Ezra Pound
The Lake Isle
O God, O Venus, O Mercury, patron of thieves,
Give me in due time, I beseech you, a little tobacco-shop,
With the little bright boxes
piled up neatly upon the shelves
Ezra Pound
The Lake Isle
O God, O Venus, O Mercury, patron of thieves,
Give me in due time, I beseech you, a little tobacco-shop,
With the little bright boxes
piled up neatly upon the shelves
di Giacomo Sartori
Io per mestiere studio la terra. La terra sono le zolle lasciate dagli aratri e i campi desolati l’inverno, la mota sotto le scarpe da lavoro, le pianure, le colline, i vigneti in pendenza, i fianchi delle montagne, i boschi, le torbiere d’altitudine, gli orti e i giardini: tutto quello che non è stato irrimediabilmente cancellato o abraso dall’uomo. È la terra che fa crescere le piante che mangiamo (noi mangiamo piante,
Segnalo la bella iniziativa di Germanistica.net, dove una comunità di lettori sta scegliendo un testo della letteratura tedesca da leggere o da rileggere insieme. Invito tutti a partecipare al gioco.
di Gaetano Bellone
Camminiamo sulla cresta sempre uguale del monte Gorzano. Da quota 1800 dobbiamo raggiungere quota 2400, la vetta con la croce e il manto di neve anche d’estate. I gradoni d’erba che dalla fine della strada dividono il camminante dalla quota sono sempre uguali e ogni 10 metri creano un gioco di prospettive che fa sembrare la vetta a vista. Miraggi continui e cadenzati. Il Gorzano è un monte arcaico, poco frequentato, che ha un tanfo di muschio simile a quello dello scatolone del presepe in cantina. Si supera un gradone e si comprende che la vetta è ancora lontana, è una montagna che ti prende per scoramento. Tra un gradone e l’altro incontriamo Romeo, un giovane pastore macedone. Ci segue da un po’, cerchiamo di evitarlo ma conosce palmo a palmo le traiettorie di chi cammina su questo suo giardino stagionale.
Romeo ha voglia di parlare perché da maggio a settembre non vede anima viva, fatta eccezione per gli altri pastori del rifugio e del capò, il vecchio che dorme in quota con loro per seguire le operazioni e controllare l’operato. Romeo racconta che per tre mesi porta a spasso le pecore e ha una radiolina che porta con sé per compagnia. È felice dell’incontro e vuole assolutamente che restiamo a dormire. “Ammazziamo una pecora, ce la mangiamo sul fuoco”. Io sono restio, Romeo è insistente, ci ha seguiti per un’ora e l’insistenza mi infastidisce. Ho in mente certe storie sui pastori e cerco una via di fuga ma il mio compagno d’escursione vede nell’invito una rara possibilità di applicare gli studi di antropologia. Accettiamo, mio malgrado. Romeo felice trotterella fino allo stazzo: “Devo chiedere il permesso al vecchio”. Aspettiamo osservando il ragazzo che scende fino al rifugio. Torna dopo poco, con la faccia grave. “Dovete andarvene”, ci dice. Siamo perplessi, la faccia non ha più l’entusiasmo dell’incontro, l’espressione è seria e risoluta. Prendiamo la strada verso la vetta. Vediamo che dal rifugio in basso qualcuno ci fissa. È il vecchio: controlla che ci allontaniamo.
Torniamo al rifugio in autunno, quando i macedoni sono ripartiti e il vecchio è tornato a casa, in qualche paese della provincia teramana.
Il rifugio è chiuso malamente con una catena. Entriamo. La stanza è di circa 4 metri per 3. In poco più di 12 mq ci sono tre materassi, coperte di lana ed un pitale, un secchio di latta da 10 litri, sporco di escrementi.
È autunno, facciamo un giro verso Valle Piola, sopra Torricella Sicura. Il borgo, fino a poco tempo fa era in vendita. Ci sono: una chiesa, un casale a due piani ristrutturato e riabbandonato, una specie di scuola più o meno degli anni 60 ed alcune piccole case da contadino, quelle con la stalla al piano terra e le stanze sopra. Qui i pastori stanno fino all’inverno perché non siamo in quota. Venendo abbiamo visto due ragazzi dell’est con le pecore ed un pick-up salire da basso. Il pick-up di solito è il mezzo dei titolari delle pecore o comunque di coloro che salgono a prendere il latte e controllare l’operato dei macedoni. Facciamo un giro nell’edificio di quella che sembra una scuola, la porta è aperta, la struttura sembra reggere. Non ci sono luce e acqua corrente. In una stanza c’è un grosso camino, c’è legna bruciata, asciutta perché il fuoco è recente. C’è una porta chiusa, entriamo. Due bottiglie di pomodoro, un fiasco di vino a metà, dieci litri d’acqua nei fiaschi, un pitale sporco al centro della stanza, due brandine con materassi sottili di lana a righe – quelli che si usavano una volta dalle nostre parti. Fa molto freddo, le tavelle del soffitto hanno il cemento sbrecciato, alcune sono fracassate. Il freddo è pungente, le finestre non chiudono bene. Una stanza ha la porta chiusa a chiave, sentiamo un rumore dentro e ce ne andiamo. Dallo spiazzo dove abbiamo lasciato la macchina si vede una delle finestre della stanza chiusa, è buio e non si vede niente, ma forse da dentro vedono.
Ripartiamo ed incrociamo il pick-up a mezza via. I due proprietari stanno parlando con i due pastori, ci guardano con la faccia seria, come se volessero appuntarci sulla testa un’espressione minacciosa. “Da queste parti non siete desiderati”, questo dicono quelle facce.
