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Patti Smith, o lo spirito del rock

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di Marco Rovelli

Ho sempre pensato che il rock sia un linguaggio talmente articolato da permettere a una ricerca spirituale intensa di esprimersi pienamente. Il rock, con il suo battere/levare, con l’andare alla radice del ritmo, è la rappresentazione più potente del corpo e della sua immensa energia. E’ in questo senso – un senso profondamente “religioso” – che Patti Smith è stata a buon diritto chiamata la “sacerdotessa” del rock. Nel suo sciamanico mettersi in scena, Patti Smith comunica nella maniera più alta – e insieme comprensibile a chiunque – una cosa semplicissima: la celebrazione della vita. E “semplice”, del resto, è la parola che lei usa continuamente, come chiave di lettura del mondo.

Big Sue

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di Vito Chiaramonte

Due uomini trasportano una grande tela che raffigura un grasso nudo di donna. Lei scivola quasi dalla superficie impennata e consunta del divano su cui dorme. Uno dei due la guarda in viso, quasi temendo di svegliarla. L’altro scende piano da una piccola scala perché ha intuito la preoccupazione del primo. Per strada, poi, una donna fotografa la sua immagine esposta nella vetrina di Christie’s, come in una macelleria, esibita e dissacrata. Big Sue, assistente sociale, per nove mesi, come in una gravidanza, ha posato per il pittore. La sua magnifica grassezza le conferisce un’aria insieme triste e trionfale, appena smorzata in tenerezza dal gesto di aggrapparsi allo schienale del divano, per non cadere, come i neonati che stringono il dito nelle loro mani minuscole, come a esprimere una memoria ancestrale di rami ai quali aggrapparsi per non precipitare, o di madri ai cui peli bisognava tenersi attaccati per non morire. L’immagine, allora, non è solo il ritratto di Big Sue, ma di quella corpulenta madre scimmia che ci portiamo dentro la testa, o nel dna, o nella memoria di quello che non abbiamo mai conosciuto e che, tuttavia, conosciamo meglio di quello che abbiamo imparato per aver visto.

I giovedi di Turro (calendario di marzo)

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“I GIOVEDI’ DI TURRO”, rassegna di poesia organizzata dall’Associazione La Conta in collaborazione con il Circolo Arci Martiri di Turro e l’Associazione Le Belle Bandiere. Si tiene ogni giovedì alle ore 21.00, al Circolo ARCI Martiri di Turro, Via Rovetta, 14 a Milano. Ingresso gratuito con tessera ARCI.

I GIOVEDI’ DI TURRO
Uno spazio per condividere ascolto e partecipazione, perché Milano ha bisogno urgente di opportunità reali di espressione per tutti. Ne siamo convinti: apriamo quindi le nostre porte per lanciare la sfida di un appuntamento fisso settimanale in cui incontrarci a fare poesia e non solo, all’insegna dello scambio e del contatto umano. Saremo protagonisti e saremo pubblico. Cresceremo mese dopo mese anche grazie alle vostre idee.

Spesso reading: poeti giovani e meno giovani, noti e meno noti si alterneranno con le loro letture-spettacolo nella sala underground che già si candida a cuore pulsante della poesia a Milano. Altre volte letture aperte: dieci minuti ciascuno per ogni autore; per partecipare basterà presentarsi in sala mezz’ora prima dell’inizio della serata segnando il proprio nome sulla lista; una vera jam-session da club di lettura. Ogni tanto presentazioni di libri di poesia: gli autori verranno a parlarci dei loro lavori.

Gli incontri de “I giovedì di Turro” sono coordinati da Anna Lamberti-Bocconi.

L’epica-popular, gli anni Novanta, la parresìa

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Appunti sui tre saggi di Wu Ming 1 contenuti in New Italian Epic

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di Tiziano Scarpa

Nei suoi tre saggi contenuti in New Italian Epic, Wu Ming 1 dice alcune cose che trovo condivisibili. Prima di lui, parecchie delle stesse cose le hanno dette Carla Benedetti in Pasolini contro Calvino e L’ombra lunga dell’autore e Il tradimento dei critici e in vari interventi, Alberto Casadei in Romanzi di Finisterre, Valerio Evangelisti in Alla periferia di Alphaville e Distruggere Alphaville e in vari interventi, Tommaso Labranca in Andy Warhol era un coatto, Antonio Moresco in Lettere a Nessuno e Il vulcano e L’invasione e in vari interventi , per non parlare di altre scrittrici e scrittori stranieri nelle loro riflessioni sulla letteratura.

Di notte

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di Andrea Inglese

Di notte, è il momento della calma, è quando si va a letto, smettendo di gironzolare, di inventarsi pretesti per accendere di nuovo la luce, per tenere ancora i piedi nelle scarpe, sta davvero per finire la lunga agitazione diurna, che ha continuato fino all’imbrunire, e anche dentro la tenebra, un’agitazione ben illuminata da fasci di luce, con tutta l’elettricità che ronza scintillante nelle alogene, e finché c’è luce, finché ancora qualcosa deve essere preso dal bagno, o lasciato nel lavabo, o rimesso nel suo cassetto, tornano anche le loro immagini, le capigliature a volte, oppure solo le voci, le voci di quando sono inquiete, e chiamano, quasi piangendo o solo parlano, lasciando grandi pause tra le frasi, con tristezza, o non la smettono di ridere, come fossero al piano di sopra, o si lasciassero calare con delle altalene, oppure tornano i loro seni, ma sempre due alla volta, e nella luce artificiale della stanza, mentre si scorrono poche righe di un romanzo, vengono in mente quegli spostamenti fatti tra le lenzuola, spesso di giorno, quando si divaricano gambe, si adagia un corpo sulla pancia, finché non giunge la vera calma, e si chiudono gli occhi, si spengono pure le immagini interne, quelle veloci comete di volti femminili, allora davvero si scivola via, si entra nel sonno,

Patto col fantasma

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di Lorenzo Esposito

“Quanti siamo in questa casa?”, “A parte i fantasmi, quattro o cinque”. Questa stupefacente – e, conoscendo Raoul Ruiz, molto poco involontaria – definizione di cinema, è resa in un semplice dialogo di Nucingen Haus. Da Henry James a Edgar Allan Poe (fino a Balzac, da cui è curiosamente tratto il film), è sempre stato così: il battito del fantasma è una fonte elettrica tanto potente quanto invisibile, sotto-tracciata, contemporaneamente avulsa e convulsa. Essere esposti alle sue precipitazioni e al suo basso continuo, essere esposti alle sue presenze, significa accettare la doppia corsia della manipolazione e della rivelazione, di cui sempre sono costituite le immagini. Non sono questo i fantasmi, il tentativo estremo di interrompere l’illusione del tempo, corrugandolo fino a una piega esplosiva e segreta, che addirittura potremmo chiamare o desiderare che fosse (il) presente?

