(ragionamenti sui tempi)
di Gianluca Cataldo
Sono capace di dimenticare tutto quello che conosco restando avvinghiato a un’intuizione, al senso generale perdendo dettagli e sgranando la precisione nel mettere a fuoco determinati concetti. So che alcune cose sono giuste, so che alcuni libri sono capolavori e altri meno. So che La pelle narra di uno scorticamento e che Roth può scrivere cinquanta pagine sulla fabbricazione di guanti senza annoiare neanche un produttore di stivali. So che la farfalla di Dinard vola dal mio letto al suo passando per sveglie acquistate in mercati rionali e conosco il sapore del manzanillo perché l’ho bevuto. Non è affatto infuso di carrube, è un semplice frullato di barbiturici e se non ti uccide porta davvero via il ricordo di tutto, il ricordo di quanto io sia stato intelligente, di quanto io sia intelligente, anche se non abbastanza da non finire sul divano, come ogni volta che lei dormiva da me, da non trasformare tutto in un esercizio cattolico quando lei si schiacciava a me e io rimanevo inerte e immobile, inchiodato dalla sorpresa, inchiodato dall’incertezza in una situazione incredibile. Lei era un’ombra tridimensionale incalzante e io non in lei ma quasi, quando ogni singulto era un insulto alla lealtà e ogni muscolo un monumento allo stoicismo. A pensarci bene ho da sempre un’inclinazione alla redenzione. Ho redento la mia religione e l’ho resa origami di sacre scritture, dal momento che per diventare santo la congregazione per la dottrina e la fede richiede due miracoli, come se uno non fosse, di per sé, già abbastanza miracoloso. La chiesa è il volto umano di dio e l’unico con il quale siamo tenuti a discutere, con il quale siamo tenuti a negarlo. La mia azione di ribellione è asintomatica, è una semplice frase interiorizzata: “io non credo”, senza incappare nel fatale errore di un ti.








