di FRANCO BUFFONI
Leopardi, nel trattato sugli errori popolari degli antichi, facendo risalire all’ignoranza e alla credulità acritica l’origine delle credenze magico-oracolari pagane, in realtà liberò se stesso da tutte le nozioni che non reggevano alla luce della ragione. Liberò se stesso per assoluta onestà intellettuale. Ma non gli altri. Tanto è vero che definisce la religione “una illusione necessaria”. Proprio come Keats che parla volterrianamente di “una pia frode”. Per riassumere la posizione di entrambi può valere la superba sintesi che nel Trecento diede Marsilio da Padova nel Primo Libro del Defensor Pacis: “Sebbene alcuni filosofi che stabilirono tali leggi o religioni non credessero a quella vita futura che chiamavano eterna e alla resurrezione umana, nondimeno finsero e persuasero gli altri che questa vita esistesse, e che in essa i piaceri e le pene fossero proporzionali alla qualità degli atti compiuti in questa vita mortale”.
“… Non io / Con tal vergogna scenderò sotterra”. Qual è, quindi, la vergogna di cui, nella “Ginestra”, Leopardi giura che non si sarebbe mai macchiato? Certamente la vergogna di avere ceduto ad una credenza finalistica, ad una concezione teleologica dell’esistenza. Nella convinzione che la vera alterigia è quella di chi, non sapendo accettare umilmente il proprio stato di mero caso biologico, giunge a ritenersi un essere in qualche modo “eletto”, e – spregiando il “finito” – persegue la propria finalistica elezione sopra a tutte le altre specie. “Io tengo per fermo”, afferma il Folletto nel “Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo”, “che anche le lucertole e i moscherini si credano che tutto il mondo sia fatto a posta per uso della loro specie”.
E che cosa significa quel “alone” che appare nel penultimo verso del keatsiano “Can Death be Sleep, when Life is but a Dream”, se non “senza il pensiero consolante della esistenza di Dio”?







