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La poetica di Baricco

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di Franco Cordelli

Forse Alessandro Baricco ignora quanto pochi siano i teatri stabili in Italia; e forse ignora le ridicole cifre che vengono loro devolute. Ma di sicuro ignora quale sia il “sistema”, come esso sia ben lontano dall’impedire ai privati di investire in operazioni di teatro o dal consentire che (a causa della sua pochezza) i propri contributi siano altrove diretti. L’attuale Fus (Fondo unico per lo spettacolo) è di 365 milioni, meno dei 400 necessari per eventualmente spostare il prossimo referendum sulla legge elettorale. Ma non voglio tornare sul significato politico delle sue proposte, sui «benvenuto tra noi» della destra. Quello che mi interessa è il nocciolo della questione.

Della guerra

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di Nadia Agustoni

“[…] un esercito perdente insegue invece il successo partendo dallo scontro diretto.”

Sun Tzu

Italo Calvino in Perché leggere i classici si poneva una domanda:

«Perché leggere i classici anziché concentrarci su letture che ci facciano capire più a fondo il nostro tempo?» e «Dove trovare il tempo e l’agio della mente per leggere dei classici, soverchiati come siamo dalla valanga di carta stampata dell’attualità?».

Difficile dare una sola risposta. Si leggono i classici e i libri in generale perché non li si è ancora letti, oppure li si rilegge perché ci interrogano. I libri sono, alcune volte, una bussola con cui orientarsi. Quello che offrono è una traccia da seguire e dei percorsi. Se tutto va bene ci aiutano a scoprire qualcosa di nuovo o a leggere il mondo da una prospettiva diversa da quella a cui siamo assuefatti.

Sergio Piro, o delle turbolenze in aria chiara

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[Lo scorso anno, alla presentazione del mio “Lavorare uccide” all’Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli, conobbi Sergio Piro. Rimasi colpito dalle sue parole potenti, e dalla “verità” che di quella persona si percepiva. Sergio Piro è morto il 7 gennaio 2009. Il 20 febbraio scorso, nella stessa sala dove l’ho conosciuto, Sergio Piro è stato ricordato da allievi, studiosi, giornalisti, operatori del settore psichatrico, amici. Ho chiesto a Carmen Pellegrino di ricordare la sua figura per tutti i lettori di Nazione Indiana.]  m.r.

di Carmen Pellegrino

Sergio Piro era un uomo in rivolta. Fu lo psichiatra – per quanto nella definizione non si ritrovasse pienamente – che contribuì in maniera decisiva al superamento dei manicomi in Italia, e per primo introdusse al sud le teorie su una psichiatria diversa, il cui nucleo fondante era la terapia alternativa opposta alla costrizione dellistituzione manicomiale, orientando la prassi di cura delle malattie mentali verso forme finalmente non oppressive, democratiche, rispettose in primo luogo della dignità umana.

Firmare per il testamento biologico

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Carissima/o,
Ti scrivo per chiederti un piccolo sforzo per una importantissima causa. Nelle prossime settimane il testamento biologico sarà al centro del dibattito in Parlamento, e la maggioranza intende approvare una legge che limita la libertà di scelta del cittadino imponendo alcune terapie, come l’idratazione e l’alimentazione artificiale. Le dichiarazioni anticipate di trattamento non saranno vincolanti: spetterà sempre al medico l’ultima parola. Qual è allora l’utilità di questa legge, se non si garantisce al cittadino che la sua volontà sia rispettata? La verità è che il ddl della destra è stato scritto per rendere inapplicabile il ricorso al testamento biologico. Oltretutto, la dichiarazione dovrà essere stipulata davanti ad un notaio, e rinnovata con cadenza triennale: vi immaginate cosa significa andare ogni tre anni davanti a un notaio accompagnati dal proprio medico di famiglia? Al contrario della nostra proposta poi, non è presente nemmeno un cenno alle cure palliative, all’assistenza ai disabili, alla terapia del dolore.

