[Questo intervento è apparso su «Alias» (sabato 11 aprile) con il titolo Scurati e l’autofiction, genere maggioritario. Il lucido articolo distrugge un incanto che vedo esercitato persino sulle idee della critica più avvertita – si legga Belpoliti. Spero che la discussione metta a fuoco il libro e le meccaniche di una vittoria predestinata. Domenico Pinto.]
di Gilda Policastro
Al romanzo contemporaneo serve una lingua, una voce. Ha bisogno di ritrovare la distanza dalle cose, di parlare di ciò che accade da lontano, con l’eccedenza di visione garantita all’eroe in misura inversamente proporzionale, teste Bachtin, alla sua identificazione con l’autore. Invece la strada che gli scrittori italiani sembrano proseguire con ostinazione, nel tentativo, forse, di emulare l’eccezionale successo planetario di Saviano, è quella di continuare a dire “io”: trovarsi, volersi trovare – cioè fingersi – in mezzo alle cose. Saviano era un cronista prestato al romanzo, ora alla ricerca di un’identità (superando, magari, quella che non possa vederci meno che solidali, di vittima designata). Lui si definisce scrittore, ma la critica deve aspettare ancora, a consacrarlo tale. Deve cioè ricalibrare la sua innegabile attitudine alla comunicazione e all’informazione, sulla scrittura: che è, prima di tutto, stile, cioè, si diceva, lingua, voce, e, ribadiamo, distanza. Il Novecento italiano si era aperto con Tozzi e Pirandello (i «misteriosi atti nostri», la «frattura fra parole e cose»): c’è da augurarsi che il Duemila non voglia farsi partire con elenchi di «mortiammazzati», come in un servizio di Blunotte o Chi l’ha visto.
La quarta prova narrativa di Scurati, Il bambino che sognava la fine del mondo (Bompiani, pp. 295, euro 18) reca scritto in copertina “romanzo”. L’autore, nei ringraziamenti, si confessa debitore a una «biografia romanzata» e a un «saggio etnografico». Di fatto, il libro somiglia di più all’essai di un moralista; e, per dare una tenuta narrativa a un essai sui nostri tempi, s’è presa la cronaca di un fatto recente. Correzione: della cronaca televisiva, anche perché lo stigma maggiore dell’autore si riversa contro il medium, nella sua più diabolica incarnazione del conduttore per famiglie, erudite impugnando all’indirizzo di un plastico divenuto proverbiale l’altrettanto proverbiale bacchetta.