Autismi 6 – Il mio primo infarto (2a parte)

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index1 di Giacomo Sartori

In qualche modo sono riuscito a arrivare fino al piazzale della casa di mio fratello. Il peggio è fatto, mi dissi, tirando un sospiro di sollievo. Mentre uscivo dall’auto rimasi però impietrito: il male al cuore era di nuovo terribile. Avevo una gamba fuori dalla macchina e una dentro, ma non potevo muovermi, non potevo respirare, non potevo fare niente. L’aria fredda mi raschiava la gola, scendeva a frustare la zona del cuore giù nel torace. E erano ripresi i tonfi disordinati. Le stelle aspettavano verosimilmente che tirassi le cuoia, come quelle persone che assistono a un film fitto di ammazzamenti sanguinolenti leccando tranquillamente un gelato.

Quando all’ospedale avevano chiesto a mio fratello se qualcuno in famiglia avesse avuto dei problemi cardiaci, mi venne da pensare, lui aveva risposto risolutamente: no! Indossava una specie di spolverino azzurro in materiale sintetico da cui spuntavano i peli del petto e delle ascelle, ma la faccia era quella di uno che veste una giacca costosa e una bella cravatta. E anche mia sorella, pure lei presente, aveva risposto: no! Con la sua solita sicumera saccente, amplificata da un timbro insopportabilmente nasale: lavorando in un ospedale pensa di sapere le cose mediche molto meglio degli altri membri famigliari. Non è un medico, ma nei nostri confronti si atteggia a medico.

Nostro padre l’anno prima di morire aveva avuto un infarto, avevo allora fatto presente. È vero che aveva due cancri, e che lo stavano ammazzando con la chemio, ma aveva pur sempre avuto un bell’infarto. E questo nonostante il suo regime salutista di ascendenza mussoliniana, nonostante le quotidiane marce a piedi, nonostante non fumasse ormai da decenni. Poi non era morto per quello, ma l’infarto gli era venuto. Del resto anche il fratello pittore fallito era schiattato dopo un’operazione al cuore riuscita male. E il fratello più giovane aveva avuto un attacco molto grave prima ancora dei sessant’anni, e ci era quasi rimasto. Quanto al terzo e ultimo zio gli avevano fatto un’operazione al cuore di non so quante ore, e con non so quali prodezze idrauliche gli avevano permesso di tirare avanti ancora un po’.

Non me l’ero preparata, perché a dire la verità non ci avevo mai pensato nemmeno io. E forse era per puro spirito di contraddizione che avevo cominciato a parlare, come mi succede qualche volta con i miei deleteri famigliari. Quello che però era venuto fuori era assolutamente innegabile: quattro fratelli, quattro cardiopatici della madonna. La nuda realtà era quella: il medico assentiva gravemente con la testa, come a dire che si aspettava un quadretto del genere. Un caso da manuale, sembravano dire le sue labbra ben strette e le  narici palpitanti.

I miei fratelli mi guardavano invece come si guarda un importuno saltato fuori da chissà dove con un feto in mano. Per loro faccio apposta a tirar fuori delle frasi che fanno stridere i denti. Me le preparo prima, pianifico i momenti più adatti per passare all’attacco. Ormai è diventato un inossidabile pregiudizio che sbandierano ai quattro venti. Però in questo caso non potevano accollarmi il ruolo dell’efferato terrorista, perché le cose stavano esattamente come le avevo esposte io. Dovevano anzi conoscere un mare di particolari che corroboravano la mia tesi, visto che a me le notizie riguardanti il parentame arrivavano sempre a spizzichi e bocconi.

E anche dalla parte di nostra madre le cose non erano poi così allegre, ho continuato, approfittando del mio temporaneo vantaggio: nostro cugino aveva avuto un primo infarto bello tosto a trentacinque anni, e poi un altro di media gravità qualche anno dopo. E un altro cugino un infarto intestinale a quarantanove. E la sorella di nostra madre era morta di un ictus cerebrale. Quanto al nostro nonno materno le cose non erano chiarissime, perché c’era ancora chi sosteneva che si fosse suicidato, ma verosimilmente oltre che sifilitico era anche cardiopatico, e era morto per quello. Era già tanto che qualcuno fosse ancora vivo, con il cuore di merda che avevamo, quella era la verità. Il medico mi ha guardato abbassando le palpebre, come a significare che poteva bastare.

Ero lì con una gamba fuori e una dentro nel piazzale della casa di mio fratello, ormai mezzo assiderato. Ero pronto a restarci anche subito, ma non volevo soffrire. Il mio cuore poteva anche scoppiare, dividendosi in pezzetti minuscoli come un proiettile a frammentazione, bastava che se la sbrigasse lui. È per quello che restavo immobile. Stavo cercando in realtà di scendere a patti con la morte. Chiedevo un minimo di garanzie. E non so perché avevo l’impressione di essere sul punto di spuntarle. Ero io stesso stupito della fermezza che mostravo nei confronti dell’assatanata falciatrice. Mi stavo comportando molto meglio di quanto avrei immaginato.

È mia madre che ci ha affamato per tutta l’infanzia, con il risultato che né io né mio fratello sappiamo fermarci di fronte al cibo, mi dicevo. Se smetto di mangiare è perché decido che ho mangiato abbastanza non certo perché provo una qualche sensazione di sazietà: mi riempio sempre di più, ma nessun segnale arriva al cervello. Lei lo sapeva bene, quando ha deciso di preparare l’enorme arrosto di maiale e la  funesta torta al cioccolato: ha approfittato ancora una volta della mia debolezza. Solo che questa volta non è una semplice indigestione, è un infarto.

Sono poi riuscito a trascinarmi in qualche modo fino alla porta dell’appartamento di mio fratello. Mio nipote era lì con il suo amico. Stavano guardando la televisione. O meglio, tanto per cambiare stavano fumando uno spinello. Si capiva dall’inequivocabile odore di erba arrostita, e dai pezzetti di cartoncino sparsi un po’ dappertutto.

Mio nipote era contento di vedermi, non è questo, ma niente nel suo atteggiamento faceva pensare che avessimo un appuntamento. Come già era successo in altre occasioni si  limitava a spazzolarmi dall’alto in basso con lo sguardo. Quelle occhiate che fanno il punto della situazione. Io lo ho salutato come se niente fosse, e anche lui mi ha salutato. Poi quando mi ha chiesto come andava gli ho detto che avevo appena avuto un infarto. Ma pacatamente, come se si trattasse di un raffreddore.

