembri un figlio, ho un figlio che se n’è andato in alta Italia, dice vado a fare l’ingegnere, io dico qua non lo puoi fare? Dice no, me ne voglio andare, sai che gli ho detto? Vattìn. Vuol dire vattene. Scrivi. Scusami.

[scatta una leva interna sotto ai tasti
il mangianastri Aiwa si interrompe
poi riprende]

Peggio di un guspinese, dicevo in quanto a memoria, perfidia, malignità, c’è solo un leccese. Quindi ti ho detto, ciò che ti hanno raccontato fino ad ora è falso, furbo, impastato come lo sanno fare loro, che ad impastare sono bravi e questo non glielo nego, ma a raccontare le storie, raccontare le storie è un’altra cosa. Stai scrivendo? Perché non scrivi niente? Ah il coso registra. Mah. Va bene. Quando un’orchestra va allo scatafascio c’è una sola e unica ragione: l femmn. Le femmine sono delle sfasciabande, e ti dico anche perché, sai perché? Non tollerano che gli uomini si facciano i fatti loro, per una volta. Non è che la volta mia fu diverso. Quel poveretto chitarrista si è trovato zoppo perché il Marcantonio di cui mi chiedi doveva chiavarsi una che si chiamava Edvige, Ed-vi-ge, bel grand’uomo, uno che manda tutto all’aria per chiavarsi una con questo nome ti pare degno di suonare con Cesarino Cappelluti? Ti avranno parlato di Cappelluti, per forza. Menomale, e che ti hanno detto? Boiate, boiate pure queste. Cappelluti era diventato famoso anche in continente, come dite voi, non è che solo in Marmilla o nel Monreale siete capaci di riconoscere un grande musicista, me lo trovai io qua, fresco di nave in carne ed ossa a fare un matrimonio in una masseria. Gli chiesi di unirmi. Disse sì. Mi prese con sé. Stai scrivendo? Disse di sì e partimmo insieme. Mi prese che avevo venticinque anni, e lui sessanta, e che suonava ancora come un ossesso, pure in televisione capitammo, una sera, a Capodanno. Lui? Lui era il cantante. Cappelluti invece era il leader capobanda, fisarmonicista. Ti avranno detto che lui cantava pure bene, balle, cantava male e solo da ubriaco, ma alla fine, per fare i matrimoni, mo’, detto tra noi, che altro ci vuole? Scusa. Cancella. Ho amici che ci campano, è un lavoro nobile, non è diverso da andare in miniera. Lui in miniera ci era stato. Su questo sono d’accordo coi guspinesi, era un grande artigiano. Comunista non era davvero, era anarchico, sai che vuol dire, an-archè? Il mio professore di greco, che poi lo saprai è quel tale che va in tv, capellone occhialuto, qualche anno fa era a Mixer, non lo vedi? Tutto tu giornalista scrittore non vedi Mixer, l’unico programma colto in questa Italia di cacao meravigliao? Comunque sia ci spiegava, quando il liceo classico ancora era una cosa seria, ma non puoi saperlo, non puoi saperlo, ci spiegava che an-archè vuol dire senza principio. Senza legge. Senza regola. Così era lui. Senza regola. E infatti.

[un suono di vinile poi di punta
che taglia l’aria e scava dentro il solco
striscia lo spazio]

Entrai io a sostituire la chitarra quando quel pazzo mandò tutto all’aria per la femmina col nome da trisavola crucca. Ed-vi… manco lo voglio ripetere. Mi viene la sconfidenza. E quell’altro poveretto, povero Cristo… non la resse più, e l’anarchia, e la follia, mi dici poi, però spegni quel coso, mi dici come se la passa? È ancora zoppo, se ci hai parlato? Se ci hai parlato dimentica, dimentica. Il dolore fisico fa brutte cose, fa rincoglionire le persone, tu che sei giovane ancora non puoi saperlo. Così presero me, una tromba. Ti sembrerà all’ordine del giorno, ma una tromba a sostituire una chitarra non si è ma vista. Un cordale per un ottone. Uno strumento ritmico per uno solista. Sai cos’è un cordale? Indovina, ci puoi arrivare. Cappelluti non voleva nuove rogne perché già si era innamorato di quello scoppiato, ne aveva abbastanza, e quindi prese me. Un priso. Gli sembrai innocuo, citt citt, forse pure un po’ scemo. All’orchestrina ci voleva un altro nome, un nome nuovo, un nome diverso… Sogghigni? Così venivano chiamate, al tempo. Non hai dei nonni? Scusa. L’orchestra, alla fine eravamo orchestra, ma senza cordali, senza ritmica, armonica tromba e voce. Un’orchestra povera, anche se ci riempivano di zucchero, carne, panadas, a volte qualcuno soldi, terrisi. Ci chiamammo I nuovi poveri, e girammo da Gonnos a Cagliari. Eravamo splendidi, un po’ monchi, meravigliosi. Suonavamo Nooooobady nous iù, uen iour daun en aut L’ha rifatta quel damerino con gli occhiali recentemente, quello che gli è morto il figlio, e l’ha rifatta impomatata da buon borghese, e noi la facevamo senza ritmica, alternandoci ognuno a coprire la linea di basso, strofa per strofa, mentre l’altro teneva la linea melodica, o faceva l’assolo, o faceva i gestacci alla femmina che lo fissava, come a dire ci vediamo dopo… cornuta. Scusa la pronuncia, l’inglese non lo mastico. Oggi li vedo. I giovani musicisti sono ossessionati dalla perfezione perché possono registrare in studio trecento volte, spezzettare e fare collage delle loro parti fesse, noi dovevamo scontrarci con l’improvvisazione, l’oralità, diventava quasi un rito tribale quando suonavamo, e senza ritmica, e pensa se eravamo con le percussioni. Anarchici! Tribbbali! Anarchici tribbbali! Eravamo… davvero. Scusa. Per questo, lo dico, come i guspinesi e i leccesi, voi giovani oggi non le sapete raccontare le storie. Avete perso rapporto con l’oralità, con l’improvvisazione. Mio figlio fa ingegneria elettroacustica. Stai scrivendo? Cancella.

[ora la stanza è calma e senza il suono
dell’Aiwa o dello stilo sopra il solco
rimane solo il vuoto che si prende
tutto]

Ti dico che l’uomo di cui mi chiedi ha causato la rovina di un chitarrista e la fortuna di un trombettista. Gli hanno sgranulato il femore. Menato, venti contro tre, gli hanno fatto il cappotto. Così è, qualcuno deve cadere quando passano certi cicloni. Diventano miti e lasciano un po’ di cadaveri in mezzo alla strada. Dopodiché, non l’ho mai più rivisto. Nobody knows you when you’re down and out Vedi che me la ricordo? Te ne hanno parlato male perché sono fascisti e ignoranti, te ne hanno parlato bene perché sono comunisti e leccaculo, te ne hanno parlato così forse pure i carabinieri, che un poco lo rispettavano, ma a distanza, scommetto che nessun anarchico hai incontrato, da Guspini a Gonnos, che ti ha detto che Tullio Saba non esiste. Tullio Saba. Tullio Saba è lo pseudonimo di un ragazzino che ha causato danni ovunque e li ha coperti di cause civili mentre diventava uomo. Lo so. È inutile che mi guardi così. Io non ci credo, ma tu sì. Bisogna farci i conti, con i miti. I miti generano mostri, e se quest’uomo inesistente ha generato un figlio io non vorrei trovarmi nei suoi panni, mai. Quelli del figlio? Sì. Per favore non ci cadere, non ci credere a chi ti ha detto che la memoria è inaffidabile, che deforma gli eventi. La memoria è l’unica cosa che conta, e se si deforma, mi permetto, sono cazzi tuoi che l’hai fatta deformare. Bisogna tenersi attivi, il cervello è un muscolo, ti si deforma la memoria? Fai le parole crociate. Guarda Mixer. Suona My Funny Valentine. Io non la suono da un po’. Colpa mia? Colpa dei guspinesi e delle loro femmine pelose, te l’hanno detto, piene di peli? Non ho mai voluto suonare come Miles Davis. Non sono un burattino, uno che copia. Qui non ci servono spartiti, Qui dentro, Senti che rumore queste vecchie nocche callose sopra la tempia, ci si affida all’improvvisazione. Che è una forma di memoria, naturalmente, lo dicono i greci, il professore, e se non ci arrivi, mi permetto, il problema è tuo. Si chiama declino, declino cognitivo perché l’altra parola oggi non va più di moda, ma stai sicuro che in questa casa i santini non entrano, perché la memoria funziona, funziona come un gendarme, e ci blocca l’entrata. Non tocco una donna da quando non tocco un ottone. Nooooobody knows you No? Penso che in fondo tu abbia capito tutto. Ogni tanto mi sveglio e ripenso a quel poveretto che si è trovato nella rissa al posto mio. Colpe non ne ho e non ne avrò mai, si può sempre decidere di scappare, di andarsene dall’orchestra prima che Tullio Saba la mandi a rotoli. Scappare prima che ti accoppino. Fare i codardi non è cattiveria. Per una femmina, poi. Scrivi, scrivi così: Tullio Saba è come la Coca Cola, i Beatles, i blue jeans, ma di Guspini. Nessuno si fermerà mai a ricordarlo al di fuori del mito, nessuno tranne l’uomo che hai di fronte e che modestamente ora ti parla, ora che ti fisso bene, Alza la testa, sì, girati un poco, lo sai che ci assomigli? Io ho riconosciuto che il mio bene è stato il male di un altro, grazie a Tullio Saba. Certo, inventare le leggende è facile, ma ancora più facile è che tu ci creda, e io, di questa leggenda, te lo dico, ora che siamo un po’ intimi, ho paura. Ho paura di crederci. E di vedere cosa mi succede se ci credo, se richiamo mio figlio e se gli dico che suo padre ci è ricascato, e se ci credo ancora, un’ultima volta, per davvero, prima di crepare. Ci assomigli. Scommetto che questo non te l’aveva mai detto nessuno, je ver? Anzi, sai che c’è? Cancella, cancella tutto.

[scatta una leva interna sotto ai tasti]

Scusami.  

 

* Azione Atzeni- mode d’emploi

di

Gigliola Sulis e Francesco Forlani

‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, accompagnati dalle registrazioni dei podcast a cura di Orsola Puecher, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale. * Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia Gigliola Sulis, Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012  

Si può seguire il PODCAST su:

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Medium Hot: la temperatura del dibattito sulle IA ai tempi del riscaldamento globale

1

di Hito Steyerl

È in uscita per Timeo il saggio Medium hot. Intelligenza artificiale e immagini ai tempi del riscaldamento globale di Hito Steyerl.

Ospito qui un estratto dall’introduzione al libro.

***

Questa raccolta di saggi documenta alcuni episodi avvenuti durante la rapida espansione della cosiddetta intelligenza artificiale in ogni sorta di professione creativa, inclusa la mia – ovvero la cinematografia. Questi testi non devono essere confusi con la scrittura o gli articoli accademici – uno stile che si presta facilmente a essere mimato dai large language model per via delle sue norme facilmente riproducibili e il suo conformismo strutturale. A scanso di equivoci: nessuno stile è immune all’automazione/automatizzazione. Alla fin fine, il cosiddetto general intellect è già stato in larga parte ingerito dai modelli di IA su larga scala, che l’hanno così reso un modello di loro proprietà. La frontiera oggi si è spostata verso tipi di informazione più multidimensionali, specialmente quelli che concernono l’orientamento e il movimento, e che in qualche modo imitano l’esistenza incarnata con l’intento di bucare lo schermo e dare inizio alla colonizzazione su larga scala dello spazio tridimensionale.

Molti dei testi presenti in questo volume sono reportage di prima mano, derivanti dal mio lavoro e dalla conseguente pratica, con la produzione di immagini nel periodo che va dal 2017 al 2024, quando la cosiddetta IA generativa e le tecnologie blockchain sono esplose. La maggior parte è stata scritta mentre aspettavo che finisse il rendering di qualche immagine o che un modello completasse l’addestramento, o mentre arrancavo tra infiniti messaggi di errore e consigli sul forum di Stack Overflow, cercando di comprendere dall’interno il mondo polveroso e pedante della produzione statistica di immagini. Alcuni sono vestigia di tentativi artistici cancellati dalla pandemia di Covid-19. I saggi documentano i dibattiti svoltisi in concomitanza con i primi passi da gigante dell’apprendimento automatico nel secondo decennio del XXI secolo: dalle allucinazioni goffe e onestamente sorprendenti di Google DeepDream (2014) alla simultanea e subdola diffusione della stupidità artificiale sotto forma di eserciti di bot, braccialetti Amazon per monitorare le prestazioni dei lavoratori nei centri di distribuzione, o sistemi di previdenza sociale progettati per fallire di proposito.

