di Davide Morganti
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Può sembrare azzardato accostare un kamikaze palestinese – ma più corretto sarebbe definirlo shahid – a un giovane camorrista.
A prima vista, non c’è alcun dubbio, di sì, per questo vi prego di seguirmi nel ragionamento.
Entrambi, per buona parte, provengono da situazioni ambientali e familiari spesso terribili: padri in galera, disoccupazione, emarginazione, case invivibili.
Entrambi si trovano a frequentare la scuola poco e malvolentieri, per disagio, rabbia, frustrazione, senso di inutilità, abbandono.
Il kamikaze e il giovane camorrista sono accomunati dall’età, che non supera quasi mai i venticinque anni.
Ognuno ricerca una dimensione della felicità. Sa che ha poco tempo a disposizione.
Uno shahid entra in un bar o sale su un autobus, e li fa saltare in aria provocando la propria morte e quella di gente che non ha, invece, nessuna ragione di terminare in quel modo.
Un camorrista entra in un bar, un ristorante o un negozio per estorcere danaro o per ammazzare sconosciuti, solo perché così gli è stato comandato.
Lo shahid spera nella vita eterna, nella ricompensa ultraterrena, nel martirio beato, nell’estasi delle settantadue vergini.




