Home Blog Pagina 305

CHARLES DICKENS [1812-2012] Lento, grave, silenzioso, s’accostò il fantasma.

1

OLIVER TWIST Fred Barnard [ 1875 ]
Per favore, Signore, posso averne un’altra pochina?

di Orsola Puecher

 
Da quasi due secoli, sopravvivendo a traduzioni in tutte le lingue e persino a quelle riduzioni ad usum Delphini che una volta si regalavano ai fanciulli, i personaggi dei romanzi di Charles Dickens, archetipi di qualità e difetti molto umani, infestano amabilmente il suo variegato e vastissimo pubblico di grandi e piccini, lettori semplici o raffinati esegeti che siano. In un alone di mestizia e monito etico, che nemmeno il canonico, ma sempre travagliato, lieto fine riesce a cancellare, ecco allora Oliver Twist venduto dal direttore dell’orfanatrofio all’impresario di pompe funebri Mr. Sowerberry per aver osato chiedere ancora un po’ di minestra, e messo a dormire nel sotterraneo popolato di bare scoperchiate. Ecco il piccolo David Copperfield staffilato ingiustamente dal patrigno Mr. Murdstone, ed ecco la silenziosa e tenace Amy Dorrit nata alla Marshalsea, la prigione dei debitori, mai tanto minacciosa come negli odierni tempi di crisi, nel suo accidentato percorso di riscatto sociale. E in quale epoca non c’è un qualche Mr. Merdle, nome omen, affarista truffatore che trascina tutti nella sua rovina finanziaria? O un avaro Scrooge con il suo insperato emendarsi in una notte? Insieme al fantasma lento, grave, silenzioso di Cantico di Natale, che sporge la sua mano cerea dal manto nero, sfilano come spiriti di un epoca senza tempo cattivi d’elezione e orfanelli maltrattati, comprimari tratteggiati con ironia, figurine ad acquerello di una lanterna magica, tremolanti e vive, ad accrescere e insieme esorcizzare la paura dell’abbandono, la crudeltà delle ingiustizie e i rovesci della sorte che insidiano tutti i destini. Per l’orfano di qualsiasi cosa che si nasconde in ognuno di noi, non possiamo non dirci dickensiani. Nel bene e nel male.
 
Quel Dickens verso cui ammette un profondo debito letterario anche un altro suo piccolo lettore:

Franz Kafka
DIARI
8 ottobre 1917 [800-840]

 
L’ammirazione è un termine di confronto: per Kafka è un modello inarrivabile la macchina romanzesca dickensiana, la struttura, che però quando sembra andare con il pilota automatico della convenzione, si rivela crudele dietro la maschera del sentimentalismo traboccante, e quindi è da superare. L’epigonismo, in cui Kafka si classifica con estrema chiarezza critica, deve riuscire a oltrepassare, a scardinare, a rendere diversa la struttura della trama con le luci taglienti della sua epoca. Bisogna far saltare con le mine dell’inconscio i massi di rozza caratterizzazione di Dickens. Ma insieme Kafka nota quanto la concretezza sfumi nell’uso di metafore astratte: la fervida gotica immaginazione di Charles Dickens si scontra suo malgrado continuamente con l’aspirazione a uniformarsi al realismo vittoriano e agli stilemi dell’epoca. Dei suoi romanzi la dark side è quella che resta più efficacemente impressa e le situazioni penose e oscure finiscono per avere il sopravvento su ogni soluzione di happy end.
In Kafka il processo avviene in senso inverso: il realismo delle descrizioni sconfina volontariamente nell’immaginario, reso verosimile dalla loro minuziosa esattezza che riesce a renderlo reale agli occhi del lettore. La realtà ha improvvisi scarti e il passaggio di stato è magistralmente, dickensianamente, costruito.
Nell’incipit del Il fuochista il lento avvicinarsi della nave, il delinarsi della Statua della Libertà che brandisce una spada, torreggiando minacciosa come una divinità guerriera dell’ostile metaforico Nuovo Mondo, si discosta e scarta senza alcuno sforzo dalla verità oggettiva del placido simbolo della democrazia americana, che in realtà brandisce invece una illuministica e prosaica fiaccola.
 

Quando il sedicenne Carlo Rossmann, mandato in America dai suoi poveri genitori dopo che una domestica lo aveva sedotto e gli aveva messo al mondo un figlio, a bordo della nave che avanzava a piccola forza entrò nel porto di New York, pensò che la statua della Libertà, già da un pezzo visibile, splendesse sotto una luce più intensa. Il braccio che brandisce la spada sembrava essersi appena alzato, intorno alla figura spiravano fresche correnti.
“Com’è alta!” fece tra sé, mentre la folla dei facchini, che passavano sempre più numerosi, sebbene lui non volesse muoversi,finiva con lo spingerlo contro il parapetto.

IL FUOCHISTA
Un frammento [ 1913 ]

 
In Cantico di Natale, un Natale che Dickens rivendica come momento sociale in cui lo spirito capitalista di utilitarismo si fa da parte, con l’utopia di fondare le relazioni sociali sull’etica dell’amore e non del danaro e del profitto, c’è un perfetto compendio dei motivi e dello stile dickensiano. Si possono immaginare i caseggiati londinesi giocare a nascondino in una loro fantasiosa infanzia edile, vedere seduto nella nebbia british il Genio dell’inverno assorto in una lugubre meditazione e dal momento in cui il picchiotto della porta della casa di Scrooge si trasforma nel viso del defunto socio, il mistero dilaga e la realtà non ha più pace e confini definiti. Il tutto sempre con una scrittura moderna, veloce, con frasi e paragrafi brevi, che non indugia in descrizioni prolisse, e una lingua diretta: ironica, colloquiale ma drammatica quando serve.
 

BENJAMIN BRITTEN A Ceremony of Carols
In Freezing Winter Night

 

 

Cantico di Natale [ 1843 ]

PREFACE
I have endeavoured in this Ghostly little book, to raise the Ghost of an Idea, which shall not put my readers out of humour with themselves, with each other, with the season, or with me. May it haunt their houses pleasantly, and no one wish to lay it.
Their faithful Friend and Servant,
C. D.
December, 1843.

PREFAZIONE
Ho tentato in questo libretto spettrale, di risvegliare lo Spirito di un’idea, che non metterà di cattivo umore i miei lettori verso se stessi, gli uni verso gli altri, verso il tempo o verso di me, Che possa infestare le loro case amabilmente, e che nessuno desideri cacciarlo.
Il loro fedele amico e servitore.
C. D.
Dicembre 1843

BENJAMIN BRITTEN A Ceremony of Carols
Wolcum Yole

 

The Morgan Online Ehxibitions [ pag. 8 ]

da Stave 1: Marley’s Ghost


Stave 1: Marley’s Ghost
Scrooge took his melancholy dinner in his usual melancholy tavern; and having read all the newspapers, and beguiled the rest of the evening with his banker’s-book, went home to bed. He lived in chambers which had once belonged to his deceased partner. They were a gloomy suite of rooms, in a lowering pile of building up a yard, where it had so little business to be, that one could scarcely help fancying it must have run there when it was a young house, playing at hide-and-seek with other houses, and forgotten the way out again. It was old enough now, and dreary enough, for nobody lived in it but Scrooge, the other rooms being all let out as offices. The yard was so dark that even Scrooge, who knew its every stone, was fain to grope with his hands. The fog and frost so hung about the black old gateway of the house, that it seemed as if the Genius of the Weather sat in mournful meditation on the threshold.
Now, it is a fact, that there was nothing at all particular about the knocker on the door, except that it was very large. It is also a fact, that Scrooge had seen it, night and morning, during his whole residence in that place; also that Scrooge had as little of what is called fancy about him as any man in the city of London, even including — which is a bold word — the corporation, aldermen, and livery. Let it also be borne in mind that Scrooge had not bestowed one thought on Marley, since his last mention of his seven years’ dead partner that afternoon. And then let any man explain to me, if he can, how it happened that Scrooge, having his key in the lock of the door, saw in the knocker, without its undergoing any intermediate process of change — not a knocker, but Marley’s face.