Nella Val Chiarino ci sono due rifugi, uno per gli appassionati di montagna, l’altro per i pastori che ci fanno il cacio. Sono dell’est pure loro. Due miei amici hanno pernottato al rifugio di sopra. I due pastori li hanno seguiti per un po’. Si sono fermati a chiacchierare, tante domande, voglia di comunicare. Uno dei pastori è ubriaco, è il suo compleanno. Invita i due amici ad entrare per un bicchiere nel loro rifugio. Una stanza, due brandine con materasso, coperte. Da un lato c’è l’attrezzatura per fare il cacio, il resto del latte lo vengono a caricare per portarlo a valle. Dal lato opposto del rifugio, c’è un pitale di latta, l’odore si mischia a quello forte del formaggio di pecora. Il tizio ubriaco è insistente, i miei amici sono una coppia, forse in virtù del compleanno si è messo strane idee in testa. Tornano al loro rifugio e si chiudono dentro che non si sa mai…
O una volta in Valle Vaccara, raccoglievamo “mazze da tamburo”. Veniva sempre un pastore, ci aiutava a raccogliere, anni fa. In cambio chiedeva monete per telefonare, ne aveva un sacco pieno, ci parlava di un vecchio che dormiva con lui, un capo. Il vecchio non voleva che il pastore telefonasse in Romania e non dava soldi al ragazzo fino a che la stagione non era finita. In buona sostanza gli avevano pagato il viaggio dalla Romania all’Italia, quando era arrivato aveva lasciato i documenti a casa del vecchio ed era salito alla prima quota del pascolo. Una volta a settimana il vecchio veniva col pick-up e lo portava a valle con l’altro pastore per fargli comprare il pane e qualcos’altro, allora il ragazzo cercava di chiamare in Romania perché la giovane compagna era incinta. “Perché il vecchio non vuole che telefoni?”, cambiava faccia.
A ritroso. È aprile 2009, a L’Aquila c’è stato il terremoto. L’Esercito e la Protezione Civile hanno montato le tende, la confusione sta scemando e hanno cominciato a censire la popolazione. È sera, è passata più o meno una settimana dal sisma. L’autostazione di Teramo è piena di ragazzi dell’est, vestiti male e con le facce distrutte, le scarpe logore.
È strano che ci sia tanta gente dell’est, sopratutto è strano in questo momento di confusione, i teramani riempiono le piazze con le macchine piene di piumoni, i posti pubblici sono affollati di famiglie terrorizzate dal sisma. In mezzo ad un tale caos, un assembramento come quello dell’autostazione passerebbe inosservato, se non fosse per i vestiti logori. Mi siedo accanto ad uno molto giovane. Racconta che stava in montagna, sopra L’Aquila, dopo il terremoto lui ed altri non sapevano che fare, se scendere a valle dai proprietari del gregge. Alcuni allora sono scesi nei campi e rimasti fino a che non è iniziato il censimento. Poi sono scappati e hanno avvertito gli altri. I documenti qualcuno ce li aveva pure ma li aveva lasciati al proprietario del gregge. Nell’autostazione ci sono almeno 100 persone, ci sono ancora le vecchie panche di legno al piazzale. Chiedo quante persone ci saranno sparse per le montagne…sgrana gli occhi, alza la fronte come se fosse una domanda sciocca: “Pieno, pieno”.
Qualche tempo fa in provincia di Teramo è morto un giovane pastore, quasi un ragazzino. L’hanno trovato sulla brandina, morto di freddo. Il vecchio proprietario delle pecore, il datore di lavoro, è una brava persona, un lavoratore, quella vita da bestie l’ha fatta pure lui da giovane. Adesso quella vita la fa fare ad altri. Queste cose non si sanno oppure si ignorano, perché quelli lassù non sono uomini, sono pastori.

Nell’immagine: Campo Imperatore, Abruzzo
di Gianni Biondillo
Venerdì pomeriggio osservavo dagli spalti della piscina comunale mia figlia nuotare, avanti e indietro, vasche su vasche, dorso, libero, delfino. Pensavo, sorridendo, che se si fosse trovata naufraga al largo, a riva ci sarebbe arrivata salva. Non sapevo ancora nulla della Concordia. Vedere alla sera in televisione la nave spiaggiata, come un cetaceo che aveva perso la sua rotta naturale, lì, a poco più di cento metri dalla costa, mi aveva fatto vergognare del mio pensiero così futile, per quanto innocente.
Sono un architetto di formazione. Leggevo da ragazzo le pagine di Le Corbusier che esaltava la vita nei piroscafi, città galleggianti, logiche, macchine da abitare, dove la vita associativa, la comunità, trovava la sua libertà nella convivenza. Un mito macchinistico che nascondeva il risvolto della medaglia: la potenza della modernità, il suo sguardo verso il futuro, assomigliava troppo alle ali dell’albatros della poesia di Baudeleaire: al largo, in volo, tutto pare poesia. Ma è partire, è attraccare, è lì l’impedimento, la gravità del corpo, la difficoltà dell’esistenza.
Prima ancora di Le Corbusier è un altro il mito che ci portiamo dentro, che ha segnato il nostro immaginario collettivo: “Sembrava di essere sul Titanic” ha detto una sopravissuta. Esattamente cento anni fa, prima delle certezze positiviste del razionalismo francese. E cento anni dopo ancora dobbiamo fare i conti con questa dolorosa allegoria. C’è qualcosa di illogico, di innaturale, nella enorme dimensione della Concordia a pochi metri dagli scogli. Sembra quasi un modellino abbandonato, un giocattolo smarrito. La conta delle vittime e dei dispersi, ancora in divenire, ci riporta alla realtà delle cose.
“Quando abbiamo fatto le simulazioni di evacuazione della scuola” mi ha detto mia figlia, di fronte alle immagini della tragedia del Giglio, “il vigile ci ha spiegato che più dell’incendio, può fare il panico.” Le indagini della magistratura ci racconteranno come sono andate davvero le cose. Ma a sentire i superstiti sembra evidente una inadeguatezza, da parte del personale di bordo, a gestire l’emergenza. A gestire il panico. Inadeguatezza dovuta a mille ragioni, ma sembra soprattutto causata da una impreparazione di base: marinai che neppure parlavano l’italiano, incapaci di assistere i passeggeri, cavi che si spezzavano, giubbotti salvagente insufficienti. Tanto non affonda. (Penso a tutte le volte che ho snobbato il personale di volo mentre mi spiegava come comportarmi in caso di emergenza: tanto non cade). La fiducia che riponiamo nella tecnologia, di questi pachidermi dei quali nulla sappiamo – come volino nel cielo, come attraversino i mari – è al limite dell’incoscienza.
