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Caro Maroni, ecco che succede appaltando gli immigrati alle dittature

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di Andrea Segre

Devo ringraziare il Ministro Maroni, perché nella sua indubitale intelligenza di uomo politico offre sempre l’occasione di smascherare l’ipocrisia delle politiche italiche sull’immigrazione.
Stanno arrivando centinaia di ragazzi tunisini sulle coste italiane.
E come li definisce Maroni? “Esodo biblico di fronte al quale l’Europa non può lasciarci soli”.
Ci sono tre motivi che spingono un uomo politico a pronunciare rapidamente la definizione di un problema: per alimentare un’emozione, per indicarne una soluzione e per coprirne altre spiegazioni.

2 poesie da Fedi nuziali

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di Ferruccio Benzoni

Viale dei Mille

Dunque di nuovo qui,
le stesse imponderabili stanze
lapidata l’infanzia dilapidata
e i nomi le voci e quanto di una vita
smottando duramente si ravviva.
…………………………………….
…….Da qui
da un terrazzo fiorito ventilato
mortalmente intravedo
tra due siepi infine del medesimo pitosforo
del tempo passato e derisorio
il guizzo bruciante del gabbiano – l’angelo
o il sembiante che additava
lo sfacelo del volo e l’allegria.

sought poem

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di Marco Simonelli

Spirava
in quel ballo a Lisbona
un’aria di fine d’epoca
di tramonto dell’Europa ripartita in classi
prepotente e raffinata
ingiusta e stravagante.

Il mio vestito arancio roteava
nel mezzo della pista.

In quegli anni quasi tutti gli artisti divoravano
la vita come per farla finita al più presto:
usavano il sesso come una droga
e la droga come il sesso.

Il problema centrale delle nostre esistenze
era quello di organizzare in modo impeccabile
le nostre cene.

Arrivavano Letizia Paolozzi e Nanni Balestrini
Laura Betti e Dario Bellezza, Pier Paolo Pasolini
e Sandro Penna, Marco Pannella, Marco Bellocchio.

* * * * *

Questo testo è stato asportato da Marina Ripa di Meana, I miei primi quarant’anni, (Euroclub, 1984) presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze nel novembre del 2010.

Ordine, Forze dell’ – 1/8

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di Mattia Paganelli

Mostrare una piccola emozione

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di Stephen Rodefer traduzione di Marilena Renda

per il granito

E’ costoso sprecare questo spirito sfrontato nel tempo e nella solitudine, quando la stagione è così breve e l’applauso schiacciante. Facciamola finita e andiamo a vedere qualcosa di perfettamente bello, come la Turandot. Ascolta il ruggito. Puoi farcela al di sotto del mormorio degli eterni mandarini vestiti delle vesti più brillanti che si possano immaginare?

Ti amo perché in origine è nato il mondo. Il mio ospite nell’interludio intollerabile dev’essere l’equilibrio che dà il via all’innegabile svelarsi dei suoi esiti. E io mi rivelerò per te come sicuramente ti sei rivelato per nient’altro che la tua stessa forza distante.

KEATS E LEOPARDI – II parte

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di FRANCO BUFFONI

Leopardi, nel trattato sugli errori popolari degli antichi, facendo risalire all’ignoranza e alla credulità acritica l’origine delle credenze magico-oracolari pagane, in realtà liberò se stesso da tutte le nozioni che non reggevano alla luce della ragione. Liberò se stesso per assoluta onestà intellettuale. Ma non gli altri. Tanto è vero che definisce la religione “una illusione necessaria”. Proprio come Keats che parla volterrianamente di “una pia frode”. Per riassumere la posizione di entrambi può valere la superba sintesi che nel Trecento diede Marsilio da Padova nel Primo Libro del Defensor Pacis: “Sebbene alcuni filosofi che stabilirono tali leggi o religioni non credessero a quella vita futura che chiamavano eterna e alla resurrezione umana, nondimeno finsero e persuasero gli altri che questa vita esistesse, e che in essa i piaceri e le pene fossero proporzionali alla qualità degli atti compiuti in questa vita mortale”.
“… Non io / Con tal vergogna scenderò sotterra”. Qual è, quindi, la vergogna di cui, nella “Ginestra”, Leopardi giura che non si sarebbe mai macchiato? Certamente la vergogna di avere ceduto ad una credenza finalistica, ad una concezione teleologica dell’esistenza. Nella convinzione che la vera alterigia è quella di chi, non sapendo accettare umilmente il proprio stato di mero caso biologico, giunge a ritenersi un essere in qualche modo “eletto”, e – spregiando il “finito” – persegue la propria finalistica elezione sopra a tutte le altre specie. “Io tengo per fermo”, afferma il Folletto nel “Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo”, “che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie”.
E che cosa significa quel “alone” che appare nel penultimo verso del keatsiano “Can Death be Sleep, when Life is but a Dream”, se non “senza il pensiero consolante della esistenza di Dio”?