Stanza I: Lo spirito di Marley
Scrooge fece il suo malinconico desinare nell’usata malinconica osteria. Dié una scorsa a tutti i giornali e si sprofondò nel suo squarcetto, ammazzò la serata e si avviò a casa per mettersi a letto. Abitava un quartiere, o meglio una sfilata di stanze, già un tempo proprietà del socio defunto, in un vecchio e bieco caseggiato che si nascondeva in fondo ad un chiassuolo. Davvero, quel caseggiato in quel posto non si sapeva che vi stesse a fare: si pensava, mal proprio grado, che da bambino, facendo a rimpietterelli con altre case, si fosse rincattucciato lì e non avesse più saputo venirne fuori. Oramai s’era fatto vecchio ed arcigno. Non ci abitava che Scrooge: tutte le altre stanze erano date via in fitto per studi di commercio. Era così buio il chiassuolo, che lo stesso Scrooge, pur conoscendolo pietra per pietra, vi brancolava.. La nebbia incombeva così spessa davanti alla porta scura della casa, da far credere che il Genio dell’inverno stesse lì a sedere sulla soglia, assorto in una lugubre meditazione.
Ora, certo è che il picchiotto della porta, oltre ad essere massiccio, non aveva in sé niente di speciale. È anche certo che Scrooge, da che abitava lì, l’aveva visto mattina e sera; E lo stesso Scrooge, inoltre, era dotato di così temperata fantasia quanto alcun’altra persona nella City di Londra, compresi, con rispetto parlando, tutti i membri del corpo municipale. Si badi altresì a questo che Scrooge non aveva pensato un sol momento a Marley, dopo averne ricordato la morte, quel giorno stesso avvenuta sette anni addietro. E dopo di ciò, mi spieghi chi vuole come seguisse che Scrooge, ficcata che ebbe la chiave nella toppa, vide nel picchiotto, da un momento all’altro, non più un picchiotto, ma il viso di Marley

 
 
 
da ⇨ A CHRISTMAS CAROL [1910] di J. Searle Dawley per Edison Manufacturing Company

Marley’s face. It was not in impenetrable shadow as the other objects in the yard were, but had a dismal light about it, like a bad lobster in a dark cellar. It was not angry or ferocious, but looked at Scrooge as Marley used to look: with ghostly spectacles turned up on its ghostly forehead. The hair was curiously stirred, as if by breath or hot air; and, though the eyes were wide open, they were perfectly motionless. That, and its livid colour, made it horrible; but its horror seemed to be in spite of the face and beyond its control, rather than a part or its own expression.
As Scrooge looked fixedly at this phenomenon, it was a knocker again.
To say that he was not startled, or that his blood was not conscious of a terrible sensation to which it had been a stranger from infancy, would be untrue. But he put his hand upon the key he had relinquished, turned it sturdily, walked in, and lighted his candle.

Il viso di Marley. Non avvolgevasi già, come ogni altra cosa intorno, nell’ombra fitta; anzi raggiava un certo bagliore livido come un gambero andato a male in un oscuro ripostiglio. Non era crucciato o feroce; fissava Scrooge come Marley soleva fare, e lo fissava con occhiali da spettro alzati sopra una fronte da spettro. I capelli sollevavansi stranamente quasi mossi da un soffio o da un’aria calda; gli occhi, benché sbarrati, erano immobili; la faccia livida. Una cosa orrenda: se non che l’orrore era estraneo all’espressione di quel viso e in certo modo gli era imposto.
Scrooge si fermò e stette a guardare il fenomeno. Il picchiotto tornò ad esser picchiotto.
Non si può dire ch’egli non trasalisse e che il sangue non gli desse un tuffo, come non gli era mai avvenuto. Nondimeno riafferrò la chiave, che aveva lasciato un momento, la girò con forza, entrò e accese la candela.

John Leech [1843]

BENJAMIN BRITTEN A Ceremony of Carols
Interlude for Harp Solo

Stave IV: The Last of the Spirits
Th Phantom slowly, gravely, silently approached. When it came, Scrooge bent down upon his knee; for in the very air through which this Spirit moved it seemed to scatter gloom and mystery.
It was shrouded in a deep black garment, which concealed its head, its face, its form, and left nothing of it visible save one outstretched hand. But for this it would have been difficult to detach its figure from the night, and separate it from the darkness by which it was surrounded.
He felt that it was tall and stately when it came beside him, and that its mysterious presence filled him with a solemn dread. He knew no more, for the Spirit neither spoke nor moved.

Stanza IV: L’ultimo degli Spiriti
Lento, grave, silenzioso, s’accostò il fantasma. Scrooge, in vederselo davanti, cadde in ginocchio, perché in verità questo degli Spiriti era circonfuso di ombra e di mistero.
Un nero paludamento lo avvolgeva tutto, nascondendogli il capo, la faccia, ogni forma: solo una mano distesa sporgeva. Senza di ciò, sarebbe stato difficile discernere la cupa figura dalla notte, separarla dalle tenebre che la stringevano.
Sentì Scrooge che lo Spirito era alto e forte, sentì che la misteriosa presenza gl’incuteva un terrore solenne. Non sapeva altro, perché lo Spirito era muto e immobile.

“Cantico di Natale” di Charles Dickens
traduzione di ⇨ Federigo Verdinois
Ulrico Hoepli, 1888

Come è bella la città

1

INVITO PER L’INCONTRO
Come è bella la città
costruire, distruggere, conservare

Ancora una volta Milano sa cambiando faccia, cercando di tenersi al passo del mutamento globale, e ancora una volta è un esempio e un modello, sia in positivo che in negativo, per l’intera nazione. Ciò che accade oggi a Milano accadrà domani, inevitabilmente, in tutta Italia.

Le città vivono nel loro continuo mutare e nella capacità di assorbire il passato, rivitalizzandolo. Così, nella dialettica fra Storia e Contemporaneità, si definisce l’identità di un luogo e il suo destino. È nella metropoli che temi all’apparenza contrastanti, desueti o lontani fra loro – l’economia, l’estetica, la democrazia – si fanno corpo vivo, spazio sia di contraddizione che di partecipazione democratica.

Saper costruire le città, immaginarne il futuro, progettarle come luogo condiviso è il dovere della politica intesa come interesse della collettività, l’inverso di tutto ciò significa sottostare alle leggi di un mero interesse privato, indifferente ai temi della emancipazione collettiva della democrazia partecipata e della bellezza diffusa.

Il comitato Area ExEnel – dopo aver aperto un dibattito sui giornali nazionali e cittadini, e nel web, e dopo l’estensione dell’appello firmato da 100 intellettuali, artisti, scrittori, architetti, imprenditori, ecc. milanesi – ha organizzato su questi temi assolutamente strategici che interessano l’intera cittadinanza un appuntamento aperto a tutti il prossimo 28 marzo.

Parteciperanno all’incontro:
Andrea Boschetti, architetto e urbanista, responsabile scientifico del nuovo PGT milanese.
Luca Molinari, architetto, curatore del padiglione italiano della Biennale della architettura di Venezia 2010.
Salvatore Settis, storico dell’arte, ordinario di Archeologia classica presso la Normale di Pisa.

Coordina:
Gianni Biondillo

Mercoledì 28 Marzo alle ore 21,00
c/o Careof
Fabbrica del Vapore
Via Procaccini 4, Milano

pop muzik (everybody talk about) #16

0

Spontaneous Devotion / Random. 2007

The Betty Davis Variations (1)

17

di Andrea Inglese

A 12 anni “Boy Music” (settimanale apparso nel 1979 e deceduto nel 1984) entra nella mia vita.

