di Fedor Dostoevskij
«Tu hai promesso loro il pane celeste ma, te lo ripeto ancora una volta, potrà mai esso stare alla pari con il pane terreno agli occhi della debole razza umana, eternamente viziosa ed eternamente ignobile? (…) Essi sono viziosi e ribelli, ma alla fine anche loro diverranno ubbidienti. Essi si meraviglieranno di noi e ci guarderanno come dèi per il fatto che noi, assumendo la loro guida, abbiamo accettato di portare il fardello della loro libertà e di governarli – ecco fino a che punto sarà diventato orribile per loro essere liberi! Ma noi diremo loro di essere i tuoi servi e di governare nel Tuo nome.
Scegliendo il pane terreno, tu avresti dato una risposta all’ansia comune ed eterna dell’umanità, l’ansia che si riassume nella domanda: “Chi venerare?”. La preoccupazione più assillante e tormentosa per l’uomo, fintanto che rimane libero, è quella di trovare al più presto qualcuno da venerare. Ma l’uomo vuole venerare qualcosa di inconfutabile, tanto inconfutabile che tutti gli uomini acconsentano immediatamente a venerarlo insieme. Giacché la preoccupazione di questi poveri esseri consiste non solo nel trovare qualcosa che uno o l’altro possano venerare, ma trovare quel qualcosa in cui tutti credano e che tutti venerino; la condizione essenziale è che si sia assolutamente tutti insieme.
Noi abbiamo rettificato la tua opera e l’abbiamo rifondata sul miracolo, il mistero e l’autorità. E gli uomini si sono rallegrati di essere guidati nuovamente come un gregge.»
(F. M. Dostoevskij, I fratelli Karamazov)

Nazione Indiana sta organizzando per il mese di maggio, alla Fiera del libro di Torino, un incontro sull’editoria e, più in generale, su quanto sta succedendo in questi anni nel campo della cultura e delle sue proiezioni. Questo intervento vuole essere un contributo iniziale alla discussione.
(Su Nazione Indiana tendiamo a non riportare articoli già disponibili in rete. Per una volta, trasgredisco questo stile di comportamento incollando l’articolo del filosofo sloveno uscito sul
GIANNI BIONDILLO
Sebbene sussista ancora nel grande pubblico qualche pregiudizio, incentrato più che altro sul presunto minor valore artistico delle opere a soggetto sacro rispetto alla ritrattistica, la verità è che non è più il tempo di scoprire Lorenzo Lotto, come scriveva Flavio Caroli in un brillante saggio (
E’ morto Bellow, uno scrittore americano che ho cominciato a leggere da ragazzo e che amo in modo particolare. In questi anni, negli Stati Uniti, ci sono diversi bravi scrittori e, se è per quello, Bellow certe volte è anche irritante con quella sua esibizione di finta mediocrità e sano e basso sentire, come può esserlo anche Orazio tra i poeti latini. Eppure, se devo dire qual è lo scrittore americano di questi anni più vicino al mio cuore, allora devo dire Bellow. Se si escludono alcune eccezioni e soprattutto lo straordinario e trasmigrante Arcobaleno della gravità di Pynchon, è Bellow -che cammina su quel filo sottile che separa sempre ottimismo da nichilismo- a sembrarmi il più grande. Altri scrittori del suo paese sono magari bravi, bravissimi a usare il calco, prendono gli stereotipi del romanzo americano e ci danno dentro e tutti applaudono e ci sono, anche in casa nostra, molti cloni che vengono incitati a imitarli. Però si sente, anche nei migliori, che sono di quelli che “hanno imparato”. Bellow è più artista. E coi suoi libri riesce a darci una cosa preziosa che altri scrittori, magari anche più grandi di lui, non riescono a dare: quell’intrepido e tranquillo fervore che è raro incontrare nei libri e che non trovo di meglio che chiamare “felicità”.
GIANNI BIONDILLO
di Gianni Biondillo e Raul Montanari
Kant, con la posizione dei quattro paralogismi prodotti dalla ragione pura nella sua riflessione sull’uomo, ha inchiodato il pensiero occidentale all’impossibilità di dimostrare sia l’esistenza sia la non esistenza dell’anima, e ci ha consegnati alla più totale igonoranza.



di Francesco forlani communiste dandy
di Andrea Raos