Lui mi ha guardato con la sua solita aria svagata. Infarto?, ha chiesto, con il tono con cui si chiede se davvero fuori pioviggina. Probabilmente con il suo amico avevano fumato per tutta la serata. Anzi, era sicuro, a giudicare dall’esagerato arrossamento degli occhi. Si permette di soppesare impunemente il grado alcolico dello zio, però lui fuma uno spinello dietro l’altro. Infarto!, ho confermato io.

Lui si è riseduto. Forse bisognerebbe fare qualcosa, ha mormorato, con la sua solita voce strascicata. Eh, già!, ho detto io, sedendomi anch’io sul divano. L’infarto è grave, ha confermato l’amico. Lui doveva averne fumati settanta spinelli, dalla lentezza con cui parlava. Alla televisione c’erano delle immagini di una barca a vela che affrontava enormi onde nell’Oceano Pacifico. Era impressionante, veniva il mal di mare anche solo stando seduti sul divano. Tutti e tre guardavamo la televisione.

Mi venne in mente la volta che mio fratello mi aveva parlato di un nuovo programma comico. Piangeva, da quanto lo facevano ridere certi sketch che mi stava raccontando. E anch’io ridevo molto, perché mi piacciono i programmi umoristici. Come dire, mi piace anche solo che me li descrivano. Il fatto è che non ho la televisione, perché per ragioni estetiche sono contrario alla televisione. E quindi sono come quelle persone che non bevono mai, e basta anche solo l’odore del vino per renderle alticce. Vedendo come sghignazzavo mio fratello ha detto che dovevo assolutamente vedere qualcosa: andava a prendere una cassetta registrata da suo figlio, che in quel momento non c’era. Tuo nipote registra ogni puntata!, mi ha detto, a titolo di garanzia.

È tornato con la cassetta, e l’ha messa. Il primo sketch era davvero esilarante. Sia io che mio fratello ridevamo moltissimo. Dopo una trentina di secondi è apparso però un uomo nudo, e subito dopo anche una donna, pure lei nuda. L’uomo nudo s’è messo a sodomizzare la donna nuda. Io davo per scontato che fosse un altro numero, e quindi un po’ ridevo, come si ride per inerzia. Mano a mano che la sodomizzazione procedeva era sempre più evidente che si trattava di un film pornografico. Un film davvero molto pornografico. Io guardavo il film molto pornografico, e anche mio fratello guardava il film molto pornografico. E pure mia cognata tirolese guardava il film molto pornografico. Era diventata un’intricata scena di sodomizzazione collettiva, perché erano apparsi anche altri personaggi. Per un bel po’ abbiamo continuato a seguire con la massima attenzione l’aggrovigliata sodomizzazione collettiva. Ora mio fratello non rideva più, e nemmeno io ridevo.

Poi mio fratello si è alzato, e ha tolto la cassetta. Senza alcun commento. Ma dalla faccia era chiaro che per lui era un qualche problema di fabbricazione della cassetta, senza alcun rapporto con il figlio quattordicenne. Lui le tensioni preferisce eliminarle alla radice, in modo che non abbiano opportunità di attecchire. Ha sempre fatto così. Ma a quanto pare anche mia cognata tirolese usava lo stesso metodo. Per tutta la serata nessuno ha più fatto allusione alla cassetta.

Quando verso mezzanotte me ne sono andato, l’avevo dimenticato il film pornografico mimetizzato da programma comico. E invece nel piazzale ci ho ripensato, e sono scoppiato a ridere. Non riuscivo nemmeno a stare in piedi, da quanto ridevo. Ridevo anche mentre guidavo, sghignazzavo da solo. Evidentemente il riso s’era incistato dentro di me, come una bomba a effetto ritardato.

Forse è meglio se ti sdrai, mi disse l’amico di mio nipote. Già, forse è meglio che ti distendi, ha confermato mio nipote, contento che un’idea qualsiasi avesse fatto capolino. Mi fecero allora sdraiare. Io li guardavo, e loro mi guardavano. Alla televisione c’era adesso una pubblicità di scatolette per gatti. Il gatto vaporoso della televisione sembrava chiedersi anche lui cosa diavolo sarebbe successo.

In effetti sei molto pallido, mi ha detto mio nipote, come quando si imbellisce la realtà per non spaventare qualcuno. Sembrava che il suo cervello avesse preso finalmente l’abbrivio, cosa che se avessimo davvero affrontato la ripetizione del programma di scienze, come era nei piani, non sarebbe certo successa. Io stesso a dir la verità mi sentivo molto pallido. Mi sembrava però che mi facesse bene stare sdraiato. Mi veniva quasi da dormire: all’improvviso mi sentivo molto stanco.

In fondo mia madre lo fa apposta a preparare dei cibi così pesanti e così indigesti, mi dicevo. Lei normalmente mangia solo insalatine scondite, ma tutte le sue cene sono a base di fritti e di grassi saturi. Altro che prepararci le cose che ci fanno più piacere, in realtà è da anni che tenta di farci fuori, non contenta di aver eliminato suo marito. Dopo innumerevoli tentativi – con il pretesto del Natale o appunto di questo o quel compleanno – andati buchi, è finalmente riuscita nel suo intento. Quella torta untissima non era un dolce in mio onore, non era il mio dessert preferito, era una bomba a scoppio ritardato.

Forse bisognerebbe andare subito all’ospedale, ha detto l’amico di mio nipote, facendomi sussultare. Mi ero davvero appisolato. E a quanto pare loro si erano spaventati: pensavano che fossi svenuto, o peggio ancora. Mio nipote aveva abbandonato i suoi gesti strascicati da adolescente, si stava infilando la giacca a vento. E anche il suo compare si muoveva con molta più celerità del solito.

Io non voglio andare all’ospedale!, ho protestato. In realtà adesso non sto malissimo, ho corretto il tiro, accorgendomi io stesso del tono poco consono al mio ruolo di zio e di studioso scientifico. Non era che un piccolo malore, ora sta passando, ho detto, cercando di fare quello che nella vita ne ha già viste di tutti i colori, e che non ha paura di restarci. Loro però hanno ribadito che non c’era da star lì a discutere tre ore. Prima arrivavamo al pronto soccorso meglio era. Mi parlavano come i proprietari dei bar parlano agli ubriachi quando la sera vogliono chiudere. Mi alzavano di peso. Erano un po’ ridicoli a fare gli adulti, con i loro vestiti quattro misure troppo grandi da adolescenti. Grotteschi.