Vita e morte di un ingegnere

2

Edoardo Albinati, Vita e morte di un ingegnere, Mondadori 2012, pagine 150

di DaniMat

Nell’unica presentazione tollerata dal suo autore, Elisabetta Rasy ha definito Vita e morte di un ingegnere un libro perfetto. Proprio ciò che intendo scriverne io qui, con ulteriori motivazioni ma confluendo allo stesso risultato.
Intanto le notizie: questo libro fu scritto vent’anni fa da Albinati a caldo, subito dopo la morte del padre, l’ingegner Carlo, e fu un modo per congelarne la memoria (i ricordi svaporano, scrive Albinati in una delle pagine terse del libro, e dico io, scriverne vuol dire oggettivarli, metterli sotto teca, dopotutto liberarsene, come scriveva Yourcenar, e poi dopotutto superarli, ricominciare a vivere oltre il limite/soglia che essi ci marcano lungo il cammino).
Scrisse questo libro, Albinati, per venire a capo della morte come fatto inevitabile dunque come nodo di vita, e per interrogare le dinamiche consuete della vita, che ci resta sempre misteriosa e poi in alcuni istanti preziosi quanto terribili ci mostra il fianco e si lascia per un bagliore almeno intuire.
Ma in fondo il vero scopo era un altro, ed era personale.
La vera necessità, l’urgenza, stava nel voler interrogare il mistero vivente che era stato sempre per Edoardo l’ingegner Carlo, a suo stesso dire (di Albinati, dico) l’affetto più prossimo e più distante della sua vita.
Cosa è dopotutto la morte del padre? È uno scatto di carriera umana.
Per riassunto e sostituzione. Quando muoiono i genitori i figli (magari già genitori a propria volta) guadagnano la prima linea, e smettono di trovar riparo, di raccontarsi alibi, devono rispondere – diventano definitivamente responsabili: se la vita li convoca e li interroga, è probabile che sapranno rispondere. Saranno i cosiddetti volontari involontari.
È un capovolgimento, una rivoluzione. Senonché Albinati, che si dichiara figlio a oltranza, patisce una inadeguatezza al ruolo, che per inevitabile che è, per ragioni storiche, forse, indica nelle generazioni di genitori nati sul finire dei Cinquanta (come Albinati) o intorno ai Sessanta e via via fin qui padri e madri che si confondono coi figli, che mancano d’autorevolezza forse ma di sicuro di autorità: è un segno dei tempi.
Con la morte dell’ingegner Albinati muore una classe di genitori, di padri soprattutto: uomini tutt’uni con la propria professione, inimmaginabili in pantofole, abbinati automaticamente con la scrivania, gli occhiali, gli strumenti professionali. Uomini poco avvezzi a una vera confidenza coi figli, così poco capaci di tenerezza o di comprensione al di fuori degli schemi narrativi codificati da rifugiarsi in una ironia spesso tagliente, involontariamente sprezzante, in sorrisi che sono paratie, pareti d’acciaio, in battute che sono spade, daghe affilate e pesanti che straziano solo i corpi dei figli, spesso di uno in particolare, il maggiore (lo scrittore Albinati nel caso), nel quale è riposto il termine di un rapporto tenuto in piedi su pali così zoppi.
Nel libro c’è stupore e rabbia.
Se penso a Affabulazione di Pasolini, a mio parere antecedente ideale di questo libro peraltro così diverso anche nel genere, rivivo lo smacco di questo dialogo impari in cui il figlio vince sul padre perché dopo tanto mancato rapporto è lui a rivendicare (accaparrandosene tutto il vantaggio) la pretesa di recuperare il discorso, e l’esigenza di puntualizzare, di fare i conti, di ribadire la giustezza della propria protesta, della propria volontà di lite, perché è lui, il figlio, ad aver patito, ad esser stato incompreso, è lui, non il padre, ad aver ricevuto poco o niente, salvo le istituzioni, cui si è puntualmente opposto allargando il solco e approfondendo il fossato – che però (accade qui per Albinati) ha anche stagliato contro il cielo il padre come splendido castello inespugnabile: una bellezza totale, prossima e inavvicinabile. Inebriante per gli occhi, bramato dal cuore e dalle braccia affamati e lasciati sempre a bocca spalancata, a stomaco vuoto: senza.
Cosa reclama il figlio? La concretezza della carnalità. L’ingresso vero nella vera Storia. L’accesso alla vita vera. Senza distanza, senza scarto.
Il padre che sorride e a volte bonariamente lo deride in pubblico irridendo il figlio è insuperabilmente tenero, specie per il bersagliamento che qui subisce senza possibilità di difesa. Il figlio è arrabbiato e non vede che lui, suo padre, lo ha guardato incessantemente, lo ha magistralmente guidato senza interferenze pesanti, come a volte i padri fanno quando sono padri violenti e invadenti. È stato maestro pur senza premere sul pedale della vantaggiosa superiorità, e gli ha offerto tutto quel che poteva offrirgli: un modello. Il figlio sente un bruciante senso di estraneità alla vita quando a quel modello ricorre come espediente imitativo: la domanda pregressa è forse, qui l’ingegnere come avrebbe risolto?
Il punto è qui. E qui è la vera, grande domanda, sulle nostre vite, se siano autentiche, e se sempre o mai o a metà tutte le vite lo siano, o se siano poi tutte spesso grandi, magistrali recite. Riproduzioni acritiche di modelli.
È qui tutto lo stupore vero, e il ricorso al modello letterario per oggettivare una simile scottante questione. Provare a spingerla, con tutta la sua grave zavorra di vita vera, dentro un cerchio in cui risplenda la sua riserva di sincerità cui attingere è il vero problema.
Questo libro che pure risale a vent’anni fa nella scrittura mentre esce solo ora (pare per riguardo alla madre) ha un parallelo in Profezia, racconto in seconda persona del fraterno collega di Albinati, Sandro Veronesi, il quale viceversa, poiché vive nella letteratura, ha subito distanziato da sé la morte del padre in quella risorsa spettacolare che è l’invenzione, una forma di mediazione che mentre assicura il distacco permette l’esattezza chirurgica e rende il servizio prezioso della memorabilità.
Ma Vita e morte di un ingegnere è letteratura di natura affatto diversa.
La letteratura davvero è respiro vitale, ed è respiro costante per Albinati.
Forse Albinati è l’unico scrittore italiano che nel tempo non si è lasciato attaccare dalla vita esterna della letteratura intesa come impresa editoriale. La scrittura di Albinati è (mutuo una sua definizione mutuata a propria volta) un lungo fiume tranquillo. Con metodo e sguardo anglosassone, con approccio scientifico, da studioso (ecco un punto d’orgoglio e dolente insieme, per lo scrittore: aver costruito una sua vita di studi distanti e aver quindi separato la propria strada professionale, ma insomma l’esistenza, da quella del padre), Albinati affronta con medesima pacatezza e intensità temi diversi che, come per tutti noi, ha scelto di seguire o con incursioni più o meno acrobatiche lo hanno investito: insegna a Rebibbia e scrive Maggio selvaggio; dal termine della Flaminia scende coi mezzi a via Flaminia Vecchia e giù fino alla Prenestina dove la famiglia ha un immobile, e allora scrive 19, epopea umana del tram che taglia tutta Roma; va in Afghanistan per le Nazioni Unite e scrive il diario del Ritorno. Ricordo bene quando nel ’93 nella redazione della rivista Omero un pomeriggio il fax sputò tre sue paginette che personalmente declamai gridando al miracolo in tutto Monteverde: erano i primi Orti di guerra, raccolta di prose poi uscita da Fazi nel ’97; come ricordo che anni fa per email Albinati mi inviò alcune pagine sull’anestesia da Svenimenti: che privilegi! E poi ripenso a certi suoi libri di poesia: Mare o monti (con Paolo Del Colle), Capodanno del Vam, Sintassi Italiana, La comunione dei beni, come i suoi romanzi, Il polacco lavatore di vetri per esempio, o Tutt’al più muoio in cui si è fatto interprete delle volontà narrative di Filippo Timi e confermato in ciò che già la lettura dell’amato Tolstoj gli aveva insegnato: che nel rapporto servo/padrone è il servo a condurre.
La scrittura di Albinati è tersa, è inattaccabile, ed è germinativa. Io credo che lui stesso goda delle sorprese controllate e puntuali che questo felice strumento gli riserva ogni volta. In questo, gentile Elisabetta Rasy, è perfetto il libro, ed è perfetto lo scrittore: nel dispositivo letterario, nel congegno scrittorio che governa ogni argomento, lo forgia e forgiandolo rivela tutte le risorse che esso promette e minaccia, cioè davvero dà la stura a tutto ciò che esso ha inesorabilmente in serbo: un congegno così efficace pur nella sua natura generativo/trasformazionale (per dirla con Noam Chomsky) che resiste da decenni all’attacco di qualunque tentazione di adattamento a una letteratura sempre invocata vendibile, semplificata e compromessa. Anche qui, nel crogiuolo del cuore, con questa scrittura Albinati ha domato la rabbia dell’amore mancato e credo abbia scoperto, forse meglio adesso, rileggendolo solo per sistemarlo esternamente, quanto questo libro gli abbia finalmente garantito la proprietà affettiva totale della propria dimensione familiare: un tema spinoso finalmente risolto, dunque rubricabile.
Chiudo con l’immagine che sigla il libro, il finale (mentre la fine è già scorsa davanti a noi) che a qualche autore ‘laico’ sembrerà scivolamento poetico, tonfo nella metafora, ma è letteratura della specie alta, è poesia senza sperpero di lirismo: è folgorazione che ripesca Ovidio e Apuleio – il cielo (eh, il cielo) è attraversato da un raro fenomeno, un doppio arcobaleno. Noi ingenui lettori ci vediamo Carlo Albinati trasformato in fenomeno celeste, e l’allusione al doppio nastro del DNA cioè al codice genetico come legame imperituro che tiene legati un padre e un figlio.

