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di Franco Arminio
Domenica sera a casa di mia suocera c’era il televisore acceso sul programma di Fazio. Viene intervistato il direttore del tg1 che dice di non aver mai avuto telefonate da politici.
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di Franco Arminio
Domenica sera a casa di mia suocera c’era il televisore acceso sul programma di Fazio. Viene intervistato il direttore del tg1 che dice di non aver mai avuto telefonate da politici.
di Antonio Sparzani
La tranquilla cittadina di Göttingen sta sul fiume Leine, nel sud della Bassa Sassonia, ai piedi delle colline dello Harz, luogo quanto mai caro alla letteratura tedesca (ricordare, prego, la notte di Valpurga del Faust I). Göttingen vanta origini medioevali. La sua università fu fondata da Giorgio II d’Inghilterra, che era anche elettore di Hannover, nel 1734 e aperta nel 1737. Divenne rapidamente un centro di studi tra i più importanti d’Europa: attirava studenti brillanti anche dall’estero, e forniva loro una preparazione solida e di prim’ordine. Ebbe poi sorti più difficili negli anni trenta dell’Ottocento dovute alla politica illiberale del re Ernesto Augusto I di Hannover – egli cacciò dall’università un gruppo di sette studiosi, che si erano ribellati alle sue misure, i famosi “sette di Göttingen” tra i quali i fratelli Grimm, brillanti filologi, storici della lingua e, come tutti sanno, autori di famosissime favole – ma conobbe una seconda luminosa stagione sul finire del XIX° e nei primi decenni del XX° secolo, finché nel 1933 fu devastata dal delirio antisemita.
Classifica Provvisoria (Precaria) del concorso (vd nei commenti)
dopo, anzi prima di Valter Binaghi Says:
January 30th, 2007 at 15:40
e
uto88 Says:
January 30th, 2007 at 14:14
e
Lady Lazarus Says:
January 30th, 2007 at 18:09 edit
Titolo (del Furlen)
e la New Entry
Al De Santis Says:
January 30th, 2007 at 22:27
appare come un Sud
Nunzio Festa Says:
February 1st, 2007 at 11:31
Luca Carlucci Says:
February 1st, 2007 at 13:05
Scrivi di domani–
ma se potessi mangiare una
Idea Says:
February 1st, 2007 at 21:34
L’idea
e per finire (Oggi si conclude il concorso e ringrazio i partecipanti. Hasta la Maria Siempre!)
nevermore Says:
February 3rd, 2007 at 11:17
Un amour de Karl
Eglantine, non ancora diciottenne, stirava, cuciva di bianco ed inamidava i col cassée e gli sparati dei signori presso la Premiata Stireria Parmentier, nel Passage Brady, che si apriva fra il numero 33 et 33 bis di Boulevard de Strasbourg, non lontano dal famoso café concert L’Eldorado che si trovava al numero 4.
Ehi ciao! Mi dice un tipo con un giubbotto e un paio di pantaloni marroni.
Nel paio di secondi che impiego a rintracciargli la faccia, registro che ha una valigetta e anche un cappello dello stesso colore, e che li tiene con la mano che sta dalla parte del cuore.
Ciao, gli rispondo.
È il mio amico Edo. Non è un mio amico in effetti, ma un ex collega del Call Center dove lavoravo e con cui prendevo insieme il pullman che va su, a Frascati, per tornare a casa. Lui scendeva a Grottaferrata, però.
Di Andrea Inglese
(Una versione più breve di questo articolo è apparsa nella rubrica “Gli introvabili” de il manifesto 4/12/07)
Di William Gaddis, uno dei massimi romanzieri statunitensi della seconda metà del XX secolo, il lettore italiano dispone oggi di un quinto soltanto dell’opera in traduzione italiana. Se il motto della nostra editoria, per quanto riguarda il panorama letterario statunitense, potrebbe suonare “Nulla resterà impubblicato”, non si capisce perché un pesce grosso come Gaddis sia facilmente passato tra le maglie. Senza sollevare, per altro, troppo scandalo presso lo stuolo di consiglieri culturali che ci tengono aggiornatissimi sulle correnti e le sigle letterarie più in voga oltreoceano. Dei suoi cinque romanzi, solo il primo, Le perizie (The Recognitions, 1955), è rintracciabile in libreria nell’edizione economica Mondadori del 2000, che riprende la traduzione di Vincenzo Mantovani apparsa nel 1967. JR (1975), A Frolic of His Own (1994) e Agape Agape (2002), uscito postumo, sono finora preclusi al pubblico italiano. Sorte diversa è toccata a Carpenter’s Gothic (1985), pubblicato da Leonardo nel 1990 con il titolo Gotico americano, ma oggi fuori catalogo.