Ti chiedo dunque di diffondere il più possibile l’appello, invitando tutti i tuoi contatti a sottoscriverlo: dobbiamo mobilitarci immediatamente per raccogliere centinaia di migliaia di adesioni e difendere il nostro diritto costituzionale alla libertà di cura. Se saremo tanti, il Parlamento non ci potrà ignorare. Nel prossimo dibattito in Senato il mio impegno personale è quello di dar voce alla vostra opinione, che credo coincida con quella della maggioranza degli italiani. Che vogliano utilizzare ogni risorsa della medicina o che intendano accettare la fine naturale della vita, i cittadini vogliono essere liberi di scegliere.

Ti ringrazio infinitamente e conto su di te per far circolare il più possibile l’appello per il diritto alla libertà di cura sul sito www.appellotestamentobiologico.it , e grazie perché abbiamo già raggiunto quasi 200.000 firme!

Ignazio Marino

«Ecco qua la candela! Attendete alla traduzione!»

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di Elisa Comito e Isabella Zani
Presentazione del rapporto CEATL di Angelo Fracchia
[Sezione Traduttori SNS]

«È meglio accendere una candela che maledire l’oscurità», dice un antico proverbio. Approfittiamo dunque della recente pubblicazione del rapporto CEATL (il Consiglio europeo che raccoglie le associazioni dei traduttori letterari), che mette a nudo i problemi riguardanti la situazione professionale dei traduttori editoriali in Europa, per far luce su alcune delle cause per cui «in nessuna parte d’Europa i traduttori letterari sono in grado di guadagnarsi da vivere nelle condizioni che impone il “mercato”».

Autismi 6 – Il mio primo infarto (1a parte)

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chaissac2 di Giacomo Sartori

Una sera di qualche anno fa ho avuto un infarto. L’ho capito subito che si trattava di un infarto. Stavo guidando, e nel bel mezzo di una curva ho sentito un improvviso dolore al petto. Un dolore lancinante, come se qualcuno mi stringesse il cuore con una gran tenaglia. Me lo comprimesse con tutte le forze. Volesse tagliarlo, come si fa con i fili elettrici protetti dalle loro guaine di gomma. Non riuscivo nemmeno più a respirare, dal dolore. Non potevo fare i gesti necessari per finire il tornante: la macchina s’è fermata di botto.

L’ho capito per via di mio fratello che era un infarto. I sintomi erano identici a quelli che mi aveva descritto lui. Mi aveva riferito in dettaglio tutte le sensazioni, e le sensazioni erano esattamente quelle. L’unica differenza è che io invece di essere nella vasca da bagno ero in auto. In auto e in un posto isolato. E poi a giudicare dal male era un infarto più grave ancora del suo. Lui non era morto, io molto probabilmente sarei schiattato.

Il motore della macchina s’era spento, il silenzio mi rintronava nelle orecchie. Era una notte gelida di pieno inverno, e non si vedeva in giro anima viva. Niente impazienti automobilisti, niente pedoni, niente fanatici che fanno footing nella notte. Ce ne sono sempre, ma in quel momento lì non ne spuntava neanche uno. C’erano solo le stelle. Magnifiche stelle di tutte le dimensioni e più o meno sprofondate nel nero. Ma le stelle in questi casi non muovono certo il culo, mi dicevo.

Sapevo che in questi casi l’unica cosa che conta è arrivare al pronto soccorso il prima possibile. Sapevo bene che se c’è qualche speranza, si gioca nell’ordine dei minuti. Ma me ne stavo impalato con i piedi puntati contro la plancia della macchina, perché avevo constatato che al minimo accenno di movimento la stretta diventava più dolorosa e il ritmo dei battiti si faceva ancora più irregolare. Tutte le mie energie fisiche e mentali le mettevo quindi nel non spostare nemmeno una fibra del mio corpo. Non me ne importava dell’ospedale e della morte, non volevo avere male.

Troppo arrosto di maiale e troppo sugo, con troppe patate al forno, mi dicevo. Belle unte, le patate, come le fa mia madre quando ha degli invitati. E per coronare il tutto una burrosa torta al cioccolato annegata da una cascata di panna montata. Un tripudio di acidi grassi saturi. Il tutto generosamente innaffiato con un rosso denso e scuro riesumato dalla cantina di mio padre, uno sciroppo troppo alcolico che avrebbe stroncato anche un cavallo da tiro.

