di Gian Paolo Ragnoli
Saperlo là, indaffarato nel giardino della sua casa di St. Margaret’s Square, a Cambridge, era una consolazione per molti. Per tutti coloro che si sono sentiti Barrett almeno una volta, nelle giornate lente e noiose di “Dominoes”, nell’alienazione del lavoro di “The Scarecrow”, nell’assurda schizofrenia del “dover essere” (alluso in “Jugband Blues”), nella tragica coscienza di “Dark Globe” che qualcosa era finito per sempre (un’amicizia? l’infanzia? un sentimento intimo…?) o nella felicità insensata e infantile di “Bike”, nell’ebbrezza della scoperta di “The Gnome”, nella disperazione di “Feel”…
Sabato scorso, Santerenzo, bar Il Portiolo, ora dell’aperitivo. Arriva la cameriera, bionda, giovane, come una Pattie Boyd fuori epoca. Sara prende un bicchiere di vino, io ordino un Manatthan. La ragazza chiede se ci da fastidio la musica, rispondo che quella buona fa sempre bene…Sorride, poi fa partire un cd. Primo pezzo: Baby Lemonade.



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