Le svolte decisive nell’ambito delle immagini generate dall’IA, in questo periodo, non sono né lo sviluppo delle reti generative avversarie (GAN) nel 2014, né l’invenzione – d’impatto significativo – dell’architettura «transformer» nel 2017, che avrebbe dimostrato appieno il proprio potenziale solo qualche anno dopo. Le tappe fondamentali dell’apprendimento automatico in questi anni sono state, invece, di natura ben più prosaica. Nel 2019, il governo olandese ha impiegato un algoritmo di apprendimento automatico per individuare presunte frodi nei sussidi per l’infanzia, che ha finito per colpire in modo razzista e discriminatorio molte famiglie completamente innocenti, spingendole a indebitarsi e a ritrovarsi sulla soglia della povertà. Alcune persone sono arrivate al suicidio. Un’altra tappa significativa sono state le tante proteste scatenate dagli strumenti di GenAI dopo il 2022, di cui si parla più avanti nel capitolo «Medium Hot» (scritto in larga parte nell’estate del 2023).

Nessun’altra tecnologia recente ha causato così tanti scioperi, cause legali o campagne online – che, va detto, se non altro hanno contribuito a rendere l’automazione delle tecnologie creative molto meno attraente. Intanto, l’enorme impatto ambientale dell’industria dell’IA (così come di molte blockchain) è diventato sempre più evidente, come si approfondisce in «Immagini che bruciano» (2023–24), «Non siamo stati noi ad appiccare il fuoco» (2021, scritto insieme a Gago Gagoshidze e Miloš Trakilović) e «La frattura digitale» (2024). Altri testi presenti in questo volume si concentrano sulla continuità tra la GenAI e le precedenti pratiche di estrazione e sorveglianza, dalla frenologia alla statistica («Mean Images», 2022), fino al colonialismo delle criptovalute («A chi appartiene il mondo?», 2023). «Knuckleporn o focomelia» (2024) esamina alcuni modelli specifici di IA, mentre «Percorrere la via» (2021) riflette sulle presunte promesse della blockchain per gli artisti, che sono implose giusto pochi mesi dopo.

Un altro dei saggi guarda al fenomeno dei creepypasta comparsi dopo le elezioni trumpiane del 2016: una storia chiamata «Il basilisco di Roko» che continua a ispirare il lore lovecraftiano sull’IA, come il cosiddetto «lungotermismo» e i miti sul «rischio esistenziale». C’è perfino un testo scritto in collaborazione con il large language model GPT-3, «Ventuno mondi dell’arte» (2021, con il Department of Decentralization), fatto quando questa attività poteva essere ancora in qualche modo divertente – un tempo in cui gli LLM prodotti dalle multinazionali erano ancora capaci di produrre un certo grado di «stranezza» al posto dell’attuale conformismo ottimizzato. Lungo il corso di queste indagini ho avuto modo di incontrare professionisti brillanti – tra cui ingegneri preoccupati per le conseguenze del proprio operato – e persone di ogni sorta, colpite dalle tumultuose instabilità e discontinuità tecnologiche e sociali. I saggi puntano i riflettori su alcuni aspetti della rapida proliferazione delle tecnologie basate sull’apprendimento automatico e il loro impatto sulla società, sull’arte e su diversi tipi di lavoro.

Forse sono destinati a diventare delle capsule del tempo, per gli storici del futuro, che a un certo punto si troveranno a chiedersi: che cosa pensava la gente quando tutto questo ha avuto inizio? Come hanno affrontato la minaccia della propria zombificazione: essere resi obsoleti o trasformati in non-morti da strumenti che promulgano il conformismo statistico? In quale momento si è iniziato a modellare le persone come fossero rumore, o particelle sociali sospese, bombardate da forze browniane caotiche e impietosamente strattonate di qua e di là? Qual era la temperatura del dibattito in quel momento?

Forse qualcuno vorrà ricostruire in retrospettiva il periodo di un’ennesima rivoluzione tecnologica alla cuspide del XXI secolo, in un periodo di instabilità, cambiamento climatico, precarietà e, più di ogni altra cosa, la sensazione che quello che Hannah Arendt ha chiamato «senso del mondo» stia iniziando a sfaldarsi. Dal suo punto di vista il senso del mondo prende forma da un sensus communis condiviso. Quest’ultimo implica la facoltà di cogliere il senso basilare della realtà e di orientarvisi – qualcosa che oggi le industrie dell’IA cercano strenuamente di integrare nei propri modelli. Nel frattempo, il senso del mondo di Arendt è già stato messo a repentaglio dalle infodemie del Web 2.0 – un multiverso di fake news animato da mobbing e self-branding. Il senso del mondo è stato inoltre eroso dalla progressiva sovrapposizione di zone di internet a nuove sfere politiche multipolari, mantenute rigidamente separate le une dalle altre. L’idea di Marshall McLuhan di un villaggio globale è stata copiata e incollata nello spazio tridimensionale: una collezione di villaggi sparsi per il mondo, sempre più insulari e parrocchiali; caratterizzati da pettegolezzi anonimi e meschini, censura e repressione, e dall’esclusione e la cancellazione degli altri, e sempre più ostili tra loro. L’idea stessa di «mondo» ne risulta deprecata, nel bene e nel male. È anche possibile che, nel futuro, persino la storiografia sarà ridefinita dall’apprendimento automatico, fino a diventare qualcosa di completamente diverso.

Si tratta di una serie di eventi ancora agli albori, e dunque molte domande fondamentali rimangono aperte; altre non possono neppure essere formulate. Le cose si muovono a una velocità tale che l’immediata obsolescenza di qualsiasi nostra idea su quanto sta accadendo è inevitabile, indipendentemente da quanto ci si sforzi di rimanere al passo. Ciò significa anche che molte delle domande che ci poniamo oggi, presto potrebbero sembrare domande di un tempo remoto. O forse lo saranno già al momento della pubblicazione del libro. Che cosa accade alle nozioni di autonomia nell’epoca dell’autonomizzazione? L’arte autonoma si trasformerà in arte autonoma di macchine per macchine? Che cos’è una funzione «fire, find and forget» applicata a un’opera d’arte, e quale potrebbe essere il pubblico di simili performance?

Una volta che il cosiddetto senso comune viene catturato da sistemi stocastici e dalla politica populista, che ne è delle sue ripercussioni estetiche e sociali? E cosa può dirci una tale situazione rispetto alle limitazioni intrinseche a una simile concezione dell’estetica? E che ne è del significato del «significato» una volta ceduto a sistemi proprietari e opachi? Come può essere fermato il danno sociale e ambientale creato dai sistemi termodinamici della produzione di immagini? Come si può interrompere la corsa agli armamenti e l’attuale sviluppo e impiego di strumenti balistici basati sull’IA? E cosa succede ai sistemi umani, e agli umani stessi, quando il pensiero e le sensibilità umane risultano sacrificabili a causa della sempre maggiore autonomia dei sistemi macchinici?

La morte e il lambrusco

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Immgine di Giuliana Coppini

Perché insegnare Storia è una caccia nel fango

di Francesco Bertani

La strada è come quando c’è la neve: deve fare attenzione a dove lascia la prima impronta. Così sta fermo e attento. Ha una scarpa slacciata e da dietro le lenti spesse mi osserva con un timore coltivato dalla quinta elementare. Sulle medie, i maestri gli hanno raccontato di tutto.
“Allora?” – lo incoraggio – “chi hai intervistato?”.
Camillo risponde con un sussurro. Ha intervistato il nonno: “mi ha parlato del 1944. A marzo in cantina sono esplose due damigiane di lambrusco. Quel giorno i fascisti hanno ucciso suo papà”.

Due anni e diversi mesi dopo, c’è una certa stanchezza. È appena finito il quadrimestre e nell’ultima verifica i bolscevichi non hanno fatto prigionieri. Manca davvero poco al suono della campanella e Camillo guarda fuori dalla finestra. Dai primi giorni del primo anno, Camillo è cambiato tanto. Ma ancora adesso, se lo richiamo perché si allacci questa o quell’altra scarpa, la mia voce si va a perdere immancabilmente nel vuoto.
Comunico che a breve faremo un’uscita in centro nel quartiere delle barricate contro i fascisti di Balbo. Una mano si alza. “Nella primavera del 1944” – dice Marta – “i fascisti hanno ucciso il bisnonno di Camillo”. Lo dice mentre scribacchia all’interno di uno stencil. Per un attimo c’è silenzio. Poi avviene quello che a scuola ha i contorni del miracolo: ci scopriamo tutti sul pezzo, presenti all’appello di un ricordo ben piantato nella memoria collettiva.

Gira la ruota del calendario. Ecco che arriva maggio con il suo profumo di tigli. Vorrei scrivere una lettera per congedarmi dalla classe di Camillo, ma non trovo il tono giusto. Mi viene in aiuto una poesia di Chandra Livia Candiani che a un certo punto dice: “non voglio insegnare, voglio accompagnare”. Chi lavora a scuola sa che sono parole autentiche. E che suonano ancora più vere se si rimescolano le carte e si immagina che siano gli studenti a dedicarle ai professori. La voce di Marta, per esempio, continua ad accompagnarmi. Mi chiede se riesco a immaginare un insegnamento della Storia che abbia lo stesso potere della testimonianza di Camillo. Quello di accendere il senso di un sapere che rimane. Penso a questo sapere e cerco di definirlo. Mi concentro sul contrasto tra la morte e il lambrusco. Poi prendo un foglio e lo divido in tre parti. Per ciascuna un aggettivo. Allora scrivo: concreto, vicino, icastico.

Credo che la concretezza abbia a che fare con il tempo. Dopo l’intervento di Marta è infatti emerso che molti ricordavano la data del 1944 perché la collegavano al suo aspetto stagionale. Per alcuni studenti di campagna ancora oggi periodo di imbottigliamento, per altri più cittadini segno di rinnovamento, marzo agganciava il fatto storico all’esperienza diretta. Il senso di una morte nell’alba della primavera aveva dato concretezza alla linea cronologica: architrave fondamentale, che spesso dimentichiamo popolato di giorni e notti; di aspetti meteorologici; dell’eterno movimento della ruota dei mesi.
Mi sembra importante insistere sul respiro del tempo. D’altra parte, gettare un ponte tra cronologia ed esperienza significa aprire la pista a ulteriori esplorazioni. Potremo, innanzi tutto, sondare la differenza che separa il nostro sguardo da quello delle epoche o dei gruppi sociali del passato. Cosa poteva significare, durante l’ellenismo, un’eclissi lunare alla vigilia di una battaglia? Come interpretare gli eventi notturni nei contesti in cui il buio era il dominio del diavolo? Per le società contadine – abituate a dare valore al tempo in base al momento dell’anno – le vicende invernali non avranno assunto tratti diversi rispetto a quelle occorse nelle stagioni produttive? E che dire dei matrimoni, dei lutti e dei commerci e del loro suscitare sentimenti diversi a seconda delle variabili biografiche degli attori? Promuovere in questo modo una didattica del quando: indagare la parte del giorno, dell’anno o dell’esistenza al centro della nostra attenzione. Riempire di vita la linearità del tempo per avvicinare le classi ai molti Altri del passato.

Dopotutto è semplice: quel che è vicino ci riguarda. Il guaio è che spesso poche cose risultano distanti come le narrazioni storiche a taglio politico-militare. Chiaro che la Storia dei grandi fenomeni sociali, dei grandi scontri e concordati conta. Ma forse arriva meglio se non la guardiamo dall’alto. Se per proporla ci accovacciamo – con un’immagine proposta da Carlo Ginzburg nel saggio Spie. Radici di un paradigma indiziario – nel fango della Storia, alla ricerca di impronte che parlino ai nostri immaginari.
Di volta in volta, si tratterà di fare come i cacciatori e di scegliere una pista. Così lo scorso anno la mia vecchia prima media ha trovato nella terra l’impronta zoppa di una strega. Quella traccia le ha parlato. E da quel giorno è iniziato un percorso che attraverso le lamie antiche e le masche medievali è arrivato a illuminare gli atteggiamenti delle fonti e rivelarne le implicite direttrici culturali. In futuro, la parabola potrà incrociare le riforme religiose del Cinquecento e del Seicento, risalire le epoche fino a raggiungere l’adesso e la retorica che ancora investe le presunte devianze femminili nel discorso occidentale.
In effetti, una didattica della vicinanza può insegnare agli studenti che anche noi stessi siamo parte della Storia. Che le nostre idee, i nostri schemi per leggere il mondo risentono dei tempi che ci hanno preceduti. Che tutte le vite umane fanno parte della Storia. Per i giovanissimi anche questo vuol dire costruire significato.
Un approccio didattico che metta al centro le persone è ciò che auspica Carlo Greppi quando nel suo Storie che non fanno la Storia parla di “umanizzare la Storia”. Non soltanto affrontare le biografie dei personaggi illustri, ma anche andare alla scoperta di quelle vite che non avendo fatto nulla per essere ricordate – impigliate quasi per caso tra le maglie delle fonti – risultano testimoni quanto mai affidabili dei propri mondi e delle proprie realtà sociali.
È poi nel dialogo con questa Storia umanizzata che fiorisce la ricchezza della Storia locale. Molti libri di didattica mettono in evidenza che storicizzare il paesaggio porta vantaggi non solo nell’ambito pedagogico, ma anche in quello dell’Educazione Civica. Il discorso, ad ogni modo, a me sembra pure estetico: svelare le memorie sedimentate nel paesaggio significa fare spazio a nuove letture del quotidiano. “Bassa è bassa”, dice in Pianura Marco Belpoliti della terra di Camillo. Ma le voci della Storia – come quella di un bisnonno ucciso nei campi fuori dal centro – gettano linee verticali sull’orizzonte della pianura. Ascoltiamo dunque Luigi Ghirri, che in un saggio raccolto in Niente di antico sotto il sole riflette sui paesaggi familiari dei propri viaggi domenicali a pochi chilometri da casa: “isolate dal contesto abituale della realtà circostante, riproposte fotograficamente in un discorso diverso, queste immagini si rivelano cariche di un significato nuovo”.