Ero molto lucido, me ne meravigliavo io stesso. Stavo vivendo gli ultimi istanti della mia esistenza, e ero più lucido che mai. Presto però tutta quella lucidità sarebbe finita in pasto ai vermi: Phylum Platelminti, sottoregno Invertebrati, regno Animalia, dominio Eucarioti. Da non confondere con gli anellidi, o vermi piatti, che essendo vegetariani non sgranocchiano i cadaveri.

Mi domandavo se era quella l’acutezza dei morenti di cui tanto si parla. Io però più che vedere sfilare il passato vedevo sfilare tutti i cibi che avevo ingurgitato. Sentivo che dentro il mio stomaco tutti quei micidiali alimenti s’erano amalgamati, si accingevano a una battaglia finale che avrebbe mobilitato ogni singolo ingrediente. Bisogna essere completamente imbecilli per strafarsi a quel modo. Non potevo dare sempre la colpa agli altri.

Nei dintorni non c’era nessuno che potesse darmi una mano, ormai era assodato. E beninteso non avevo telefonino, perché come sanno tutti quelli che mi conoscono sono contrario ai telefonini. Per una questione etica, prima ancora che per cristallizzazione ideologica, come ripeto sempre.

La tenaglia continuava a stringere. O meglio adesso era il cuore stesso che si strizzava da solo: sentivo distintamente la sua forma nel petto. Era lui che si comprimeva come un pugno serrato con tutte le forze, lui da solo, era inutile stare lì a cercare delle cause esterne. Percepivo il contorno delle sue pareti, con il restringimento a imbuto in basso, e l’aorta sopra: riuscivo a visualizzarlo alla perfezione. Una sorta di ecografia, dove al posto dei raggi dello strumento utilizzavo il mio stesso dolore.

Già prima della fine della cena avevo trincato almeno il triplo del necessario, mi dicevo. E poi anche la grappa ci avevo bevuto dietro, diversi bicchierini. E per finire quattro dita di limoncello, dicendomi che così almeno mia madre avrebbe buttato via quella grottesca bottiglia che le conteneva. Ma ormai era inutile stare a piangere sul latte versato: avevo un infarto. Il mio primo infarto. Era inutile dare la colpa ai commensali, per noiosi e infidi che fossero.

Non potevo stare lì a aspettare chissà cosa, dovevo cercare di arrivare al prossimo paese, mi dissi. Probabilmente era l’ultima mia azione, l’ultimo abbozzo di atto cosiddetto razionale, ma dovevo pur sempre tentare. Era pur sempre meno idiota morire per strada che fermo in mezzo a una curva, con l’auto di traverso.

Resistendo al dolore misi in moto, e in qualche modo riuscii a ingranare la prima. Il male era adesso un po’ meno forte, o almeno così mi sembrava, forse mi ci stavo abituando. Ma probabilmente la necrosi stava pappandosi le pareti del mio cuore, l’ischemia necrotizzava irreversibilmente i tessuti. Nessuna medicina, nessuna terapia, nessun intervento chirurgico avrebbe più potuto restituire alle membrane del mio cuore l’elasticità e la vita. Come un maglione di lana stirato con il ferro da stiro regolato sulla temperatura massima, per intenderci. Mi era capitato, sapevo di cosa parlavo.

Arrivato al tornante il dolore ridivenne insopportabile. Il problema è che al minimo tentativo di muovere il volante la mia regione cardiaca si strizzava come si strizza uno strofinaccio per togliere fuori tutta l’acqua. Solo che il mio era un cuore, un cuore pieno di sentimenti, e tutto sommato anche di belle speranze, non uno strofinaccio: un dolore da urlare. Mi fermai di nuovo, e anche questa volta il motore si spense. L’abitacolo della mia decrepita automobile fu di nuovo invaso dal silenzio.

Non sarei mai arrivato da nessuna parte mi dicevo, guardando ancora le stelle. Il primo paese era a diversi chilometri, ognuno con una miriade di curve. Proseguire era un suicidio: tanto valeva mettere il mio cuore in un tritacarne. Me li vedevo, i filamenti sanguinolenti che sarebbero usciti dai buchetti metallici in basso. Calcolavo quanti pugni di carne macinata ne sarebbero venuti fuori. Quante polpette ne sarebbero risultate, quanto pane grattugiato ci sarebbe voluto. Quanti rametti di prezzemolo. Polpette di belle speranze.