Mi hanno sdraiato sul sedile dietro della mia macchina, proprio come un vero  moribondo. Nessuno dei due aveva ancora la patente, ma l’amico di mio nipote poteva guidare senza nessun problema, secondo le rassicurazioni di entrambi. Io non obiettai nulla. In fondo ero contento che avessero preso in mano la situazione.

Non stavo malissimo: nel complesso il dolore al petto era diminuito notevolmente. E anche le irregolarità sembravano essere sparite. Eppure il mio cuore doveva ormai essere nelle condizioni di un pallone bucato. Vedevo le lave nere delle Eolie, quando pensavo alle necrosi del mio cuore. Le lave tutte screpolate, cupe e orribili.

Attraverso il finestrino di fronte scorgevo le stelle che continuavano a ostentare il loro falso interessamento alle sorti dell’umanità. Prima ancora di pensarci gli tirai la lingua. In fondo le colate di lava non erano poi così brutte, erano solo molto brulle, mi dicevo. Erano senz’altro meglio delle patate pesanti di grasso, delle tasche adipose dell’arrosto di maiale. Avevo quasi voglia di dormire di nuovo.

Deve aver bevuto un po’ troppo, forse è per quello che gli è venuto l’infarto, ha sussurrato l’amico di mio nipote, accendendosi una sigaretta. Si direbbe proprio, ha risposto mio nipote, sottintendendo che me l’ero cercata. Pensavano che dormissi. Avrebbero fatto meglio a pensare ai loro spinelli, mi dissi. E a non fumare nella mia macchina. Appena mi fossi ripreso ne avremmo riparlato, mi dissi.

Arrivati all’ospedale mi hanno fatto passare davanti a tutti. Una volta mi ero presentato con il naso tutto spiaccicato, ma per loro non era tanto grave, e mi avevano fatto marcire mezza giornata seduto su una sedia di plastica. Adesso invece era chiaro che il caso più urgente ero io. Ebbi un brivido lungo la schiena, mentre mi applicavano sulla faccia la maschera dell’ossigeno, e nel contempo mi facevano un’iniezione: forse me l’ero dipinta un po’ troppo in rosa. Avevo di nuovo molta paura, mi accorsi.

Un infermiere ha appeso sulla maniglia del lettino un cartellino sostenuto da un grosso elastico di gomma. Un cartellino rosso. Avevo visto bene, era proprio rosso. Anche a mio fratello avevano dato il cartellino rosso, che vuole dire pericolo imminente di decesso. Loro non potevano immaginare che lo sapevo, ma io lo sapevo benissimo. Per via appunto di mio fratello.

A prima vista il reparto sembrava davvero ben organizzato. Si davano tutti un gran da fare, cominciavano già a farmi le prime cure. Quindi non dovevo aver paura: sarebbe successo quello che era destino che succedesse. Dovevo pur sempre essere contento che per una volta qualcuno prendesse il mio stato di salute seriamente, e si occupasse in modo efficiente di me.

Avrei voluto che mi spiegassero quello che mi facevano, ma quando chiedevo delle informazioni mi rispondevano appena. O anche mi dicevano che non dovevo togliermi continuamente la maschera dell’ossigeno. Erano un po’ bruschi. Ma si poteva capire, erano tutti presi dallo sforzo di salvarmi. Io sentivo che parlare mi avrebbe fatto bene, ma loro  volevano che facessi il malato e basta. Era così che si faceva.

Chiudevo allora gli occhi e tornavo mentalmente al solito dilemma: sarei morto o no? Un po’ mi dispiaceva schiattare, perché una delle infermiere era proprio carina. Forse un po’ troppo seriosetta, ma certo in un frangente diverso sarebbe stata più sciolta, avrebbe sorriso. Le sarebbe venuta una rughetta verticale sulla fronte, se continuava a essere così seriosa. Sono proprio incorreggibile, mi dicevo, constatando la mia vacuità perfino in un momento del genere.

Era perfettamente coerente da parte di mia madre ammazzarmi, mi dicevo. Non era che l’ultimo atto di un lungo processo, un processo cominciato con la mia nascita. La conclusione obbligata, per così dire. Mi aveva messo al mondo per quello, per farmi fuori. Ecco perché negli ultimi tempi insisteva sempre così tanto perché partecipassi ai deleteri ritrovi di famiglia, ecco il perché. Ecco perché quella sera aveva continuato a mettermi nel piatto della calamitosa torta al cioccolato con il suo letale corollario di panna. Prima di morire lei stessa voleva essere sicura di avere eliminato me. Il suo anticonformismo era in fondo una forma di copertura come un’altra: tutti gli assassini hanno un subdolo alibi. Con la scusa del compleanno mi aveva dato il colpo di grazia.

Non si trattava affatto di un infarto, mi dissero prima ancora che fosse finito l’elettroencefalogramma. Il tracciato non rivelava niente di anormale. E comunque in nessun caso l’infarto dava quei dolori che avevo descritto. Senza contare che il cuore non era affatto dove indicavo io, era molto più in basso. Doveva quindi essere un dolore intercostale. Probabilmente ero caduto, e non me ne ricordavo, dicevano, sottintendendo che poteva esserci una relazione con il mio tasso alcolico. In ogni caso mi avrebbero misurato la troponina, e mi avrebbero tenuto lì fino al mattino in osservazione.

La poetica di Baricco

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di Franco Cordelli

Forse Alessandro Baricco ignora quanto pochi siano i teatri stabili in Italia; e forse ignora le ridicole cifre che vengono loro devolute. Ma di sicuro ignora quale sia il “sistema”, come esso sia ben lontano dall’impedire ai privati di investire in operazioni di teatro o dal consentire che (a causa della sua pochezza) i propri contributi siano altrove diretti. L’attuale Fus (Fondo unico per lo spettacolo) è di 365 milioni, meno dei 400 necessari per eventualmente spostare il prossimo referendum sulla legge elettorale. Ma non voglio tornare sul significato politico delle sue proposte, sui «benvenuto tra noi» della destra. Quello che mi interessa è il nocciolo della questione.

Della guerra

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di Nadia Agustoni

“[…] un esercito perdente insegue invece il successo partendo dallo scontro diretto.”

Sun Tzu

Italo Calvino in Perché leggere i classici si poneva una domanda:

«Perché leggere i classici anziché concentrarci su letture che ci facciano capire più a fondo il nostro tempo?» e «Dove trovare il tempo e l’agio della mente per leggere dei classici, soverchiati come siamo dalla valanga di carta stampata dell’attualità?».