L’immagine delle damigiane che esplodono dà un impatto visivo alla testimonianza di Camillo. Lo fa attraverso l’intreccio di colori di segno opposto: l’allegria del vino e la tristezza dell’oppressione; l’effervescenza del lambrusco e il peso della violenza. Sembra quasi Calvino, quando nelle Lezioni americane parla di narrazioni icastiche, nitide e memorabili: capaci di svegliare in pochi tratti l’elettricità del contrasto.
Tra le narrazioni icastiche, la prima che mi viene in mente inizia con la chioma rossa che fuoriesce dalla tomba di una bambina sepolta in un convento colombiano. Ci troviamo nel romanzo Dell’amore e di altri demoni. Qui Márquez ripercorre il mito di Sierva María de Todos los Angeles: venerata nei Caraibi per le sue azioni miracolose. La tensione tra morte e giovinezza che attraversa l’opera di Márquez rappresenta la cifra della storia di Antigone: mito che alle medie fa il proprio ingresso in Epica, spesso al primo anno, più o meno sotto Natale.
Il mito non è la Storia. Ma nel corso della Storia, il carattere icastico del racconto mitologico ha sempre fornito griglie per interpretare le difficoltà. Soltanto negli anni Duemila, Antigone ha segnato il discorso pubblico sulle vite dei migranti; ha alzato la propria voce contro i soprusi subiti dai braccianti; ha denunciato gli effetti del razzismo e della globalizzazione. Temi, questi ultimi, affrontati in chiave ecologista nel potente discorso Esta locura tiene que acabar (https://vimeo.com/419316632) dell’Antigone amazzonica impersonata da Kay Sara. Proiettate alla LIM, le parole di Antigone in difesa dell’Amazzonia gettano sulle classi una specie di incantesimo. Mentre Antigone parla, i ragazzi restano in silenzio, ascoltano, s’interessano. La fine del discorso sfuma ogni volta in un applauso che quel giorno porteremo tutti a casa.
Come Sierva María, anche l’Antigone amazzonica è figlia del colonialismo. La sua è una storia di violenza: nasce dalla scoperta europea del continente americano. Ed è proprio nell’affrontare un tema come le scoperte del Cinquecento che l’ora di Storia può offrire alle classi un regalo tra i più preziosi: l’abitudine a domandarsi come fanno a sapere le cose. La Storia del confronto tra due mondi allo specchio ci permette infatti di scoprire i meccanismi che nei secoli hanno regolato la nostra conoscenza dell’Altro. Approfondiremo dunque quella che per Serge Gruzinski è La macchina del tempo: strumento creato dall’Occidente per manipolare la Storia dei popoli non occidentali. In questo senso, potremo parlare di Cortés, che nell’appropriarsi dei miti amerindiani li ha trasformati in profezie sull’arrivo degli Spagnoli. Oppure ci concentreremo sui colonizzatori che – tagliando e ricucendo le testimonianze degli indigeni – hanno inventato racconti che l’Europa avrebbe chiamato Storia. E che in parte stanno ancora lì: sui libri di testo, nel cuore di una disciplina che lungo il proprio arco ha conosciuto ogni tipo di sfruttamento. Ma che allo stesso tempo – mediante la ricerca e il confronto scolastico – può diventare luogo di relazione autentica e fare di sé l’antidoto contro le proprie distorsioni.

Scivola ancora il tempo e già avanza un nuovo anno scolastico.
Sono passati più o meno cinque mesi da quando ho scritto la lettera per la classe di Camillo. Quel pomeriggio, ho iniziato a rendermi davvero conto di quanto – nella didattica della Storia – gli elementi del paesaggio cambino a seconda del punto d’osservazione. Questa presa di coscienza mi ha aiutato a capire meglio le ragioni di una postura bassa e sporca: china sulle tracce rimaste intrappolate dentro il fango del passato. Sarà poi vero che muoversi per sterrati vuol dire mettere in conto la possibilità dell’inciampo. Ma anche qui trovo Camillo, con la sua scarpa slacciata durante l’esame orale. Dopo il colloquio, l’ho preso in disparte e gli ho detto: “Camillo, pure oggi: la scarpa!”. Allora, finalmente, mi ha risposto: “ma prof, non l’ha davvero mai capito?”. Poi, con un sorriso: “una scarpa slacciata è il mio portafortuna”.

Lingue di vetro. Le creature abissali di Francesco Cavaliere

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di Gabriele Doria

Accademia Albertina di Belle arti di Bologna, ph: Luca Ghedini

 

Chiama le cose perché restino con te fino all’ultimo.

Gianni Celati, Verso la foce

Per Ugo di San Vittore (1096 circa – 1141) il mondo sensibile è come un libro scritto dal dito di Dio, in cui le creature hanno un ruolo analogo ai caratteri alfabetici.

Ai primordi, vige la lingua degli innocenti: chi nomina le cose le fa così essere. In una lingua di vetro, Adamo dona alle cose identità nominale e sostanziale.

Dopo la caduta, invece, il linguaggio mostra la sua natura impotente: il vetro si frattura, si moltiplicano i termini. Devono essere istituite convenzioni, per poter comunicare. La Torre di Babele è il simbolo di questa impotenza:  i piani – cioé i termini, si continuano a moltiplicare. Con angoscia mista a eccitata frenesia, non se ne vede una fine.

Ciò che vogliono gli uomini, non più innocenti, sarebbe quindi non propriamente sfidare dio, ma avere un nome.

In quello che forse è il suo capolavoro, Cuore di vetro (1976), Werner Herzog pone, come a priori drammaturgico, che quasi tutti i suoi attori recitino in stato di ipnosi, ipnotizzati da lui stesso, e che in questo stato vengano addirittura improvvisati dei dialoghi. Il regista avrebbe anche voluto ipnotizzare gli spettatori, comparendo di persona all’inizio del film. La storia parla di un veggente (curiosamente, uno dei pochi che non recita da ipnotizzato) che predice un’apocalisse a venire, in una Baviera allucinatoria, aperta sulle grandi voragini dell’Universo. Nonostante ciò e proprio per questo, il film risulta uno dei più utopici, oltre che magici e misteriosi, nella monumentale opera del regista tedesco.

I personaggi delle storie di Francesco Cavaliere (artista, performer, musicista, scrittore), sembrano emergere proprio da queste utopie da primo-ultimo giorno dell’umanità, come dimentichi di un nome, sotto le voragini di cieli solidi, fatti a incastri; (s)passeggiando fra monologhi esteriori e impalcature celestiali, tracciano geografie sinestetiche, a-sistematiche, in cui il punto di vista viene continuamente smosso; tutto vibra.

Non sorprende, partendo da qui, che il romanzo Popoli di vetro (ViaIndustriae Publishing) sia il risultato, o meglio uno dei punti in cui sfocia un progetto polimorfico, Abyssal Creatures, grande saga ispirata alla flora degli abissi iniziata a marzo 2024 al festival O Museu como Performance al Serralves di Porto, e proseguita da Urban Glass (New York) e alla GAM di Torino.

Il centro del progetto è rappresentato da tre sculture in vetro di Murano, tre creature, verde, arancione e blu,  Sàbanas IAliquomàsEnquomanàsc. Assemblate come vasi comunicanti, in esse l’artista riversa una composizione sonora, come insufflando una vita “di stasi e ventilazioni” , una linfa che le farà “illusoriamente vivere”.

L’opera nasce “dalla necessità di pensare e fermentare il suono che c’è dentro alle cose, il suono dentro ai corpi sconosciuti. Mi piace pensare ad un orecchio interno, l’orecchio che vive con il suono piuttosto che a un padiglione esterno che lo accoglie”  racconta l’artista ad Artribune.[1]

“Le sculture concave in vetro soffiato di ‘Abyssal Creatures’ sono come dei fondali che si aprono e collassano dentro se stessi. Dei vasi senza fondo, senza fine. Il suono che vi cresce dentro è sistema circolatorio linfatico, non organizzativo e sistematico per l’ascolto. Dove i miei mezzi di espressione tecnica finiscono, la parola tenta in qualche modo di sopprimere al vuoto che resta, completare il discorso. Per questo la scrittura si associa alla scultura, non per spiegarne il processo, ma per aggiungere vita a ciò che c’è già

 

Il progetto si completa con un LP per Xong Collection – dischi d’artista.

 

Popoli di vetro è un romanzo che sembra si ascolti. Ricca e precisa è la sua tassonomia sonora, la descrizione di suoni che improvvisamente condensati carezzano o feriscono come ghiaccio, crescono, cadono, si inabissano cambiando colore e odore, rimbombano, si inerpicano fra le pieghe dei corpi, orientano l’andatura, il ritmo.

 

In quanto opera letteraria, Popoli di vetro apparterrebbe al (de)genere, impuro per statuto, del romanzo d’artista, che pure se privo di certificati e alibi di non-esistenza, potrebbe volendo venire negletto in un canone abissale: qualche titolo, tra Il Corpo certo o il luogo di una perdita di Magdalo Mussio, Messner di Patrizia Vicinelli,  Neurosentimental  di Stelio Maria Martini, L’homme qui descend quelque – Roman metamitique di Emilio Villa. Un corpus sommerso.

Sono opere che si autodenunciano come frammenti, che rifiutano il termine certo e stabile di un nome, di un genere, tutte incompiute perché infiorescenze di un progetto più ampio, spesso esistenziale, e per questo tutte a loro modo microscopiche e vertiginose.

Ma il fatto di appartenere a un progetto artistico più ampio non deve far passare il libro di Cavaliere per semplice partitura sonora, commento o innesco.

La storia segue (?) il protagonista Metastasio /Tan, l’incaricato di una ditta specializzata in vapori per i riscaldamenti interni. Il suo compito è controllare che la pressione e la stabilità delle sostanze – idrogeno e gas ionizzati- siano corrette prima della partenza, su vagone, per tragitti sotterranei.

Il frammento “Da quando avevo mangiato il vetro l’acqua la guardavo spesso. Sembrava che un ago ci si infilasse dentro.” vale come un’intera biografia.

In un viaggio allucinato il protagonista incontrerà una signora con un cane che è “l’ultima guerriera di luce”, cieli che crollano, movimenti teogonici, ascensioni e cadute in baratri di cristallo nero profondissimi, sdoppiamenti, uomini di terracotta, animali notturni che divorano l’oscurità, un inscatolarsi di stanze custodite da una cavalletta, personaggi che “staccano i loro contorni dall’aria” per poi sparire, conciliaboli di nubi che attraverso ampolle di Helmholtz cercano di tradurre in parole le voci di venti estinti, una biblioteca dentro alla quale scorrono due fiumi gemelli, e infine, una Torre di Babele in fiamme. Metastasio si troverà a sprofondare per “dinastie di galassie imperiali astratte e rovesciate, di vetro scurissimo, che soffiano l’una nell’altra come una bocca di vaso che risuona al vento”.

Metastasio/Tan si muove continuamente, tra i suoi due propri nomi, tra la narrazione che salta – tra la terza e la prima persona, sviluppata in interi paragrafi in corsivo -, tra le moltissime scale che ossessivamente appaiono nel libro (reminiscenze fra la scala celeste di Giacobbe e Dante), e non dà mai l’impressione di spostarsi davvero, sempre ridestandosi da un sogno, da una caduta, da una fantasticheria.