Radio Kapital: ottimista e di sinistra

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Intervista a Jean Claude Michéa (I/III)
Filosofo, Professore presso il Liceo Joffre, Montpellier

Quadro teorico
Le origini della società liberale

Traduzione a cura di Edoardo Frezet e Francesco Forlani
Un interrogativo che si pone per un numero sempre più grande di nostri contemporanei, in particolare nelle classi popolari del mondo intero, è come sia possibile che il progresso del mondo materiale e tecnologico generi un mondo in cui si moltiplicano gli eventi moralmente inaccettabili.
In effetti, credo che si debba ritornare alle radici dell’Occidente stesso, e rendersi conto che il suo atto fondatore è il trauma delle guerre di religione; la guerra civile ideologica è la guerra de-socializzante per antonomasia. Fondare una nuova società presuppone che si trovi una soluzione: poiché gli uomini si uccidono a vicenda in nome della morale, della religione e della filosofia, bisognerà trovare un modo per neutralizzare le cause dei conflitti e delle ostilità e fondare la vita in società su tutt’altra base.

da Soqquadri del pane vieto

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di Marina Pizzi

1.
è qui l’altrove del rantolo di fame
questo statuto che sa di Colosseo
verso i cani bastardi, randagi quanto
un dì del mese scorso. scorribanda
di eclissi starti accanto io che ti amo
oca di mamma guardarti nel passo.
dove ti ammacchi io so che mi ami
ugualmente lo stesso e senza ansia
bambina darsena col cerchio senza avaria di salto.
viadotto della cometa chiedere asilo
ai quartieri proletari dove i tarli ammucchiano
e le madonne scempiano. io spendo dio
per dirti del canile abbandonato al dolo.
i comatosi stanno zitti e i morenti urlano
come mio padre erto sulla fronte ubriache le guance
gli occhi spicchi di coltelli per la bramosia di pace

Preghiera ai naviganti (da «il Fatto Quotidiano»)

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Ques’articolo è uscito sabato 29 gennaio 2011 su «il Fatto Quotidiano».
Qui ho solo aggiunto una riflessione della Arendt, che credo ci riguardi molto.
Prendetelo come uno dei tanti segni con cui donne e uomini sul web (e non solo) in un unico coro stanno rivendicando il diritto a restituire un’altra storia, evocando le tante donne forti di immaginazione, intelligenza e coraggio che hanno contribuito in tutti i tempi, ovunque, a edificare la comune umana civiltà.

Hannah Arendt: «Il declino delle nazioni comincia con il venir meno della legalità… Qualsiasi incidente può distruggere i costumi e la moralità una volta privati del loro ancoraggio nella legalità; qualsiasi evento contingente è destinato a minacciare una società non più garantita dai suoi cittadini»

di Evelina Santangelo
Da quando è uscita la notizia che il presidente del Consiglio è indagato per prostituzione minorile, i commenti e l’ironia nel web si sono scatenati come non mai. Sarà il tema pruriginoso, sarà che ci siamo a nostro modo assuefatti e quasi affezionati a questo genere di amenità, sarà che tutti si è diventati un po’ così, propensi all’ironia più “grassa” e “crassa”… Per questo, vorrei fare un appello modesto ai naviganti. Come fosse una preghiera di un navigante ad altri naviganti.

Poesia civilizzata sul popolo egiziano

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di Andrea Inglese

Cari amici indiani,

visto che sono stato ormai sufficientemente edotto
sui tabulati di Ruby
vorrei spendere qualche parola almeno
sulla cacciata dello zio

questa volta scrivendo una poesia civilizzata
in lingua umana, tutta scaturita da dentro,
per spiegare che io, anche se sono un tipo qualunque,
e non me ne intendo molto di diplomazia e geopolitica
e non faccio il giornalista pagato esperto in problemi
islamici
ebbene, che ci crediate o no, io stasera non sono preoccupato
anzi sono scioccamente contento (ho brindato con la mia compagna)

pop muzik (everybody talk about) #9

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Maljciki / Idoli. 1981

Perché sarò in piazza

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da il Fatto Quotidiano – giovedì 10 febbraio 2011

Quel che è più umiliante è il fatto stesso di dover rivendicare quella dignità della donna che dovrebbe essere un prerequisito di ogni Paese che si voglia dire civile

di Evelina Santangelo

Sarò in piazza il 13 febbraio, e sono sicura che insieme alle donne ci saranno moltissimi uomini. Ho firmato l’appello della direttrice dell’Unità, Concita De Gregorio, perché anch’io ritengo che sia il momento di dire basta all’umiliazione ormai «istituzionalizzata». Condivido la critica di Natalia Aspesi, quando si chiede se «c’è una sola delle belle signore governative che abbia avanzato qualche discreta critica al bunga bunga in tema di dignità delle donne». E, prima di adesso, ho guardato con sconcerto il documentario Il corpo delle donne in cui Lorella Zanardo ha, tra le prime, denunciato la quotidiana umiliazione della dignità femminile perpetrata in televisione dove la donna è stata ridotta a creatura ottusa, grottesca, a lacerti anatomici ipertrofici.

sul gusto nazionale

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di Paolo Morelli

Stavo proprio pensando che un perseguitato che non ha la gentilezza di farlo dimenticare che è perseguitato allora se lo merita di essere perseguitato, almeno un po’, quando è risuccesso.

