
di Francesca Matteoni
a S.
Tulse Hill, dicembre 2007
I
Ti scrivo da quest’ultimo mese, in cui ci si raccoglie. Si richiama il freddo dall’esterno, a palme schiuse, si strizzano gli occhi nel sole di ghiaccio: il vento taglia le bocche, indurito contro il pensiero. Ormai vivo di partenza, tra l’Italia e Londra. Abbandono le montagne tutte attorno alla provincia toscana, il senso di un mondo protetto, per la metropoli di tempi fagocitanti, vertiginosi, che scendono dalla City ai villaggi delle periferie. Nel suo cuore è un raccordo di antico e moderno – s’infuocano i palazzi di specchi, l’acciaio architettonico proprio accanto alla cattedrale di St. Paul, all’Old Bailey dalla giustizia bendata, dove le folle si accalcavano per vedere gli assassini, i ladri, la miseria ignorante delle streghe tutti esposti nei ceppi tre secoli fa. La domenica gli uffici sono chiusi: mi piace camminare in questo deserto gigante di pietre, colonne, vicoli tra le banche serrate. Non come a Leicester Square con l’irritazione crescente per i turisti che non sanno mai dove attraversare; sulle scale mobili non stanno sulla destra, discutono allegramente tra di loro, collezionando sfilze di accidenti mentali da chi si affretta nel sottosuolo, per i treni. Poi a volte mi lascio trasportare negli snodi riprodotti, moltiplicati delle strade e della metropolitana – non c’è un altro mondo di paesi e natura, Londra lo divora, ci si inventa sopra. Un treno si blocca per l’uragano, i cavi elettrici sbattuti sui binari, e devo camminare fino alla stazione di Totteridge, all’estremo nord. Ci sono colline brune e foreste, che svettano sulle case a schiera. Mi fermo in un bar minuscolo, ad ordinare una delle terribili cioccolate inglesi, con troppo poco cacao in una tazza enorme. Penso che comunque la solitudine è anche bella, non devo rendere conto a qualcuno, posso restare lì, semplicemente a osservare le cose, lasciare che la loro storia ignota sia la mia. Le mie giornate sono questo scoprire e chiedere del passato. Uno strascico vago, persistente di informazioni, di fili che si raggiungono nella rete del paesaggio, quasi che niente avesse mai significato di per sé, isolato nell’attimo in cui accade. Incontro di nuovo gli eventi trascorsi, brillano in frammenti estranei, come la neve di Joyce sui vivi e sui morti, smantellano l’inganno degli anni, del loro spostamento.