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sul set del film Scemo di guerra di Dino Risi
Le déserteur
Paroles: Boris Vian. Musique: Harold Berg 1954
Monsieur le Président
Je vous fais une lettre
Que vous lirez peut-être
Si vous avez le temps
Je viens de recevoir
Mes papiers militaires
Pour partir à la guerre
Avant mercredi soir
Il disertore
Versione italiana di Ivano Fossati basata sulla traduzione di Giorgio Calabrese.
In piena facoltà
Egregio Presidente,
le scrivo la presente,
che spero leggerà.
La cartolina qui
mi dice terra terra
di andare a far la guerra
quest’altro lunedì.
e altre poesie (e l’illustrazione di una prosa) di Viviana Scarinci
Sul luogo contrario dell’osservanza
1.
Se questo buio agisce tutte le inconoscibilità
allora tra le valve di questa incognita
è labile la nostra separazione
e pure un’ingiunzione all’astratto
come lo smagliare della calza
che sfrena il composto della pelle
in una luminosa oscenità
sembra rivolto a un erpice surreale
che sproporzionato vira su ogni contenuto
soprattutto sull’ambiguità amorosa
Ecco, se è così, devo aver smarrito
la potenza immaginifica, la realistica genitura
di una cipolla fiorita nella dimenticanza del frigo
di Antonio Sparzani
Mi ha sempre affascinato il libro di Giorgio de Santillana e Hertha von Dechend Il mulino di Amleto, Adelphi, varie edizioni. È in omaggio agli autori di questo libro che traduco qui un mito del popolo Inuit, che vive, ma non sappiamo ancora per quanto, nel profondo Nord.
“Questo accadeva prima di quello che accadeva prima, prima del giorno del primo capo della tribù, prima della costruzione del primo teepee, prima del padre del primo Inuit. Ma anche allora c’erano degli uomini sulla Terra, ed essi cacciavano. Quando morivano salivano nelle pianure dell’alto e lì cacciavano per sempre.
In quel tempo là non vi era alcun cielo e il Sole illuminava egualmente le pianure dell’alto e le pianure del basso. Nelle pianure del basso gli uomini cacciavano il bufalo e l’alce, e nelle pianure dell’alto gli spiriti cacciavano il daino di fumo e il bisonte di fuoco.
di Antonella Pizzo
I
alla prima piaga ci prostrammo
in ginocchio
un po’ distanti per non toccare
soglia d’assalto ripulsa in estasi
la santa è spiga vuota avena sfatta
oasi invertita sulle strade
confusa e sui raccordi sovrapposta
a peli e ciglia sporche consumate
di vene cinta
interseca le braccia
si nutre a ghiande
che ai porci tanto piacciono
di Davide Vargas
è morto anche il mare
(Garcia Lorca)
26 dicembre 2006
Trentola – Ischitella – Baia Verde – Mondragone
ore 10 – 14
temp. 15°
Una nuvola di polvere sollevata dagli autotreni rimane sospesa nell’aria biancastra.
Quando ricade sulla malerba dei cigli, ricoperta da un telo di plastica nero appare immobile la lunga massa della discarica.
Questa è una errata corrige. Per ragioni a me misteriose sono saltate un paio di righe del pezzo scritto da Dario Borso qualche post più sotto. D’accordo con l’autore ripristino il pezzo, con un nuovo cappello introduttivo, e lo integro del finale che dapprima mancava.
G.B.
La sua vita era senza retorica.