Nonostante l’inesorabile avanzare dell’infarto la mia testa funzionava quasi meglio del solito, avevo l’impressione. A dir la verità uscendo dalla casa di mia madre mi sentivo un po’ annebbiato, e avevo perfino centrato un vaso di fiori, finendo steso per terra, mentre adesso sentivo che il mio cervello andava via come un orologio svizzero. Metteva in relazione, confrontava, buttava lì promettenti abbozzi di teorie, immaginava. Soprattutto immaginava. La mia benedetta testa aveva passato la sua esistenza a immaginarsi delle panzane, e per non smentirsi anche adesso svolazzava nel regno dei possibili. Fino alla fine persa nelle sue divagazioni prive di costrutto.

Provai a ripartire. Quella stradina che avevo preso era però piena di tornanti, tornanti dettati dall’infelice conformazione orografica di quel postaccio dove avevo avuto la sventura di nascere e dove mi ostinavo a tornare di tanto in tanto. Ogni volta che giravo il volante assieme alle ruote girava anche il mio cuore. Il mio cuore s’era fuso nella meccanica di ferro dell’auto da immigrato albanese. E quindi l’unica soluzione era procedere a passo d’uomo, in prima. Sterzando il meno possibile, in modo da ridurre i contorcimenti della cassa toracica. Pazienza per la traiettoria approssimativa, pazienza se mi ritrovavo tutto sulla sinistra. Non era certo il momento di pensare al codice della strada.

Mi domandavo se sarei davvero morto. Sì!, rispondeva senza mezzi termini una parte di me. Con quel male lì, così improvviso, così lancinante, e con quella tachicardia, il decorso più verosimile era il decesso, argomentava quella sezione più razionale, convinta di saperla lunga in fatto di cardiologia. Mi avrebbero ritrovato con la testa appoggiata sul volante, doppiamente stecchito, vista la temperatura polare. Ma in fondo era uguale, morire o meno: un paio di modesti romanzetti ero pur sempre riuscito a metterli lì. Qualche periferica biblioteca conservava pur sempre un esemplare di uno o l’altro dei miei testi, una qualche occhialuta dottoranda si sarebbe forse intestardita un giorno a riesumarlo. In quella fetta di me lo stoicismo andava a braccetto con una trattenuta solennità, mi accorgevo.

Un altro trancio di me sperava però di non morire. O meglio, sapeva benissimo che ho il viziaccio di dipingermi tutto in nero, ma che spesso e volentieri finisco poi per cavarmela. Sapeva che drammatizzare è un modo come un altro per non guardare in faccia la realtà. Conosceva quello a cui sarei andato davvero incontro: brodini semitrasparenti, pallide carote lesse, insulse mele cotte, orari da convento, l’apparecchietto digitale per misurare la pressione sempre a portata di mano. Niente mangiate, niente bevute, niente sigarette, niente epiche scopate: un ialino vegetare da infartuato. Può sembrare incredibile, ma quel sarcastico lembo di me stesso già mi vedeva alle prese con i fastidi della postconvalescenza. Vedeva la depressione che mi si sarebbe incollata ai polmoni e all’anima: mi prendeva in giro in anticipo.

Il problema è che quei due me sapevano entrambi quasi tutto sull’infarto. Da quando appunto mio fratello tre anni prima aveva avuto un infarto molto grave. A quarantasei anni. Come succede sempre in questi casi avevo seguito le varie fasi della sua via crucis, dalle prime drammatiche quarantott’ore fino alla guarigione. Insomma, guarigione: fino alla scatola di medicine sul tavolino accanto al divano, dalla quale ogni tanto mentre si parla pesca una pillola, una compressa. Con la spontaneità con cui un altro potrebbe attingere a un sacchetto di caramelline o a un cestino di pop-corn. Un numero impressionante di pastiglie e di capsule di vario colore e dimensione, con micidiali effetti collaterali. Anche sessuali, suppongo, anche se non ho mai affrontato con lui questo tema.