Quando si avvicinò alla sfera, la sua mano si trasformò in cascata e il bulbo di un fiore rosso screziato da minuscole strisce verdi si allargò tra le tempie della sua testa.[2]

La letteratura è fatta di sopravvivenze, anzi, di fantasmi infestanti: pescando a caso frammenti di frase da William Burroughs, (da I ragazzi selvaggi), come“ottenuto l’indirizzo di quel mattino tardivo” o “scalcia la rosa a quattro zampe” o  “è stata una finestra di risate a scuotere la valle”, ci accorgiamo di come questa tonalità di fondo possa già fornire al romanzo di Cavaliere un modello araldico di frase, pure negli abissi (acquatici) che separano le genealogie. Il testo è d’altronde trapunto di stupore, di un incanto della scrittura per se stessa. Sovviene Cortàzar: “Bisognerebbe inventare lo schiaffo dolce, il calcio delle api. Ma a questo mondo le sintesi ultime sono ancora da scoprire. Peccato […], avremmo bisogno della luce autenticamente nera.” laddove c’è “qualcosa di così contraddittorio” da non potere essere altro, infine, che “la verità”. Cut-up di vetro? Cadaveri squisiti[3] di Murano? Uno scherzo, certo.

 

Fondazione Serralves, Porto, ph: Silvia Fanti

Qualsiasi traditio, qualsiasi parentela letteraria, già traviata norma, finisce inevitabilmente in rovescio, sussulta, trasale: la scrittura di Cavaliere si accanisce quietamente contro il proprio buon senso, ricalca la sua automatica capacità di descrivere, sembra già in stato di ipnosi e finisce per ipnotizzare chi guarda.

Sembra di essere continuamente alla vigilia di una svolta, di una rivelazione, eppure non si svela nulla: perché il re nudo è infine sempre rivestito dalla membrana dell’occhio, dalla sua inevitabile curvatura. Occhio e vetro, si sa, sono inevitabilmente uniti dalla lacrima: il cineasta Alberto Grifi racconta[4] che quella primitiva retina primordiale in grado di capire se il buco della tana fosse ostruito o meno (se la luce riuscisse a passare o no) aveva bisogno di essere pulito continuamente, così la necessaria secrezione porta alla sua evoluzione biologica; questa secrezione, evoluta in membrana di protezione, ha cominciato via via a fare da lente, a mettere a fuoco le immagini, ed è diventata, infine, l’occhio.

“Sembrerebbe insomma che all’origine dell’occhio ci sia una lagrima.” dice il cineasta riprendendosi e riproiettandosi in mille frammenti di vetro, prismi da cristalli del lampadario, mezzi “casalinghi”, “giocattoli” di un cinema che fu (tra cui il cosiddetto “effetto acqua”, usato per “la soggettiva del pesce o di quello che affoga”).

Le parole alludono, continuamente eludono, significano e tradiscono indizi, il lungo monologo che infine è il romanzo dà l’idea di un lento formarsi direttamente nella testa delle immagini, nella pelle del vetro, laddove c’è solo materia vibrante. Allora ciò che leggiamo sulla pagina non è altro che il resto di questa vibrazione, di questa respirazione che non può arrestarsi o finire invischiata nei caratteri , in ciò che non si può dire: è il suo inseguirsi, non a scanso d’equivoci ma sempre a favore dell’equivoco.

Nel vetro, insegna Duchamp, c’è sempre una possibilità.[5]

 A Fedora, una delle città invisibili di Italo Calvino, nelle sfere di vetro custodite nel grande palazzo di metallo al centro della metropoli, si vedono i modelli di altre Fedora, rappresentazioni di possibilità inespresse o irraggiunte. Ogni visitatore può così specchiarsi nella città che corrisponde ai suoi desideri. Il gran Kan, conclude Marco Polo, dovrebbe includere nella mappa del suo regno, oltre alla metropoli originaria, ognuna delle piccole città di vetro “non perché tutte ugualmente reali, ma perché tutte solo presunte. L’una racchiude ciò che è accettato come necessario mentre non lo è ancora; le altre ciò che è immaginato come possibile e un minuto dopo non lo è più.

[1]L’opera “Abyssal Creatures” di Francesco Cavaliere presentata a Bologna | Artribune

 

[2]    Popoli di vetro, p.15

 

[3]Mi riferisco alla nota pratica surrealista.

 

[4]    Nel capolavoro “Transfert per kamera verso Virulentia” (1967)

 

[5]Mi riferisco al celebre episodio in cui La sposa messa a nudo dagli scapoli,anche,  opera meglio nota come Grande Vetro, subisce dei danni accidentali durante un trasporto, a cui l’artista decide di non porre rimedio accogliendo il caso come attante alla produzione di un’opera mai realmente conclusa. Questo, in un primo momento. Poi decide di sostituire il vetro. E di dedicarsi agli scacchi.

 

 

Iroko

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di Simone Redaelli

Le mattine che usciamo di casa assieme, è ancora buio. Se è inverno, come oggi, troviamo il furgone pieno di ghiaccio. Io entro e mi siedo al mio posto. Papà apre la portiera del guidatore, mette in moto, e la richiude. Con il “culo” – come dice lui – del disco orario, cioè con la parte seghettata della targhetta blu di plastica che si usa per non prendere la multa, gratta via il ghiaccio dal parabrezza.

Seduto al mio posto, in quella bolla ovattata, che si fa via via più calda, aspetto.

Quando papà si mette al volante e inizia a guidare, nessuno dei due parla. Lui non ha voglia. Neanche io ho voglia. Papà guida benissimo. È calmo e sicuro di sé. In compenso, alla prima o alla seconda svolta, si ricorda della sua agenda. Forse vuole controllare un appuntamento, o segnarsi qualcosa. Allora, mentre tiene il volante, si piega verso il vano portaoggetti. Potrei farlo io. Lui sta guidando e io sono comodo. Ma papà non me lo chiede mai, e io non mi offro. Potrei dire qualcosa, perché tutte le mattine che mi porta al lavoro con lui, la situazione si ripete. Ma non dico niente. Lui appoggia l’agenda sulle mie gambe. E io la tengo, con entrambe le mani. Aspetto. Lui però torna subito a concentrarsi sulla guida. Non mi chiede mai di controllare nulla.

Arriviamo al cantiere prima dell’alba.

Parcheggia il nostro Renault Trafic grigio metallizzato in uno spiazzo. Lo paga 204 euro al mese, perché ha dato un anticipo di 8.374 euro e prevede di chiudere l’acquisto in 59 canoni, il che significa che sarà nostro, a tutti gli effetti, fra poco meno di 5 anni. Ho letto il contratto.

È lungo 5,08 metri, largo 2,28 metri e alto 1,97 metri. Ha le dimensioni giuste perché, se deve posare, nel vano di carico ci stiano almeno 50 pacchi di doghe di legno, che corrispondono a poco più di 100 metri quadri di parquet, oltre alla colla per legno, allo stucco, alla sega circolare, alla cassetta degli attrezzi, e ad altri materiali, in base alle necessità; se deve lamare e verniciare, ad esempio, oltre alla levigatrice e alla carta abrasiva, servono anche le latte di vernice e i pennelli. A volte, lo guardo caricare prima del lavoro.

Oggi, poserà circa 30 metri quadri di iroko. L’iroko si caratterizza per un tono scuro che va dal giallo carico con richiami dorati al giallo bruno, tonalità che tuttavia tendono a scurirsi dopo la stagionatura: il risultato finale è un elegante striato chiaroscuro. Un metro quadro di iroko ha un prezzo che oscilla fra i 30 e i 100 euro, che dipende dallo spessore delle tavole e dalla scelta del legno. Ho sentito papà discuterne con i fornitori.

Una prima scelta presenta fibre orientate e leggere stonalizzazioni, ovvero minime variazioni cromatiche fra tavole della medesima partitura, ma non prevede la presenza di alburno, che è la parte più chiara e più tenera del tronco dell’albero. In altre parole, un legno di prima scelta appare morfologicamente e cromaticamente compatto. Ormai, non lo si trova quasi più.

La partitura per questo lavoro, che in totale consta di 50 metri quadri e che papà porterà a termine fra oggi e domani, gli è costata 3.350,15 euro. Ho visto il preventivo.

Con fatica, faccio scorrere il portellone laterale del furgone e guardo papà afferrare e impilare i primi due pacchi da 15 chilogrammi ciascuno. Quando le sue mani stringono il legno, i suoi denti si serrano in bocca. Quando solleva il peso con le braccia, per un attimo le sue ginocchia cedono.

Sul carrellino portapacchi pieghevole, di colore arancione, uno sopra l’altro, ci stanno due pacchi. Si può provare ad aggiungerne un terzo, ma in quel caso, il rischio che il carrellino si ribalti al primo scossone aumenta.

Secondo un muratore, che oggi m’ha regalato un pacchetto di cracker al nostro arrivo, lo spiazzo dove si parcheggia dista circa 200 metri dal montacarichi che permetterà a papà di portare il materiale al terzo piano della palazzina, dove deve lavorare. Ciò significa che deve percorrere, più o meno, la lunghezza di due campi da calcio. In totale, fra andata e ritorno, farà quasi 30 viaggi, perché oltre al legno, deve portar su anche la colla, la sega circolare, lo stucco e la cassetta degli attrezzi.

Un imbianchino fa un cenno a papà dal terzo piano: il montacarichi è indisponibile. Forse è occupato, oppure è guasto. In ogni caso, l’edificio è ancora sprovvisto di ascensore.

Sono le 8 di mattina, il cielo è luminoso ma senza sole, e papà è già sudato. Un pacco alla volta, sta portando il materiale a mano, su per le scale. Ogni tanto, l’imbianchino scende e lo aiuta. Per portare 25 pacchi di legno al terzo piano di questa palazzina ci vogliono quasi 2 ore.

Masticando i cracker, passo il tempo a guardare il bracco mobile di una gru rossa e bianca che solleva carichi da 990 chilogrammi sotto la direzione di un operaio in gilet giallo. Dietro la gru, c’è un enorme cumulo di macerie che sembra cenere.

L’appartamento è spoglio e le pareti sono bianche. L’imbianchino, quello che ha aiutato papà a portare il materiale nel salotto dell’appartamento, gli dà una pacca sulle spalle e ci dice che lo rivedremo per pranzo.

Restiamo soli.

La palazzina ha un riscaldamento a pavimento. Me ne rendo conto perché l’appartamento è privo di caloriferi. Essendo poco sensibile alle variazioni di umidità e temperatura, l’iroko è un’ottima scelta in questo caso. Si caratterizza infatti per un basso grado di ritiro o dilatazione, a cui corrisponde un’ottima stabilità. Ideale per questo genere d’interni.

Papà inizia a stendere la colla sul massetto, ossia sul fondo del pavimento del salotto, che è in cemento cellulare.

Il cemento cellulare è molto poroso e, a giudicare dal fondo di questo pavimento, qualcuno deve aver già applicato un primer per consolidarne la superficie e renderla omogenea. Deve averlo fatto papà ieri, mentre io ero a scuola.

Papà stende la colla a mano con una spatola dentata e poi la copre con una tavola di legno. Per posare 15 metri quadri di pavimento deve restare inginocchiato per 3 ore di fila camminando carponi.

Ci ho provato anch’io, imitando papà. Dopo 5 minuti, iniziano a formicolarmi le caviglie. Papà è da un mese circa che non sente più un paio di dita del piede destro, le articolazioni sono andate, o almeno così dice lui. Dopo un’ora di lavoro, inizia a toccarsi la parte bassa della schiena. Accenna una pausa. Dopo 3 ore, dentro i pantaloni, le gambe gli tremano.

Verso l’una qualcuno chiede se può entrare. Lui dice di sì. Ha appena steso un telo grigio su una zona del salotto dove non ha ancora posato. Ci siamo seduti per pranzare. L’imbianchino, e quello che dev’essere il suo giovane apprendista, ci imitano.

“Quanti appartamenti devi fare?” gli chiede l’imbianchino.

“Solo questo” risponde papà, mentre apre una busta confezionata di prosciutto cotto, se la adagia sulle gambe, e inizia a riempire un panino, “a meno che non mi richiamino. E voi?”

“Idem” dice lui.

Guardo la pelle intatta, morbida e priva di calli delle mani del ragazzo, le unghie pulite. Poi gli chiedo: “Quanti anni hai?”

Mi sorride. “Diciannove.”

Indossa una salopette da lavoro con poche macchie di tinteggiatura, un paio di scarpe antinfortunistiche quasi prive di graffi.

“Da quanto tempo fai questo lavoro?”

L’apprendista guarda il suo mentore, forse cerca di ricordare. “Due mesi?”

“Sono due mesi, due settimane e tre giorni” dice l’imbianchino. Poi tira fuori da un tascone laterale della sua salopette un coltellino svizzero e inizia a tagliare una mela. Mi allunga uno spicchio.

“Appunto, sono due mesi” ribatte l’apprendista, sorridendo e dando di spalla all’imbianchino.

L’imbianchino non dice nulla.

“No”, dice papà, gettando la busta vuota di prosciutto in un sacchetto. “Sono due mesi, due settimane e tre giorni.”

