di Giampiero Marano
[In relazione al più recente intervento su NI di Giacomo Sartori, propongo questo saggio che mi sembra offrire interessanti spunti di riflessione sulla questione della lingua e delle forme. Spero che la sua lettura aiuterà ad affrontare questi argomenti in modo globale, senza imporre un’inutile e fuorviante steccato fra poesia e romanzo se non laddove sia strettamente necessario.
Riprendo questo saggio da Absolute Poetry, in cui è possibile commentarlo. a.r.]
Scura è la terra e scura è la dimora in cui riposa la parola d’origine, quella vera. Per questo i nostri più antichi progenitori avevano la pelle scura. Per questo il colore della notte s’accorda con il volto di chi porta la storia sulle spalle.
Subcomandante Marcos
1. Il «resto» della poesia negli anni Novanta
C’è qualcosa di involontariamente tragico nel “trionfalismo” con il quale, durante gli anni Novanta, è stata accolta la poesia ritornata all’affermazione di una «parola integra, portatrice (…) di una più piena vitalità e visibilità umana» (1). Il decennio, viene detto e ripetuto a più voci, ha assistito a «un illimpidimento nei rapporti con le cose e le parole» (2), al ritrovamento di «visibilità delle immagini e di narratività dei testi, fuori dalle alchimie assolute del verbo» (3): tendenza trascinante, ed effettivamente ravvisabile perfino in autori, come Viviani o De Angelis, con precedenti non certo “leggibili”.