WV
di Gherardo Bortolotti
2.23
mentre aspetti che il telefono, impostato sul dialing ad impulsi, componga il numero del server, che ti connette, come la chiave di un’arcata di cattedrale, alla rete, simile, nel suo universo di punti funzionali, ad una costellazione di agganci numerici, secondo una formula combinatoria di ottetti, consideri l’estensione della superficie del tuo disco fisso, attraverso la quale viaggia la testina del lettore, cercando nei boulevard dei solchi, blocco dopo blocco, in una città circolare ed ordinata, le frazioni dei file che raccolgono la tua vita e le tue opere, decidendo che il silenzio elettromagnetico che l’attraversa, intrecciato dal crepitio ultrasonico delle scariche, può essere il posto dove riposare in pace e che, se potessi, vorresti essere inumato in sequenze di bytes.
di Linnio Accorroni
Le gambe di Madeleine Zeffa Biver erano bellissime, sicuramente più di quelle di Dora Markus: nella foto in bianco e nero che, nel Corriere della sera di sabato scorso, correda l’articolo sulla sua scomparsa la vediamo incedere voluttuosamente e sbarazzina per strada. Indossa una maglia bianca a maniche lunghe, un paio di calzoncini scuri ed attillatissimi, scarpe bianche e basse: è elegante senza affettazione, né istrionismo alcuno, di quella eleganza che solo la semplicità pura consente.
di Marco Rovelli
A. Ovunque regnano “gentilezza d’animo, simpatia, amor di pace, fiducia e tutto quanto si potrebbe aggiungere ancora” – scrive Benjamin [26] -, là è possibile la sospensione del rapporto mezzi-fini – e gli uomini si possono affidare a ‘mezzi puri’. La lingua dell’amicizia, allora, è l’unico luogo dove è possibile risolvere i conflitti in maniera non violenta. La conversazione è “l’esempio più calzante” di questi mezzi puri.
di Annalisa Manstretta
Sono rientrata in casa stasera
venivo da un po’ più a sud
e c’era freddo.
Come sono grandi le stanze e silenziose.
Ho acceso il nostro albero:
si è illuminato come un dovere.
Fa ancora freddo, c’è questo vento gelato
che non ti fa guarire.
È l’ora che quando ci sei tu
più o meno si va a letto.
Dunque andrò a dormire
perché anche le abitudini
fanno una vita insieme.
Poi mieterò questo vento
e ti regalerò i frutti.
tratto da La dolce manodopera, presentazione di Milo De Angelis, postfazione di Antonella Anedda, Bergamo, Moretti & Vitali, 2006, p. 55
***
Che esseri aerei sono le piante,
sposate con lo spazio.
Crescono senza paura delle grandi distanze del cielo,
di quelle del vuoto sopra di loro.
L’inverno che spoglia i rami,
lo scopre con la chiarezza di un paesaggio nordico
dove ogni cosa sta nel suo contorno senza inganni.
Così ai pioppi, alle robinie e perfino ai tigli
un po’ malati del viale sotto casa
a destra e a sinistra spuntano i rami,
ma fra i rami, guarda, spunta il cielo
cresce e si allarga tutto attorno.
E se fossi nata ieri e non sapessi nulla,
penserei che il cielo nasce così,
nelle notti d’inverno dalle piante
e la mattina è già dappertutto in alto
col suo bell’azzurro e regge il sole.
(inedito)

La battaglia per la bellezza
di
MARIO PERNIOLA
Quella del bello è oggi una categoria più popolare della verità e della virtù e il narcisismo e diventato una patologia sociale. Ecco perché lottare per una estetica e non per la cosmetica.
La bellezza pare a prima vista il concetto più adatto per gettare un ponte tra l’atmosfera cosmetico-ricreativa in cui sono immerse le moltitudini dei paesi ricchi e la tradizione culturale. In altre parole, la bellezza sembra più «popolare», più connessa con il sentire delle masse di quanto non sia la verità o la virtù. Infatti ben pochi si curano della coerenza dei loro pensieri e ancor meno della purezza delle loro azioni, ma tantissimi si interrogano sulla avvenenza del loro volto e del loro corpo, affollano palestre, comprano cosmetici, intraprendono diete, ricorrono addirittura alla chirurgia plastica per diventare più belli ed attraenti. La bellezza sembra in grado di fornire, per così dire, un aggancio tra le masse e il sapere.
di Davide Morganti
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Può sembrare azzardato accostare un kamikaze palestinese – ma più corretto sarebbe definirlo shahid – a un giovane camorrista.