è nata una stella: Francesca English

9


di
Francesco Forlani

Martedì sera io e il mio socio Marco Fedele siamo stati invitati a far parte della giuria di un contest organizzato dal Canevel Music Lab, al Jazz Club di Torino. Siamo stati invitati, ovviamente, come conduttori del fortunato programma radiofonico di Cocina Clandestina che trasmettiamo ogni lunedì sera su Radio Veronica One.. Presidente della giuria il mitico Edoardo “Catfish” Fassio. Vi confesserò che non amo i Contest né tanto meno dare dei voti, come ben sanno i miei studenti, ma con altrettanta sincerità devo dirvi che nessuna gioia è comparabile a quella di una scoperta. Che si tratti di un giovane autore, ma anche dell’esordio di un pre-postumo scrittore, di un piatto mai mangiato o uno speciale cocktail mai bevuto, la sensazione che si ha, dal principio, è sempre la stessa ovvero un mix di gioia fisica e consapevolezza di avere avuto fortuna di trovarsi nel posto giusto al momento giusto.
Quando Francesca English è salita sul palco, accompagnata dai suoi musicisti ( Egidio Perduca – chitarra, Eros Cristiani – hammond, Mauro Isetti – basso, Folco Fedele – batteria) così piccola, fragile, e la musica è partita con dei volumi, importanti, avrebbe detto Carmelo Bene, la prima cosa che ho pensato è stata: come cazzo farà mo a farsi sentire. Il miracolo, perché vi assicuro che di miracolo si è trattato, è successo quando le prime note della canzone scritta da lei, Notes and words, sono esplose e in molti, presenti in sala, abbiamo fatto davvero fatica a trattenere le lacrime.
Le braccia lungo il corpo, la “mise” semplice che sembrava dirti “ehi io sono qui per sputarvi addosso l’anima mica per fare la velina!” Francesca ha liberato un mondo popolato, una dopo l’altra dalle icone della Jazz, Blues, Soul music, regine consegnate all’eternità e di cui ti riecheggia dentro il suono verità, “Glad to be Unhappy” ogni qualvolta le si incontri. Così le ho scritto la sera stessa e non appena mi ha risposto siamo riusciti a incontrarci, appunto. Quella che segue è una conversazione che abbiamo avuto al Café des Arts, di Torino, cucina anarchica a conduzione familiare e scena underground tra le più interessanti della città.

Francesca, partiamo da te. Anni?
Ventidue
Nata a Torino?
No, a New York.
I tuoi genitori?
Papà giamaicano di Kingston e madre italiana, di Vercelli. Quando avevo tre anni ci siamo trasferiti da New York a Torino.
Alla musica non ci arrivi attraverso i canali tradizionali. Hai studiato prima al liceo artistico e poi scultura all’Accademia delle Belle Arti, come hai trovato la tua vocazione?
Grazie ai miei e alla loro sensibilità verso la musica. Mio padre suonava la chitarra, da autodidatta, ed è stato lui a introdurmi alla musica
Però non suoni dal vivo.
Non ho una sicurezza tale da poter fare su scena le due cose
La prima esperienza?
Tempo fa in un locale, un pub, con amici musicisti e mi sono accorta che avevo qualcosa dentro che voleva uscire, un’energia che non mi chiedeva altro che di esplodere. Così ho registrato quelle cover che hai visto anche tu su youtube. Un’amica di mia madre che aveva sentito i pezzi se n’era innamorata e poiché conosceva dei produttori a Tortona, che poi sono i musicisti che mi accompagnano, gliene ha parlato e siamo partiti con un nuovo progetto.
Le canzoni che hai presentato al Contest, a proposito ti auguro di vincere martedì prossimo a Verona!, le hai scritte tu?
Sì, la prima in assoluto che ho scritto per il nuovo progetto, ma che non ho presentato al contest è stata Holding your breath (trattenendo il tuo respiro) parla di questo approccio al canto, a questa esperienza per me nuova e sconvolgente. Sai, per me è stato come un vento di cambiamento nella mia vita.
La tua energia è incredibile.
Sì, soprattutto quando canto, quando mi sento in una situazione intima tranquilla, all’improvviso sento una cosa che mi travolge, una cosa molto fisica. Mi hanno detto che canto alla Janis Joplin, magari avessi quella stessa energia, ma una volta, non ricordo chi mi ha pure detto che ero una Joe Cocker al femminile, per via della postura che ho quando canto, con le braccia lungo il corpo.
E la seconda della serata?
Climbing step by step, arrampicarsi passo dopo passo, che sta per il principio del viaggio che sto compiendo
La scena torinese?
A Torino c’è una bella scena con tanti gruppi, molti soprattutto di elettronica e rock.
Ne hai scritte altre? Sai come si intitolerà l’album?
Non so ancora, quando magari avrò finito mi verrà sicuramente il titolo giusto
In italiano canterai?
Questo è un grosso dilemma. (sorride) In italiano non mi viene naturale cantare, come se fossi divisa nel sangue, non so come spiegarti. Ho provato a cantare in italiano ma non mi viene naturale come in inglese. Quando sono in famiglia parliamo in inglese, siamo anglosassoni, che dico anglofoni,(ride) forse ho detto così per via del cognome che ho e che non c’entra nulla! Comunque istintivamente mi viene da cantare in inglese.
Delle cantanti di oggi chi consideri come tuoi modelli?
Mi ha colpito tantissimo Rachel Ferrel che è molto virtuosa, però ha un’energia sconvolgente. E Lauryn Hill, il mio idolo in assoluto.


Cucina. Giamaicana o italiana?
Cucino italiano, e non è la sola cosa italiana che vince. Il mio modo di vivere le cose, per esempio è assolutamente italiano.
Resterai a Torino?
Ho sempre pensato di vivere a Torino però un tentativo di andare a vivere fuori lo farei volentieri
In quale città, paese?
In Giamaica, naturalmente.

carta st[r]ampa[la]ta n.47

11

di Fabrizio Tonello

Gentile Signorina/Signora Mariarosa Mancuso,

come vedrà dai miei commenti qui sotto la Sua tesina “Addio al radical chic”, consegnatami domenica 18 marzo attraverso il suppemento “La lettura” del Corriere della sera, è piuttosto carente. Dallo svolgimento mi sembra di intuire che la materia era per lei interessante ma che la mancanza di abitudine a scrivere in modo preciso (mi riferisco tanto alla lingua quanto ai contenuti) ha lasciato il segno, rendendo l’elaborato sciatto e superficiale.