Piano piano, e neanche a farlo apposta sempre sulla corsia di sinistra, ma avanzavo. Il volante lo giravo ormai solo con le ginocchia, in modo da non torcere il busto. A ogni curva sperimentavo nuovi piccoli trucchi per farmi meno male possibile. Li confrontavo, li perfezionavo. L’essere umano è maledettamente adattabile, mi dicevo, stupendomi io stesso della mia beota autosoddisfazione.

Arrivato al paese provai a guardarmi attorno, per quel che  ci si può guardare attorno senza girare di un millimetro la testa. E comunque non c’era in giro anima viva: tutti già a nanna, come si addice a dei grigi cittadini fintamente operosi. O alla meglio intenti a godersi delle relazioni umane virtuali su internet. I due bar erano strachiusi. C’era solo una cabina telefonica intirizzita dal gran freddo, che certo non avrebbe funzionato, come sempre le cabine telefoniche quando si ha bisogno.

Decisi allora di provare ad arrivare da mio nipote, come stavo facendo quando il mio cuore s’era ammutinato. Non erano certo tre chilometri in più che avrebbero cambiato le cose: con un po’ di fortuna ce l’avrei fatta, e sarei morto là. Pur sempre un bel risultato, vista la situazione. Se la sarebbe sbrigata lui con il cadavere e con le formalità.

Il problema non era solo quello che avevo ingurgitato quella sera, mi dicevo, sempre avanzando in prima, senza né accelerare né frenare. In realtà era da mesi che mangiavo e bevevo più del necessario. Ogni giorno mi giuravo che sarei ritornato alle scodelline di riso integrale condito con un filino di olio di colza, e ogni giorno mangiavo come un bue.  Mangiavo troppo, e soprattutto bevevo come una spugna. Vino e superalcolici. Ma anche con le sigarette, c’ero andato più forte del solito. Il tutto in un periodo di stress lavorativo prolungato. Aggravato da un sonno molto difficile la notte, legato a annosi problemi sentimentali. Il cocktail esemplare per avere un signor infarto.

Mio fratello aveva avuto il suo primo infarto a quarantasei anni, e io per l’appunto ero reduce dalla cena per i miei quarantasei anni, mi dicevo, sempre procedendo sulla corsia di sinistra. Era come se alla macchina le piacesse più la sinistra che la destra, per una volta che le lasciavo fare quello che voleva lei. Sei proprio una vecchia baldracca di sinistra, esattamente come il tuo proprietario!, mi venne da dirle. Ad alta voce. Mi fece bene sentire la mia voce. Era pur sempre una voce umana.

Visto che non avevo saputo imparare la lezione adesso avevo anch’io un infarto, mi dicevo. Alla stessa età di mio fratello. Un’età completamente insulsa per morire, sotto tutti i punti di vista. Morire a quarantacinque anni o a cinquanta aveva un qualche senso, ma non certo a quarantasei. Altro che maggiore coscienza delle cose, sono peggio di lui, mi dicevo.

All’improvviso fui accecato da una luce aggressiva come quella di un flash, ma più persistente, accompagnata da un interminabile tuono che mi fece sbattere la testa contro il tensore della cintura di sicurezza. Uno spavento da far venire un infarto, per chi non fosse già alle prese con uno. La causa era un bolide arrivato in senso contrario a folle velocità: prima di rendermene conto ero finito di traverso sulla carreggiata, di nuovo con il motore spento. Di nuovo nel silenzio più totale, con le solite stelle curiosone.

Uno dei tipici guidatori tutti presi dalla loro furia automobilistica, e che se non stai attento ti ammazzano!, mi dissi. Vanno come i pazzi, e poi si stupiscono se fanno gli incidenti! Bisognerebbe ritirargli a tutti la patente! Parlavo ancora a voce alta. O meglio, farfugliavo dei suoni che faticavo io stesso a comprendere. Probabilmente l’ischemia era entrata nella fase più esacerbata. Abbiamo sfiorato l’ammazzamento di un morto!, sbottai. Cercavo di fare lo spiritoso, come spesso succede quando si è avuta molta paura.

(continua)

Immagine di Gaston Chaissac.