Il pomeriggio è come la mattina. Papà riprende da dove si è interrotto. Stende la colla sul cemento cellulare con una spatola dentata e poi la copre con una tavola di legno.

Con la sega circolare taglia le doghe che fanno ad angolo, quelle in prossimità delle pareti: usa una matita da lavoro, di quelle spesse, con la punta enorme, per segnare la riga di taglio. Per farlo, si mette gli occhiali da vista, che pendono sempre dal suo collo, sorretti da un cordino in plastica. Poi aziona la macchina, e con fermezza avvicina la doga, tagliandola dove previsto.

Quando taglia le doghe, papà è molto concentrato, sembra pensarci sempre due volte. Ma non pensa a dove ha tirato la riga, a dove deve tagliare. Quello è mestiere, è automatico. Pensa alla lama rotante a qualche centimetro dalle sue dita. Pensa a cosa sta facendo.

A ridosso del muro perimetrale, bisogna sempre lasciare un giunto di dilatazione di 8-12 millimetri, ossia uno spazio vuoto non coperto da parquet, per consentire il ritiro o la dilazione del legno ed evitare che, nel tempo, si deformi o si imbarchi. Ad appartamento finito, il giunto non è mai visibile, perché viene coperto dal battiscopa. Può capitare, anche se con papà succede di rado, che a ridosso del battiscopa si arrivi un po’ corti con l’ultima doga. Per coprire i buchi, e in generale eventuali imperfezioni della partitura o della manodopera, si applica uno stucco dello stesso colore del parquet appena posato.

Questo appartamento consta di 150 metri quadri calpestabili. 20 metri quadri sono di balcone, dove mi ritrovo adesso, perché oggi ho già osservato tutto quello che c’è da osservare, ho imparato tutto quello che c’è da imparare. Il balcone dà sulla ferrovia, fra Milano Porta Romana e Milano Tibaldi: siamo proprio al centro di un enorme cantiere dove sta nascendo un nuovo complesso residenziale. Ho origliato una discussione fra un ingegnere e un geometra: è previsto che costruiscano cinque palazzine. Una l’hanno già tirata su. È quella in cui ci troviamo io e papà. Un’altra è ridotta a scheletro di cemento armato. Le restanti sono ancora ferme a cumuli di terra e ampi spazi vuoti, proprio qui, sotto ai miei occhi.

Alle quattro, la giornata di lavoro è finita. Bisogna raccogliere i cartoni vuoti dei pacchi di legno. Ma per quelli ci vuole poco: durante la giornata, ogni volta che un pacco finisce, papà apre il cartone e, insieme alla plastica che lo ricopriva, lo getta in un punto dove non deve posare. A fine lavoro, la pila è pronta per essere raccolta. Poi si devono recuperare i pezzi di legno scartati e abbandonati, spazzare e raccogliere la segatura, portar via i barattoli di colla vuoti. Bisogna sempre lasciare il posto pulito e in ordine. Domani, papà tornerà a finire il lavoro.

Sul furgone, mentre guida verso casa, sembra contento. Guidare a fine giornata, per papà, è rilassante. E a volte accende la radio. Spesso però arrivano delle telefonate di lavoro, e lui risponde in vivavoce o con gli auricolari. Quando parla con i clienti è calmo, preciso, di buon umore. Se deve segnarsi un appuntamento sul calendario, ancora una volta, come accade tutte le mattine, si ricorda di aver lasciato l’agenda nel vano portaoggetti. Si allunga, la prende, ma non smette di guidare. Me la mette sulle gambe, io la stringo con le mani. Al telefono risponde sì, certo, la settimana prossima va bene, oppure domani ho un buco verso le tre. Ma non mi chiede mai di segnare qualcosa. Non l’ho mai visto fermarsi con le quattro frecce per parlare al telefono.

Sono le sei di sera. Papà si è fatto la doccia, poi si è seduto sulla sedia, in salotto, e si è addormentato. Io invece sono pieno di energie.

“Papà, andiamo a giocare?”

Silenzio.

“Papà, dormi?”

“Va bene” dice lui, con un tono un po’ impastato, “sono sveglio. Non sto dormendo. Vai a metterti la giacca.”

In cortile, prova a parare i miei tiri. I suoi movimenti sono lenti, macchinosi. Quando fa un piccolo scatto per recuperare il pallone, fatica a sollevare i piedi da terra. E quando si rialza da sotto una siepe con il pallone in mano, riesce a malapena a tenersi dritto.

Dopo cena, papà siede alla scrivania, davanti al computer. Mette ancora gli occhiali. Risponde alle mail di lavoro. Sistema le fatture.

Io, invece, vado a letto. Per me, si è fatto tardi.

 

I poeti appartati: Massimiliano Gusmaroli

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L’anima del lavoro poetico (effeffe)

Due poesie

di

Massimiliano Gusmaroli

Bello leggere poesia di notte,
staccare un foglio dall’inanimato
che è dietro la scrivania
nell’ombra dell’umile ragno
e farsi poeti.

Ed è bello buttar giù una poesia fitta
e magari lunga pagine
in cui si dica pane al pane:
ogni fattaccio, ogni nefandezza
di Palazzo: quelli là che rovinano
tra antichi quadri e fregi
un Paese di antichi quadri e fregi
e pane dalle nostre mani mangiano
e dalle nostre bocche
e dai nostri occhi
e dalle nostre umili fierezze
e arti di fornai
e saltando la necessaria fila
e sempre levandolo con tradimenti
a un Paese di antichi pani e fornai

Ed è bello parlare in poesia del pane vero,
dell’umile, del buono, dell’unto reale
ma usando parole cercate, pulite
e in questo modo essere amici dei fornai
e di ogni altro di noi che ama il pane
a parte quelli là che a nulla credono
e nulla sentono
perché tutti amano il pane
ma solo amandolo dal basso è amore,
mai scontato amor del reale
facendo la fila nei forni tra gente
che non è importante
ed è come il pane
ogni filone diverso ma uguale
e chi dentro ha più o meno sale
e chi è panino chi larga pagnotta

E già questo sarebbe dare una poesia piccola
ma mondiale, un po’ alla Neruda,
per poi mettervi il punto finale
o non metterlo
o metterlo inutilmente
come quando spengiamo la luce
della lampadina umile
e chiudiamo gli occhi
illuminati da dentro
ed è bello sentire la mano
aggraziata dalla penna
e dai fogli su cui ha frusciato
passare sull’interruttore
pensare di chiudere il giorno con un click
che però non sempre finisce così
e allora nel buio
come in questa notte d’estate
continuiamo a poetare
nudi sul letto non dormendo
pensando ai versi appena scritti
o letti dalle penne d’altri
dalle loro notti
e scriverne in testa
ancora più belli.

 

*

Il mio volto alla guida concentrato
per non procurare incidenti,
per mettere la freccia a ogni svolta,
per segnalare nel buio con fari prudenti,
per non investire i supremi animali
istrici o volpi affascinati e corrotti
dalle luci delle auto come adolescenti.

Ma il mio volto è anche per la vita,
il tutto che si para intorno, paesaggi
di alberi muri scorci d’orizzonte pianeta
che lo sguardo raccoglie nei suoi viaggi

Volto aperto che pure si contrae
però all’intrattenimento di radio
in sfilza di parole aliene alla Terra;
radio effuse e roboanti in canili
di melodie che non stanno alla vita,
ai paesaggi, al nostro volto che guida
fine e concentrato, ed è come se Rumore
dovessimo servirlo, stessendo l’anima.

Anima che “viene prima della visione” *
ma sempre si forma dopo,
nell’amore delle cose viste,
e così diventa o “anima innamorata” **
o disamorata andante per il mondo
in filacci e frantumi di tessuto

Ma come dire l’anima senza sporcarmi,
definire questo preciso risvolto suo
di quando rivede cose già viste?

Scende dunque la poesia a pulire
questa idea: la visione delle cose viste;
a descrivere questo volto che guida
nella visione frontale e nei paesaggi
che intorno sono più importanti
proprio perché ripetute volte visti

So adesso infatti che i luoghi e le cose
che l’occhio rivede mai abituato
sono per questo più veri e nostri,
nell’anima che si compie e si riconosce;
e contro l’abitudine si è guerrieri,
contro quel che abitudine ci dice
dei luoghi e delle cose già viste
sussurrandoci l’opposto

Ma in sconosciuta volontà di lotta
si declina la visione e l’anima intera,
un tutto che qui dico e non so dire
e subito mi gioco ogni reputazione
e subito è persa!, illuminato da un faro
verso cui sono bestia; ragione di poesia
che viene qui strana e pura, pioniera.

Note:
*”L’anima viene prima della visione” è un verso di Michelangelo Buonarroti
**”L’anima innamorata” è il titolo di una poesia e di una prosa di Alda Merini

 

Pietro Polverini, La nostra villeggiatura celeste

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È appena uscito, a cura di Francesco Ottonello, La nostra villeggiatura celeste. Dieci anni di poesia di Pietro Polverini (2012–2021), per Interlinea, nella collana LyraGiovani diretta da Franco Buffoni. Domani pomeriggio ci ritroveremo, con il curatore, Simone Ruggieri, Edoardo Manuel Salvioni, Virgilio Gobbi Garbuglia, e molti altri amici e amiche di Pietro, alla libreria Catap di Macerata. Lì nel 2022 avevo presentato il suo primo libro, Indice sommario di sbiadimento, insieme a un altro comune amico, Emanuele Franceschetti. Straziante e bellissimo è sempre ricordare Pietro Polverini, la sua intensità, l’intelligenza curiosa, l’ironia sottile ma pure piena di riguardo, la grazia e la misura elegante di Pietro, e la sua poesia, che era tutto questo e molto altro. Qui di seguito un saggio breve di Salvioni, e alcuni testi dal nuovo libro. (rm)

Itinerari intorno a un documento fedele

di Edoardo Manuel Salvioni

Poesia è la Ragione di un inventario privato finita nel fango dell’ultima alluvione
Remo Pagnanelli

Abbaio, folate, bora, tifoni, bufera, burrasca, nubifragi, valanghe.
Cinta muraria, assedio, cruna, gora, fondaco, fossa, tana.
Parole, fenomeni di cielo e terra, spazi, luoghi spesso ricorrenti, per evidenza di ritorno, tenuti stretti nei fogli di queste poesie rinvenute di cui tra noi si tenta qui di dire qualcosa.
La nostra villeggiatura celeste. Un libro che raduna un decennio di prove ed esiti. Le locuzioni della villeggiatura celeste: uno stillicidio di lettere, parole osservanti, che cadono in ripetuto atto a martellare le tempie e il fiato.

Chiedo alla terra un sacrificio
ultimo per ordine e natura,
abbia solo abbaio di sangue
vestigio globulare di noi
che sapientemente veniamo
meno alla nostra storia.
Cedi un sonno che sia perfetto
per misura e astrazione,
lì passa in rassegna
in una tintura di sogno
quanti volti scucisti
per poi riportare guerra
in altro bianco stame.

(Polverini 2025, 21)

Rimarcare la presenza nel lasciarsi indietro, che separa tutto intorno, che aduna lettori prossimi e ignoti, che scoprono nella stessa misura, parimenti, un giacimento imprevisto.
Come trovarsi in cammino nei sentieri di una consueta passeggiata, e rinvenire un ponte mangiato dai rampicanti, di cui si ricorda l’intero e non il dirupo possibile. Un sempre possibile infrangersi subitaneo, che ora ci sta di fronte, o come il lento sgorgare di un fiume sotterraneo tra le fenditure della roccia, che procede e si accumula in un angolo cavo.
In questo libro fratello al suo esordio, Indice sommario di sbiadimento (peQuod 2022) come sua emanazione, immagini di tenue annebbiamento, in composta enumerazione delle meccaniche sottili del dileguare, con ironia e sottile souplesse, contemplano le speculari immagini di edificazione, di adunanza, di inarrestabile comunanza. Un lascito che diventa spossessare e riappropriarsi tutto in un sol gesto, in manciate di versi.
Immagini di presagio, intuizioni sull’orlo di una paradossale, tutta istintiva e lucidissima predizione di quanto sarebbe successo? Forse sarebbe meglio dire, coscienza arcaica e sempre frontale del proprio riavvolgimento dove ogni tempo è un solo tempo.
Pietro che contempla il corpo, il corporale amore, l’anima sua o quella consistenza fisiologico nebulare che assomma il sentire… come per paradossale par condicio, inversione prospettica, allo stesso tempo altre anime, sguardi, stelle, congiunture del cielo sorridono dei corpi, del suo corpo, di dettagli fisici precisi, col gusto suo proprio, di tenera pedanteria, del tecnicismo ottico, chimico ed anatomico, nell’istante stesso in cui vengono evocate.