Chissà come mai, ma ogni volta, proprio ogni volta che tiro fuori di tasca il mio caro e venerabile pacchetto di nazionali senza filtro, ogni volta ma proprio o-gni volta da almeno trent’anni a questa parte c’è sempre ma dico sempre qualcuno che se ne viene fuori con, Nazionali! No?!? Esistono ancora? Ma dove le trovi?

Piccoli uomini crescono

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Questa è una critica sociale. Immagini della storia commentate da Wilhelm Reich. La canzone è et moi et moi et moi, di Jacques Dutronc, con testo tradotto da me e cantato da Rosario Tedesco. effeffe

Lettera a un magistrato

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Aleksej Meshkov (Mosca, 1966). Da diversi anni in Italia, è musicista. È autore del thriller politico Il cane Iodok, romanzo che sarà pubblicato in Francia nel 2011.

di Aleksej Meshkov

Illustrissimo Kubacic,

da anni siamo vicini di casa. Probabilmente un magistrato del suo rango non si sarà neppure accorto della mia presenza, eppure abitiamo nello stesso palazzo: il condominio 14 costruito dalla Cassa privata dei dipendenti del tribunale, a cui tutti dobbiamo qualcosa per il privilegio concessoci di vivere in un ambiente tanto elegante e pulito.
Fra noi condomini, è ovvio, c’è chi più di altri si è impegnato nello studio della legge, meritando di assumere cariche prestigiose e di occupare i piani più alti all’interno della residenza. Questo è il suo caso, illustre collega. Quanto a me mi sono sempre arrangiato con cause civili di poca importanza, nulla che possa paragonarsi ai reati squisitamente ideologici sottoposti al giudizio della sua corte. Non per niente i dirigenti della nostra cassa di assistenza le hanno riservato l’ottantacinquesimo piano, mentre a me hanno concesso il più modesto privilegio di vivere al settimo, cosa che, comunque, mi riempie di orgoglio.

Una piccola nota sulla distribuzione

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[Mi piacerebbe che questo intervento sulla distribuzione fosse letto tenendo d’occhio questo intervento di Vincenzo Ostuni sulla qualità nell’editoria, ecc. a. i.]

Enrico Piscitelli

Qualche tempo fa, Andrea Inglese ha pubblicato su Alfabeta2 una mia piccola nota, sulla situazione attuale della narrativa italiana – non di major. Scrivevo, in quella nota: “la narrativa italiana ha un riscontro bassissimo. Al momento, il più basso degli ultimi anni. I librai prenotano pochissime copie dei libri di narrativa. Non si fidano. Sanno, o qualcuno ha detto loro, che venderanno solo un piccolissimo numero di romanzi italiani, e solo di alcuni autori. Qui stiamo parlando di numeri così bassi, che cinquecento copie vendute di un libro di una piccola casa editrice, sono un successo clamoroso, roba da brindare col prosecco”.

Questa nota è stata ripubblicata da molti. Per esempio da Loredana Lipperini, nel suo blog. Lì, nei commenti, Federico Guglielmi (Wu Ming 4), scrive: “quanto all’intervento di cui sopra, non mi sembra (più) vero che nessuno scrive questa verità. Forse non è sbandierata a titoli cubitali sui giornali, ma in realtà è risaputa e sotto gli occhi di tutti”. Ma, soprattutto, Guglielmi si chiede cosa fare e come agire. Domande impegnative, e importanti. Senza dubbio.

Parole e musica all’Arci Bellezza

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CONCERTO presentazione del cd libertAria e INCONTRO su Servi

Sabato 12 febbraio 2011 – Arci Bellezza Milano, via Bellezza 16A

[ore 18.00] SERVI – il paese sommerso dei clandestini al lavoro

Discussione con l’autore MARCO ROVELLI. Interverranno gli scrittori GIANNI BIONDILLO e ALESSANDRO BERTANTE, il critico letterario DANIELE GIGLIOLI e l’attore MOHAMED BA

[ore 22.00] CONCERTO

MARCO ROVELLI  – voce e chitarra acustica

MAURO AVANZINI – sax e flauto

LARA VECOLI – violoncello

27-31

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27-31 / gherardo bortolotti

27. Seguivamo le vicende delle nostre settimane come storie di un’età parallela, come intrecci secondari in cui la merce era innocente, le immagini infinite. Nel corso delle giornate, alcuni accettavano di assistere alle cose dal punto di vista di chi non ha ragione, di chi riconosce al mondo le sue necessità, i suoi bisogni, anche crudeli. Non capivamo fino in fondo perché eppure eravamo in vita, in visita presso il reale, presso le notizie di cronaca, le fattispecie del capitale.