Objets trouvés : Ann Briggs

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Ann Briggs for beginners
di
Gian Paolo Ragnoli

Non è facile scomparire.
Ci hanno provato in tanti a fare i desaparecidos ma pochi ci sono riusciti davvero.
Non basta nemmeno essere morti per stare tranquilli, perchè è sicuro che prima o poi spunta fuori quello che ha visto Elvis che faceva l’autostop sulla strada per Memphis o quell’altro che (giura!) ha incontrato Jim Morrison in un bar tabacchi all’angolo di Place Saint-Sulpice.
Ci sono poi quelli che, dopo anni di onorata latitanza, si costituiscono con una telefonata alla casa discografica, come Peter Green, bruciando poi con una carriera “qualunque” l’alone mitico conquistato a caro prezzo, oppure ci sono quelli veramente strani, come Vashti Bunyan, che dopo aver fatto passare trent’anni dal suo unico album, passati a girar le isole britanniche su carri di nomadi e a occuparsi della prole, a cinquant’anni si compra un computer, digita il suo nome, scopre che c’è chi è disposto a uccidere per il suo disco e decide di reinventarsi una nuova vita accanto a musicisti dell’età dei suoi figli.
Lei no, Ann Briggs è scomparsa davvero, e non è nemmeno pentita.

Filologia e “verità”

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di Daniele Ruini

Quale importanza abbia avuto, nella storia dell’umanità, la parola scritta è un fatto difficilmente sottostimabile. Per quanto riguarda, più in particolare, la storia delle religioni, ciò è chiaramente evidente in tutti quei culti che riconoscono autorità sacra a uno o più testi, ritenuti frutto della diretta ispirazione divina, ovvero “parola di Dio”. Dato lo speciale statuto assegnato a tali scritture, ogni operazione volta a definirne con esattezza il dettato testuale acquista un valore particolare; se, da un lato, avvicinarsi il più possibile allo stadio originario di un Testo Sacro significa ridurre la distanza che separa dalla supposta Verità in esso contenuta, dall’altro lato, rimettere ogni volta in discussione la lezione di un’opera di tal fatta non può non avere conseguenze delicate per la comunità religiosa che di essa ha fatto il proprio testo di riferimento. Il rapporto tra Sacre Scritture e filologia (la disciplina finalizzata a ricostruire la veste originaria di un testo attraverso lo studio delle varie fasi della sua trasmissione) è infatti necessariamente contraddittorio: il carattere dogmatico della “parola di Dio” può sopportare il libero esercizio critico della filologia? E soprattutto: fino a che punto saranno disposti ad accettarlo i rappresentanti delle gerarchie ecclesiastiche?

Sud 12 – Battere cassa

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Installazione di Claire Robert

Sud 1945 – 1947: Giornale di cultura, giornale di cassa
di
Renata Prunas

Provateci anche voi, oggi, a fare un giornale con pochi soldi, così com’era stato per ‘Sud’, allora con poche lire, nel clima di un tragico dopoguerra napoletano e pensando, soprattutto, a un nuovo giornale meridionale di dichiarata ispirazione europea.
La storia del gruppo ‘Sud’, così come ci è stata più volte raccontata da Anna Maria Ortese che ne faceva parte molto attiva, “…anziché rivelare, impercettibile e spaventoso, il combattimento tra le esigenze della ragione e l’antichità, appariva piuttosto come l’ingenuo conflitto tra i sogni della gioventù e la soverchiante logica delle cose.”
Com’è noto, ‘Sud’, “il giornale di proprietà del Prunas”, ricorda sempre la Ortese, “uscì in 7 numeri ognuno dei quali fu un’avventura, e costò vendite clandestine di oggetti familiari, o pegni, o cambiali, e spesso collette fra i redattori più fortunati”.
“Ne avete cani da vendere?”, si chiedeva Carla de Riso, allora caporedattore, ricordando le origini del giornale nel primo numero del nostro nuovo ‘Sud’.