Comincerò dall’uso dei dati che Lei ha inserito a sostegno delle Sue argomentazioni. Con riferimento alle dimissioni dell’on. Silvio Berlusconi, Lei scrive: “Le trasmissioni televisive «contro», sempre a rischio di chiusura e di censura, dovrebbero godersi la vittoria. E invece no: gli spettatori calano, lo share diminuisce (o comunque non decolla).” gli spettatori calano? Dal grafico sembrerebbe piuttosto il contrario: “Invasioni barbariche” passa da 904.000 spettatori nel 2010-2011 a 923.000 nel 2011-2012, un aumento piccolo ma pur sempre un aumento.

Sempre nell’appendice statistica, Lei mette insieme due trasmissioni di Serena Dandini, “Parla con me” e “The show must go off”, trasmesse da due reti diverse (Rai e La sette) in orari diversi e in giorni diversi. Le sembra una procedura di comparazione scientificamente accettabile? Quanto aveva preso all’esame di Metodologia?

Di fronte alla legge

0

di Helena Janeczek

Un procuratore milanese a fine carriera viene sollecitato da una giovane giornalista a occuparsi del caso di un tunisino condannato per un fatto di sangue che non avrebbe mai commesso, mentre la macchina della giustizia e l’opinione pubblica si aspettano proprio da lui una richiesta di inasprimento della pena. Un prete con il profilo di grande teologo ripara in un seminario sull’Appennino per fuggire alla fama di essere stato tramite della risurrezione di una bambina morta per un incidente, ma una letterale corte dei miracoli arriva da Roma per stanarlo.

Nove

7


Non ho mai abitato in zona nove a Milano, né mai visitato la città di Nove, della gara dei nove colli nulla so, so però che nove sono i consiglieri indagati alla Regione Lombardia, che le figlie generate dal grande Zeus sono nove (Clio, Euterpe, Talia, Melpomene, Tersicore, Erato, Polimnia, Urania e Calliope) e che Aldo Nove fece parte di Nazione Indiana.
Che esiste da nove anni.

Come non detto (poema musivo ipertestuale)

20

di Marco Cetera

On line all’indirizzo www.comenondetto.net

L’idea. Niente di nuovo.
Esperimento di scrittura musiva.
Come non detto è un mosaico. 2000 citazioni-tessere (lessie) per un totale di 2332 versi. Parole d’altri, minuziosamente ricomposte in un gioco di incastro che dà forma a un articolato intreccio polifonico di voci. Una specie di ready-made poetico che preleva i suoi pezzi dalla discarica indifferenziata della letteratura. Letteratura alta, bassa, giuridica, religiosa, filosofica, scientifica, artistica, storiografica, lirica, rosa, noir. Eccetera eccetera.
L’esperimento si inserisce chiaramente in quel vasto filone d’arte d’avanguardia che va dai papiers collés dei cubisti al polimaterismo degli assemblage proposti dai movimenti Neodada, Pop art e Nouveau realisme. Il debito maggiore, tuttavia, è con la poetica combinatoria di Nanni Balestrini: «per me il montaggio è la resurrezione» (Caosmogonia, Fino all’ultimo, 2).
Rispetto alla pratica balestriniana, però, Come non detto prevede anche il palesamento della fonte di ogni singola citazione, ponendosi in un atteggiamento quasi pedogogico. Come se l’opera volesse predisporre un mini kit culturale di sopravvivenza contro il sistematico depauperamento del sapere promosso dalle tecnologie mediatiche.

Lo stile. Collage vs Mosaico.
Anni Sessanta. I libri “d’artista” della conceptual art e suoi derivati. Flynt, Cage, Manzoni, Pistoletto, solo per fare alcuni nomi. In particolare, An anthology di La Monte Young e Mac Low. Il libro è stampato su carte colorate tutte diverse e al suo interno ci sono tavole sciolte con spartiti musicali, poesie, disegni, componimenti teorici, oggetti incollati sulle pagine, buste da lettera con oggetti da estrarre. Insomma, di tutto di più. Si tratta inequivocabilmente di un collage, tenuto insieme dalla colla e da un unico filo tematico, il movimento Fluxus.

Qualcosa di molto vicino ai papiers collés dei cubisti di un secolo fa.

In tempi più recenti (2010), anche il critico letterario David Shields ha realizzato qualcosa di simile. Fame di realtà. Ha utilizzato qualche centinaio (600 circa) di aforismi, interviste, citazioni (numerati) per comporre, con parole di altri, il suo personale orizzonte letterario.

In tutti questi casi, parliamo di collage.

Come non detto, invece, è un mosaico.

Tra le due tecniche vi è una differenza sostanziale: mentre nel collage i pezzi di materiale vengono spesso assemblati o sovrapposti tra loro in modo più o meno disordinato, le tessere del mosaico sono invece incastrate l’una accanto all’altra.

In un caso si ostenta la frattura degli elementi che compongono l’opera, nell’altro si ricerca la continuità e la fusione armonica delle tessere, per un risultato finale che mascheri il più possibile l’espediente tecnico.

L’ipertestualità. Enciclopedismo digitale.
Il layout del sito è piuttosto semplice e intuitivo. La composizione di lessie occupa in successione la parte centrale della pagina. La numerazione dei versi (di 5 in 5) è riportata sulla colonna sinistra, mentre il numero della lessia è indicato sulla colonna di destra preceduto da un piccolo simbolo a forma di freccia.

Cliccando sulla lessia si apre “a tendina” una nota che ci fornisce l’esatta indicazione bibliografica da cui il testo della lessia è tratto.

In calce a ogni nota bibliografica è presente un link che rimanda alla pagina Wikipedia dedicata all’autore della lessia.

I rinvii a Wikipedia (riordinati in ordine alfabetico e tematico nelle rispettive pagine dell’indice: http://www.comenondetto.net/indice-analitico/ ; http://www.comenondetto.net/indice-tematico/) consentono di comporre la basilare costellazione di un sapere che spazia dalla letteratura alla fisica teorica, dai fumetti alla filosofia.

La trama. Déjà vu kafkiano.
La tragicommedia della ripetizione si ripresenta anche nel plot narrativo.

Più o meno consapevolmente, Lui (pro-nome proprio del protagonista) si è macchiato di una grave colpa: l’elaborazione di un Nuovo Linguaggio.

Per questo, dopo un rocambolesco inseguimento, viene arrestato da due sbirri in borghese che lo conducono presso il palazzo del Supremo Consiglio Culturale.

Qui, al cospetto del Giudice Supremo, Lui deve dimostrare la Novità della sua invenzione. Ma, messo ripetutamente alla prova, non riesce a tirar fuori nulla di davvero originale.

«Tutto è stato già detto!»

Per aver tentato di contravvenire alla Prima Norma del Linguaggio Universale stabilita dal Consiglio Supremo («È impossibile dire qualcosa di nuovo»), Lui viene condannato alla deportazione forzata nella Penisola del Luogo Comune.

L’ispirazione. Poesia epistemologica immaginaria.
Poesia, Nanni Balestrini: «ci sono tante cose che possono andare insieme / senza sapere quale sarà il risultato / ogni ripetizione deve provocare un’esperienza del tutto / nuova» (Caosmogonia: Empty cage, 1 – 2010)

Epistemologica, Paul Karl Feyerabend: «Tutto può andar bene» (Contro il metodo – 1975)

Immaginaria, Jorge Luis Borges: «Tu, che mi leggi, sei sicuro di capire il mio linguaggio?» (Finzioni: La biblioteca di Babele – 1941)

L’età dell’ansia per il ceto medio

26

Di Andrea Inglese

Tema del giorno in Francia (ma non solo).