Colpisce, fra le tante, l’immagine di un capitano che abbandona la nave prima che tutti vengano messi in salvo. Non poteva accadere, non doveva. Ci sono regole che non possono essere infrante, doveri che non possono essere elusi. Ne va della nostra civile convivenza. Non basta aver simulato in qualche corso d’aggiornamento una emergenza, bisogna dimostrarsi degni del ruolo. Non sopporto l’idea che questa tragedia si dimostri la facile metafora di una società, quella italiana, capace di creare una meraviglia cantieristica come la Concordia ma che allo stesso tempo permetta poi venga governata da addetti manchevoli, inadeguati. So di storie di eroismo, su quella nave, e di egoismi spiccioli. Per ora contiamo le vittime, ma non dimentichiamo troppo in fretta questa lezione.
“In caso di incendio” ha proseguito mia figlia “il vigile mi ha assegnato il compito di capo fila. Porterò io l’intera classe nel punto di raccolta.” So che farai bene il tuo compito. Ho fiducia nelle nuove generazioni. Mi fido di te, capitano. Oh, mio capitano.
[pubblicato ieri su L’Unità]
di Andrea Inglese
Alessandro Broggi fa parte di quel drappello di autori che, in questi ultimi anni, hanno riflettuto criticamente sulla nozione di genere poetico e hanno approntato delle strategie per neutralizzare molte delle sue pretese tematiche, stilistiche e lessicali. Broggi, per utilizzare una metafora del poeta e teorico francese Jean-Marie Gleize, è uno scrittore intento ad “uscire” dalla poesia. Questa scelta appare già evidente nella predilezione per le prose brevi, che costituiscono, ad oggi, la parte più cospicua della sua opera edita.
(Di seguito due pezzi usciti rispettivamente a mia firma su l’Unità e a firma di Christian Raimo su Il Manifesto riguardo la questione biblioteche, diffusione della cultura ed enti locali. Lo spunto è stato il libro pubblicato nel dicembre scorso da Antonella Agnoli per Editrice Bibliografica)
di Chiara Valerio e Christian Raimo
#1 (Chiara Valerio)
“La biblioteca è un servizio di base, trasversale, che offre qualcosa a tutte le categorie di cittadini: vecchi e giovani, professionisti e disoccupati, casalinghe e immigrati. Copre un arco di interessi vastissimo e quindi è un sostegno vitale anche per altre strutture culturali come i musei, i teatri, i cinema. Occorre promuovere il coordinamento e l’integrazione fra tutti questi servizi.” Caro sindaco, parliamo di biblioteche (Editrice Bibliografica, 2011) è un altro tassello che Antonella Agnoli, bibliotecaria et alia in un paese in cui (quasi) nessuno legge, sottrae al muraglione ideologico che sta intorno all’idea di cultura, di intellettuale e di privilegio culturale e che è il principale fortilizio che soffoca la mobilità tra le classi sociali nel nostro paese. Ed è quindi un altro tassello aggiunto al concetto di democrazia. Se ne Le piazze del sapere.
di Francesco Permunian
Girolamo Toppi (paròn Giro, come era noto nel paese e in tutto il circondario) aveva perciò l’abitudine di passeggiare in casa con passo felpato e guardingo, fidandosi poco anche di transitare da una stanza all’altra. Il semplice atto di aprire una porta costituiva un problema, visto che poteva spalancargli d’incanto abissi sconosciuti.
Le finestre erano chiuse da anni, il portone d’ingresso sbarrato e apribile soltanto dall’interno. Per uscire, sua moglie era costretta a sgusciare da un pertugio che dava sul retro della casa. Al rientro, doveva suonare il citofono e pronunciare, con voce chiara e squillante, la formula scaramantica Chi non vigila è perduto!
Ombra tra le ombre, Girolamo vagava inquieto nella sua fortezza impugnando una piccola pila che dirigeva con sospetto verso il soffitto e nei cantoni più bui. A rovistare tra sporcizia e ragnatele, titubante eppur smanioso di scoprire chissà quale minaccia, chissà quale macchia o infamia oscura.
Denique in aethere non arbor, non aequore in alto
nubes esse queunt nec pisces vivere in arvis
nec cruor in lignis neque saxis sucus inesse.
certum ac dispositumst ubi quicquid crescat et insit.
sic animi natura nequit sine corpore oriri
sola neque a nervis et sanguine longius esse.
[…]
quod quoniam nostro quoque constat corpore certum
dispositumque videtur ubi esse et crescere possit
sorsum anima atque animus, tanto magis infitiandum
totum posse extra corpus durare genique.
quare, corpus ubi interiit, periisse necessest
confiteare animam distractam in corpore toto.
quippe etenim mortale aeterno iungere et una
consentire putare et fungi mutua posse
desiperest […]
di Daniele Ventre
15 gennaio 2012
Il problema del mito è un hic Rhodus hic salta per molta parte della cultura contemporanea.
È nel mito che per esempio Marcel Detienne finisce per scorgere una «specie introvabile, oggetto misterioso dissolto nelle acque della mitologia», una sorta di schermo allegorico su cui proiettare «ogni realtà metafisica che si voglia» in modo da fare della mitologia stessa «la saggezza superiore di un continente fantasma» (1).
(Dopo aver presentato qui un episodio del suo recente lungometraggio “Apocalisse”, ho proposto a Francesco Dal Bosco di intervistarlo, e ha accettato. GS)
GS Come sei arrivato all’idea del tuo “Apocalisse”?
FDB Qui a Trento, dove abito, mi capita di passare spesso in una zona “occupata” da vagabondi, senza casa, tossicodipendenti, alcolisti, anime abbandonate al loro destino, che non hanno più niente da perdere…

Gramsci e il jazz
di Gigi (Luigi) Spina
[Questo articolo, apparso in Belfagor 44/4, 1989, pp. 450-454, è stato accolto positivamente da studiosi e storici del jazz. Cito in particolare: Adriano Mazzoletti, Il jazz in Italia. Dalle origini alle grandi orchestre (2004); Franco Bergoglio, Jazz. Appunti e note del secolo breve (2008); Claudio Loi, Sardinia Hot Jazz (2011). Per questo, grazie a Francesco Forlani e con l’autorizzazione di Carlo Ferdinando Russo, direttore di Belfagor, lo ripubblico con piacere su Nazione Indiana. G.S.]
«Il buddismo non è un’idolatria»: è questa la seconda osservazione che Gramsci sottopone a quel tale «evangelista o metodista o presbiteriano», durante una «piccola discussione ‘carceraria’ svoltasi a pezzi e bocconi», di cui riferisce alla cognata Tania, per farle «passare il tempo», nella lettera del 27 febbraio 1928.
di Marco Rovelli
(Ho rintracciato questa vicenda in rete. Per adesso non è ancora uscita dal perimetro sardo. Grazie alla rete lo sta facendo. Ne ho scritto oggi sull’Unità, facciamo che diventi un caso nazionale.)
Baye, in senegalese, significa padre: non ha un senso religioso, ma indica una persona rispettata, considerata saggia dai suoi conoscenti. Abdou Lahat Diop è chiamato Baye: ha trent’anni, sta in Italia da cinque. Abita in provincia di Oristano. O meglio, abitava. Fino al 16 dicembre. Quel giorno si appartò a pregare, lungo una strada isolata. Baye appartiene alla confraternita dei murid, il ramo sufi dell’Islam senegalese, più in particolare è un baay fall (soldato murid), che ha consacrato la sua vita a Dio. Era arrivato a uno stato estatico di unione mistica, con pratiche ascetiche di autoinduzione del dolore mediante un bastone. In quel momento è passata una pattuglia delle forze dell’ordine, che lo hanno interrotto, chiedendogli le generalità. Non sappiamo com’è andata, a quel punto, sappiamo solo che è stato immobilizzato e arrestato per resistenza a pubblico ufficiale e rifiuto di fornire le proprie generalità. Il giorno successivo c’è il rito direttissimo, e il giudice ordina una perizia psichiatrica.

di Alessandro Bertante
[Questa invettiva è uscita su Saturno, il 6 gennaio 2012. Dato che parla di un tema che ha a che fare con la responsabilità del lettore, la rigiro qui su NI nella speranza che se ne possa parlare senza vomitare dappertutto. Ovvio che, essendo un pezzo di un ospite non avrò problema alcuno a bannare, cancellare, bloccare, ogni tipo di inutile insulto o commento personalistico. – Di seguito al pezzo di Bertante, una chiosa, uscita oggi sull’Unità, di Marco Rovelli. G.B.]
Sono cinquanta, si conoscono tra loro e si odiano. Imperversano a tutte le ore e sembra non abbiano altre cose da fare che scrivere commenti, anche fino a tarda notte. Si ricordano di tutto, di ogni puntata precedente, e non perdonano. Insultano, minacciano, s’azzannano e soprattutto sono convinti che dietro ogni scelta editoriale ci sia il fiato nero di una consorteria di potenti a loro ostile. Perché sono vittime. Sono i commentatori dei blog letterari e prima o poi se pubblichi un testo qualsiasi di narrativa, saggistica o poesia, devi averci a che fare.
Fino a qualche anno fa sarebbero stati naturalmente confinati a rimuginare nelle loro anguste camerette ma adesso grazie alla caotica sarabanda del web 2.0 – nato con la speranza d’allargare ogni possibilità e diventato asfittico come uno sgabuzzino per le scope – sono liberi di spargere veleno senza pagare mai dazio. Da quasi un decennio questi cinquanta valorosi impediscono che nasca un serio dibattito letterario in rete, inquinando il lavoro di molte persone oneste e preparate (e penso a Nazione Indiana, Lipperatura, Vibrisse, Sul Romanzo, Le parole e le cose, Satisfiction, Scrittori precari) che stanno faticosamente cercando di creare nuovi luoghi di autorevolezza critica.
In nome di una bizzarra interpretazione del concetto di libertà d’espressione, i cinquanta valorosi si distinguono per l’astio e per la spontanea tendenza alla bassa insinuazione, sempre riferita a questioni private dell’autore preso di mira. Difficile che parlino del contenuto, spesso lo ignorano apertamente, rivendicando questa loro scelta in modo sdegnoso. Ma ciò nonostante s’esprimono con una violenza verbale sconcertante. I più cattivi e i più laidi sono anonimi, ovvero si nascondono sotto diverse e mutevoli identità, con le quali partecipano contemporaneamente al tafferuglio. Perché la rete è l’unico luogo del vivere civile dove l’insulto anonimo sia considerato sintomo – sgradevole ma certo dinamico – di democrazia e non un’infamia come da qualsiasi altra parte.
Per loro non esiste più nessun valore letterario condiviso ma solo mafie e raccomandazioni, favori e reciproci servilismi. Non esiste un canone estetico ma tutto è confuso in un calderone di provocazioni, ripicche e frustrazioni mai risolte. Si commuovono solo di fronte alla piattezza dell’orizzontalità, quella desolante mediocrità che ha concesso anche a loro di avere una voce. Ma sullo sfondo è facile riconoscere il ben noto linguaggio qualunquistico dell’Italia gretta e provinciale, quella deriva etica e civile che ci contraddistingue da anni e che è diventata oramai impossibile da sopportare.
***
di Marco Rovelli
La scorsa settimana Alessandro Bertante ha pubblicato un articolo sul Saturno, l’inserto culturale del Fatto quotidiano, intitolato “Seminatori d’odio”, dedicato a quella cinquantina di troll – disturbatori della comunicazione in rete – che “si distinguono per l’astio e per la spontanea tendenza alla bassa insinuazione, sempre riferita a questioni private dell’autore preso di mira. Difficile che parlino del contenuto, spesso lo ignorano apertamente, rivendicando questa loro scelta in modo sdegnoso”. La cosa tocca anche il sottoscritto, attivo in rete da molti anni ormai, e dal 2006 nella redazione di Nazione Indiana. Il problema è doversi confrontare da pari a pari con persone che hanno deciso – dall’alto del loro nickname, della loro identità mascherata – che al tuo ragionamento non contrapporranno un altro ragionamento, ma solo attacchi, entrate a gamba tesa, insinuazioni, insulti. Rivendicando pure sfacciatamente il diritto a farlo. Come, per fare un esempio, quella volta in cui ho pubblicato un articolo del mio quasi omonimo Marco Revelli. Al primo commento uno dei più aggressivi commentatori interviene in tono irridente e liquidatorio, senza contrapporre uno straccio di ragionamento. Più avanti, però, fa marcia indietro: “Non mi ero accorto che l’articolo era dell’esimio Accademico Marco Revelli. L’avevo banalmente confuso con Marco Rovelli. Con l’Accademico Revelli non mi va di polemizzare in modo becero”. Rovelli, invece, che di solito si sporca le mani in rete, dove il rapporto non può che essere da pari a pari, lo si può tranquillamente prendere a pesci in faccia. Quando poi li banni, ovvero gli impedisci di partecipare ulteriormente alla discussione, questi ti danno pure del fascista. E non c’è davvero atteggiamento più fascista di questo.

Effe Kappa. Nuove poesie
di Franz Krauspenhaar
Editrice ZONA,
Una nota di effeffe
“Sporco sono, Milena, infinitamente sporco,
perciò faccio tanto chiasso per la purezza.
Nessuno canta con maggiore purezza
di coloro che stanno nell’inferno più profondo:
ciò che chiamiamo il canto degli angeli è il loro canto”.
Franz Kafka
Quando ho cominciato a leggere il nuovo libro di poesie di Franz, dai primi componimenti fino alla fine, risuonava in me questo passaggio della corrispondenza di Kafka con Milena. Lo avevo trascritto per la mia tesi di laurea in filosofia dall’altisonante titolo “La questione della colpa in Karl Jaspers”, tesi discussa più di vent’anni fa e che, ora, leggendo effekappa, mi sono andato a riprendere in fondo a un cassetto per ritrovare la citazione, precisa e calzante. Ci sono degli autori in Italia, non tanti in verità, la cui opera non è carriera, ovvero successione di tappe che aspirano a un traguardo, ma chiasso, vacarme, bruit, rumore. Frequento le pagine di FK da qualche anno ormai e so due cose, almeno. La prima, è che “tanto rumore” non è mai per nulla, come non è per nulla nessuna rivolta per quanto destinata al fallimento, alla sconfitta. Perché uno scrittore che abbia a cuore la letteratura non può che sposare cause perdute, sedurle, desiderare di scoparsele e amarle al punto di farsi detestare per tanto amore, privarsene con un moto d’odio, certo, ma sempre per quello stesso amore. La seconda è che l’opera di effekappa, dai romanzi ai racconti, dalle poesie fino alle esternazioni nei social network sono come una infinitamente aperta correspondance . Franz scrive a suo padre, al fratello, alla donna amata, ma soprattutto al lettore, ogni volta, facendolo sentire interlocutore imprescindibile. Le sue sono corrispondenze dal carcere, dal baratro, dal buio, perché in letteratura non si può prescindere dall’inferno, nemmeno quando le pagine più premiate bruciano ai fuochi fatui delle classifiche e della notorietà a botte di televisione o di illuminati critici, al neon, néant. Delle lettere poetiche che compongono il libro ho scelto quella al suo Alter Ego, Ego Alter, in omaggio all’amico che sento, di tanto in tanto, Franz e a quello che mi porto dentro dalla più crudele infanzia, Kafka.
Kafka
Franz, quanta disperazione in quell’insetto
che ronzava sulla mia testa, una specie
di mosca viola, la metamorfosi di un sogno
all’apertura di un libro, giovinetto come
l’angoscia di chi non sa, di chi dietro
le curve dell’incanto spegne fuochi
polverizzati, senza un significato.
13 January – 28 February
Salisbury Arts Centre, Bedwin Street, Salisbury, SP1 3UT.
Artists: Francesca Lazzarini and Maria Francesca Tassi
Curated by Sara Falanga
www.salisburyartcentre.co.uk

F.Lazzarini, Aleph series, 2011, photograph on glass

M.F. Tassi, The Creation, spolvero, paper

M.F.Tassi, Pondering possibilities, 2011, china ink on paper
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In the deconsecrated 13th century St. Edmund’s Church, where Salisbury Arts Centre is housed, this exhibition traces what links the place’s past to the present, narrating the shift from church to arts centre. It emphasizes the coexistence of old and new elements, in a context that across time has remained a meeting place for the Salisbury community. Visitors will confront the mechanisms of vision and memory in an immersive site-specific installation, and will be led to reflect on Deconsecration as act of transposition from place dedicated to worship to one dedicated to the arts.
Francesca Lazzarini (1978, Italy) presents an interactive installation consisting of a giant Camera Obscura, where people can discover the enchantment of the light outside projecting an upside down image of the external environment. The work is an invitation to reflect on our own vision of the ancient church as contemporary art centre. It confronts us with the mechanism of our seeing, perceiving and remembering, becoming itself a metaphor of the memory’s locus: the mind. Lazzarini also presents pinhole photographic works, a technique producing an optical effect very close to human sight. She offers her own vision of the venue, emphasized by the unusual use of glass as photographic printing surface, a nod to the stained glass windows of the church.
Maria Francesca Tassi (1977, Italy) creates drawings using the spolvero technique over the modern white walls within the church, suggestive of typical decorative practices used to realize frescoes since the medieval period, but adopting modern themes peculiar to the building’s new employment. Some paper sculptures complete the installation in a unique and continuous dialogue with the singular hosting environment. These works tell what the building preserves of its ancient function mixed up with elements belonging to the modern art centre, they tie the old to the new through fragile and temporary materials, which trace softly what the building shows: the memory of its space.
The exhibition will be completed by an online archive of collected images and anecdotes from the venue’s history, contributed by local residents, who are invited to bring personal photographs and found images of the church across the decades to a Memory Amnesty on Saturday 14th January.
a Milano, lunedì 16 gennaio 2012 – ore 21:00
Libreria Popolare (via Tadino 18)
READING NON ASSERTIVO
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nuova prosa
Lettura di testi inediti di
Daniele Bellomi Alessandro Broggi Marco Giovenale Manuel Micaletto Michele Zaffarano
di Antonio Sparzani

Vi sarete chiesti senz’altro, voi, fedeli o non fedeli lettori di nazione indiana, la ragione del nome Murene, scelto per la nostra elegante deliziosa collana cartacea (che in un prossimo futuro porterà a tutti noi nuove meraviglie), e sarà bene quindi cominciare a dirvene almeno una, di queste ragioni, ché dalla icosaedrica mente indiana,
[Il nuovo numero dei Quaderni speciali di Limes, dedicato alla Svizzera, contiene una sezione letteraria a cura di Camilla Miglio nella quale, accanto a testi di Adolf Muschg e Thomas Hürlimann, si possono leggere queste Considerazioni personali sulla lingua di Friedrich Dürrenmatt. M.S.]
Friedrich Dürrenmatt / traduzione di Michele Sisto
Io parlo in bernese e scrivo in tedesco. Non potrei vivere in Germania perché lì le persone parlano la lingua in cui scrivo, e non vivo in Svizzera tedesca perché lì le persone parlano la lingua che parlo anch’io. Vivo in Svizzera francese perché qui le persone non parlano né la lingua in cui scrivo né quella che parlo.

di
Gigi Spina
In the mood è un brano capace di attraversare il tempo. Con Glenn Miller, naturalmente, cui James Stewart prestò volto occhialuto e figura dinoccolata nel film di Anthony Mann (1954). Stephen King ne ha fatto la colonna sonora, a prova di ucronia (o di alternative history, se si preferisce), del recentissimo 22/11/63 (2011). Claudio Loi lo fa risuonare, quasi per magia, in una ‘cimiteriale’ strada di Cagliari, alla fine del ’43. Siamo alle pagine 31-32 dell’affascinante e coinvolgente Sardinia Hot Jazz.Le origini del jazz in Sardegna da Antonio Gramsci a Marcello Melis, con interventi di Franco Bergoglio e Giacomo Serreli, Aipsa edizioni, Cagliari 2011. Loi attinge alla testimonianza di Giuseppe Fiori, raccolta e ‘perfezionata’ da Giuseppe Podda: non era un disco, ma Glenn Miller in carne e ossa con la sua orchestra, che provava lo spettacolo da tenere per le truppe americane. In questo traffico a doppio senso, fra jazzisti non sardi che vanno a suonare in Sardegna e jazzisti sardi che emigrano, potrebbe condensarsi la storia delle origini del jazz nell’isola, ricostruite con passione e meticolosa documentazione da Loi.

Ma c’è un modo di pensare e di suonare il jazz che abbia caratterizzato o caratterizzi la Sardegna? La domanda non è peregrina, e fa il paio con quella che si poneva Alberto Rodriguez, uno dei protagonisti forti di questa storia (p. 154), a fine 1968: «cosa può fare allora un musicista che sta in Sardegna e si interessa di jazz?». Il dubbio gli veniva dalla vicenda di una delle figure più rappresentative del jazz italiano (e sardo) della seconda metà del secolo scorso, il bassista Marcello Melis (1939-1994), combattuto «fra l’attaccamento alle radici e la voglia di disincagliarsi da una realtà troppo statica». Perché è vero che gli italiani il jazz ce l’hanno nel DNA, come sosteneva Renzo Arbore (p. 103) nella presentazione del box dei Marc 4, il gruppo di cui faceva parte il chitarrista cagliaritano Carlo Pes, ben presto emigrato anche lui nella capitale; ma dal certificarne la presenza a metterlo in atto, dal dire al suonare, insomma, c’era davvero di mezzo il mare che separava l’isola da città, luoghi e locali molto più pronti a far vivere e dar da vivere a musicisti nati in Sardegna.
La ricerca delle radici, si sa, nasce dalle crisi di identità, ma anche, per converso, dal raggiungimento di un’identità forte, di cui si vogliono rintracciare percorsi di formazione. Qualche anno fa è uscito, ad esempio, Vesuview jazz. Tracce di jazz in Campania: dal 1920 al Nuovo Millennio, di Gildo De Stefano, (Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1999). È, dunque, il jazz contemporaneo in Sardegna, così fortemente caratterizzato da presenze e iniziative consolidate (è stato lo stesso Claudio Loi a scriverne in Sardinia jazz.Il jazz in Sardegna negli anni Zero. Musica, musicisti eventi, discografia di base, con interventi di Paolo Fresu e Stefano Fratta, stesso editore, 2010), ad esigere, se non un albero genealogico – che per il jazz, forma musicale libera quale nessun’altra, stonerebbe -, una galleria random di ritratti, punte di eccellenza che si stagliano come nuraghi.
A essi il jazz che oggi si suona in Sardegna può guardare con orgoglio, forse anche per riscattare le difficoltà del passato, quelle che Loi fa riaffiorare nelle sue pagine attraverso le parole degli stessi protagonisti, le scelte di emigrare perché la situazione sembrava stagnante, in particolare negli anni Sessanta (p. 129), anche se è proprio in quel periodo che, soprattutto grazie alla coppia Alberto Rodriguez – Marcello Melis, ma anche a figure quali Bruno Massidda (p. 139), si comincia a intravedere un’apertura della cultura jazzistica locale ai ‘suoni del mondo’. Ma il percorso è ancora tortuoso e nella figura di Marcello Melis, cui Loi dedica quasi un quarto del suo volume, si esprimono le tensioni feconde che portano al jazz odierno. Sua la profonda sensibilità verso il jazz come musica di minoranza (era Alberto Rodriguez a riportarne il pensiero, p. 194), come la musica etnica sarda, con radici profondamente popolari.
I nomi di questa storia sono molti, non solo quelli che ho citato finora. Loi ricorda giustamente (p. 118) che «la storia del jazz in Sardegna e in Italia è fatta anche di eventi minori, di personaggi di cui non si conosce sufficientemente la provenienza e l’origine. Talvolta un cognome, altre un luogo costituiscono piccoli indizi per accreditare qualche rapporto con l’isola». Vi sono, infatti, nel libro, accanto a presenze ben note, anche se colte in frequentazioni e passaggi inediti o poco conosciuti (Fred Buscaglione, Jula De Palma, Lucio Dalla), pagine autobiografiche intense e commoventi (Gianfranco Contu, Ninni Manca), nomi da sottrarre a un immeritato oblio (Franco Pisano). E ancora tanti altri nomi, più o meno famosi, che costituiscono le tappe di un viaggio nel tempo che Loi fa iniziare non dalle note di un musicista né dalle benemerite trasmissioni di Radio Sardegna, ma dalle riflessioni di un intellettuale sardo, di un pensatore politico fondamentale per la storia della cultura italiana, Antonio Gramsci. Qui non posso a fare a meno di denunziare, come fanno i ‘bravi’ recensori, il mio conflitto d’interessi, essendo autore di un articolo su Gramsci e il jazz, apparso su Belfagor più di venti anni fa e positivamente citato da studiosi e storici del jazz (da Adriano Mazzoletti a Franco Bergoglio, allo stesso Claudio Loi): grazie a Francesco Forlani ora verrà ripubblicato su Nazione Indiana il 15 gennaio.