28. Come tracce di una civiltà scomparsa, ritrovavamo al mattino il senso delle nostre giornate, dei mesi a venire, mentre ascoltavamo in radio gli editoriali sull’accordo a Mirafiori, sulle rivolte tunisine. Sentivamo, nel petto, il peso di ciò che era in corso, di ciò che era vero, e guardavamo al futuro dalla cucina, quasi avendo il sospetto di un finale diverso.

aspettando l’oltre (con Berardinelli)

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di Gaia Manzini

Nel prezioso libello di Alfonso Berardinelli c’è un solo elemento che rende dubbiosi. Il titolo: Che intellettuale sei? Domanda che s’immagina pronunciata con sussurro gentile. Domanda che in realtà presuppone un lettore già eletto, o auto-elettosi, intellettuale. Tutti gli altri potenziali lettori si escludono da sé con orgoglioso diniego: tipico di chi, suo malgrado, è stato fatto fuori da un’élite. E questo è un peccato. L’intellettuale è un misantropo. Forse un filantropo critico. Possiede un’attitudine umana (la tendenza a isolarsi) che determina o sostiene un’attitudine dello sguardo. Critica e smonta il vivere sociale, le sue finzioni e le sue menzogne. E’ conscio di aver iniziato a esistere come individuo nel momento in cui ha scelto la solitudine e sa che l’ambiente sociale è diventato conoscibile solo da quando ha smesso di farne parte. Non era Montaigne a fare di solitudine saggezza? L’intellettuale misantropo vive fuori dalla società. Un fuori che diventa un oltre migliore. E qui viene il punto.

Perchè, e come, scrivere un romanzo (su Galeazzo Ciano)

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di Giacomo Sartori

In passato ho voluto scrivere un romanzo sulle ultime fasi della malattia di mio padre, sulla sua agonia. Mi sono quindi messo all’opera. Prima ancora che me ne rendessi conto il testo mi ha però preso per mano, conducendomi molto indietro, in plaghe dove non avevo pianificato di avventurarmi. Incurante della mia costernazione me ne ha mostrate i recessi meno presentabili, ha preteso che prendessi nota di quello che vedevo. Non c’era niente da fare, non mollava la mia mano: dovevo stare lì, dovevo liberarmi dei filtri abituali con i quali interpretavo il mio mondo. Per capire qualcosa del paesaggio inospitale dove mi trovavo, costellato di canzoni patriottiche e motti ideologici e camice nere, mi sono dovuto documentare sul fascismo, del quale sapevo molto poco. Un vero lavorone, che mi ha permesso però di penetrare nel tempio segreto del mio genitore: molte di quelle che pensavo essere particolarità del suo carattere, scoprivo, erano in realtà riverberi più o meno diretti e più o meno vividi della sua epoca. Del resto quel suo universo nero, constatavo, mi aveva in realtà irrimediabilmente contagiato, beninteso senza che me ne rendessi conto: le reazioni erano germinate in me come malattie non ancora diagnosticate, vere e proprie bombe a effetto ritardato.

La decrescita non è un impoverimento

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[Questo articolo è apparso sul numero 6 di “alfabeta2”]

di Marino Badiale e Massimo Bontempelli

L’idea (o slogan) della decrescita è una componente essenziale di un pensiero critico capace di confrontarsi con la situazione del mondo contemporaneo, e di interagire con una possibile nuova pratica politica adeguata ai gravissimi problemi attuali. Il punto di partenza del pensiero della decrescita è la ritrovata consapevolezza, annullata nel senso comune da qualche secolo di capitalismo, che i concetti di bene economico e di merce non sono identici: beni (intesi anche come servizi) sono i prodotti del lavoro umano che soddisfano determinati bisogni e necessità, merci sono, tra quei beni, quelli inseriti in un mercato monetario con un prezzo di vendita, e acquisibili, quindi, soltanto pagando quel prezzo. In termini logici, sono due concetti interconnessi, ma non coestensivi. La distinzione chiaramente riecheggia quella, introdotta dagli economisti classici e ripresa da Marx, fra valore d’uso e valore di scambio. Quando si parla di crescita si intende la crescita della sfera della circolazione di merci, quindi della sfera di compravendita di beni e servizi dotati di un prezzo. Quando si parla di decrescita si intende la diminuzione del raggio di questa sfera.