Difficile dare una sola risposta. Si leggono i classici e i libri in generale perché non li si è ancora letti, oppure li si rilegge perché ci interrogano. I libri sono, alcune volte, una bussola con cui orientarsi. Quello che offrono è una traccia da seguire e dei percorsi. Se tutto va bene ci aiutano a scoprire qualcosa di nuovo o a leggere il mondo da una prospettiva diversa da quella a cui siamo assuefatti.

Sergio Piro, o delle turbolenze in aria chiara

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[Lo scorso anno, alla presentazione del mio “Lavorare uccide” all’Istituto italiano per gli studi filosofici di Napoli, conobbi Sergio Piro. Rimasi colpito dalle sue parole potenti, e dalla “verità” che di quella persona si percepiva. Sergio Piro è morto il 7 gennaio 2009. Il 20 febbraio scorso, nella stessa sala dove l’ho conosciuto, Sergio Piro è stato ricordato da allievi, studiosi, giornalisti, operatori del settore psichatrico, amici. Ho chiesto a Carmen Pellegrino di ricordare la sua figura per tutti i lettori di Nazione Indiana.]  m.r.

di Carmen Pellegrino

Sergio Piro era un uomo in rivolta. Fu lo psichiatra – per quanto nella definizione non si ritrovasse pienamente – che contribuì in maniera decisiva al superamento dei manicomi in Italia, e per primo introdusse al sud le teorie su una psichiatria diversa, il cui nucleo fondante era la terapia alternativa opposta alla costrizione dellistituzione manicomiale, orientando la prassi di cura delle malattie mentali verso forme finalmente non oppressive, democratiche, rispettose in primo luogo della dignità umana.

Firmare per il testamento biologico

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Carissima/o,
Ti scrivo per chiederti un piccolo sforzo per una importantissima causa. Nelle prossime settimane il testamento biologico sarà al centro del dibattito in Parlamento, e la maggioranza intende approvare una legge che limita la libertà di scelta del cittadino imponendo alcune terapie, come l’idratazione e l’alimentazione artificiale. Le dichiarazioni anticipate di trattamento non saranno vincolanti: spetterà sempre al medico l’ultima parola. Qual è allora l’utilità di questa legge, se non si garantisce al cittadino che la sua volontà sia rispettata? La verità è che il ddl della destra è stato scritto per rendere inapplicabile il ricorso al testamento biologico. Oltretutto, la dichiarazione dovrà essere stipulata davanti ad un notaio, e rinnovata con cadenza triennale: vi immaginate cosa significa andare ogni tre anni davanti a un notaio accompagnati dal proprio medico di famiglia? Al contrario della nostra proposta poi, non è presente nemmeno un cenno alle cure palliative, all’assistenza ai disabili, alla terapia del dolore.

Ti chiedo dunque di diffondere il più possibile l’appello, invitando tutti i tuoi contatti a sottoscriverlo: dobbiamo mobilitarci immediatamente per raccogliere centinaia di migliaia di adesioni e difendere il nostro diritto costituzionale alla libertà di cura. Se saremo tanti, il Parlamento non ci potrà ignorare. Nel prossimo dibattito in Senato il mio impegno personale è quello di dar voce alla vostra opinione, che credo coincida con quella della maggioranza degli italiani. Che vogliano utilizzare ogni risorsa della medicina o che intendano accettare la fine naturale della vita, i cittadini vogliono essere liberi di scegliere.

Ti ringrazio infinitamente e conto su di te per far circolare il più possibile l’appello per il diritto alla libertà di cura sul sito www.appellotestamentobiologico.it , e grazie perché abbiamo già raggiunto quasi 200.000 firme!

Ignazio Marino

«Ecco qua la candela! Attendete alla traduzione!»

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di Elisa Comito e Isabella Zani
Presentazione del rapporto CEATL di Angelo Fracchia
[Sezione Traduttori SNS]

«È meglio accendere una candela che maledire l’oscurità», dice un antico proverbio. Approfittiamo dunque della recente pubblicazione del rapporto CEATL (il Consiglio europeo che raccoglie le associazioni dei traduttori letterari), che mette a nudo i problemi riguardanti la situazione professionale dei traduttori editoriali in Europa, per far luce su alcune delle cause per cui «in nessuna parte d’Europa i traduttori letterari sono in grado di guadagnarsi da vivere nelle condizioni che impone il “mercato”».

Autismi 6 – Il mio primo infarto (1a parte)

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chaissac2 di Giacomo Sartori

Una sera di qualche anno fa ho avuto un infarto. L’ho capito subito che si trattava di un infarto. Stavo guidando, e nel bel mezzo di una curva ho sentito un improvviso dolore al petto. Un dolore lancinante, come se qualcuno mi stringesse il cuore con una gran tenaglia. Me lo comprimesse con tutte le forze. Volesse tagliarlo, come si fa con i fili elettrici protetti dalle loro guaine di gomma. Non riuscivo nemmeno più a respirare, dal dolore. Non potevo fare i gesti necessari per finire il tornante: la macchina s’è fermata di botto.

L’ho capito per via di mio fratello che era un infarto. I sintomi erano identici a quelli che mi aveva descritto lui. Mi aveva riferito in dettaglio tutte le sensazioni, e le sensazioni erano esattamente quelle. L’unica differenza è che io invece di essere nella vasca da bagno ero in auto. In auto e in un posto isolato. E poi a giudicare dal male era un infarto più grave ancora del suo. Lui non era morto, io molto probabilmente sarei schiattato.

Il motore della macchina s’era spento, il silenzio mi rintronava nelle orecchie. Era una notte gelida di pieno inverno, e non si vedeva in giro anima viva. Niente impazienti automobilisti, niente pedoni, niente fanatici che fanno footing nella notte. Ce ne sono sempre, ma in quel momento lì non ne spuntava neanche uno. C’erano solo le stelle. Magnifiche stelle di tutte le dimensioni e più o meno sprofondate nel nero. Ma le stelle in questi casi non muovono certo il culo, mi dicevo.

Sapevo che in questi casi l’unica cosa che conta è arrivare al pronto soccorso il prima possibile. Sapevo bene che se c’è qualche speranza, si gioca nell’ordine dei minuti. Ma me ne stavo impalato con i piedi puntati contro la plancia della macchina, perché avevo constatato che al minimo accenno di movimento la stretta diventava più dolorosa e il ritmo dei battiti si faceva ancora più irregolare. Tutte le mie energie fisiche e mentali le mettevo quindi nel non spostare nemmeno una fibra del mio corpo. Non me ne importava dell’ospedale e della morte, non volevo avere male.