La Francia è entrata da ormai un paio di mesi in quell’effervescenza tipica delle campagne presidenziali. L’intera macchina mediatica macina temi vecchi e nuovi, fattacci d’attualità e spettri ideologici ricorrenti, nodi politici reali e miti nazionali intramontabili. Tra i leitmotiv prediletti, quello del “declino delle classi medie” risulta particolarmente malleabile e permette di essere declinato secondo i vocabolari ideologici più diversi, da quello socialista a quello del Fronte Nazionale.

EDOARDO SANGUINETI Mauritshuis [agosto 1986]

2

 

C’è un gusto di non finito. Continua… Come non cominciano: cominciano tutte con la minuscola. I due punti, le parentesi e le virgole sono i tre strumenti più semplici con cui si può organizzare un testo. All’inizio, con Laborintus, non avevo usato affatto punteggiatura: avevo lasciato il lettore completamente libero. Anche questo mi sembra appartenere fortemente alla modernità. La parentesi, anche, ha qualcosa di vicino a questo: il discorso è carico di innesti, cresce attraverso delle sorte di microtumori, che si innestano su un discorso ancora elementare, semplice. E’ un controcanto.

Edoardo Sanguineti
Intervista di Maria Serena Palieri
L’UNITA’ – 22/11/2002

 

di Orsola Puecher

 
Mauritshuis, settetto, o settimino di brevi ecfrasi di alcuni capolavori fiamminghi ospitati dall’omonimo museo, che si trova al’Aja in Olanda, visitato da Sanguineti nell’86, è un ironico viaggio pellegrinaggio lirico. Possiamo immaginare l’ilare viso del poeta, l’occhio ampio, il sorriso gattolupesco vagare per le sale spigolando dai quadri particolari curiosi, imbastendo gustose fantasticherie e illazioni sui loro protagonisti, sugli oggetti e sui paesaggi, dipinti nei minimi particolari, in punta di sottilissimi pennelli di martore e tassi, nella luce dei loro cieli nordici e cristallini. Ed eccolo allora immaginare storie, dialoghi. E quasi sempre in Sanguineti, in fondo, assistiamo al miracolo di una poesia di piccole occasioni, di concretezza quotidiana, di nomi e cose consuete, di minimi diari di viaggio dal linguaggio parodistico e sottile. L’io narrante, qui, entra ed esce dai quadri come fossero tableaux vivants che improvvisamente tornano ad animarsi, si immedesima nei loro antichi abitatori colti nell’attimo fuggente di 500 anni addietro. Rende intellegibile e vivo il loro linguaggio silenzioso e remoto.
Come il materializzarsi spirituale delle melodie silenziose nella famosa ecfrasi di John Keats ”Ode su un’urna greca”:
 

Le melodie ascoltate sono dolci, ma quelle inascoltate
Sono più dolci; su, flauti lievi, continuate;
Non per l’orecchio sensibile, ma, più accattivanti,
Suonate per lo spirito melodie silenziose
[..]
Vv 11.14

 
La parola, la scrittura resuscita con la particolare lietezza arguta di Sanguineti l’immagine.
E se fosse la scrittura stessa sempre inconsapevole ecfrasi?
Come nella descrizione omerica dello scudo di Achille forgiato da Vulcano, da cui, attraverso e con il verso, sbalzano dal metallo cerchi di immagini su immagini. Figure e figurine animate. E anche, in un punto, una simile quotidianità campestre che in quadro fiammigo starebbe a pennello:
 

In mezzo a tutti colla verga in pugno
Sovra un solco sedea del campo il sire,
Tacito e lieto della molta messe.
Sotto una quercia i suoi sergenti intanto
Imbandiscon la mensa, e i lombi curano
D’un immolato bue, mentre le donne
Intente a mescolar bianche farine,
Van preparando ai mietitor la cena.

ILIADE
LIBRO DECIMOTTAVO
vv 774-781
[ Trad. Vincenzo Monti ]

 

Mauritshuis

da Il gatto lupesco: poesie 1982-2001
ed. Feltrinelli

 

Jan Sanders van Hemessen ⇨ Allegoria: Il Musicista e la sua Musa [ 1550 ca. ]
[ sotto idealizzate spoglie di sua figlia ⇨ Catharina van Hemessen, pittrice, e del marito musicista Chrétien de Morien ]
159 x 189 cm

Jan Pieterszoon Sweelinck
[ Deventer 1562 – Amsterdam 1621]
Fantasia Chromatica

Glenn Gould – con leggero semi impercettibile canticchiare sporadico
tocco preciso e lucente – all’amato ⇨ Steinway CD318&sedia – 1959


1.
Jan Sanders van Hemessen
 
quella ragazza, tenera ma atletica, che mi schizza e mi spruzza, sputandomi gli
                                                                                                                     [alquanti
grumetti del suo latte, spremendomi il suo capezzolo sinistro, sopra la mia
                                                                                                              [flebile viola
tenore (ma che nemmeno qui, però, mi guarda), sarà una vita, a me, che mi
                                                                                                                 [perseguita
con le sue tante trecce (e con tutte quelle sue foglie, diritte lì nella sua testa,
a cresta), per toccarmi, soltanto:
                                                      e adesso ce l’ha fatta: (e mi ha interrotto,
                                                                                                                      [intanto,
questo mio povero a solo campestre): poso a terra l’archetto: e adesso è tardi:
(sarà anche bene intenzionata, quella): (ma c’è il pastore orrendo, che si agita
                                                                                                                   [nel vento,
laggiù in fondo, e mi fa, forse, una specie di segno, che
                                                                                 [mi chiama):
                                                                                                        sento il ciakciàk
delle timide gocce di quella viva cagliatina ardente: (poi, più niente di niente):


 

Pieter de Hooch ⇨ Uomo che fuma e donna che beve in un cortile [ 1658-60 ]
78 x 65 cm


2.
Pieter de Hooch
 
hai ragione, va bene, sono buffo: (le lasciamo da parte, le mie calze): e poi,
                                                                                                                    [nemmeno
so se te ne accorgi, tu, ma è da mancino che io mi reggo la pipa: (l’altra è sul
                                                                                                                      [tavolino:
e se tu insisti, e se, come si dice, è per farti contenta, io me la prendo giusta,
                                                                                                                          [quella,
con la mia destra, dopo): (per me, però, tu bevi troppo, sempre): (e me, non c’è
                                                                                                                      [nessuno,
guarda, che mi guarda): (e te, te invece, te ti guardano tutti, con quella porta
                                                                                                                         [aperta
sulla strada): (e me, seduto, me non mi vede neanche il campanile): (e adesso
                                                                                                                             [poi,
come si dice, io tolgo tutto il mio disturbo, e chiuso): (ma qui in cortile, a due
                                                                                                                            [passi
da noi, sta nostra figlia, rigida, la frigida: non capisco che cosa tiene in mano: 
è chiaro, ma però, che ci sta triste da morirci,
                                                                           [quella):
                                                                                         perché, comunque, come
si dice, dunque, io così mi consumo: ho giocato e ho perduto: (e adesso, io
                                                                                                                        [fumo):


 

Frans van Mieris ⇨ Scena in un bordello [ 1658 ]
42.8 x 33.3 cm


3.
Frans van Mieris
 
è già un invito, con pudore, all’amore, un goffo fagotto di materassi,
                                                                                                        [mollettoni, ecc.,
che pendono, a prenderci, su, l’aria, dall’alto bordo del soppalco:
                                                                                                             è un altro
invito lì all’amore, ma più giù, un appartarsi di figure (che non ci presto
                                                                                                            [l’attenzione,
proprio) eterne: (ma, in ogni caso, esterne a questo luminoso casotto): (sotto
                                                                                                                         [sotto,
mi significheranno, credo bene, accordo sordo, patetico complotto,
                                                                                                       [dolci pene):
                                                                                                                       ancora,
terzo invito all’amore, è qui una coppia canina che si accoppia (caninamente,
                                                                                                              [veramente):
(e che fu infatti censurata, e velata violata, anzi castrata):
                                                                                                 ma tu, mia grassetta
furbetta, che ti trascuri il bell’addormentato (che io ti tiro il tuo grembiule,
                                                                                                                   [apposta),
e che ti scopri, slacciandoti il corpetto, alcunché del tuo corpo (che io ti porgo,
con due mie dita fragili, alla tua brocca la mia vuota flûte, e la mia bocca
alla tua vuota bocca), lentamente curvandoti, prudente: uh, non mi sei niente, tu,
bella mia, gioia mia, un invito all’amore: sei l’amore sans phrase: (due punti, e
                                                                                                                             [via):