Da Gramsci a Marcello Melis, dunque, fino ad Antonello Salis e Paolo Fresu negli anni ‘Zero’, pensiero e suono si sono fusi in una forma espressiva che rimane una delle più originali e libere del secolo che abbiamo alle spalle e di quello che si è aperto: forse ci è servito e ci servirà ancora ad attraversarne le asprezze e le miserie.
E per finire, un tentativo di risposta, con l’aiuto della filologia classica, a un dubbio di Claudio Loi: «Pare che agli inizi del secolo i negozi di strumenti musicali non esistessero ancora e la vendita di questi ultimi era opera di commercianti di vario genere e – non si capisce perché – dei vari barbieri sparsi per la città [Cagliari] che avevano a disposizione le uniche chitarre della città e altri strumenti musicali» (p. 27, corsivo mio). Ora, chiamando a testimoni gli autori greci (Aristofane, Lisia, Teofrasto, Plutarco) e autocitandomi (Il chitarrista che c’era …, in Annali dell’Università di Ferrara – Sez. Lettere, N.S. 3, 2002, pp. 157-163), posso affermare che sin dall’antichità greca la bottega del barbiere è il luogo dove si trova di tutto, dalle notizie alle cose più disparate, è il luogo dove si chiacchiera (una sorta di bar dello sport d’altri tempi) e forse si suona anche. Non solo: il mio articolo era una recensione a un bel romanzo di un amico e collega filologo classico e antropologo, Maurizio Bettini, In fondo al cuore, eccellenza (Torino 2001). Personaggio di rilievo del romanzo è Renzo Braçes, cerusico e barbiere in Monterey. Ebbene, Renzo è anche un buon suonatore di chitarra, di chitarra ‘battente’. Ma qualche anno prima, in un saggio ‘intrigante’, I classici nell’età dell’indiscrezione, Torino 1995, Bettini aveva confessato (p. 77): «Ma a Casale io frequentavo soprattutto Renzo, il barbiere. Renzo era uno degli ultimi barbieri chitarristi d’Italia». Insomma, pare che fra barbieri e chitarre la simbiosi sia naturale!
di Azzurra D’Agostino
(Per il bicentenario della prima pubblicazione delle fiabe dei fratelli Grimm, ho chiesto ad alcune scrittrici e scrittori un pezzo sulla loro fiaba preferita, o quella che ricordano meglio, che hanno letto e ascoltato da piccoli oppure scoperto o riscoperto da adulti. Li pubblicherò con cadenza spero settimanale, iniziando proprio con una storia dei due fratelli dell’Assia. f.m.)

Meno di cinquemila anime. Una chiesa parrocchiale. Un convento dei frati. Una piazza. Intorno, quasi dovunque, boschi. Qui è dove sono nata, un paese imborghesito della vecchia Emilia che fu contadina. Nella piazza, vicino a quell’edificio che viene chiamato “Torre del Fascio”, sta una biblioteca. Negli anni ’80 era gestita, o meglio presidiata, da un signore che a noi bambini faceva un po’ paura. Burbero, serio, sembrava che non fosse per niente contento quando entravi in biblioteca, come se lo distogliessi da qualcosa di molto importante che stava facendo. Non c’era, ho scoperto allora, una vera e propria catalogazione dei volumi. Anni luce dai software di prestito interbibliotecario venuti dopo. Il bibliotecario aveva un suo ordine, piuttosto creativo, e una sua modalità di catalogazione – ai più inesplicabile. In sostanza solo lui sapeva dove stavano i libri, quali erano presenti, quali erano in prestito, quali nel sottoscala degli uffici del Comune. Compilava delle piccole schede, come si faceva allora, con una BIC senza cappuccio, in una grafia chiara e minuta.
Mia madre mi aveva spiegato cos’è una biblioteca e siccome mi piaceva leggere mi aveva accompagnato e mi era stato insegnato come chiedere in prestito i libri. Mi sembrò una grande scoperta e una incredibile invenzione. Il bibliotecario mi pareva un essere con un grande potere e che meritava tutto il mio reverenziale rispetto, sebbene nei primi tempi dovessi vincere la mia repulsione nell’avvicinarlo, visto l’evidente disprezzo che doveva avere per me in quanto essere umano e, per di più, infante.
Scartabellava in una cassettina piena di schede, estraeva la mia e, quando noleggiavo o restituivo un libro, si metteva a scrivere. Anni dopo avrei riletto quella stessa scheda, grazie a un amico che fu mandato a fare servizio civile in biblioteca (quando c’era ancora la leva obbligatoria, ulteriore retaggio di un altro secolo) e mi sarei stupita di non ricordare che pochissimi dei molti libri letti.
Quello che succede nell’infanzia è qualcosa che rimane e che continua a lavorare dentro per tutta la vita. Ti influenza, ti condiziona, ti tiene sotto scacco – perché da grande quasi nulla della magicità del mondo ti rimane, ti restano solo i gusci delle cose, diventati un groviglio inesplicabile, e ciò che da piccolo ti era amabilmente oscuro diventa un modo di affrontare le cose in cui cerchi riparo. Un riparo spesso fragile, che rende gli accadimenti della tua origine come delle specie di premonizioni.
Oggi più che mai, quando penso agli artisti che amo e al destino generale dell’arte, non posso che sentirmi vicina agli spelacchiati e negletti animali da cui rimasi tanto affascinata la prima volta che lessi “I musicanti di Brema”, quando trovai le illustrazioni del libro preso in prestito alla spartana biblioteca di Porretta così diverse dalle colorate protagoniste delle serie giapponesi proposte da “Bim Bum Bam”. “Pìolo” Bonolis poco più che ventenne passava con noi i pomeriggi insieme a un pupazzo rosa shocking, presentandoci saghe di eroine orfane o comunque piene di drammi – “Georgie”, “Kiss Me Lycia”, “Lovely Sara” e tutte le altre – mentre in apertura Cristina D’Avena cantava garrula e rampante sigle a cui seguivano, dopo pochi minuti, pubblicità di prodotti come “Crystal Ball” e “Dolce forno”.
I disegni dei “Musicanti” invece erano in bianco e nero, direi inchiostrati a china, ombreggiati in una fitta texture che era spaventosa quanto il folto del bosco minaccioso in cui raminghi andavano i quattro disgraziati protagonisti, dei cui destini tremante e solitaria mi occupavo.