Una sensazione alla lettura dei suoi testi: scrutare come le passate generazioni nascondevano epistolari occultati nella clausura di cassetti e bauli. Le storie interdette che sono le storie veramente proprie, amori orfani, amori illegittimi, talvolta memorie secretive che una epistola di un casuale occhio indiscreto ri-eventifica.
Gli appunti che osservano il mondo e il mondo che disappunta gli scritti, ogni nota e foglio, volatili.
L’edificio incerto della vita o della storia che si sgretola, sbianca, strama, e invoca la libertà del venir meno e del non poter altro dire.
Desiderio come forma di oblivione e oblivione come luogo del desiderio.
Finalmente accogliente, senza remore.

Gli emblemi della separazione sono disseminati in tutti gli angoli delle pagine, emblemi dell’Esodo, della missione, del vestigio globulare, altro nome per dire amare, come una propria araldica rivendicata con orgoglio garbato. L’attesa paziente, l’osservanza, il separarsi dal mondo che è rincasamento. Nessun trovare casa in nessuno stile, codice, maestro, che pur qui echeggia, adorna le sezioni, offre indizi. Ma non esiste indizio maggiore, altro migliore indizio del divenire se stessi: memoria in suono deposta, retroattivamente futuribile.
Il segreto dei raccoglitori che qui ricompongono la genealogia del libro, l’indizio di un faldone, di files germinati in modifiche e modifiche, nel costante ridestare e modellare, rilevano ma non spiegano la mappa per il tesoro, per capire il punto dove qualcosa si nasconde, ma piuttosto addensano ancora con maggiore pervicacia la storia di cose naturalmente insondabili, le soglie che prendono corpo tra i versi.
La fortunosa evidenza dei limiti, la porta guardiana verso l’interno di quel qualcuno a noi caro, che forse nemmeno conosciamo e conosceremo mai sufficientemente.

Diranno gli scettici ridenti, tanto scettici quanto sanno essere tirannici col pensiero altrui, corporativi in vestigia inquisitoria su quanto residualmente resta del mistero, i sentenziosi sempre pronti, gli snocciolatori di segreti in mezzo agli ingenui – ovviamente a loro sentire inferiori, in quanto genuflessi per loro presunta ipotesi a parole come sacro, mito, rito… Posso immaginare i risolini pur nel serissimo monito del loro ghigno. Penso Pietro si sarebbe estremamente divertito a rinvenire le ragioni del sacro talvolta più razionalistiche – Remo Pagnanelli parlava non a caso di “altra ragione” del sacro – del fideismo della ragione bulimica, del suo non ammettersi patogena quando diviene anemica, quando diventa con arroganza una ancella della sua stessa miseria. Immagino i volti di tanti cinici, che abitano le aule che Pietro frequentava quasi ammonire: “Quanto la fate semplice, amici del qui assente, invero presentissimo, voi, la vostra sempre facile algebra del mistico, come era che diceva quel tale? Quel Wittgenstein… che pone nei limiti di linguaggio un valore di indicibile che non dimostra semplicemente il suo contrario, ovvero che non di tutto si possa dire e dunque si debba tacere. Si tratta piuttosto come una x, una incognita indeterminabile, che per sua stessa natura veridice le parole stesse mostrando la stessa proposizione in quanto tale. Il mistico, questa cosa illogica che però parrebbe veridire quanto di più logico sta nelle viscere del linguaggio, nidificante in essa.
Ognuno, d’altronde, si sceglie la propria politica di silenzio e le proprie mistiche commozioni. Ognuno elegge il proprio statuto di indicibile, di interdizione e così facendo scartate, scarterete preci come si scuoiano castagne”.

Noi crani senza mistica
carne mosta senza fede.
Eppure noi abbiamo corso
verso mille roveti,
bracconi di chissà quali spiriti.
Ci diremo col tempo
d’essere schiavi.
Tu servo di carità,
io cameriere da nulla.

(Polverini 2025, 166)

Oh, quanti adolescenti tardivi circondano il campo delle parole, piccoli Torquemada per le nuove polizie della morale di tropi ed enunciati! Dove credono micidiale il pensiero più ovvio, mentre non esiste cosa al mondo più letale di una radicale innocenza, a loro completamente e per sempre preclusa.
Vorrei udire Pietro riderne con qualche nota acuta, nell’ovunque in cui si trova. Era consuetudine una certa ironica acredine epigrammatica, ancora e per sempre, e riderci ancora adesso a crepapelle.
Dissacrare tutto, specie i velleitari nel pensiero, per difendere solo quanto è sacralmente caro col silenzio, dissacrare in primis se stessi. A riprova, dello schiocchezzaio umano che viene sparigliato da altre altezze che piombano con umorismo perentorio, un pensiero decisivo di Remo Pagnanelli dovrebbe per anni a venire sventare ogni pretesa di seriosa presunzione di possesso umana: “l’ironia divina è insuperabile”.

Un sepolcro può godere del vuoto,
un assioma, un lume per ogni ragione:
rannicchiato rientra nella pietra
chi si stanca della propria pelle o
ritiene che dal gelo degli occhi
non nasca un segreto di luce.

(Polverini 2025, 28)

La parola definitiva dei versi è la morsa sonora che spoglia ogni superfluo, il verso come calco ritmico del linguaggio solamente necessario, suo limite come massimo suo possibile. Orla tutto il restante a cadere nel e dal silenzio, non si spiega se con monito frontale, manifesto: il ritmo nel senso.
Un libro è allora dunque una strettoia che fa secernere solo quanto distilla, o si forma come nembo atmosferico a condensa. Verso di fiato, umore, liquame salivale e globulo linfatico, inchiostratura.

La serietà di Pietro risiedeva nella sapienza gestatoria, come nell’imprevisto che ora ce li consegna come definitivi già nati. E dunque hanno trovato il loro tempo, qui, in questo, per una incidentale necessità. Si sono spezzati dal loro letto per ricongiungersi, come voce e come richiamo.
Da qui il continuo inarrestabile che esiste nella poesia, un linguaggio che ha ed è il peculiare rapporto tra chiuso ed aperto, tra fatto ed evento, tra prefigurazione ed azione.

La fede stenta a coprirmi le gambe:
altrimenti il lenzuolo prosegue il suo
corso fino la fredda punta dei piedi.
È luglio e nessun francobollo di pelle
è protetto da una tunica di grazia,
si slega ogni cammino futuro
sul solco del sonno che cade:
rimane il marchio della salvezza
stampato con l’acqua del battesimo.
Intanto il volto è trasmutato in una
nube bianca che non può dirsi anima.

(Polverini 2025, 50)

Chi ha udito per quanto qui sorge, venga trafitto dallo spillo-alfabeto nel proprio timpano. Chi non ha che sordità torni pure alla consueta ginnastica delle parole, a messaggi e veti, palleggiando tra crediti di qualche professore spacciato per maestranza spirituale.
Tra questi sciocchi ritualisti senza carne, tra venditori kitsch del sacro specie nella parola dei nostri scrittori contemporanei, Pietro come il più straniato degli stranieri – lui che non era meno armato nella veste dei concetti – si mimetizzava, sorrideva, dissentiva garbato, non si distaccava: irato a volte, a volte divertito, a volte rivolto altrove, dove nessuno sa e sta, dove non vi è luogo per nessuno: il volto è nube, come il cammino è un calco cavo.

Poi si tornerà a mietere la magra
stella del cielo e gli scomparsi
dai bianchi crani saranno traccia
senza velo, nella nudità di orma
stampata sul calco fresco di neve.
Rinvenire su un campo disadorno
o sugli aculei d’una rete metallica
la losanga del sorriso che ad altri
destinasti.

(Polverini 2025, 32)

Verso la voce nel fondo, come un esiliato che trova la propria voce fuori di confine. Stava al commercio del mondo come ognuno, ma la sua voce pareva richiamarlo fuori, per spogliarlo di ogni dove, di ogni provenienza, di ogni fatto, di ogni notazione possibile di diario o di ogni azione testimoniabile.

Chi si congeda lo fa senza bisbiglio
marino, con le ciglia chiuse sul litorale.
Di là dalle storie di sventate infestazioni
ricordi cesellati sul muro degli estinti,
è sceso il taglio col fiotto di lamiera
che recide ciò che per sbaglio o vizio
è restato in vita senza che essa sia
questa preghiera spoglia di mondo.

(Polverini 2025, 27)

Lo scendere, il recidersi dentro la parola, Pietro rimessosi all’insondabile, a quanto in quanto non sondato ci tramuta, semplice consegnato al di fuori, frontale fortezza di suono.
Una parola-valico, una parola che finalmente erige la barriera, stravolta dal suo stesso testimoniarsi.

Non solo documento fedele della storia di una persona, di Pietro nella fattispecie in questa circostanza, ma la storia fedele delle parole che murano il passaggio definitivo e non permettono altro se non come un camminare sulle proprie ginocchia, intorno ad una casa familiare ed irriconoscibile allo stesso tempo. Barriera fedele sul mondo. Pietro che è nome solido, fermo, lapidario, incavato, imperioso. Pietro e l’indifesa dolcezza delle sue frasi.

Il vacante-vagolante verso che condensando rafferma. Che sia spiazzamento? I testimoni sono i raccolti nella valanga o i murati nella sua parola? Forse il lettore dovrebbe essere il primo degli spazzati e l’ultimo dei murati. Dei sopravvissuti raccolti a chiamata a rimestare lo spaesamento di chi ancora non si capacita, dunque quanto qui detto è la semplice ammissione di un paradosso… nulla più.
Osservando le impalcature della sua voce, cercare di immaginare qualche trama romanzesca, specie se condita di qualche risata fissa nella sua tonalità delicata, o lasciare intatti tutti i suoi enigmi, i nomi da pennino, il vento leggero di questi granuli addensati, i miraggi ridenti di un amico, la sua vacanza perpetua. Sperando un giorno di dire una battuta irriverente o entusiasmarsi di nuovo col cielo di Patrizia Cavalli. Per tornare a Pietro, grati di questo viatico di parole.

1934

La federa dei padroni era lisa
il destino del sonno appuntito
nel filo di luce che sale.
Dissi la sera prima una preghiera:
notti di febbraio mietono covoni
di neve nelle dorsali del valico.
Il diesis nello spartito delle folate
ha portato globuli e cesoie di gelo.
La casa travolta, la suola sulla
bica di un formicaio in vita.
Le narici sono il viadotto per
la neve sulla bocca, sulle orbite
i granuli addensati erano il mio
indice sommario di sbiadimento.

(Polverini 2025, 30)

Poi venti anni dopo ci son tornato
stavolta canizie, calvizie, meriti
come “lavoratore indomito” o
“venne meno all’affetto dei cari”
qualcuno requiescat in pacem
i più fortunati stanno così in lato
da non poter frugugliare sulle loro
icone postreme, sulla tessitura
numerica che inchioda al sasso
bianco un sibilo di creatura
increata nello spazio
della tana.

(Polverini 2025, 33)

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Pietro Polverini (1992-2023), poeta e critico letterario, ha vissuto a Macerata dove ha conseguito la laurea magistrale in Filosofia con una tesi dal titolo Un’estetica dattilografica. Appunti su Amelia Rosselli. Al momento della sua scomparsa stava completando un secondo percorso di studi in filologia moderna. Redattore di «MediumPoesia», la sua attività critica si è rivolta alla letteratura italiana moderna e contemporanea (tra gli altri: Rebora, Tondelli, Anedda, Valduga, Cavalli). È stato incluso nell’antologia Lo spazio e l’onda. Una teoria di giovani poeti marchigiani (Seri, 2021) e nel 2022 ha pubblicato il suo libro d’esordio, Indice sommario di sbiadimento (peQuod).

È più facile

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The Miriam and Ira D. Wallach Division of Art, Prints and Photographs: Print Collection, The New York Public Library. (1824). Dragon in a black sky. Da https://digitalcollections.nypl.org/items/a20d00f0-87f2-0133-bf39-00505686a51c

di Roberto Rocchetti

È più facile uscire da questo buco aggrappandomi alla scala di corda che penzola sopra la mia testa o scavando nicchie nelle quali inserire mani e piedi con il coltello che mi sono ritrovato in tasca?

Dalla porzione di cielo che riesco a vedere non capisco se il sole stia sorgendo o tramontando. Sembra che la luce diminuisca, anche se potrebbe trattarsi di una nube passeggera. Ma come sono finito qui? E quando? Non lo so. Comunque devo uscire. Il più presto possibile.

Il buco sarà largo poco più di un metro. Potrei salire come se fossi seduto: a piccoli tratti facendo forza sui piedi mentre la schiena striscia contro le pareti. Pareti sulle quali però vedo parecchi spuntoni di radici, alcuni abbastanza grossi. Con i piedi potrei evitarli, ma la schiena… .