Amnesie chimiche

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[A lettura ultimata consiglio vivamente di seguire il link  Dal Polo all’Equatore.
A proposito dei due cineasti, vd. anche questa discussione. dp]

di Rinaldo Censi

Nel 1981, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi terminano Catalogo 9,5 – Karagoez (1979-1981); il film ha preso circa tre anni di lavoro. È il primo film che i due filmmaker hanno realizzato ri-filmando i materiali via camera analitica, passando così dal gesto di filmare oggetti (cataloghi e profumi) a quello di ri-filmarli, partendo dal supporto, dalla striscia di film che già li contiene, ri-fotografandoli dunque fotogramma per fotogramma, isolandoli attraverso questo nuovo dispositivo. Ri-filmano oggetti, volti, gesti, espressioni, che sconosciuti operatori, professionisti, amatori della domenica, scienziati avevano a loro volta fissato su pellicola cinematografica agli albori del cinema.

Breve confessione di un terrorista potenziale e provvisorio

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di Flavio Santi

Come la lettera rubata di Poe, forse a dirlo chiaramente si rimane più nascosti e si rischia meno. A metterlo sotto il naso di tutti. Comunque senza giri di parole posso dire di avere partecipato a un piano per eliminare il presidente del governo signor Silvio Berlusconi.

Estratti: Giorgio Morale

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Giorgio Morale, A casadidio, Lecce, Manni Editore, 2009.

lotto

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Aspettavamo l’autobus, pioveva, e sentivo un dolore. Poi ho salutato Ico dal finestrino, lui ha risposto con un cenno sollevando l’ombrello, e l’autobus è partito. Subito dopo ho avvertito una stretta al pube, che si ripercuoteva – come un contraccolpo – sulla vagina. Erano le prime contrazioni, ma non lo sapevo. Me l’ha detto Alba al telefono.
«Vieni subito.»
È scattata la catena telefonica e mi sono trovata in taxi, tra Ico e File. Nella corsa all’ospedale temevo una rottura delle acque a ogni fitta, con Ico che calcolava l’intervallo fra una contrazione e l’altra.

Il nano e la ballerina

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di Andrea Cortellessa

Sembra passato tanto tempo da quando ci s’invitava a non demonizzarlo, a liberarci dalla sua «ossessione». Si ricorderà come il dimissionario segretario del piddì, nella campagna elettorale destinata a sancirne il definitivo trionfo, si spinse sino a censurare il nome del «candidato dello schieramento avverso». Come se ogni censura non fosse in primo luogo una preterizione: presenza tanto più schiacciante quanto più rimossa. Un calco vuoto che s’è rivelato maschera funebre: pietra tombale su ogni residua ipotesi di poterglisi opporre.

Storie infinite

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di Antonio Sparzani

Immagine ricostruita, da Gustav Friedrich Hertzberg: Geschichte der Stadt Halle an der Saale, Band I
Immagine ricostruita, da Gustav Friedrich Hertzberg: Geschichte der Stadt Halle an der Saale, Band I

Parlavo degli spa- venti dell’infinito, l’ultima volta. Spa- venti di poco conto, naturalmente. La mente degli uomini si arrampica talvol- ta su pareti lisce e pianta chiodi per avere appigli; se poi c’è qualcosa da raggiungere in cima a una determinata parete, all’inizio nessuno lo sa; ma si sa che il rapimento dell’arrampicare è l’arrampicare stesso. Nella storia della matematica, e più in generale della scienza, è talvolta accaduto che dalla sommità della parete siano apparsi panorami – spesso inattesi – di bellezza straordinaria e talvolta invece non c’era nessuna fine alla parete, e i chiodi sono rimasti lì, inutili e rugginosi.

E poi, non crediate, dionescampi, che tutto sia così oggettivo, men che meno nella storia della scienza: taluni hanno detto di scorgere, ad un certo punto della parete, dei paesaggi da togliere il respiro, cui altri hanno invece guardato con stanca indifferenza. Fortunatamente il cervello degli umani è vario assai.

In questa storia dello spuntare dell’idea di infinito all’orizzonte della scienza moderna ci sono stati alcuni che si son com—piaciuti un sacco e altri che sono addirittura inorriditi. Esempio vivido di ciò fu il matematico tedesco Leopold Kronecker (1823 – 1891) che ritenne i “numeri transfiniti” (vedi oltre) creati dal matematico di nascita pietroburghese ma poi attivo a Halle, in Sassonia-Anhalt, Georg Cantor (1845 – 1918), suo antico allievo, Humbug – ciarlatanerie – come del resto il grande matematico e fisico Henri Poincaré (1854 – 1912) che li definì una “malattia” dalla quale la matematica andava guarita.

