di Gianluca Cataldo
Lui ha la capacità di dire esattamente quello che lei vuole sentirsi dire, con ciò destando la sua ira. Se ne rende conto, ma non può farne a meno, è un debole. Lei, d’altro canto, è perfettamente in grado di discernere le persone, di sezionarle con sguardo entomologo e di trarne giudizi affrettati, affrettati il giusto. Per dire, l’altra sera a casa di amici si discuteva di Weber allo Z.E.N. e delle critiche che potrebbero muoversi alla sua ricerca in campo, per così dire, urbanistico. «Weber aveva eletto a modello un unicum storico, aveva costruito una teoria su due eccezioni e tutto andava reimpostato salvando il criterio strutturale e reinnestandolo su una scala graduata di autonomia politica dal vertice», sosteneva un’amica. La discussione si allargò ai moti ondosi dell’universalismo e del particolarismo giuridico, cadenzati dalla riscoperta del diritto romano nei secoli e nella storia del caro vecchio continente, sino al ius comune europeo di matrice comunitaria. Ma siccome tutti convennero circa la noia mortale e la sonnolenza causata dall’argomento, misero su un disco di Mark Almond e si domandarono cosa avesse spinto fior fiori di architetti a concentrare la povertà in ghetti autosufficienti e cosa avesse spinto i comuni (i comuni attuali) a trasformare la povertà in cattiveria e in cattività. Mah, chissà. Lei pensò che loro amavano le frasi a effetto. Quindi, che nessuno di loro, neanche la sua amica, erano mai stati allo Z.E.N.