Troppo arrosto di maiale e troppo sugo, con troppe patate al forno, mi dicevo. Belle unte, le patate, come le fa mia madre quando ha degli invitati. E per coronare il tutto una burrosa torta al cioccolato annegata da una cascata di panna montata. Un tripudio di acidi grassi saturi. Il tutto generosamente innaffiato con un rosso denso e scuro riesumato dalla cantina di mio padre, uno sciroppo troppo alcolico che avrebbe stroncato anche un cavallo da tiro.

Ero molto lucido, me ne meravigliavo io stesso. Stavo vivendo gli ultimi istanti della mia esistenza, e ero più lucido che mai. Presto però tutta quella lucidità sarebbe finita in pasto ai vermi: Phylum Platelminti, sottoregno Invertebrati, regno Animalia, dominio Eucarioti. Da non confondere con gli anellidi, o vermi piatti, che essendo vegetariani non sgranocchiano i cadaveri.

Mi domandavo se era quella l’acutezza dei morenti di cui tanto si parla. Io però più che vedere sfilare il passato vedevo sfilare tutti i cibi che avevo ingurgitato. Sentivo che dentro il mio stomaco tutti quei micidiali alimenti s’erano amalgamati, si accingevano a una battaglia finale che avrebbe mobilitato ogni singolo ingrediente. Bisogna essere completamente imbecilli per strafarsi a quel modo. Non potevo dare sempre la colpa agli altri.

Nei dintorni non c’era nessuno che potesse darmi una mano, ormai era assodato. E beninteso non avevo telefonino, perché come sanno tutti quelli che mi conoscono sono contrario ai telefonini. Per una questione etica, prima ancora che per cristallizzazione ideologica, come ripeto sempre.

La tenaglia continuava a stringere. O meglio adesso era il cuore stesso che si strizzava da solo: sentivo distintamente la sua forma nel petto. Era lui che si comprimeva come un pugno serrato con tutte le forze, lui da solo, era inutile stare lì a cercare delle cause esterne. Percepivo il contorno delle sue pareti, con il restringimento a imbuto in basso, e l’aorta sopra: riuscivo a visualizzarlo alla perfezione. Una sorta di ecografia, dove al posto dei raggi dello strumento utilizzavo il mio stesso dolore.

Già prima della fine della cena avevo trincato almeno il triplo del necessario, mi dicevo. E poi anche la grappa ci avevo bevuto dietro, diversi bicchierini. E per finire quattro dita di limoncello, dicendomi che così almeno mia madre avrebbe buttato via quella grottesca bottiglia che le conteneva. Ma ormai era inutile stare a piangere sul latte versato: avevo un infarto. Il mio primo infarto. Era inutile dare la colpa ai commensali, per noiosi e infidi che fossero.

Non potevo stare lì a aspettare chissà cosa, dovevo cercare di arrivare al prossimo paese, mi dissi. Probabilmente era l’ultima mia azione, l’ultimo abbozzo di atto cosiddetto razionale, ma dovevo pur sempre tentare. Era pur sempre meno idiota morire per strada che fermo in mezzo a una curva, con l’auto di traverso.

Resistendo al dolore misi in moto, e in qualche modo riuscii a ingranare la prima. Il male era adesso un po’ meno forte, o almeno così mi sembrava, forse mi ci stavo abituando. Ma probabilmente la necrosi stava pappandosi le pareti del mio cuore, l’ischemia necrotizzava irreversibilmente i tessuti. Nessuna medicina, nessuna terapia, nessun intervento chirurgico avrebbe più potuto restituire alle membrane del mio cuore l’elasticità e la vita. Come un maglione di lana stirato con il ferro da stiro regolato sulla temperatura massima, per intenderci. Mi era capitato, sapevo di cosa parlavo.

Arrivato al tornante il dolore ridivenne insopportabile. Il problema è che al minimo tentativo di muovere il volante la mia regione cardiaca si strizzava come si strizza uno strofinaccio per togliere fuori tutta l’acqua. Solo che il mio era un cuore, un cuore pieno di sentimenti, e tutto sommato anche di belle speranze, non uno strofinaccio: un dolore da urlare. Mi fermai di nuovo, e anche questa volta il motore si spense. L’abitacolo della mia decrepita automobile fu di nuovo invaso dal silenzio.

Non sarei mai arrivato da nessuna parte mi dicevo, guardando ancora le stelle. Il primo paese era a diversi chilometri, ognuno con una miriade di curve. Proseguire era un suicidio: tanto valeva mettere il mio cuore in un tritacarne. Me li vedevo, i filamenti sanguinolenti che sarebbero usciti dai buchetti metallici in basso. Calcolavo quanti pugni di carne macinata ne sarebbero venuti fuori. Quante polpette ne sarebbero risultate, quanto pane grattugiato ci sarebbe voluto. Quanti rametti di prezzemolo. Polpette di belle speranze.

Nonostante l’inesorabile avanzare dell’infarto la mia testa funzionava quasi meglio del solito, avevo l’impressione. A dir la verità uscendo dalla casa di mia madre mi sentivo un po’ annebbiato, e avevo perfino centrato un vaso di fiori, finendo steso per terra, mentre adesso sentivo che il mio cervello andava via come un orologio svizzero. Metteva in relazione, confrontava, buttava lì promettenti abbozzi di teorie, immaginava. Soprattutto immaginava. La mia benedetta testa aveva passato la sua esistenza a immaginarsi delle panzane, e per non smentirsi anche adesso svolazzava nel regno dei possibili. Fino alla fine persa nelle sue divagazioni prive di costrutto.

Provai a ripartire. Quella stradina che avevo preso era però piena di tornanti, tornanti dettati dall’infelice conformazione orografica di quel postaccio dove avevo avuto la sventura di nascere e dove mi ostinavo a tornare di tanto in tanto. Ogni volta che giravo il volante assieme alle ruote girava anche il mio cuore. Il mio cuore s’era fuso nella meccanica di ferro dell’auto da immigrato albanese. E quindi l’unica soluzione era procedere a passo d’uomo, in prima. Sterzando il meno possibile, in modo da ridurre i contorcimenti della cassa toracica. Pazienza per la traiettoria approssimativa, pazienza se mi ritrovavo tutto sulla sinistra. Non era certo il momento di pensare al codice della strada.