E la questione è sempre la solita: appena ci si distacca, poco o tanto, da quelle che sembrano essere nozioni intuitive, qualcosa dentro di noi si ribella: ma come, il mondo non è fatto come ce lo siamo sempre immaginati, fin dalla culla?

Ictu oculi

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di Lanfranco Caminiti

Forse, come dice Berlusconi – a cui piace ricorrere al suo repertorio di latino salesiano – parlando della crisi economica, non è evidente ictu oculi cosa fare. Ma a colpo d’occhio, la stravittoria elettorale di Berlusconi in Sardegna e la crisi apertasi nel Partito democratico con le dimissioni di Veltroni segnano il completamento di un processo e l’instaurazione di una nuova fase, di un nuovo periodo. Il berlusconismo – ormai è senso comune – è stato, è per sua costituzione e suoi strumenti invasivo e pervasivo, assoluto. Non è solo un partito, né solo una coalizione ma la progressiva costruzione di un regime intorno un uomo. Quest’uomo ha sinora stravinto e conquistato gli italiani. Ha stravinto nei periodi di vacche grasse, stravince nei periodi di vacche magre, quando, per paura, insicurezza sull’oggi e il domani e per mancanza di credibili alternative, gli si affolleranno intorno, come sempre accade, con consenso convinto o riluttante, delega assoluta o relativa, fede plaudente o ritrosa.

Do you remember Amelia Rosselli?

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Dedicato a Giorgio di Costanzo
cui si deve questo post. E a memoria futura per il prossimo pirla che si sveglia dicendo che i blog non servono a un cazzo. effeffe


«I versi non debbono ripetere la vita, ma riscoprire qualcosa di nuovo. Il ricordo di mio padre Carlo, assassinato, poteva diventare un tema, un’ossessione: ho cercato di liberarmi con l’aiuto della psicoanalisi»
Amelia Rosselli

Il dolore in una stanza
di
Renato Minore
(“Il Messaggero”, 2 febbraio 1984)

La mansarda in cui vive è nel cuore della vecchia Roma, a due passi da Piazza Navona. È molto piccola, solo un lungo corridoio e una stanza, con il letto e il tavolo da lavoro. Dalla finestra c’è la visione molto suggestiva che ci si aspetta: una fuga di tetti e tegole. Il silenzio è compatto, assoluto. L’ultima luce del pieno pomeriggio invernale scorpora lentamente la sagoma ai pochi oggetti che stanno intorno: le pareti foderate di libri sono una massa incerta, sfumata, irreale. Resta solo la sua voce; e qualche volta, la sua risata. La voce è gutturale e affrettata, come di chi ha dovuto ricavare l’italiano da un’esperienza plurilingue e cosmopolita.

Seminario sui tè oolong – Milano 8 marzo

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Barbara Sighieri ha da poco portato a Milano alcuni tè wulong di qualità strepitosa. Segnalo volentieri l’opportunità di gustarli in una compagnia colta, intelligente ed informale – Jan

Domenica 1 8 marzo ore 15:30-18:30 Seminario sui tè oolong presso il Ristorante Specialità di Taiwan, Via Adda 10 Milano (FFSS, MM2-3, mappa)

Poesia + Romanzo a Milano (27 febbraio)

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Venerdì 27 febbraio – ore 18
Libreria Odradek di Milano

Biagio Cepollaro presenta:

il romanzo di Francesco Forlani Autoreverse
(Ancora del Mediterraneo, Napoli, 2008)
&
il libro di poesia di Andrea Inglese La distrazione
(Sossella, Roma, 2008)

Saranno presenti i due autori che leggeranno brani dei loro libri.

Libreria Odradek
Via principe Eugenio 28
20155 Milano
02 314948

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NEW DIRECTIONS – Le stelle del ’79

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di Jazz from Italy

Illustrazioni di Maurizio Ribichini

In effetti non capitava spesso, ma quella volta mia madre si era proprio impuntata.

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