La luce è poca, è difficile valutare, il buco potrebbe essere profondo quattro metri, forse più. Perché non ricordo niente? Mi fa male la spalla, anche il ginocchio, la testa poi, ho dentro un fischio cupo, probabilmente l’ho battuta. Quindi sono caduto. Dalla cima del foro o dalla scala di corda? Ma cosa ci facevo lassù? E questo buco a cosa serve? Basta! Non devo sprecare tempo. Devo solo trovare il modo di uscire. La scala di corda sembra la soluzione più semplice. Tirando pare sicura, ma se cedesse mentre salgo? Magari quando sono vicino alla sommità… sarebbe una caduta disastrosa.

Sotto i piedi la terra è molle, anche le pareti sono friabili, e umide. Il buco deve essere stato scavato da poco. Ma da chi? E se ci fosse qualcuno là fuori? Potrei chiamare, farmi aiutare. Perché non ci ho pensato prima? No! Un momento… se invece mi fossi rifugiato qui sotto perché sono in pericolo? Allora devo tacere, aspettare, sperare che non mi si scopra. Ho un coltello in tasca, per difendermi? Difendermi da chi? Perché non riesco a ricordare? Uno shock, ho battuto la testa. Oppure la paura. E questo cos’è? Un lampo. Piove, un temporale. Si è fatto buio. Che faccio adesso? La pioggia è molto intensa, ho già i piedi quasi sommersi. Dovrei provare ad uscire. Ma se qualcuno si fosse appostato là fuori? Sì, probabilmente mi stanno cercando, forse non hanno visto il buco. Se uscissi farei il loro gioco.

L’acqua è alle ginocchia. Smetterà. Un temporale non può durare a lungo. Qui non mi si vede, poi ho il coltello. I metalli non attirano fulmini, conducono elettricità, ma non attirano. Anche se un coltello è poca cosa per affrontare dei nemici. L’acqua sale. Perché così tanta? Probabilmente fuori il terreno è in pendenza e oltre all’acqua della pioggia il buco riceve anche quella che scende dal versante. E se non smette? Se non smette devo uscire. La scala di corda sarà legata al tronco di un albero? Oppure è agganciata a dei pioli conficcati nel terreno? Con la pioggia potrebbero essersi allentati e non reggere il mio peso. Ma se non avessi dei nemici? D’altronde non ne ho mai avuti. Allora devo uscire! Devo farlo subito. La terra ormai è troppo friabile per scavare delle nicchie e poi con questo buio non riuscirei a vederle. Devo fidarmi della scala. A tirare è ancora solida… però meno di prima. E se invece davvero qualcuno volesse farmi del male… Meglio che resti qui, anche con l’acqua al petto. Al buio. Nascosto.

Una cantada

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Pubblichiamo l’introduzione di Una Cantada (Catartica ed., 2025), firmata da David Eloy Rodríguez e José María Gómez Valero, autori del volume insieme ad Alberto Masala e Lorenzo Mari. Una Cantada nasce come dialogo tra le forme della poesia e della musica popolare dell’Andalusia, della Sardegna e dell’Emilia-Romagna che – evitando una riproposizione puramente conservativa della tradizione o una velleitaria “andata al popolo” – ne evidenzi il portato critico e politico.

I

Quando la poesia accade, esclamiamo: Ecco, è vero.

Quando la poesia accade, diciamo: Ecco quello che volevo dire, ma non sapevo come.

La poesia popolare ci invita a raccontare e a cantare la verità. Non la verità individuale, bensì quella di tutti, di chiunque.

La poesia popolare è quella in cui il popolo parla di più e meglio. Parla usando la lingua comune, usando cioè la lingua che esprime quel che di popolo rimane sotto la superficie delle individualità, riesce a mostrare le menzogne della realtà. È dire affinché si capisca bene, affinché tutti lo sappiano.

La poesia popolare, ricca di precisione e di sintesi, di eloquenza e di eleganza, è la testimonianza di un rendersi conto di qualcosa di rilevante, di una tensione, di un’epifania. La poesia popolare rispecchia con bellezza, profondità e grazia qualcosa che bisognava dire. Un nominare che organizza il caos, che rivela ciò che è occulto o è stato messo a tacere, per stabilire modelli etici e sentimentali. Le migliori parole della tribù, insubordinazioni rispetto al dettato della quotidianità e della norma, alle sue miserie.

Al giorno d’oggi la cultura popolare sta sparendo. Sottovalutata o cancellata, messa sotto controllo o caduta in disuso, corre il rischio di una scomparsa totale. Che lo permettessimo, sarebbe una tragedia.

II

La poesia popolare è disprezzata dalle élite (culturali, economiche, politiche). La ignorano oppure la considerano qualcosa di minore, di antico, invecchiato e rozzo, di dozzinale, qualcosa che viene dal volgo. Ritengono che non abbia alcun valore, che chiunque possa riuscirci, trattandosi di un volgare intrattenimento tipico delle persone ignoranti.

Tuttavia, è stata proprio la poesia popolare a inventare la poesia colta. La poesia colta si configura sempre come uno sviluppo di ciò che la poesia popolare ha reso possibile.

Le élite temono l’autonomia senza controllo delle parole, per questo pensano che sia meglio metterla a tacere, banalizzarla, cooptarla oppure vampirizzarla.

La poesia popolare trova il modo di additare il potere e chi lo detiene, la poesia popolare è coraggiosa: può, vuole e sa disobbedire.

Celebrazione di comunità. Resistenza. Ragione comune.

Parole che bruciano, che brillano, che danzano.

Un dire che è, allo stesso tempo, un fare.

III

La versificazione, il metro, la rima, gli schemi che impongono limiti e struttura alle strofe, non sono da intendersi come dei corsetti, bensì come aperture e offerte, come macchine di libertà. L’automatismo libera e crea dei canali affinché emerga l’imprevisto.

Lasciarsi dire dalla lingua. L’inconscio scorre al compás, a ritmo. Scrivere come si parla, guidati dal ritmo.

Un non saper sapendo, scriveva Giovanni della Croce.

Brevità, semplicità, condensazione, densità.

IV

La poesia popolare unisce ciò che è lontano, provoca riconoscimenti, genera fraternità.

Il poeta, traduttore e critico letterario Lorenzo Mari ci ha proposto di partecipare ad un progetto condiviso, in dialogo con la poesia di Alberto Masala. La loro proposta era molto stimolante: esplorare la poesia popolare delle nostre rispettive tradizioni, stabilire un dialogo poetico e a partire da lì, per vedere cosa sarebbe successo. Ognuno avrebbe operato a partire dalla propria lingua, ritmo e accento, e l’idea era quella di generare e articolare relazioni e corrispondenze. Di cosa avremmo scritto, cosa avremmo raccontato, quale mappa si sarebbe delineata grazie a quei collegamenti? Il presente libro è la risposta a queste domande, che è arrivata fino alla mescolanza completa e all’ibridazione delle forme metriche flamencas e della lingua sarda nella poesia di Alberto Masala.

V

Chi scrive lavora dal 2012 alla stesura congiunta di letras flamencas, testi per il flamenco, per vari artisti e spettacoli. Nel nostro recente libro La herida abierta (Libros de la Herida, 2023) abbiamo riunito una selezione significativa di questa nostra dedizione alla poesia lirica popolare in andaluso. Anche per quest’avventura, quindi, abbiamo scelto di creare e poi fare una cernita delle nostre letras flamencas.

Flamenco: dalle radici lontanamente orientali, gitane, andaluse e castigliane, ma anche arabe, ebraiche, afro-cubane…

Flamenco: voce delle classi subalterne, degli oppressi, degli emarginati. Dolore e protesta. Urla e rabbia. Disperazione e desiderio, sogni e ubriachezza. Risate e amore. Canzoni della terra e del lavoro, delle feste e della morte. Esperienze radicali e commoventi.

In questo nostro contributo si possono trovare composizioni per diversi palos, stili di flamenco: la soleá, la seguiriya, il fandango o la mariana (uno stile che viene eseguito molto poco, per il quale i nuovi testi sono molto rari). Abbiamo ritenuto inoltre che anche altre letras, inizialmente non corrispondenti ad alcun palo, fossero adatte per questo lavoro: la scelta di forma e stile è lasciata alla discrezione dell’interprete.

Volevamo che le poesie avessero un filo narrativo e che questo fosse un campanello d’allarme contro la repressione della cultura popolare, contro il suo degrado, oblio e invisibilità, contro la sua falsificazione, commercializzazione e manipolazione.

VI

Perché scrivere poesia popolare nel ventunesimo secolo?

Scriviamo poesia popolare nel ventunesimo secolo perché i nostri antenati lo hanno reso possibile. I nostri antenati, fratelli, che tanto ci hanno lasciato: grazie a loro oggi siamo qui e siamo quello che siamo. Bisogna ascoltarli attentamente, perché hanno sempre cose nuove da dire sul loro immortale passato. Persone dalla grande immaginazione, umili e altruiste, analfabete, detentrici di un sapere plurale e vastissimo, che hanno inventato questa forma appassionante di espressione, i suoi stili creativi, i codici linguistici, gli strumenti, le risorse, i ritmi…

Scriviamo poesia popolare nel ventunesimo secolo per la straordinaria eredità che ci è stata lasciata dalle generazioni che ci hanno preceduto: la vitalità delle loro parole e delle loro vicissitudini, la loro musica verbale, i loro gesti, i loro rituali. Un patrimonio ricchissimo dal punto di vista estetico, storico e antropologico. Un tesoro che non si esaurisce mai, che rinasce ad ogni aggiornamento. Parole scritte nel tempo, un presente permanente, sempre emozionante, sempre stimolante.

Abbiamo molto da imparare da quelle persone, così simile a noi. No, non siamo superiori a loro per il fatto di essere venuti più tardi, di vivere nella nostra contemporaneità, di avere più informazioni o tecnologie. Il gioco è stato inventato da loro e ce lo hanno donato per sempre. Crediamo, per queste ragioni, di doverci avvicinare a questo gioco con rispetto e senza pregiudizi, e studiarlo con ammirazione e gratitudine.

Chi scrive poesia popolare nel ventunesimo secolo deve misurarsi con i testi che ci sono giunti dal passato. Versi sopravvissuti, figli della memoria, salvati, fondamentalmente, dal loro valore d’uso. Testi tramandati da generazione a generazione, propagati da cuore a cuore, costantemente rivisti e rielaborati con sottili varianti per adattarli al contesto e migliorarli. Quei versi della poesia popolare, anonima, tradizionale erano e sono incarnati, fatti corpo, fatti canto. Chiunque scriva poesia popolare nel ventunesimo secolo ha il dovere di cercare di essere all’altezza di queste meraviglie. Non soltanto: ha il dovere di contribuire con qualcosa di utile a quel patrimonio culturale. La sfida, ovviamente, non è facile.

Se infatti esiste già un repertorio di tale trascendenza e vigore, perché è necessario scrivere nuovi versi?

Qui avanzeremo due argomenti:

Perché non tutto è stato detto, perché questo è il nostro qui e ora ed è necessario raccontarlo.

Perché una tradizione popolare che non si aggiorna si impoverisce, diventa impotente e infine muore.

VII

C’è tanto rumore, nel mondo, che impedisce l’ascolto. I linguaggi e le forme dell’impostura e del simulacro sono ovunque. Formulazioni amministrative che sanno solo ripetere ciò che è già stato detto, obbediscono a quanto prescritto. Veli e ancora veli per allontanarci dal reale, per costringerci ad accettare la realtà che il potere impone: la realtà del denaro e del consumo, della virtualità e della separazione, delle diseguaglianze e delle ingiustizie, della sottomissione all’assenza di prospettive di trasformazione.

Però ci sono crepe, fessure, modi per respirare anche in una situazione di asfissia. La poesia popolare, la voce del popolo che dice no, che sanguina dalla ferita, è una di queste.

(da Una Cantada)

[…]

Piero mondino di chi sei ricordo –

ciste nella pelle, ciste nel canto –

Piero mondino io non ho ricordo –

ciste in poesia: grande è lo schianto

SOLEÁ

Siempre la misma justicia,

es lo que tiene el juzgado,

que aunque vayas por derecho

siempre acabas sentenciado.

* * *

Yo no obedezco las reglas

que impusieron los canallas.

Que no juego al mismo juego

de quien baraja las cartas.

* * *

Ya no sé qué puedo hacer.

Que pongo en orden las cosas

y se vuelven del revés.

* * *

Que yo no sé adónde voy,

tampoco de dónde vengo,

igual que el aire no sabe

qué nombres tienen los vientos.

* * *

Paso mi vida cantando,

usando de mi libertad,

que la verdad sobrevive

a quien la quiere enterrar.

* *

Que de par en par se abran

las puertas de un mundo nuevo

y lo que haya de venir

nos caliente con su fuego.

* * *

Que por no pensar en la condena

la condena no se me quita,

y pensando en la libertad

me voy pasando la vida.

