di Vito Chiaramonte
La prima volta che vedo salita Sant’Antonio, chiusa dalla facciata del palazzo dei Marchesi di Arezzo che si allunga su via Roma, vedo un vicolo che finisce in un buco di parcheggio fra case antiche di Palermo. Palazzotti medievali, non ancora completamente in rovina, si aprono sullo spazio angusto di un basolato come un nastro sottile e sfilacciato. Un po’ di fresco (devo ambientare questa prima visita in agosto) esce dai portali carico di umido e di odori da soffitta. Ma quando i portali sono chiusi si sente un altro odore. Sono per strada e mi trovo proprio bene nei panni di uno studente che guarda la città in cui vivrà con gli occhi di chi non capisce perché, a due passi da quel degrado, possa innalzarsi la facciata di San Matteo: ma degrado e restauro sono poi così differenti? Quando ci torno (sarà stato lo scorso agosto) è per raggiungere Manlio nel suo studio, tre stanze (forse quattro) che si aprono, a destra, in un patio trasfigurato da un restauro, immerse in un silenzio insolito per Palermo, proprio lì a due passi dalla strada che chiamiamo cassero, come se la città fosse una nave pronta a prendere il mare. Le trifore trecentesche che avevo visto anni fa ci sono ancora, e respirano a fatica ormai chiuse in muri tirati a lucido.