Leggere era diverso dal guardare i cartoni giapponesi, che pure ho molto amato. Leggere era come respirare, nel senso proprio fisico di sentire che qualcosa entra dentro di te e va in posti che tutto sommato non conosci. Forse la lentezza della lettura, o il lasciarti grande spazio per creare tu stesso tutto ciò che le parole non dicono, ha fatto sì che le fiabe mi risultassero sempre molto più temibili e paurose del cartone più violento.
In particolare, i “Musicanti” mi fecero grande impressione e hanno probabilmente condizionato la mia affezione estetica per i cosiddetti loser. La mia solidale simpatia per Charlie Brown e il Monty di “Robotman” prima, e per Lebowski o Barney Panofski poi, credo abbia qualcosa a che fare con questa fiaba.
A rileggerla oggi, fa davvero impressione per le corrispondenze che ha con buona parte delle questioni attorno alle quali mi arrovello da anni.
Il tutto comincia con un asino che, dopo essere stato sfruttato per una vita, scappa dal suo padrone perché si rende conto che questi vuole farlo fuori visto che non è più in grado di lavorare tanto come prima. E già qui si potrebbe dare il via a infinite dissertazioni sociopolitiche e umanitarie. Ma non amo più di tanto questo genere di discorsi, in cui si rischia sempre – se non si è dei veri esperti, o dei pensatori raffinati, cosa che non sono – di fare la fine del personaggio di Jodie Foster in “Carnage”. Ti metti nei panni del poveraccio e finisci a parlare del terzo mondo, una cosa che non si può sentire.
Ma cosa pensa di fare l’asino, giunto a tale drammatica svolta della sua vita?
Nientepopodimeno che diventare un musicista. Che faccio, si dice, ora che non ho casa, né lavoro, né più niente? Vado a Brema, così posso entrare nella banda municipale.
La naturalezza e l’ingenuità con cui l’asino prende questa ferma decisione – mettendosi direttamente in marcia per Brema – è la fede nell’utopia propria dell’artista, di colui che non ha nulla da perdere pur perdendo tutto. Negletto per negletto, mendicante per mendicante, l’asino sceglie la banda municipale, certo che lo accoglierà. Non si fa domande, semplicemente prende e va, spedito, verso la banda intesa come una comunità che non esclude a priori qualcuno perché non è vincente, fatto di un’altra stoffa, o incapace di fare qualunque altra cosa all’infuori di quella.
Si potrebbe obiettare, a questo punto, che troppi, oggi, chiedono asilo nella banda, divenuta ormai refugium peccatorum di troppi sedicenti artisti. La questione è mal posta: entrare nella banda non significa poi poterci restare; talmente è dura la sua legge, che chi è un impostore se ne esce da sé sotto il peso della storia. È il piglio dell’asino, la sua risposta alla “chiamata” direbbe quello, il suo agire convinto che quella è la sua meta, a essere interessante. Una meta su cui non spreca parole di desiderio, dubbio, o sogno: non “vorrebbe” entrare nella banda municipale. Lui ci va direttamente, perché quello è l’unico destino che riesce a pensare per sé.
E quindi eccolo per strada, verso Brema, dove mano a mano incontrerà altri disperati – che diventeranno suoi compagni di strada.
È da notare come per tutti costoro (l’asino, il cane, il gatto, il gallo) andare o no a Brema è una questione di vita o di morte. Gli uomini con cui questi animali vivevano li hanno tutti condannati al peggio: li vogliono accoppare, far fuori, cucinare magari. E questo perché loro, gli animali, sono adesso inutili. Non sono in grado di collaborare al procedere del sistema inteso come meccanismo produttivo. Quale più precisa metafora dell’artista nella società?
L’unico, è il gallo, che sarebbe buono da mangiare: ma questo canta e canta, strepita di protesta, non si piega all’idea di andare in pasto ai padroni. E alla fine si aggrega alla compagnia, dove anche i cliché su chi è amico e nemico, su cosa è vero o falso, sono rotti. Il cane e il gatto, con naturalezza, si sono uniti all’asino, che accoglie il gallo con lo stesso entusiasmo del naufrago: “vieni piuttosto con noi, andiamo a Brema; qualcosa meglio della morte lo trovi dappertutto; tu hai una bella voce e, se faremo della musica tutti insieme, sarà una bellezza!”. Alla morte a cui condanna la società, si accosta e in un certo senso contrappone la bellezza, e via che vanno i quattro poveracci insieme.
La notte nel bosco non è semplice. Il bosco è tutto un fruscio, tutto una minaccia, un protendersi di rami e di presagi. Si accoccolano insieme, ma la paura è tanta. Dal ramo dell’albero il gallo vede in lontananza una luce.
La me bambina che leggeva, pensava che finalmente avrebbero trovato un riparo, una svolta nel loro destino tanto sfortunato, una casetta deliziosa come quella della “dolce signora Minù”.
Ma chi ti trovano, spiando dalla finestra dentro la casupola che infine raggiungono (bellissima l’illustrazione degli animali uno sopra l’altro, in una piramide instabile e metamorfica)? Un bel covo di briganti che gozzovigliano. Amaro e pieno di insidie il destino di chi è in cammino.
Il desiderio di un posto dove stare, dove mangiare, fa vincere loro la paura. Uniti, traballanti ma collaborativi, riescono infine a mettere in fuga i banditi, venendo intesi come qualcosa di mostruoso e sconosciuto, forse ultraterreno (di nuovo, sembrerebbe l’effetto che fa l’artista a quelli del suo tempo). L’unico bandito che viene mandato indietro a vedere cosa è in realtà successo, pur ricevendo i graffi di un gatto, i morsi di un cane, i calci di un asino, riferirà che la casa è posseduta da qualcuno di molto potente – fatto di streghe, uomini, mostri e persino un giudice (così il bandito interpreta il canto del gallo, come le parole di un tribunale che lo accusano).
I musicanti non raggiungono mai Brema. Restano e abitano il piccolo spazio che si sono conquistati, e pur senza mai suonare nella banda municipale di Brema sono musicanti – perché hanno intravisto un altro mondo, di canto e musica, e scelto di mettersi in cammino per raggiungerlo, pur non raggiungendolo mai. Falliscono, in questo. E lo fanno meglio di tutti, per usare le parole di Beckett, come i veri artisti.
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Immagini di Arthur Rackham e George Cruikshank.
[1]Die Bremer Stadtmusikanten, fiaba raccolta dai Fratelli Grimm