SOLEÁ

Sempre la stessa giustizia,

è quella del tribunale,

che anche se vai per diritto

finisci sempre condannato.

* * *

Io non seguo le regole

che hanno imposto le canaglie.

Non gioco allo stesso gioco

di chi mischia le carte.

* * *

Non so più cosa fare.

Io sistemo le cose

e queste si capovolgono.

* * *

Che si spalanchino

le porte di un mondo nuovo

e ciò che verrà

ci riscaldi col suo fuoco.

* * *

Non pensando alla condanna

la condanna non mi è tolta,

e pensando alla libertà

mi trascorro la vita.

SOLEÁ

Non bogo a fora dultzura

si toccat de poetare

pelèas bastante e faìnas

e istratzos de tappulare.

* *

A puntu malu bennìdos

comente nos an’ sestadu

andhamus ke frastimados

in logu k’est bisestradu.

* * *

Ki so ladinu mi narant.

Ma pro cumpàrrer pìus jaru

sa matraca non leo.

* * *

Unu cue, un’inoghe

e unu cuddhane, semus

tottúe disamparados.

Gai nos isperdent sos bentos.

* * *

Ordinzant infamidades

semper a cara franca.

De canes male fadados

amus leadu s’andhanta.

* * *

Nois arestes risulanos

a los retzíre ajòe

sos umìlïos de deris

sunu sos bantos de oe.

* * *

Si pesamus cambas milindrosas

Cambas ki no’ apent béttu,

In ballos de conkilizeros

pro no lis ponner prenettu.

SOLEÁ

Non tiro fuori dolcezza

se devo fare poesia

abbastanza lotte e impegni

e stracci da rammendare.

* * *

Non siamo a buon punto

come ci hanno ridotti

procediamo come maledetti

in una terra straziata.

* * *

Dicono che io sia trasparente.

Ma per apparire più chiaro

non prendo la ‘matraca’.

* * *

Uno lì, uno qui

e uno laggiù, siamo

indifesi dappertutto.

Così ci disperdono i venti.

* * *

Progettano infamità

Sempre con la faccia tosta.

Di poveri cani randagi

abbiamo preso il passo.

* * *

Noi selvaggi sorridenti

Andiamo a riceverli

Le umiliazioni di ieri

Sono il vanto di oggi.

* * *

Se intoniamo rime leziose

Rime che non abbiano slancio,

In balli per teste leggère

è per non metter loro angustie.

David Eloy Rodríguez (Cáceres, 1976) e José María Gómez Valero (Sevilla, 1976) sono scrittori, editori, agitatori culturali e artisti performativi. A Siviglia hanno fondato il collettivo di artisti La Palabra Itinerante e la casa editrice Libros de la Herida. Sono stati tradotti in italiano all’interno dell’antologia Canto e demolizione. Otto poeti spagnoli contemporanei (Thauma, 2013); più recentemente, Marino Magliani ha tradotto Le possibilità di David Eloy Rodríguez (Arkadia, 2025).

Tra le loro passioni c’è la scrittura di letras flamencas a quattro mani.

➨ AzioneAtzeni – Discanto tredicesimo: Lisa Ginzburg

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Azione Atzeni – Discanto Tredicesimo: Lisa Ginzburg     Discanto Tredicesimo*

Aleni la coga non le ha guardato la mano l’ha guardata negli occhi e ha detto Sei una donna fortunata
[…]
la terza a dare i soldi alla coga è stata una del 47 B e Aleni ha detto Quel che hai sofferto soffrirai sarai felice quando meno te l’aspetti

da Bellas mariposas di Sergio Atzeni

 

Ai casoni

di

Lisa Ginzburg

    Annetta la trovavi dietro le vigne, casa sua l’aveva fatta nel ripostiglio, cinque metri quadri con il soffitto alto. Ai tempi quando la Villa ancora era Villa il signor Bascuri là ci teneva i fucili, ora Annetta invece alla rinfusa i suoi pochi vestiti e le carte, quei mazzi di carte colorate e imbevute di futuro. Sul serio, non esagero: come fosse una burattinaia, i fili del futuro li teneva lei. E li teneva stretti. Che fosse brava a leggere le carte ora lo sapevamo tutti. Si era sparsa la voce: tornata dalla Francia (da Tolosa), ai Casoni adesso ci viveva con quel suo lavoro strambo, ma un lavoro – e chi lo avrebbe mai detto, cinque anni prima quando se n’era andata via, raminga e senza pace, che si sarebbe saputa reinventare così, con tanta forza e stranezza. Piccola di statura e mingherlina, Annetta, la bandana intorno alla testa a tenere i capelli. Già ingrigiti cinque anni prima quand’era partita, i capelli.

Maurizio lo aveva appena perso, come se anziché con le lacrime potesse e volesse piangerlo così, con quel biondo scuro dei capelli scolorito via di botto. Annetta incenerita dal dispiacere: non che si fosse fatta vecchia, ma aveva preso nell’arco di pochissimo un’aria fulminata, di bambina cresciuta improvvisamente, e troppo in fretta. Per i cinque anni che era stata via, ai Casoni di Annetta non s’era parlato più, o comunque di rado; si sarà riaccoppiata vedrai, magari con uno meglio di Maurizio, diceva qualcuno. Maurizio, alto, massiccio, il sorriso scanzonato e buono nella foto plastificata incollata sul palo contro cui era andato a schiantarsi con la moto. Annetta è bella, guizzante, agile, piace ai maschi; sì ma quando mai lo ritrova, uno come lui.

Poi eccola Annetta ritornare, selvatica e pellegrina, gli occhi grandi e lucenti, la bandana a tenerle indietro i capelli ingrigiti, il borsone a tracolla con dentro i mazzi di carte. Non un solo mazzo, no: diversi. Mica si è fatta pubblicità, la voce si è sparsa dopo che l’hanno vista farsi le carte da sola, sul masso vicino al torrente, a gambe incrociate, china su quei tarocchi colorati, i ricciolini che le cadevano a pioggia sul viso, concentrata tanto che solo l’arrivo del cane husky di Gianluca l’aveva distolta. Così si era saputo. La prima ad andare era stata Erminia, e pochi giorni dopo, Filippo. Chiusi nella casa ripostiglio, ognuno ci si era trattenuto più di un’ora, noi altri fuori curiosi, in attesa, Gianluca il più nervoso, lì a dire ma quando finisce, e invece niente, non finiva, Filippo un poco meno, ma Erminia proprio non la lasciava andare. Precisa, accurata Annetta. Lei che sempre è stata caotica, sciatta, adesso meticolosa. A ognuno doveva aver detto qualcosa di importante, perché entrambi sia Filippo che Erminia tornati indietro parevano diversi, un po’ rannuvolati un po’ contenti.

Come coppia avrebbero retto, Erminia però il suo bambino perduto se lo doveva dimenticare, finché continuava a piangerlo, incinta di nuovo non sarebbe rimasta; lavare doveva, lavare il dolore e giù al torrente gettare sassi e un vestitino di quelli cuciti per il bambino quando lo aspettavamo, lei e Filippo, ma anche tutti noi. La corrente dà, la corrente toglie, Erminia è giovane e potrà rinascere con l’acqua, lo dicono le carte, lo dice Annetta con il suo sorriso innocente di bambina cresciuta presto fulminata dal suo lutto, lo riferisce a noi Erminia, a me e Martina specialmente, le sue amiche più vicine. Filippo è turbato, “pare una maga” dice pallido quando torna indietro, una maga proprio qui, ai Casoni dove la magia non s’è fatta entrare mai, e cosa avrebbe detto Maurizio. A certe cose lui, Filippo non ci crede, e proprio perché non vuole crederci ci crede più di tutti, gli è uscito il Matto con un tre di bastoni, deve stare attento a non voler sedurre il mondo, così gli ha sentenziato Annetta, e Filippo sa bene chi è che non deve sedurre, anche se lo tiene per sé. Il suo capo, ecco chi, quel Guerrazzi del cazzo che minaccia di non dargli più altro spazio se Filippo pubblicherà il testo che ha in mente di pubblicare. Esporsi, quello anche è sedurre.

Ai Casoni andammo a stare tanti anni fa, tutti insieme. Convinti da Gianluca che coabitare si poteva ed era giusto, era sano, vivere in case (Casoni) separate, ma vicini: vicinissimi. Il terreno era spazioso, disponibile, al mutuo per la caparra e poi l’affitto Gianluca garantiva avrebbe pensato lui con il sostegno del Comune. Rispetto, sostegno, virtù della giusta distanza. Ci siamo riusciti, e non era scontato. Chi ha figliato e chi no, chi come Annetta ha conosciuto strappi, chi come Ettore ha strappato lui e se ne è andato via senza tornare più. Ce l’abbiamo fatta e ne siamo orgogliosi; ogni tanto arrivano giornalisti stranieri ai quali Gianluca con i suoi occhialini dorati sul naso spiega serio serio il progetto in ogni dettaglio, come era e come è diventato, perché il successo del nostro durare, la filosofia del cohousing come metafora del vivere civile, e bla e bla e bla. E quelli, i giornalisti, vanno via soddisfatti dopo il giro panoramico di rito, Casone per Casone, e dopo le rituali foto a noi, sempre le stesse, sempre fintamente naturali e invece in posa. Noi sorridenti sull’aia dietro al Casone tre, noi attorno alla tavolata lunga dove facciamo le cene sociali davanti al Casone due. Poi, quando escono gli articoli, ci spediscono i ritagli di giornale, “Such a beautiful cohousing” “How wonderful is cohabitation” “La joie de la cohabitation”, “Que bueno de vivir juntos” e altri titoli del cazzo così, e Martina con cura i ritagli di giornale li incornicia per fare contento Gianluca, e lui la ama per quello, perché Martina tutto quello che fa, lo fa per renderlo felice.

Abbiamo durato, sì, ognuno nel suo appartamento nel corrispettivo Casone, chi in coppia e chi scoppiato, vicini e lontani, sempre guidati dal sacro Nume tutelare della giusta distanza. Senza crisi vere mai. Ma adesso, quel ritorno di Annetta e le sue carte dalle figure multicolori era come rimescolasse tutte le carte. Era un salto nel vuoto, teso verso il futuro ma non si sapeva verso quale punto preciso del futuro. Ci intimidiva quella nuova Annetta, destabilizzanti i suoi strani vaticini insinuavano domande su tutte le nostre scelte, collettive e singole. Parlando del futuro, i suoi oracoli guardavano al passato, e nessuno ne aveva voglia, nemmeno Maurizio dalla foto plasticata appesa al palo. Ho esitato e sono stata l’ultima ad andare, nessuno mi aspettava fuori perché ormai la curiosità degli altri era scemata, persino Gianluca aveva avuto la sua lettura delle carte, poi riemerso esterrefatto e misterioso. Sono entrata nella casa ripostiglio ingrandita dai soffitti altissimi, stava per fare buio, alla luce di una lampada di ottone Annetta mi aspettava paziente, lisciando con le mani il panno di velluto steso sul tavolino; alla parete ho notato la fotografia di una piazza con i portici alla luce rosata di un tramonto, è Tolosa m’ha detto, e ho capito che aveva nostalgia.

Mi ha fatto mescolare tanto le carte, poi quando insieme a me le ha guardate disposte sul panno di velluto ha alzato il sopracciglio, selvatica, pellegrina, simpaticissima e non lo avevo mai ammesso, mai capito, mai abbastanza. Sarai felice, ancora non lo sai. La vita oltre i Casoni sarà meno facile, ma più buona con te. Il coraggio di andartene ancora non lo senti ma è già qui, lo dice la Ruota della Fortuna, e la Torre, e anche l’Eremita. Andrea ti pensa ancora, ma sarai felice se non ci fai caso. Meno fai caso, più ti verrà incontro il Caso. Capiscilo Lucilla, e vai contenta, molto futuro lontano da qua. Di notte quando sono rientrata a casa mia al Casone quattro, Flavia la figlia di Martina e Gianluca cantava con un suo amico che la accompagnava alla chitarra, la luna gialla vegliava su tutti, su tutto, ho bevuto vino rosso e quasi mi veniva da ridere, prima di dormire.

*Nota dell’autrice

Sergio Atzeni era molto incuriosito dai tarocchi. Nel 1987 tenne anche una rubrica a tema per una rivista locale di breve durata, che si intitolava Telecomando. La rubrica si chiamava Nove radici – gioco con gli arcani, ed era firmata con lo pseudonimo ‘Muto’. Ringrazio Gigliola Sulis che me ne ha informata quando il mio racconto era già in bozze. La letteratura, un po’ come un sentiero magico in un bosco, è costellata di sincronicità che sorprendono ma non spiazzano, invece orientano perché indicano strade.  

 

* Azione Atzeni- mode d’emploi

di

Gigliola Sulis e Francesco Forlani

‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale. * Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia Gigliola Sulis, Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012  

Si può seguire il PODCAST su:

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