di Federico Buratti
Uno strano senso di irrealtà, vagamente intuito, forse da sempre, teneva il giovane Lampertico avvinto al divano. Così alle meningi gli montava il solito, insano desiderio, vano come una brocca vuota, il senso – è meglio detto – d’un indefinito desiderare, informe ma protervo, cui nessuna precisa domanda si lega ed al quale, dunque, si è sempre ben lungi dal trovare una risposta purchessia. “Telefonare a qualcuno, anzi no, ricevere una telefonata. Sì, ma da chi? Mangiare, dormire, uscire forse, prendere un treno. Accendo la televisione… finire di leggere il libro, andare in centro, alla mostra di Bertocchi… magari mi levo i pantaloni… che altro? Fumo una sigaretta. Farsi una doccia”. Etc., etc.
Queste ed altre incarnazioni del desiderio il giovane Lampertico andava lambiccando, nessuna finalmente aderendo all’anima lasca che, anzi, tutte le rifiutava noiata. “La morte?” giungeva immancabilmente a chiedersi. “No”, ma non gli veniva fatto mai di trovare la ragione di tale rifiuto e, forse temendo la taccia di vile, protestava il desiderio che cercava esser di quelli da esaudirsi in vita, per quanto irreale quest’ultima gli fosse. “Una donna ? A.? B.?”, ammolliva le labbra in figura di negletta perplessità.
Alla fin fine, come sempre, passata l’ora delle possibilità più ragionevoli, perveniva ad una soluzione da “pari e patta”, che avesse cioè valore di contentare lui e quel demone questuante: “Un miracolo, ecco, che giunga inatteso e alla cui virtù io sia costretto a soggiacere, qualcosa che mi venga a cercare e mi stani, l’effetto di un impulso, di un’azione lontana, che torni a dare realtà a me e a tutta la misera casupola in cui vivo”.