A prima vista, non c’è alcun dubbio, di sì, per questo vi prego di seguirmi nel ragionamento.
Entrambi, per buona parte, provengono da situazioni ambientali e familiari spesso terribili: padri in galera, disoccupazione, emarginazione, case invivibili.
Entrambi si trovano a frequentare la scuola poco e malvolentieri, per disagio, rabbia, frustrazione, senso di inutilità, abbandono.
Il kamikaze e il giovane camorrista sono accomunati dall’età, che non supera quasi mai i venticinque anni.
Ognuno ricerca una dimensione della felicità. Sa che ha poco tempo a disposizione.
Uno shahid entra in un bar o sale su un autobus, e li fa saltare in aria provocando la propria morte e quella di gente che non ha, invece, nessuna ragione di terminare in quel modo.
Un camorrista entra in un bar, un ristorante o un negozio per estorcere danaro o per ammazzare sconosciuti, solo perché così gli è stato comandato.
Lo shahid spera nella vita eterna, nella ricompensa ultraterrena, nel martirio beato, nell’estasi delle settantadue vergini.
di Betta Magni
Eva Smith non poteva dirsi giovane, aveva trent’anni. La ragione di questo precoce invecchiamento si spiega col fatto che all’epoca in cui cominciai a pensare a lei ne avevo diciassette e avevo un’ idea del tempo assai diversa da quella che ho ora: un anno mi pareva interminabile e faticavo a proiettarmi altrove, nel tempo e nello spazio. Forse, ancora meglio, l’altrove era così lontano e distante da me da non appartenermi, da assumere i tratti di un sogno confuso che non ha parentele con ciò che sei ora, l’adesso che brucia.
di Dario Borso
Mia cugina l’altro giorno buttò lì al telefono: “Dario, ho curiosato su Nazione Indiana: ma se quello è un blog letterario, gli altri come sono?” La frase, innocua di primo acchito, mi lasciò subito dopo annichilito. Pensai ai vent’anni in meno di Federica, ai miei vent’anni fa, ai trenta, alla prima giovinezza… Avevamo trasformato chissà come l’Osteria delle Caravelle (tre ostesse-sorelle in fiore) in un bar letterario a suon di Gadda: un racconto per sera (non tutte le sere) da La meccanica e dagli Accoppiamenti giudiziosi, che gli avventori bevevano stupiti dalle labbra di noi due avventurieri. E quando Ico, di me maggiore, ebbe esaurito la sua piccola scorta lombarda, ricordo che chissà come mi dimostrai non da meno estraendo dal cappello Le avventure del Guizzardi di Celati. Era l’inverno del ’73, ne sono sicurissimo perché poi, quando girammo per gli States nell’estate del ’74, già lì mi chiamavano Densi, che era la versione americana del Danci emiliano (e per anni fui Danci a Cartigliano, favorito dall’assonanza della prima sillaba). Così fu nell’inverno del ’74 che ci mettemmo in proprio, un po’ esordienti un po’ talent-scouts: quanto segue è un documento di quell’era pretelematica.
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di Simone Ciaruffoli
LA VI(S)TA IN SCALA
Oggi si cataloga procedendo in una tassonomia delle immagini non più in compagnia del supporto cerebrale della memoria, per via del nostro “software biologico”, ma attraverso lo scatto fotografico digitale. Si esperisce il mondo bypassandolo con l’obiettivo (o con lo schermino) e per farlo perdiamo l’istante originale-originario in cui il mondo si manifesta. E’ chi scatta che perde la vita nel suo farsi, è chi scatta a essere dentro l’atto fotografico più di chi quell’atto lo subisce divenendone il soggetto rappresentato.