 

Rembrandt Harmenszoon van Rijn ⇨ Lezione di anatomia del dottor Tulp [ 1632 ]
169.5 x 216.5 cm


4.
Rembrandt van Rijn
  
il mio nome è Aris Kindt: fui un notorio criminale: (e fui molto autorevolmente
giustiziato, a suo tempo): (e, alla fine, non male riciclato): al connaisseur turista,
che si degusta, oggi, con gli occhi spalancati, il mio arto guasto (che però pare,
ahimè, un’inguantata protesi, un posticcio pasticcio plasticato), io non richiedo,
per il sapiente e calcolato scempio del mio quieto cadavere, compianto
                                                                                                             [né pietà:
                                                                                                                               a me,
può bastarmi per sempre, a mio conforto, tutto quello che è iscritto negli sguardi
di tutti quei signori bene in posa: (il perplesso e lo stolido, l’imbarazzato e il
                                                                                                                          [curioso,
l’inorridito e il distratto e l’ansioso): (ringrazio il dottor Tulp, naturalmente,
per la sua memorabile lezione, e l’avveduta gesticolazione cordiale):
                                                                                                                     vive et vale:


 

Johannes Vermeer ⇨ Veduta di Delft [ 1660-1661 ]
96.5 x 115.7 cm


5.
Johannes Vermeer
 
sono le 7 e 10, all’orologio: (riconosco la porta di Schiedam e la porta di
                                                                                                                  [Rotterdam):
(sarà scesa la pioggia, questa notte): e sto cercando, adesso, certi piccoli
                                                                                                                    [personaggi
in blu, e la sabbia in rosa: (e ho mangiato patate poco cotte): e adesso sto
                                                                                                                        [cercando
un frammentino di muro in giallo, con una tettoia: non riconosco il cielo, è
                                                                                                                            [troppo
largo: (riconosco che sto morendo, adesso):
                                                                    et c’est ainsi que j’aurais dû t’écrire:


 

Joachim Wtewael ⇨ Marte e Venere scoperti da Vulcano [ 1603-1604 ]
20.8 x 15.7 cm


6.
Joachim Wtewael
 
quanta gente interviene, mentre chiavo una signora che è tanto per bene (e che
me la sconvolgono, così): capisco ancora il marito, che mi arriva lì storto, a
                                                                                                                        [culo nudo,
per la flagranza, per pescarmi, lui:
                                                          ma quel tipo che salta sopra il letto, appeso
                                                                                                                               [sopra,
obliquo, al baldacchino, con un cappello rosso e un bastoncino (e quel ragazzo
                                                                                                                            [osceno,
alle mie spalle), e il tuffatore che mi sorvola, schiacciato lì al soffitto,
                                                                                                                    [spalancando
le braccia (e il vecchio bieco e cieco, accosciato in un angolo, con l’amichetta
                                                                                                                         [appresso,
che mi spia), e l’altro (e l’altra), e l’altro ancora:
                                                                                  [è troppo:
                                                                                                     alzo appena una mano, 
per bloccarmi, con un gesto da vero disperato, gli atleti volteggianti, che mi
                                                                                                                         [insidiano
molto immediatamente: e mi aspetto il mio peggio, da bravo malinconico
                                                                                                                          [balordo:


 

Pieter Claesz ⇨ Vanitas [ 1630 ]
39.5 x 56 cm


7.
Pieter Claesz
 
contempla intentamente, figlia mia, questo morto cronometro (con il nastro
                                                                                                                        [cilestro
e con la chiave), questo bicchiere capovolto, questo vedovo
                                                                                            [portacandela:
                                                                                                                  ho deposto,
sopra i miei scartafacci, già polverosi e corrosi, con tutto quell’ossame molto
                                                                                                                         [umano,
questa mia penna semiesausta, muta: (è un repertorio trito e obbligatorio: ma il
                                                                                                                   [suo vivace
effetto lo fa sempre): e poi è vero, certo: qui tutto
                                                                       [è niente:
                                                                                       (e questo niente è tutto):

Poesie

3

di Franco Buffoni

Il terzino anziano

Erano invecchiati
anche quelli della sua età
con la barba verde tra i piedi
e l’odore di maglia a righe,
ma lui restava
in difesa
pesante, a sentirsi i figli
crescergli contro
e vendicarsi.

Art of dancing

6

di
Francesco Forlani
In uno dei più bei film sull’arte della danza, il momento più alto si raggiunge quando il giovane protagonista, al suo provino per entrare in una prestigiosa scuola, deve rispondere alla commissione sul perché della sua passione.

Billy, posso chiederti quali sensazioni provi quando danzi?
– Non so, all’inizio sono un po’ rigido. Ma dopo che ho iniziato, mi dimentico qualunque cosa ed è come se… come se sparissi. Come se dentro avessi un fuoco. Come se volassi. Sono un uccello. Sono… elettricità. Già, elettricità.
(dal film “Billy Elliot” di Stephen Daldry)

Mi è venuto in mente questo dialogo perché ho da poco lasciato Lipsia, patria di Bach, in una improbabile arte della fuga che ha dettato la sua partitura a questi miei giorni ma forse la vera ragione è perché a Röchen, poco distante da Lipsia, veniva sepolto Nietzsche, colui che più di tutti fece del pensiero una questione di movimento, che “incede a passo di danza”. La creazione artistica, che si tratti di pittura, musica, letteratura, è sostanzialmente danza, e la danza è principalmente energia e l’energia non ha morale, che poi vorrebbe dire che un passo comunichi la verità, che la bellezza di un movimento anticipi la verità, come se non sapessimo che non esiste una cosa bella, un passo vero, un movimento giusto. Infatti la Nona di Beethoven, più particolarmente il quarto movimento, noto come Ode an die Freude., dal poema di Schiller, la troviamo alle Olimpiadi della Berlino nazista e subito dopo come Inno della neonata Europa, con una naturalezza tale da diventare in Arancia Meccanica di Stanley Kubrik, il simbolo stesso di come un’opera contenga al proprio interno il male e la cura di esso. L’energia è così. Non si può controllare, è inodore, incolore, non ha sesso. Non si può evocare che la vedi ma ogni volta che un’opera supera la soglia della mera esecuzione, della giusta composizione, libera la stessa energia di una sedia, sì proprio quella sedia di Vincent con la solarità di un girasole nell’intreccio della seduta, la pipa e il tabacco.

Col Nijnsky appare per la prima volta la geometria pura della danza liberata dalla mimica e senza l’eccitazione sessuale. Abbiamo la divinità della muscolatura. Vi sono molti punti di contatto tra l’arte di Isadora Duncan e l’impressionismo pittorico, come pure tra l’arte del Nijnsky e le costruzioni di forme e di volumi di Cézanne.

Scrive Marinetti nel suo manifesto per la danza futurista. Nijinsky come Van Gogh completamente sovrastato dalla energia, dalla follia, dal silenzio. Così pare quasi di sentire i fragore degli elettrodi piantati nel cranio del povero Momo, Antonin Artaud, rivoluzionario dell’arte della parola balbettata, doppiata, morsicata.
Quello che accade con le opere d’arte è che la loro conoscenza è quasi sempre un atto di consapevolezza che nulla ha dell’usufrutto, o della frequentazione di una scuola, di un salotto, di un’accademia. Quel che succede è simile a un moto violento che sembra sedarsi solo quando chi la viva, ne venga come colpito, fino a piangere, o a danzare.