Mi domandavo se sarei davvero morto. Sì!, rispondeva senza mezzi termini una parte di me. Con quel male lì, così improvviso, così lancinante, e con quella tachicardia, il decorso più verosimile era il decesso, argomentava quella sezione più razionale, convinta di saperla lunga in fatto di cardiologia. Mi avrebbero ritrovato con la testa appoggiata sul volante, doppiamente stecchito, vista la temperatura polare. Ma in fondo era uguale, morire o meno: un paio di modesti romanzetti ero pur sempre riuscito a metterli lì. Qualche periferica biblioteca conservava pur sempre un esemplare di uno o l’altro dei miei testi, una qualche occhialuta dottoranda si sarebbe forse intestardita un giorno a riesumarlo. In quella fetta di me lo stoicismo andava a braccetto con una trattenuta solennità, mi accorgevo.

Un altro trancio di me sperava però di non morire. O meglio, sapeva benissimo che ho il viziaccio di dipingermi tutto in nero, ma che spesso e volentieri finisco poi per cavarmela. Sapeva che drammatizzare è un modo come un altro per non guardare in faccia la realtà. Conosceva quello a cui sarei andato davvero incontro: brodini semitrasparenti, pallide carote lesse, insulse mele cotte, orari da convento, l’apparecchietto digitale per misurare la pressione sempre a portata di mano. Niente mangiate, niente bevute, niente sigarette, niente epiche scopate: un ialino vegetare da infartuato. Può sembrare incredibile, ma quel sarcastico lembo di me stesso già mi vedeva alle prese con i fastidi della postconvalescenza. Vedeva la depressione che mi si sarebbe incollata ai polmoni e all’anima: mi prendeva in giro in anticipo.

Il problema è che quei due me sapevano entrambi quasi tutto sull’infarto. Da quando appunto mio fratello tre anni prima aveva avuto un infarto molto grave. A quarantasei anni. Come succede sempre in questi casi avevo seguito le varie fasi della sua via crucis, dalle prime drammatiche quarantott’ore fino alla guarigione. Insomma, guarigione: fino alla scatola di medicine sul tavolino accanto al divano, dalla quale ogni tanto mentre si parla pesca una pillola, una compressa. Con la spontaneità con cui un altro potrebbe attingere a un sacchetto di caramelline o a un cestino di pop-corn. Un numero impressionante di pastiglie e di capsule di vario colore e dimensione, con micidiali effetti collaterali. Anche sessuali, suppongo, anche se non ho mai affrontato con lui questo tema.

Piano piano, e neanche a farlo apposta sempre sulla corsia di sinistra, ma avanzavo. Il volante lo giravo ormai solo con le ginocchia, in modo da non torcere il busto. A ogni curva sperimentavo nuovi piccoli trucchi per farmi meno male possibile. Li confrontavo, li perfezionavo. L’essere umano è maledettamente adattabile, mi dicevo, stupendomi io stesso della mia beota autosoddisfazione.

Arrivato al paese provai a guardarmi attorno, per quel che  ci si può guardare attorno senza girare di un millimetro la testa. E comunque non c’era in giro anima viva: tutti già a nanna, come si addice a dei grigi cittadini fintamente operosi. O alla meglio intenti a godersi delle relazioni umane virtuali su internet. I due bar erano strachiusi. C’era solo una cabina telefonica intirizzita dal gran freddo, che certo non avrebbe funzionato, come sempre le cabine telefoniche quando si ha bisogno.

Decisi allora di provare ad arrivare da mio nipote, come stavo facendo quando il mio cuore s’era ammutinato. Non erano certo tre chilometri in più che avrebbero cambiato le cose: con un po’ di fortuna ce l’avrei fatta, e sarei morto là. Pur sempre un bel risultato, vista la situazione. Se la sarebbe sbrigata lui con il cadavere e con le formalità.

Il problema non era solo quello che avevo ingurgitato quella sera, mi dicevo, sempre avanzando in prima, senza né accelerare né frenare. In realtà era da mesi che mangiavo e bevevo più del necessario. Ogni giorno mi giuravo che sarei ritornato alle scodelline di riso integrale condito con un filino di olio di colza, e ogni giorno mangiavo come un bue.  Mangiavo troppo, e soprattutto bevevo come una spugna. Vino e superalcolici. Ma anche con le sigarette, c’ero andato più forte del solito. Il tutto in un periodo di stress lavorativo prolungato. Aggravato da un sonno molto difficile la notte, legato a annosi problemi sentimentali. Il cocktail esemplare per avere un signor infarto.

Mio fratello aveva avuto il suo primo infarto a quarantasei anni, e io per l’appunto ero reduce dalla cena per i miei quarantasei anni, mi dicevo, sempre procedendo sulla corsia di sinistra. Era come se alla macchina le piacesse più la sinistra che la destra, per una volta che le lasciavo fare quello che voleva lei. Sei proprio una vecchia baldracca di sinistra, esattamente come il tuo proprietario!, mi venne da dirle. Ad alta voce. Mi fece bene sentire la mia voce. Era pur sempre una voce umana.

Visto che non avevo saputo imparare la lezione adesso avevo anch’io un infarto, mi dicevo. Alla stessa età di mio fratello. Un’età completamente insulsa per morire, sotto tutti i punti di vista. Morire a quarantacinque anni o a cinquanta aveva un qualche senso, ma non certo a quarantasei. Altro che maggiore coscienza delle cose, sono peggio di lui, mi dicevo.

All’improvviso fui accecato da una luce aggressiva come quella di un flash, ma più persistente, accompagnata da un interminabile tuono che mi fece sbattere la testa contro il tensore della cintura di sicurezza. Uno spavento da far venire un infarto, per chi non fosse già alle prese con uno. La causa era un bolide arrivato in senso contrario a folle velocità: prima di rendermene conto ero finito di traverso sulla carreggiata, di nuovo con il motore spento. Di nuovo nel silenzio più totale, con le solite stelle curiosone.

Uno dei tipici guidatori tutti presi dalla loro furia automobilistica, e che se non stai attento ti ammazzano!, mi dissi. Vanno come i pazzi, e poi si stupiscono se fanno gli incidenti! Bisognerebbe ritirargli a tutti la patente! Parlavo ancora a voce alta. O meglio, farfugliavo dei suoni che faticavo io stesso a comprendere. Probabilmente l’ischemia era entrata nella fase più esacerbata. Abbiamo sfiorato l’ammazzamento di un morto!, sbottai. Cercavo di fare lo spiritoso, come spesso succede quando si è avuta molta paura.

(continua)

Immagine di Gaston Chaissac.

Objets trouvés : Ann Briggs

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Ann Briggs for beginners
di
Gian Paolo Ragnoli

Non è facile scomparire.
Ci hanno provato in tanti a fare i desaparecidos ma pochi ci sono riusciti davvero.
Non basta nemmeno essere morti per stare tranquilli, perchè è sicuro che prima o poi spunta fuori quello che ha visto Elvis che faceva l’autostop sulla strada per Memphis o quell’altro che (giura!) ha incontrato Jim Morrison in un bar tabacchi all’angolo di Place Saint-Sulpice.
Ci sono poi quelli che, dopo anni di onorata latitanza, si costituiscono con una telefonata alla casa discografica, come Peter Green, bruciando poi con una carriera “qualunque” l’alone mitico conquistato a caro prezzo, oppure ci sono quelli veramente strani, come Vashti Bunyan, che dopo aver fatto passare trent’anni dal suo unico album, passati a girar le isole britanniche su carri di nomadi e a occuparsi della prole, a cinquant’anni si compra un computer, digita il suo nome, scopre che c’è chi è disposto a uccidere per il suo disco e decide di reinventarsi una nuova vita accanto a musicisti dell’età dei suoi figli.
Lei no, Ann Briggs è scomparsa davvero, e non è nemmeno pentita.

Filologia e “verità”

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di Daniele Ruini

Quale importanza abbia avuto, nella storia dell’umanità, la parola scritta è un fatto difficilmente sottostimabile. Per quanto riguarda, più in particolare, la storia delle religioni, ciò è chiaramente evidente in tutti quei culti che riconoscono autorità sacra a uno o più testi, ritenuti frutto della diretta ispirazione divina, ovvero “parola di Dio”. Dato lo speciale statuto assegnato a tali scritture, ogni operazione volta a definirne con esattezza il dettato testuale acquista un valore particolare; se, da un lato, avvicinarsi il più possibile allo stadio originario di un Testo Sacro significa ridurre la distanza che separa dalla supposta Verità in esso contenuta, dall’altro lato, rimettere ogni volta in discussione la lezione di un’opera di tal fatta non può non avere conseguenze delicate per la comunità religiosa che di essa ha fatto il proprio testo di riferimento. Il rapporto tra Sacre Scritture e filologia (la disciplina finalizzata a ricostruire la veste originaria di un testo attraverso lo studio delle varie fasi della sua trasmissione) è infatti necessariamente contraddittorio: il carattere dogmatico della “parola di Dio” può sopportare il libero esercizio critico della filologia? E soprattutto: fino a che punto saranno disposti ad accettarlo i rappresentanti delle gerarchie ecclesiastiche?

Sud 12 – Battere cassa

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Installazione di Claire Robert

Sud 1945 – 1947: Giornale di cultura, giornale di cassa
di
Renata Prunas

Provateci anche voi, oggi, a fare un giornale con pochi soldi, così com’era stato per ‘Sud’, allora con poche lire, nel clima di un tragico dopoguerra napoletano e pensando, soprattutto, a un nuovo giornale meridionale di dichiarata ispirazione europea.
La storia del gruppo ‘Sud’, così come ci è stata più volte raccontata da Anna Maria Ortese che ne faceva parte molto attiva, “…anziché rivelare, impercettibile e spaventoso, il combattimento tra le esigenze della ragione e l’antichità, appariva piuttosto come l’ingenuo conflitto tra i sogni della gioventù e la soverchiante logica delle cose.”
Com’è noto, ‘Sud’, “il giornale di proprietà del Prunas”, ricorda sempre la Ortese, “uscì in 7 numeri ognuno dei quali fu un’avventura, e costò vendite clandestine di oggetti familiari, o pegni, o cambiali, e spesso collette fra i redattori più fortunati”.
“Ne avete cani da vendere?”, si chiedeva Carla de Riso, allora caporedattore, ricordando le origini del giornale nel primo numero del nostro nuovo ‘Sud’.

Amnesie chimiche

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[A lettura ultimata consiglio vivamente di seguire il link  Dal Polo all’Equatore.
A proposito dei due cineasti, vd. anche questa discussione. dp]

di Rinaldo Censi

Nel 1981, Yervant Gianikian e Angela Ricci Lucchi terminano Catalogo 9,5 – Karagoez (1979-1981); il film ha preso circa tre anni di lavoro. È il primo film che i due filmmaker hanno realizzato ri-filmando i materiali via camera analitica, passando così dal gesto di filmare oggetti (cataloghi e profumi) a quello di ri-filmarli, partendo dal supporto, dalla striscia di film che già li contiene, ri-fotografandoli dunque fotogramma per fotogramma, isolandoli attraverso questo nuovo dispositivo. Ri-filmano oggetti, volti, gesti, espressioni, che sconosciuti operatori, professionisti, amatori della domenica, scienziati avevano a loro volta fissato su pellicola cinematografica agli albori del cinema.

Breve confessione di un terrorista potenziale e provvisorio

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di Flavio Santi

Come la lettera rubata di Poe, forse a dirlo chiaramente si rimane più nascosti e si rischia meno. A metterlo sotto il naso di tutti. Comunque senza giri di parole posso dire di avere partecipato a un piano per eliminare il presidente del governo signor Silvio Berlusconi.

Estratti: Giorgio Morale

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Giorgio Morale, A casadidio, Lecce, Manni Editore, 2009.

lotto

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Aspettavamo l’autobus, pioveva, e sentivo un dolore. Poi ho salutato Ico dal finestrino, lui ha risposto con un cenno sollevando l’ombrello, e l’autobus è partito. Subito dopo ho avvertito una stretta al pube, che si ripercuoteva – come un contraccolpo – sulla vagina. Erano le prime contrazioni, ma non lo sapevo. Me l’ha detto Alba al telefono.
«Vieni subito.»
È scattata la catena telefonica e mi sono trovata in taxi, tra Ico e File. Nella corsa all’ospedale temevo una rottura delle acque a ogni fitta, con Ico che calcolava l’intervallo fra una contrazione e l’altra.

Il nano e la ballerina

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di Andrea Cortellessa

Sembra passato tanto tempo da quando ci s’invitava a non demonizzarlo, a liberarci dalla sua «ossessione». Si ricorderà come il dimissionario segretario del piddì, nella campagna elettorale destinata a sancirne il definitivo trionfo, si spinse sino a censurare il nome del «candidato dello schieramento avverso». Come se ogni censura non fosse in primo luogo una preterizione: presenza tanto più schiacciante quanto più rimossa. Un calco vuoto che s’è rivelato maschera funebre: pietra tombale su ogni residua ipotesi di poterglisi opporre.