Testo pubblicato a Gennaio nel catalogo- rivista della mostra Futurismoltre, a cura dell’Arch. Giancarlo Pignataro

Carmelo Bene: la chimera

15

Esattamente dieci anni fa moriva Carmelo Bene (Campi Salentina (Le) 1937 – Roma 16 marzo 2002):

La chimera (circa 1913), dai Canti orfici di Dino Campana (Marradi (Fi) 1885- Scandicci 1932)

Non so se tra rocce il tuo pallido
Viso m’apparve, o sorriso
Di lontananze ignote
Fosti, la china eburnea
Fronte fulgente o giovine

Camera verde, sabato 17 marzo: “L’incanto della specie”, di Fiammetta Cirilli

0

a Roma, sabato 17 marzo 2012, alle ore 19:30
in Camera verde (via G. Miani 20)

presentazione della raccolta di racconti

L’incanto della specie
Tre contributi sul grottesco contemporaneo

di Fiammetta Cirilli

(Collana Talìa)

Ineditudini: Giacomo Sandron

9

Poesie

di
Giacomo Sandron

cinque minuti prima dell’inizio
bisogna stare già al proprio posto
aspettando che suoni la sirena
marchiato il cartellino con i tappi nelle orecchie
ci si mette il cuore in pace e si comincia

otto ore filate più una per il pranzo per contratto
ci dovrebbero dare un paio di scarpe antinfortunistica
e dei guanti ma niente allora le mani
cominciano a tagliarsi dal primo mattino
si ricuciono e riaprono conficcate dai cartoni
la lentezza con cui si cicatrizzano
sta lì a significare la pazienza che ci vuole
questa lotta si vince al collasso di una delle parti
allo stesso tempo diventare il loro tempo e combatterlo
ritagliarselo chiudersi nel bagno come scampo tenere duro
arrotolarsi le cicche prendersi un caffé senza timbrare
ingoiare arrotondare la mezzora de scondiòn

A linea xe come ‘na mama
che sempre te rompe i cojoni,
mai te mola, mai te lassa star,
no se stanca, no sta ferma, no sta sita
ta i nidi dee recie se rabalta
un casin sensa fin, sensa pase,
un martel inciodà inte ‘l ciaf
che no ‘l tase, e paroe e sbrissia in goa
e se stua scafoiando, i denti
deventa daduti da oto, da strenser,
che no le scampi besteme de fora
‘l col come quel de un muss che ‘l tira
i polmoni s-gionfi de spussa
sacheti onti dee scovasse
i nervi o tendini rusine
de fero stendi pani par picar i
strassi de quel che vansa de a creansa.
Tute ‘ste monae davanti ai oci,
pensavo, tute ‘ste monae davanti,
tuti i giorni santi, i oci par primi
i se suga, i se mastrussa, i se fissa
orbi come dentro un specio che no specia.

la benedizione quotidiana dell’assegnazione del reparto
deciderà del tuo supplizio se sarà lombare o più su dorsale
se ti tireranno i tendini lungo le braccia o perderai
la sensibilità dei polpastrelli se ti sveglierai
nel cuore della notte continuamente informicolato
da quando ho cominciato a lavorare non cago più come prima
dal naso mi escono solo bruni pezzetti che sembra catrame

Mi, pensavo, no so se ghe a vanto
no so ancora quanto combino
a star qua drento, se no scampo,
se vao ‘vanti co e man ingropae
in tuto ‘sto tormento, me deventarà,
e man, a scuminsiar da i dei,
se i no me parte via, se no
i me se sbrega via, se no
i me se schinsa in qualche pressa,
se i resta al posto loro tacai ae man,
che fa fin stran vardarse e man
e trovarli, i dei, tacai
tuti e diese ancora lì al posto suo,
me deventarà, e man, tochi
de fero o plastega o cemento
mani piconi bone da ninte
bone sol che par dar pache
i brassi come pai, duri altretanto,
e spae me se incricarà par sempre
a schena, se anca meti caso
la resta drita, se meti caso no
la se storse come un saèss batùo
dal vento, se no la se marsise a son
de voltaren, pirulìn,
chissà-cos-che-‘l-xe-para-so, me sa che
la restarà in pie come e case
vecie dei paroni de campagna
scavesae, mese dirocae,
muci de rudinasi tignui in pie
co ‘l spuaso, dura più dura
de la ponta de ‘ste scarpe che
me bate sui dei, dura che gnanca
tuto l’amor dee to man rivarà
a moarla pì, ‘na piera a ramengo,
‘na schena de piera de scarto,
e gambe, a furia de andar su e so
su sta linea, e se piantarà
in ‘sto sempio de posto,
no sarà pì bone de far ‘na corseta
do tiri a baòn, andar in bicileta,
trinche inciodae ta ‘l reparto
i pie no se movarà pì
raìse sensa fruto, pensavo, a testa,
pensavo, a testa, pensavo, a testa,
pensavo, a testa, pensavo, a testa,
pensavo, a testa, pensavo, a testa,
pensavo, a testa, a me parte, no torna.

è con la terza settimana di fila che tutto si uniforma
che finalmente la schiena si rompe
il filo asseconda il turno della sveglia mugugnando meno
si uniformano i pensieri tra le fila dei reparti le bestemmie
rabbiose sfilate a forza dai denti esplosioni
di cristi e madonne che squarciano il petto
e danno sollievo il tempo che durano sono un canto
sono un canto che le mani sono dure per sempre
non basta la crema idratante
non toccano più queste mani non toccano
premono afferrano spingono tirano
non toccano si dimenticano come fare
come posso infilare queste dita
nella bocca della donna che mi piace, come farei,
aprirei delle voragini

Cussì scuminsia, pensavo, un toco
par volta, pensavo, sensa un lamento,
pensavo, cussì devento, pensavo,
un toco anca mi, pensavo, ma
no tanto par dir, pensavo, un toco vero,
pensavo, un toco de tochi, pensavo,
toco dentro tochi, pensavo, tochi
montai su tochi, toco de tochi
strenti co’ altri tochi, pensavo, muci
de tochi compagni, pensavo,
tuti tochi de tochi tuti,
pensavo, tochi tuti quanti

casca tochi pici
casca come strafanici
casca tochi tochini tocheti de pan
casca tuti i tochi da e man
i va par tera se missia ai bissi
se mistura ai strassi
i tochi deventa tocuti deventa fregoeti
deventa granei che no te vedi co i oci
deventa pici, pì pici dei peòci
e i sparisse

Val di Susa, Stoccarda, Wall Street:scopri le differenze

28

di Helena Janeczek

Proteste che vanno avanti per anni, presidi e blocchi ad oltranza, cariche della polizia con centinaia di feriti, qualcuno quasi accecato dai lacrimogeni, manifestazioni a cui affluiscono in 100.000, ripercussioni elettorali, consultazioni- persino referendarie – per risolvere lo scontro tra cittadini e politica. Tutto questo è avvenuto a Stoccarda, capitale di uno dei Land tedeschi più ricchi e conservatori: per non far scavare un tunnel, abbattere un tot di alberi, spendere denaro pubblico per l’ampliamento di una stazione ferroviaria.

Nuovi autismi 17 – La mia faccia

2

di Giacomo Sartori

La mia faccia non si può cambiare. O meglio, forse con le tecniche di   adesso si potrebbe, ma ci vorrebbero determinazione, fiducia nei medici, simpatia per gli ambienti ospedalieri, spregiudicatezza, fede nelle sorti progressive dell’umanità, soldi, coraggio, intraprendenza. Tutti orpelli che mi mancano. E poi mi conosco, sarei altrettanto scontento di quella nuova. Anzi, mi sentirei ancora più beffato, sarei ancora più a disagio. Senz’altro rimpiangerei la vecchia, quella di adesso, perché come dice mia moglie una delle cose che mi viene meglio, come a tutti i nevrotici di una certa gravità, sono i rimpianti. Mi struggerei di nostalgia per la mia faccia svanita nel nulla, mi sembrerebbe di essere infelice perché non l’ho più. Sono fatto così. Senza contare che in fondo ci sono attaccato alla mia faccia di cazzo: