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Estratti da “Kant-Swedenborg”

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di Fabrizio Bondi

[Questi testi fanno parte di un progetto in fieri intitolato Kant-Swedenborg.]

 

due macchine intime inventate da Kant

 

            1. MACCHINA DA LETTO

 

si spogliava

senza l’aiuto del suo domestico, ma con

senso dell’ordine

da antico romano.

 

fatto questo, si stendeva

su un materasso e si avvolgeva

in una coperta imbottita

quando il freddo era troppo aspro si proteggeva

con un piumino

e la parte che gli copriva le spalle non era imbottita

di piume, ma guarnita,

o piuttosto ovattata,

con strati fitti

di lana.

 

una lunga consuetudine gli aveva

insegnato una maniera

molto abile di

annidarsi

e arrotolarsi

nelle coperte.

prima di tutto

si stendeva sul bordo del letto

poi

con un movimento agile si slanciava di sbieco nella sua tana

poi

tirava un angolo della coperta sotto la sua spalla

sinistra e,

facendola passare sotto la sua schiena,

la portava sotto la sua spalla destra;

infine,

con un particolare tour d’adresse

operava sull’altro angolo

allo stesso modo;

e riusciva, finalmente, ad avvolgere la coperta attorno a sé.

*

 

            1. MACCHINA DA CALZE

 

 

da nozioni che Kant aveva sull’Economia Animale:

paura di ostruire la Circolazione del Sangue, ergo

non portava mai giarrettiere; così, poiché gli riusciva

difficile tenere le calze tirate senza il loro aiuto…

 

in un minuscolo

taschino

un po’ più piccolo di un taschino

da orologio,

ma

disposto più o meno come un taschino

da orologio,

su ciascuna coscia era collocata

una piccola scatola,

simile all’astuccio

di un orologio,

ma più piccola; in questa scatola

era collocata una molla

da orologio,

a spirale,

e attorno a questa spirale

un elastico,

e per regolarne la tensione

vi era un apposito congegno.

alle estremità dell’elastico

erano attaccati dei ganci,

i quali ganci

passavano attraverso una piccola apertura dei taschini,

e così, scendendo sulla parte esterna

e interna delle cosce,

si infilavano in due

occhielli, fissati nella parte interna

ed esterna di ciascuna

calza.

(il congegno, come il sistema tolemaico

era soggetto a inceppi occasionali).

*

METODO GEOMETRICO

 

L’anima dell’uomo [per certi dotti] ha sede nel cervello e un luogo impercettibile di questo è la sua dimora. Ivi essa si sente come il ragno nel centro della sua tela.

Immanuel Kant, I sogni di un visionario spiegati coi sogni della metafisica

 

 

 

  1. Assioma: lo strano hobby di Spinoza.Tutti hanno un hobby e non si vede perché i filosofi non debbano anch’essi averne uno, o magari più d’uno. Baruch Spinoza, com’è noto, era un molatore di lenti e un filosofo. Si potrebbe dire allora che Spinoza era un filosofo che per guadagnarsi il pane molava lenti, poiché i carmina non ne forniscono, ma nemmeno la speculazione filosofica (a meno di essere, oggi come allora, al soldo di qualcuno). Oppure, con più malizia, si potrebbe affermare che Spinoza fosse un molatore di lenti con l’hobby della filosofia. Quest’ultima accezione non solo è irrispettosa e evidentemente inaccettabile, ma anche confutata dal fatto che Spinoza coltivava in effetti un passatempo che lo divertiva, quando non era impegnato nel suo lavoro (retribuito) di molatore, o di filosofo (non retribuito). Questo passatempo consisteva nel guardare combattere i ragni.
  2. Spiegazione. Ora, l’assioma non è pacifico, poiché i ragni di loro natura non sono bestie gregarie o sociali; se ne stanno per conto loro e raramente collaborano, putacaso, per la costruzione di ragnatele particolarmente complesse ed efficaci. Dunque, si presume abbiano assai poco frequenti occasioni per acerrimi scontri. Non era dunque nello stato di natura che Spinoza trovava soddisfazione alla sua voluttà per così dire voyeuristica. Dobbiamo pertanto affermare – potrei cercarne traccia nelle Lettere, ma forse non c’è bisogno – che egli catturasse un paio di esemplari o più per poi infilarli in un vaso di vetro adeguatamente incoperchiato, dove gli ottozampe fossero insieme costretti in poco spazio e ben visibili. Che si mettessero ad azzuffarsi non stupisce, visto che come esperienza insegna mettendo più animali (dall’uomo in su, o in giù) entro uno spazio angusto, a lungo andare questi non solo si accapigliano, ma finiscono addirittura per mangiarsi e più spesso uccidersi l’un l’altro. Si deve dunque infine sostenere che il combattimento dei ragni come organizzato da Spinoza dovesse avere esito mortale per almeno uno o entrambi se due, o per un numero di ragni x se più di due.
  3. Proposizioni. Prima serie. È accertato che Spinoza trovasse divertente la lotta fra i ragni. – Bene, personalmente provo ribrezzo verso i ragni e proverei un ribrezzo maggiore vedendoli combattere e magari farsi a pezzi (non parliamo poi del mangiarsi a vicenda). Da ciò peraltro discende la questione, che mi rifiuto di accertare, sul come combattano i ragni. Tramite i loro rispettivi organi secretori di veleno, come vien fatto di pensare alla prima: ma siti dove? Gli ingrandimenti delle foto zoologiche ci mostrano delle grosse zanne pelose, ottemplici occhi neri in apparenza privi di vita, inorridisco a riferirlo e dunque non mi dilungo su questa strada, né consulto eventuali appositi testi o altre autorità. In ogni caso, se il piacere di Spinoza è un fatto, lo è anche la mia convinzione che costringere gli animali a lottare per il nostro divertimento sia una vigliacca mascalzonata.
  4. Proposizioni. Seconda serie. Altri osservatori hanno trovato sgradevole questo abito spinoziano, indice di scarsa pietà verso i viventi e di sadismo, caratteri che poco si conciliano con l’immagine diffusa di un angelico filosofo della felicità, della luce, del Dio identificato con la Natura. Per esempio la scrittrice Elsa Morante, che aveva viceversa una spiccata simpatia per tutti gli esseri animali, a cominciare dai molti suoi gatti, e che amava e ammirava del pari Spinoza, sentiva però il suo sentimento nei confronti di quest’ultimo venir sminuito, in una certa misura, dal vizio o passatempo aracnobellico, mi si passi il neologismo, di quel sapiente. Insomma le dava fastidio il fatto che il suo filosofo preferito non volesse bene alle bestie quanto lei. La scrittura di Morante, peraltro, soprattutto quella della Storia, venne definita da Pier Paolo Pasolini «vischiosa» (carattere che peraltro, secondo lo scrittore, era proprio ciò che ne garantiva la magnetica leggibilità, permettendo al romanzo di farsi perdonare altri per lui assai gravi difetti). Forte è la tentazione di interpretare quell’aggettivo come indice di una qualche ideale analogia della Morante con i ragni, che dalla loro bava appunto vischiosa traggono il materiale da costruzione delle loro tele.
  5. Proposizioni. Terza serie. Introduciamo ora la figura dell’eccentrico filosofo e teologo tedesco Johann Georg Hamann (Königsberg, 27 agosto 1730- Münster 21 giugno 1788). Hamann era un anti-illuminista e acerrimo nemico delle novità venute dalla Francia, per non dire dall’Inghilterra; un apologista cristiano che basava tutta la sua dottrina sul sentimento e nulla sulla ragione. I suoi pamphlet e articoli in difesa della fede erano sgorghi di inchiostro, oscure pergamene istoriate, sillabe geroglifiche di una sibilla sempre in preda al pathos, a un’ispirazione aggrondata, furiosa e acre. Figuratevi che, nel secolo scorso, i due intellettuali più famosi che scrissero su di lui furono Isahia Berlin e Pierre Klossowski! (il solo accostare questi due nomi fa già un effetto perturbante). Hamann fu legato, in uno stranissimo rapporto di amore-odio, al ben più celebre Immanuel Kant, che da parte sua protesse e beneficò l’amico più giovane per tutta la vita, a dispetto delle maledizioni che l’altro non mancava di scagliare contro di lui e la sua opera: soprattutto contro le sue ‘critiche’. Tanto che, a volte, il mite Kant tentava di controbattere. Ad esempio, lui e i suoi seguaci non perdevano occasione per tacciare i saggi di Hamann dei difetti per loro imperdonabili di frammentismo, istrionismo e oscurità. – Hamann rispondeva dicendo che non tutti potevano essere «ragni costruttori di sistemi».
  6. Proposizioni. Quarta serie (Metalessi). Il Mago del Nord – tale il soprannome che qualcuno aveva affibbiato a Hamann, e che egli aveva accettato volentieri, tanto da firmarsi lui stesso in tal modo – si dimostrò in effetti nella sua scrittura, tra le altre cose, maniacalmente appassionato di giochi di parole. Utilizzò dunque spesso e con gusto l’assonanza paronomastica tra spinne (‘ragno’ in tedesco) e Spinoza. La similitudine implicita che dà senso alla battuta è la seguente: come la rete che il ragno tesse, il sistema filosofico chiuso è geometrico, simmetrico, aereo ma è anche una trappola, una costruzione che ha lo scopo di imprigionare. In olandese, idioma del resto di ceppo germanico, il ragno si dice addirittura spin!
  7. Proposizioni. Quinta serie (Allegoria). Un immaginario Difensore d’Ufficio di Baruch Spinoza, posto che questi ne abbia bisogno alcuno, il che non è affatto certo, potrebbe arguire che ciò che noi vediamo quale hobby puerilmente sadico fosse in realtà – ebbene sí – una forma di meditazione. Non è difficile ammettere, in effetti, né immaginare, che qualche volta il filosofo della Serenità, dell’Impassibilità e della Razionalità abbia segretamente combattuto con se stesso, ad esempio a proposito della ‘tenuta’ o effettiva qualità filosofica del proprio Sistema; ma anche, perché no? in ragione di quelle che noi oggi chiameremmo questioni personali. (Teniamo qui volutamente sullo sfondo l’evento fatidico – che il lettore pertanto non deve dimenticare – della scomunica, il cherem, l’anatema con conseguente espulsione dalla comunità ebraica). In generale, il suo riso di fronte all’accapigliarsi degli spinne, degli spin era un riso amaro, certo, ma in fondo liberatorio, come di fronte all’allegoria delle proprie lotte interiori, che egli vedeva così ridotte a una dimensione rimpicciolita, modesta e pertanto meno dolorosa. Per fare un esempio banale, proprio lo stesso seminale conflitto tra Passioni e Ragione poteva essere stato l’oggetto di quella sua proiezione simbolica. Prendiamo ora, invece, una generica ma sufficientemente verosimile Persona di Buon Senso. Costei potrebbe far notare che anche Spinoza era un Uomo Come Gli Altri, e dunque non privo di quelle piccole manie, di quelle spesso vergognose inclinazioni o sporchicci tic che rendono in fondo umano l’uomo, umanizzano appunto anche le figure più catafratte nel loro Ideale dell’Io (o Io ideale, non ho mai capito la differenza, mai che ci sia un lacaniano nelle vicinanze, quando serve). Insomma quello, il buonsenso-dotato, deidealizzerebbe in tal modo Spinoza. Ma se invece si trattasse, al contrario (potremmo osservare noi) più che di un’umanizzazione di una dis-umanizzazione, addirittura una mostrificazione anzi della figura di Spinoza? Inoltre (avendo tirato in ballo Lacan, non si scappa) possiamo forse escludere che, nel piacere provato da Baruch a veder lottare i più volte menzionati aracnidi, non giaccia riposto un eventuale significato psicanalitico? Significato, peraltro, molto difficile da accertare, se non vogliamo definirlo operazione propriamente vana.
  8. Variazioni (sempre in chiave allegorica). Nella prima variazione Spinoza applica ai suoi insetti belligeranti sottovetro un’altra e diversa allegoria, nella quale essi sono emblema della sua lotta contro altri ragni (Hamann dixit) suoi colleghi, cioè con altri Costruttori di Sistemi: con gli altri filosofi insomma, ortodossi o meno che vogliamo immaginarli. Lotta che egli di certo trovava, con elegante (auto)ironia, risibile. Nella seconda variazione Spinoza vede negli scontri minuscoli dei ragni le sciagurate imprese belliche che l’Umanità da sempre ingaggia contro sé stessa, e forse ne ride (altrimenti: sorride) dall’alto della sua raggiunta impassibiltà. Nella terza variazione si elucubra che Spinoza rida di un preciso, singolo episodio, per lui pregno di significato, che stravede icasticamente dipinto da quella furia di zanne e di zampe: «…le  quali, ferite o rotte, miseramente scivolano, non facendo presa sulle pareti di vetro, tra versamenti di pallido sangue…», e via dipingendo: lasciamo perdere.Nella quarta variazione, squadrata e simmetrica, la lotta fra i ragni simboleggia la grande eterna lotta degli uomini contro le loro stesse passioni, della quale Egli, Spinoza Ille, si fa beffe, sempre guardando dall’alto quasi fosse uno degli dèi di Epicuro o di Lucrezio, che villeggiano in eterno imperturbati negli Intermundia. Comunque, come uno che le ‘proprie’ passioni ha ormai dominate e sconfitte. In questa quinta variazione, mancando drammaticamente di notizie certe, si ricorre alla biografia fantastica; si immagina cioè che quel gioco crudele fosse qualcosa che Spinoza aveva giocato da bambino, in casa proprio o nei cortili, nelle strade, lungo i canali di Amsterdam (ergo, nella maturità, possibile sintomo di regressione: cfr. § 7). In questa sesta variazione, sviluppando lo spunto della precedente, si immagina che in quello stesso gioco infantile insieme a Spinoza fossero coinvolti anche altri bambini, come del resto spesso accade – ergo, con ennesima illazione biografica: a quel passato spensierato Benedetto ripensa con nostalgia; il suo riso è pertanto frutto di un ricordo parzialmente involontario che risale a invaderne i muscoli facciali; lo si presume di breve durata, sùbito rendendosi egli di nuovo conto della propria solitudine fondamentale. In questa settima variazione si immagina che, forse, i succitati bambini o monelli parteggiavano per l’uno o per l’altro ragno, che avranno magari marcato sul dorso con diversi colori di gesso o pittura, dividendoli e dividendosi dunque in schiere, come avrebbero poi fatto da uomini l’un contro l’altro armati, nelle guerre, civili e non – ergo: moralità varie, da parte del filosofo osservatore e da parte nostra – ché nemmeno noi, i vivi di oggi, ci siamo ancora risvegliati dall’incubo della Storia. Nell’ottava variazione c’è il Ragno.

DIMOSTRARE: è Spinoza? è Kant? è Hamann? è Lacan? è Morante? è Pasolini? è la Persona di Buon Senso?

– Sono io?

DIMOSTRARE DIMOSTRARE DIMOSTRARE DIMOSTRARE DIMOSTRARE DIMOSTRARE DIMOSTRARE DIMOSTRARE DIMOSTRARE

Gaza: siamo solidali

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[Pubblico su NI, una dichiarazione apparsa sul sito francese DIACRITIK l’8 settembre, dichiarazione a cui hanno aderito persone attive in ambito poetico. Sono parole pubbliche a sostegno del popolo palestinese e, in particolare, delle sue voci poetiche, che incarnano la più ammirevole e tenace capacità di resistenza, a fronte dell’azione genocidaria dello stato israeliano. Aggiungo, in coda, un post tratto dal sito OrientXXI, che fa un lavoro importantissimo, per permettere alle voci palestinesi di esistere anche nella nostra lingua. a. i.]

 

Il 9 ottobre 2023, due giorni dopo l’attacco terroristico di Hamas, Yoav Gallant, allora ministro della Difesa israeliano, annunciò che avrebbe «imposto un assedio totale su Gaza». Aggiunse: «Niente elettricità, niente acqua, niente cibo, niente carburante. Tutto sarà tagliato. Stiamo combattendo contro animali umani e agiamo di conseguenza».

Ma nelle poesie si sente una voce, delle voci – affermazioni di umanità. Sempre più poeti palestinesi vengono tradotti, pubblicati, diffusi. Gli attori di questo movimento esprimono in questa tribuna la loro attiva solidarietà. Questo in un momento in cui PAUSE, il programma di accoglienza d’emergenza per ricercatori, artisti e scrittori in esilio, promosso dal Collège de France, è stato sospeso per i gazawi dal governo francese dal 1° agosto; è necessario che riprenda.

 

Siamo sconvolti dai massacri,

dalle distruzioni e dalle espulsioni in corso in Palestina,

organizzati dal governo israeliano.

Poete e poeti, traduttrici e traduttori, editrici e editori,

lettrici e lettori,

in questo momento più che mai scriviamo,

traduciamo, pubblichiamo, leggiamo e condividiamo

poesie dalla Palestina. Invitiamo poeti

palestinesi ai nostri mercati, ai nostri festival.

Vogliamo che siano ascoltate le voci

di un popolo che viene espulso dalle proprie terre,

che viene distrutto attraverso uccisioni

e carestie deliberate e pianificate – azioni

trasformate in spettacolo dal

promontorio di Sderot. Siamo solidali

con il personale sanitario, i giornalisti

gli operatori umanitari, bersagli privilegiati degli assassini

in uniforme. Non sono i popoli

o le culture che accusiamo, ma

le strategie e gli atti, i loro autori e i loro

mandanti. Chiediamo la cessazione immediata

dei massacri. Qualifichiamo come genocidio

questi atti. Affermiamo che i responsabili del genocidio

devono essere assicurati alla giustizia. Respingiamo ogni

accusa di antisemitismo che strumentalizza

il capitale di simpatia e compassione accumulato

grazie al lavoro di memoria delle sopravvissute

e dei sopravvissuti alla Shoah e dei loro sostenitori

per mettere a tacere le accuse di crimini contro l’umanità

per mettere a tacere le denunce delle politiche

razziste e di apartheid. Affermiamo il diritto

del popolo palestinese di vivere sulla propria terra

in uno Stato sostenibile, libero da ogni forma di colonialismo,

con la garanzia degli stessi diritti per tutti.

Ci uniamo a tutti gli sforzi volti a proteggere

e accogliere i palestinesi perseguitati.

 

Firmatari :

Maram Al Masri, Claire Antoine, Julien Blaine, Eric Blanco, Jacques Bonaffé, François Bernheim, Yves Boudier, Paul de Brancion, Michel Cassir, Tristan Cassir, Alain Castan, Marie Cayol, Pierre Cayol, Lénaïg Cariou, Anael Chadli, José Chatroussat, Claudia Christiansen, François Delaunay, Martine Derain, Jennifer K. Dick, Sylvie Durbec, Sophie Dussidour, Nadia Ettayeb, Aurélie Ferrand, Josette Fournie, Lætitia Gaudefroid Colombot, Laure Gauthier, Praline Gay-Para, Jean-Marie Gleize, Michaël Glück, Fred Griot, Bernadette Griot, Laurent Grisel, Frédérique Guétat-Liviani, Annie Guillon-Lévy, Claude Hirsch, Andrea Inglese, Stéphane Keruel, Isabelle Krier, Souad Labbize, Claudie Lenzi, Michèle Lepeer, Camille Loivier, Christine Jeanney, Laure de Lestrange, Maud Leroy, Sophie Loizeau, Béatrice Machet, Dalila Mahdjoub, Claude Mamier, Guillaume Marie, Nora Mekmouch, Maia MedAli, Jean-Claude Meffre, Jacqueline Merville, Carole Mesrobian – P.E.N. Club français – Cercle littéraire international, Vanda Mikši , Muriel Modr, Naik M’sili, Gilles Nadeau, Adèle Nègre, Gérard Noiret, Eric Pessan, Nathalie Ployet, Jean Princivale, Aldo Qureshi, Philippe Rajsfus, Danièle Robert, Nicolas Roméas, Luc Rouault-Milosavljevic, Marie Rousset, Hélène Sanguinetti, Modesta Suarez, Fabienne Swiatly, Amandine Tamayo, Maud Thiria, Catherine Tourné, André Ughetto, Union des poètes & Cie, Joël Vernet, Erik Wahl, Vincent Wahl, Fred Wallich, Catherine Weinzaepflen, Frédérique Zahnd, Philippe Zunino.

 

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“Avrei voluto trasmettere ai miei figli i ricordi che i miei genitori mi hanno lasciato” – Rami Abu Jamous

Il premio «Dar» e la letteratura russa – una conversazione con Michail Šiškin

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©Igor Bitman

 

©Igor Bitman

 

a cura di Giulia Marcucci

Lo scorso agosto, a Parigi, durante il convegno internazionale degli slavisti ho incontrato lo scrittore Michail Šiškin (1961), invitato lì per presentare il premio «Dar». L’ultima volta ci eravamo incontrati, almeno 15 anni fa, a Pisa, dove lui aveva tenuto una lezione all’università, o forse aveva presentato uno dei suoi romanzi – non ricordo con precisione. Di sicuro, in italiano erano già stati tradotti Capelvenere (2006) e La presa di Izmail (2007), e forse anche Lezioni di calligrafia (2009), tutti usciti per Voland nella traduzione di Emanuela Bonaccorsi. In quegli anni, la sezione di lingua e letteratura russa dell’università pisana era una sorta di seconda casa per alcuni fra i più grandi scrittori russi contemporanei, che venivano a trovarci, tenevano lezioni e con i quali non di rado instauravamo rapporti professionali (ideando progetti editoriali e di traduzione) e d’amicizia. Oltre al moscovita Šiškin, infatti, in quegli stessi anni ho avuto la fortuna di conoscere il poeta concettualista Dmitrij Prigov (1940-2007), la poetessa leningradese Elena Švarc (1948-2010), lo scrittore moscovita Evgenij Popov (1946) – tra gli ideatori, alla fine degli anni ’70 e insieme a Viktor Erofeev (1947; anche lui tra i presenti a Pisa), dell’almanacco «Metropol’» (che raccoglieva testi inediti e scatenò per questo un vero e proprio caso di risonanza internazionale), e poi Vladimir Sorokin (1955) e altri ancora. Tutte voci libere, che già avevano vissuto le contraddizioni sovietiche e già avevano lottato per l’affermazione di una letteratura libera dai vincoli del realismo socialista, sperimentando nuove forme di scrittura postmoderna e denunciando con ironia e sarcasmo, non sempre senza conseguenze spiacevoli, le storture del sistema passato. E il mio non è stato un privilegio esclusivo: questi scrittori organizzavano spesso dei veri e propri tour in altre città italiane, parlando liberamente di letteratura e cultura russa, senza imbarazzo e senza correre il rischio di equivoche censure.
Dopo i primi anni Duemila, sappiamo tutti del cambiamento nello scenario politico che ha investito la Russia; nell’autunno del 2014, dopo l’annessione alla Russia della Crimea, Šiškin ricorda il suo arrivo a una grande fiera dell’editoria in Siberia, paragonabile a quella di Francoforte quanto a dimensioni; era  positivamente impressionato dall’organizzazione dell’evento, ma al contempo rimase anche molto perplesso: a differenza di quanto avveniva in Europa, dove spesso gli ponevano molte domande su Russia e Ucraina, a Krasnojarsk tutti tacevano. Ora c’è una guerra che dura oramai da quasi quattro anni, e sappiamo che questa guerra ha spaccato nettamente in due la Russia: qualcuno è rimasto, in molti hanno lasciato il paese; c’è chi, rimanendo, resta nell’ombra e in silenzio (il silenzio è spesso un mezzo di sopravvivenza), oppure sconta pene durissime: è il caso, uno fra moltissimi, della regista di teatro Ženja Berkovič e della drammaturga Svetlana Petrijčuk, accusate di «apologia di terrorismo» per la loro pièce Finist jasnyj Sokol (Finist falco coraggioso). Mentre di settimana in settimana in Russia si ingrossa la lista dei cosiddetti «agenti stranieri», e dalle librerie russe vengono ritirati e definitivamente banditi i libri di grandi studiosi e studiose (anche loro oramai emigrati), di scrittori e scrittrici, fuori dai confini della Federazione sorgono intanto nuove case editrici indipendenti che pubblicano in russo, nuovi premi, nuovi movimenti, a testimoniare la vivacità di una cultura resiliente che merita maggiore attenzione. A Parigi ho conversato con Michail Šiškin, uno dei principali promotori di questa nuova fase culturale, un «agente straniero» che in Russia nei primi anni Duemila ha ottenuto i più prestigiosi premi letterari – Russian Booker Prize (2000), The National Bestseller Prize (2006) e il Big Book Prize (2006 e 2011) – e che nel 2022, ex aequo con Amélie Nothomb, ha vinto il Premio Strega europeo con il romanzo Punto di fuga (edito da 21lettere). Il premio «Dar» da lui ideato ci ha portati a parlare, più in generale, di cultura russa, del valore dell’emigrazione e della dissidenza oggi, e anche di alcune cambiamenti che, per il mercato editoriale in Russia e la libertà d’espressione, costituiscono un ulteriore giro di vite, mentre in Italia il dibattito è diventato sempre più fioco su entrambi i fronti: sia quello culturale interno russo sia quello, all’esterno, della dissidenza.
Šiškin è indubbiamente una delle voci più significative della letteratura russa contemporanea; la sua testimonianza è dunque oggettivamente importante e oggi necessaria, anche laddove potrà sembrare discutibile: è, come ovvio, un punto di vista precisamente situato, quello di un intellettuale russo che fin dagli anni Novanta ha scelto per motivi personali di vivere in Occidente e che non solo ha (con ottime ragioni) una posizione di condanna nettissima sull’operato di Putin, ma ha anche tesi molto nette sulla continuità fra il regime attuale e i metodi e le ideologie del periodo sovietico. Altri scrittori, che oggi hanno fatto altre scelte di vita, o riservano alla storia dell’Unione Sovietica un altro giudizio, hanno probabilmente un’idea almeno in parte diversa della cultura russa attuale. L’auspicio è dunque che a questo dialogo ne possano seguire altri – anche con scrittori e scrittrici che, appunto, hanno fatto scelte diverse. Ma per chi è rimasto in Russia oggi è verosimilmente impossibile rispondere liberamente; e dunque, perché le idee espresse da Šiškin in questo dialogo, come in molti suoi scritti, possano dar vita a un dibattito vero e fecondo, la condizione (e l’auspicio più grande) è – banale ma necessario ripeterlo – che finisca presto questa guerra.

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GM: Michail, subito dopo il 24 febbraio 2022, insieme ad altri scrittori e altre scrittrici russi e bielorussi sei stato tra i primi firmatari di una lettera, in cui chiedevate al popolo russo di non mentire e di non tacere di fronte all’aggressione militare della Russia all’Ucraina, di proteggere la dignità della lingua e della cultura russe (si veda qui). Da allora i tuoi interventi pubblici contro la guerra e in difesa della cultura e letteratura russe si sono moltiplicati, molti scrittori hanno definitivamente lasciato la Russia, nel frattempo nuove case editrici indipendenti sono sorte in Germania, Israele e altri paesi, a riprova di un “letteraturocentrismo” di tipo nuovo, che ha spostato il suo “centro” fuori dai confini territoriali russi. Che cosa sta accadendo in questo presente se lo mettiamo in relazione con il passato?

In Russia c’è di nuovo una dittatura e di nuovo questa dittatura porta con sé una guerra. Una dittatura non può esistere senza nemici, senza guerre, senza lo slogan «la madrepatria chiama!». Io sono uno scrittore e il regime di Putin vuole privarmi della mia lingua, trasformandola nella lingua degli assassini. Il regime mi ha dichiarato suo nemico e questo perché, da tempo, anche io mi sono autodichiarato tale. E non sono il solo. Di scrittori così, per i quali il russo è la lingua madre e che non sono disposti a cedere la propria lingua al nemico, ce ne sono in abbondanza.
Oggi si ripete la catastrofe culturale vecchia di cent’anni. La fine della cultura cent’anni fa, però, era solo parziale. All’epoca, una grande quantità di intellettuali non scelse l’emigrazione, e in molti, in modo ingenuo, appoggiarono le tenebre in arrivo, credendo nelle belle parole sul futuro socialista radioso. E alla fine le tenebre li hanno divorati. Con le classificazioni la situazione fu quasi subito chiara: la cultura si divise tra «cultura russa», che trovò la strada della libertà, e «cultura sovietica», che rimase dietro il filo spinato.
Nel «paese che leggeva più di tutti» i detentori della cultura furono annientati strato dopo strato.  Avrebbero raschiato fino al fondo, ma dopo la morte del «principale amico delle arti» [la definizione virgolettata si riferisce sarcasticamente a Stalin, ndt] hanno aperto un po’ il finestrino e attraverso la grata ha cominciato a fluire aria fresca. Il venticello ha portato con sé parole-semi di concetti forestieri: libertà, pensiero critico, dignità umana. Negli anni ’60 e ’70, sui miseri avanzi del campo letterario sono spuntati nuovi germogli. Siamo cresciuti guardando al Tamizdat. L’esistenza di una cultura libera dell’emigrazione era il nostro punto di riferimento, ci dava l’idea della normalità. Il centro della nostra civilizzazione era là dove si pubblicavano i libri, che ci restituivano la dignità umana, e da dove giungevano fino a noi le voci delle persone libere, che non portavano il collare.
E quando alla fine degli anni ’80, di colpo, anche noi siamo stati liberati da quel collare, ci è ingenuamente sembrato che le cose sarebbero andate in modo diverso, che sarebbe stato così per sempre, che il nostro paese avrebbe cercato di essere degno della sua cultura (che con tanto zelo era riuscito a umiliare); che avrebbe mostrato il suo pentimento. Gli autori che tornarono nel paese della Perestrojka furono accolti da vincenti; sale enormi, piene zeppe, standing ovations in segno di pentimento, di riconoscimento e di gratitudine per quella vera cultura che si era conservata durante l’emigrazione. Le case editrici tornarono a Mosca e a Pietroburgo dall’America e dalla Germania. Una vita letteraria libera è ripresa là dove si era interrotta per alcune generazioni: ricordiamo i festival letterari, le fiere, i premi degli anni ’90 e inizio anni Duemila.
Ed ecco che oggi tutto è tornato al punto di partenza. Dopo una leggera debolezza, la «patria-madre» si è ripresa e ha ricominciato a staccare a morsi le teste dei suoi ragazzi e delle sue ragazze. E sta ripulendo con il raschietto gli avanzi dello strato culturale. Questa volta raschierà via tutto. La differenza tra chi rimase allora, appoggiando il regime, e chi è rimasto in Russia oggi, ugualmente appoggiando il regime, balza agli occhi. Basta citare due nomi: Majakovskij allora e Šaman [cantante, sostenitore della guerra in Ucraina, ndt] oggi. Quelli che non vogliono indossare il collare, vengono spremuti, perseguitati, dichiarati agenti stranieri, estremisti. Non fa una piega: le persone che capiscono che cos’è la cultura, ecco chi sono i loro peggiori nemici.
Noi ci siamo ritrovati in una situazione che non esisteva cent’anni fa: gli avanzi del ceto culturale si sono di fatto interamente riversati nell’emigrazione. Dai tempi della Perestrojka, quante persone che possiedono il pensiero critico hanno abbandonato il paese? 20, 30 milioni? Di più? Davanti a noi sta avvenendo nel senso letterale del termine un cambiamento globale: il territorio e la cultura si dividono ancora e, a quanto pare, durerà a lungo.
Una cultura senza l’impero è sinonimo non solo della possibilità di respirare, ma è anche l’equivalente di una responsabilità che non si può scaricare su nessuno. La cultura può esistere solo se farai qualcosa per il suo sviluppo. È Belinskij che è uscito dal Cappotto di Gogol’. La società che ci ha partoriti, invece, è uscita dalla giubba imbottita del gulag e dal pastrano della guardia carceraria. L’iniziativa è privilegio degli uomini liberi. L’iniziativa dal basso, il sentimento di solidarietà è ciò che il potere russo ha ridotto in cenere e questo riguarda intere generazioni. Come «i russi non abbandonano i loro» lo vediamo ogni giorno sui canali Telegram nelle storie mostruose della totale deumanizzazione di milioni, cresciuti nella società con la mentalità del gulag: «Mors tua, vita mea». L’iniziativa, la capacità e l’esigenza di fare qualcosa di buono per gli altri, creare uno spazio per la libera espressione artistica è ciò che ci distingue dai «costruttori del comunismo» e dai loro epigoni, che dicono «La Crimea è nostra».

GM: A questo proposito, riguardo alla «creazione di uno spazio per la libera espressione artistica», ci racconti qualcosa sul Premio «Dar» da te ideato? Mi sembra significativo che il nome scelto richiami il titolo dell’ultimo romanzo in russo di Vladimir Nabokov, scritto a Berlino nel 1938, e al contempo questo premio mi colpisce molto perché valorizza insieme l’opera originale e la sua traduzione.

Sotto i nostri occhi oggi vediamo compiersi importanti iniziative a opera di persone per le quali la cultura russa è importante come parte della cultura mondiale, per questo è sorta l’esigenza di nuove case editrici non schiacciate dallo stivale di Putin. Ne sono comparse diverse in questi tre anni e pubblicano libri bellissimi in russo. Di case editrici del genere c’è bisogno in ogni grande città, che pubblichino libri con prefazioni di scrittori e organizzino eventi correlati. Servono fiere del libro, e a questo proposito ricordo che già ne sono state organizzate a Praga («La torre del libro») e a Berlino («Berlin Bebelplatz»), ma sono sicuro che iniziative come queste si moltiplicheranno presto in altri paesi. Servono progetti legati all’istruzione sull’esempio di «Marabu» per la matematica, che apre le sue porte a bambini e adolescenti in Francia, Serbia, America, Israele, Finlandia. Servono festival culturali in russo, come «Voices» a Berlino, «Kulturus» a Praga. Servono dei forum, come «SlovoNovo», che riuniscano sia gli esordienti sia i veterani di diverse sfere – letteraria, cinematografica, teatrale, artistica. Personalmente, sono molto felice del fatto che, grazie a degli entusiasti, si stia realizzando l’idea di una vita letteraria al di fuori del territorio di un impero che resiste sulle sue ceneri. Per fare questo bisogna praticamente partire da zero.
E così l’anno scorso con alcuni miei amici, slavisti svizzeri, ho fondato il premio «Dar» («Il dono»). Non è un premio russo, né un premio della letteratura russa. È un premio che vuole scoprire nuovi approcci alla letteratura e alla vita letteraria fuori dai confini di uno Stato arcaico; è un premio per tutti coloro che scrivono opere in russo indipendentemente dal loro passaporto e dal paese in cui vivono – Bielorussia, Lituania, Polonia, Georgia, Armenia, Israele, Germania ecc. Vi possono partecipare anche gli scrittori ucraini, che scrivono in russo, e gli editori ucraini – e questo per noi è molto importante.  Il russo, infatti, appartiene alla cultura mondiale e non alla feccia sul trono, non alla «madrepatria» che ha la bocca piena di cadaveri. L’obiettivo del premio è offrire la possibilità alla letteratura in lingua russa di un nuovo inizio, supportando in particolare gli scrittori più giovani per i quali l’accesso alla traduzione è praticamente precluso. Negli ultimi vent’anni è stata tradotta in diverse lingue una grande quantità di opere russe, e questo si spiega così: era Mosca a finanziare i progetti di traduzione. Oggi, in Russia nessuno dà soldi a un autore che prende posizione contro la guerra. La nuova letteratura in lingua russa – e non parlo solo degli scrittori emigrati dalla Russia, ma anche di scrittori che più in generale scrivono in russo in altri paesi – si è ritrovata di fronte al muro della traduzione. Bisogna abbatterlo questo muro. Il premio principale per il vincitore di «Dar», quindi, è un riconoscimento in denaro per la traduzione della sua opera in inglese, tedesco e francese. Per ora queste sono le lingue che abbiamo scelto per la traduzione. Le opere in concorso, tutte in prosa, vengono dapprima selezionate da un consiglio di esperti con a capo il critico Nikolaj Aleksandrov, poi iniziano i lavori della giuria che è composta da una trentina di esperti (critici, filologi, slavisti, traduttori, ecc.: qui); il voto è espresso in forma scritta, ma tutto viene poi pubblicato sul nostro sito in modo che, chi vuole, possa essere al corrente delle scelte di ciascun giurato.
Il nome, «Dar», mi piace molto perché è una parola corta, in cui coesistono significati importanti. E chi vuole potrà riconoscervi il titolo dell’ultimo romanzo scritto in russo da Vladimir Nabokov, che, per quanto mi riguarda, è il suo migliore romanzo.
La posizione sociale del premio è questa: tutti coloro che fanno parte dell’organizzazione (tra i suoi fondatori ci sono scrittori, poeti, musicisti, critici, registi e culturologi come Ljudmila Ulickaja, Boris Akunin, Michail Ėpštejn, Ivan Vyrypaev, Anton Dolin ecc.), e gli autori che ci inviano le loro opere sono contrari alla guerra, contro la dittatura e appoggiano l’Ucraina nella lotta per la libertà e l’indipendenza.

GM: Ci racconti come si è conclusa la prima edizione?

Alla prima edizione si sono candidati più di 150 libri pubblicati tra il 2022 e il 2023; il consiglio degli esperti ha selezionato 12 finalisti. La short-list è stata annunciata alla fine di gennaio 2025 e la giuria ha indicato il vincitore in maggio. La maggioranza dei voti è andata al bellissimo libro di Maria Galina, il diario Okolo vojny (Vicino alla guerra); la scrittrice si è trasferita da Mosca a Odessa immediatamente dopo l’inizio della guerra.
Sin dall’inizio è stato chiaro che il tema dell’Ucraina nella prima edizione del premio, durante la guerra, sarebbe stato centrale. Così come è stato subito chiaro che un premio in lingua russa al quarto anno di guerra avrebbe incontrato riscontri non univoci in Ucraina: lì gli scrittori di lingua russa subiscono le pressioni degli ultranazionalisti. Sin dall’inizio mi aspettavo che non sarebbe stato semplice, per questo sono rimasto colpito e mi sono rallegrato quando ho visto che editori e scrittori provenienti dall’Ucraina iniziavano a proporre le loro opere. Poi, però, tutto è andato a finire come temevo. I miracoli non succedono.
Marija Galina ha accettato che il suo libro venisse promosso, è apparsa alla televisione tedesca con un’intervista durante la quale ha sottolineato l’importanza del premio, ma, una volta saputa la decisione della giuria, ha deciso di non accettare il riconoscimento. È probabile che sulla sua scelta abbiano influito le pressioni all’interno dell’Ucraina sugli scrittori in lingua russa e il timore di un accanimento nei suoi confronti, come è accaduto con lo scrittore Jurij Andruchovič: dopo che siamo intervenuti insieme, i suoi colleghi hanno scritto in un post su Facebook: «Ogni russo, non importa se stia con Putin o contro Putin, è una merda. L’hai sfiorata e ora puzzi». Per cui, occorre avere comprensione per la rinuncia al premio da parte di Galina all’ultimo minuto. Lei poi mi ha scritto: «Caro Michail! Un grande grazie a lei per la comprensione e la pazienza! E per il sostegno che, dal primo momento, ha riservato all’Ucraina. In una situazione del genere, una posizione così ha richiesto non poco coraggio e fermezza. Questo resterà per sempre. Marija Galina».
Che cosa si può dire, tirando le somme, di questa prima edizione? Innanzitutto, che, nonostante tutte le difficoltà, il premio è nato. E questo è già un successo. Abbiamo attirato l’attenzione di molti lettori russofoni, e molti traduttori ed editori occidentali si sono interessati ai nostri autori e ai loro testi. Questo è un altro successo. Dopo il rifiuto di Galina, abbiamo ricevuto molti messaggi di solidarietà da parte del PEN International, che è tra i nostri sostenitori dall’inizio, da parte di editori e scrittori, anche ucraini. E noi andiamo avanti: il primo settembre è cominciata ufficialmente la seconda edizione. Staremo a vedere quali libri arriveranno. Ci saranno voci dall’Ucraina e dalla Federazione russa? Non sta a noi decidere, ma a chi scrive e pubblica là. Se arriveranno libri dalla Russia di Putin, sarà una responsabilità personale degli autori verso i loro libri. In Russia, ogni giorno aspirano via l’aria, prima o poi non ne resterà per respirare. È per questo che bisogna creare qui gli strumenti per garantire alla letteratura di continuare a vivere in un mondo libero; il premio «Dar» è uno di questi, ma ne occorrono molti di più.

GM: Oltre all’ideazione del premio, come continua la tua attività di scrittore dopo il 24 febbraio 2022?

La creatività artistica per molti scrittori dell’emigrazione diventa un atto per ritrovare un senso dopo la distruzione dei sistemi storici e culturali.
Persone diverse reagiscono in modo diverso a un forte stress. Se nel febbraio del 2022 fossi rimasto seduto ad ascoltare le notizie terrificanti alla televisione e alla radio, e non avessi fatto niente, non so come sarei sopravvissuto. Il mio cuore sarebbe semplicemente andato in pezzi, nel vero senso della parola. Per resistere mi sono buttato a fare quello che potevo fare, e io posso solo scrivere e intervenire pubblicamente. Ho iniziato a pubblicare articoli su testate internazionali, sono intervenuto alla radio, in televisione, nei meeting. Ho invitato le persone a essere solidali con l’Ucraina, a supportarla nella lotta contro l’aggressore.
Il modo di rapportarsi alla cultura russa nel mondo è profondamente cambiato. E quindi per i russi si è posto il compito di mostrare a tutti che a essere responsabile della tragedia a Bucha e a Irpin’ non è la letteratura russa. Di mettermi a scrivere un romanzo non mi è nemmeno passato per la mente. Come si può pensare alla bellezza della frase quando è stata dichiarata una guerra alle persone, e questa guerra ha invaso anche la bellezza, la cultura stessa? Tutti noi ora ci troviamo in uno stato di guerra contro la barbarie che avanza da ogni dove. Ora siamo tutti in guerra, anche chi è lontano dal fronte. Per anni, nelle mie pubblicazioni e durante i miei interventi pubblici, ho cercato di spiegare che il ponte verso Putin è un ponte verso la guerra. Non può essere altrimenti perché la dittatura vive di guerra, è il suo pane quotidiano, ma qui in occidente hanno chiuso gli occhi davanti all’evidenza. Volevo spiegare ai miei lettori di tutto il mondo la Russia e la sua guerra, per cui, ancora prima dell’aggressione, ho scritto in tedesco Frieden oder Krieg. Russland und der Westen [Pace o guerra. La Russia e l’Occidente]. In Italia è uscito con «21 lettere» con il titolo Russki mir: guerra o pace. Qui cerco di spiegare la Russia attraverso la sua storia e la storia della mia famiglia. Gli ultimi due capitoli sono dedicati al futuro, ho raccontato cosa sarebbe successo. In quel futuro, ora, ci siamo pienamente dentro, tutto sta andando come avevo previsto. Dopo l’aggressione russa all’Ucraina questo libro è stato tradotto in 20 lingue. Nel frattempo, non ho cambiato nemmeno una virgola, ho solo aggiunto una prefazione e una postfazione e ogni giorno che passa questo libro diventa sempre più attuale. Mi arrivano da varie parti del mondo reazioni di questo tipo: «Lei ci ha aperto gli occhi! Perché i nostri politici sono stati così ciechi?». Un lettore mi ha scritto: «Il suo libro ha aiutato il mio amore per la cultura russa, per la lingua russa, a non annegare nel sangue degli ucraini».
Io credo che sia giunto il momento di rivalutare tutti i valori della cultura russa. Occorre fermarsi e di nuovo analizzare daccapo tutto ciò che è stato scritto in russo prima di noi. Un risultato di questo esercizio è il mio libro Moi. Ėsse o russkoj literature [I miei. Saggi sulla letteratura russa]. È uscito nel 2024 per la casa editrice indipendente dell’emigrazione BAbook fondata da Boris Akunin. È come se non l’avessi scritto io questo libro, è venuto fuori da sé. Capita spesso che si viva una vita intera mancando la conversazione più importante – quella con i propri genitori. Capita spesso perché a colazione andiamo tutti di fretta, lo stesso vale per quando si cena – è appena cominciata la partita di calcio, e allora è difficile dire: stop, adesso ci fermiamo e facciamo la conversazione più importante della nostra vita. Questa conversazione con i miei, con mio padre e con mia madre, sono riuscito a farla solo dopo la loro morte, nei miei libri. E in I miei. Saggi sulla letteratura russa ho condotto una conversazione analoga con gli autori che hanno fatto la letteratura russa, cioè quei “genitori” che mi hanno formato per molti anni. Avevo bisogno di capire come fosse venuto fuori dal mio mondo quel male fetido e se per caso non fosse venuto proprio fuori da quei libri con i quali ero cresciuto. Oppure i miei autori avevano tirato su una difesa a tutto tondo in grado di tutelare la cultura dalle barbarie fino allo stremo? Loro hanno perso allora, noi abbiamo perso oggi. Questo libro è una mia conversazione con i miei scrittori sul perché e sul percome perdiamo, e sul perché, nonostante tutto, continueremo a tenere la guardia alta fino allo stremo.
Un’altra cosa molto importante per me, in questo momento, è intervenire insieme ai colleghi e amici ucraini. Sto preparando un programma musicale e letterario con il fondatore del festival «Odessa classics» e questa estate siamo intervenuti insieme in Germania durante il festival «Оdessa Classics in Elmau»; insieme a noi c’erano grandi nomi come il pianista Grigorij Sokolov e il violoncellista Miša Majskij.
Non siamo ingenui e bisogna essere realisti: sappiamo bene che la letteratura e la musica non possono fermare la guerra. Ma per noi è importante questo gesto simbolico, che parla di speranza. La cultura è l’antidoto alla paura, alla propaganda e all’oblio. Le nostre esibizioni congiunte, un pianista ucraino con un autore russo, sono un atto morale consapevole che richiede coraggio, poiché sotto l’attacco dei nazionalisti in Ucraina sono finiti anche Čajkovskij, Rachmaninov e Šnittke. I Putin vanno e vengono, ma la musica immortale rimane, e tutte le bombe del mondo sono impotenti al suo cospetto.
Ed è anche importante capire che la vera arte non parla di «politica attuale». Dell’oggi bisogna scrivere sui giornali e nei post su Facebook. L’arte, la letteratura, la musica non combattono contro il male di oggi, ma contro quello eterno. Il mio compito, come scrittore, è scrivere opere che aiutino il lettore a sentirsi parte della coscienza culturale mondiale, a risvegliare in lui la dignità umana. E allora l’uomo deciderà da solo per sé stesso – se è pronto a essere schiavo sotto una dittatura o a lottare per una riorganizzazione democratica della società. E purtroppo, non c’è alcuna certezza che davanti al lettore del futuro lontano non si porranno le stesse domande che si pongono oggi davanti a noi. E la principale tra queste sarà sempre la stessa: a cosa sei disposto a rinunciare per preservare la tua dignità?

GM: Nabokov, nel 1937, in una lettera alla moglie Vera, dopo un ritorno a Cambridge a distanza di anni, scrive: «Questa visita è una buona lezione – la lezione sul ritorno – e un preavviso: non bisognerà aspettarsi vita, calore, il risveglio impetuoso del passato, neppure da un altro nostro ritorno – in Russia. Come un giocattolo si vende con la sua chiave, così tutto è già avvolto nella memoria – mentre al suo esterno non si muove niente». Sono parole che non escludono la speranza di un ritorno, ma che al contempo parlano chiaramente dell’impossibilità di riprovare eventualmente le stesse emozioni, la stessa vita di un tempo (i Nabokov avevano lasciato Pietrogrado nel 1917 alla volta di Kiev e nel 1919 emigrano in Europa). Brodskij, costretto a emigrare nel 1972, definiva l’emigrazione un «tornare a casa», una casa cioè straniera e nuova, ma che gli aveva concesso la libertà, non solo creativa. Che cosa distingue gli scrittori che oggi vivono a Berlino, a Parigi, in Georgia ecc. dai russi delle precedenti ondate dell’emigrazione?

L’emigrazione diventa di nuovo un punto di riferimento, un punto di appoggio per chi è rimasto dietro la recinzione, per chi è di nuovo con il collare e però vive ancora con l’esigenza di respirare una parola libera, per le generazioni future. Quello che noi facciamo qui ora potrà dare loro un’idea e una nozione della norma, del vero, come è accaduto nella zona del «socialismo vittorioso». È importante che tutti capiscano, finché non è troppo tardi, che l’emigrazione è resistenza.
Un secolo fa una scrittrice e drammaturga russa emigrata nel 1920 a Parigi, Nadežda Teffi, nel titolo di un suo celebre racconto pose con leggerezza una domanda seria: Que faire? La risposta è ancora attuale: non occorre sperare nel ritorno, bisogna vivere qui e ora. Più semplicemente ancora, bisogna vivere con dignità. È tutto semplice: ciascuno deve fare ciò che può fare, e se non c’è verso di salvare il proprio paese, bisogna continuare la vita di una cultura libera dalla «maledizione del territorio», e il corpo di questa cultura è la nostra lingua.
Rispetto all’emigrazione del passato due cose in particolare ci differenziano: da un lato, appunto, la consapevolezza che non ci sarà un ritorno; dall’altro, la possibilità di continuare a vivere in uno spazio particolare che coloro che sono emigrati un secolo fa non possedevano. Loro non avevano lo spazio virtuale che abbiamo noi e che ci permette di sentirci parte di una cultura mondiale, né avevano i nostri dispositivi elettronici. E così noi, che crediamo importante proteggere la dignità della nostra lingua, creiamo online quello spazio di protezione che forse offline non è nemmeno possibile.
Comprendo molto bene quegli scrittori tedeschi che sentivano l’impotenza di fermare il proprio popolo, che con entusiasmo seguiva il Führer verso l’abisso. Stefan Zweig per disperazione si suicidò. E Thomas Mann tenacemente continuava i suoi appelli radiofonici. Sembrava che le sue parole volassero nell’aria, nel vuoto, non influenzavano in alcun modo l’andamento delle operazioni militari. Ma erano molto importanti, perché la gente sapesse: esiste anche un’altra Germania, non hitleriana. La Federazione Russa oggi è uno stato fascista totalitario. I libri dei cosiddetti «agenti stranieri» non li bruciano ancora, ma li ritirano dalla vendita e dalle biblioteche. Cosa dobbiamo fare? Io per me ho risposto così a questa domanda: se non puoi salvare il tuo paese, bisogna salvare la sua cultura.

GM: A proposito dei libri degli «agenti stranieri» (non importa se scritti, curati, prefati e perfino tradotti da uno di loro), fino a fine agosto potevano essere venduti, purché rigorosamente incellofanati per impedire alle persone di sfogliarli, e previo controllo della maggiore età dell’acquirente; dal primo settembre, invece, la normativa russa riguardo agli «agenti stranieri» rende poco chiaro il destino della vendita dei libri in cui compiano questi autori, che oramai sono tantissimi. Di fronte a queste ulteriori restrizioni, quale destino possiamo ipotizzare per la vita letteraria in Russia?  

Niente di nuovo sotto il sole – abbiamo già visto tutto questo. Lo stato sosterrà la letteratura «patriottica» fedele al potere, mentre i veri scrittori scriveranno i loro testi «nel cassetto» e li pubblicheranno con le case editrici libere in Occidente.
I boss al potere sono convinti di detenere il monopolio su tutto – sul territorio, sulla popolazione, sulla cultura e sulla lingua: chi parla russo è loro servo della gleba, dove si parla russo è la loro terra. Se invece di baciare patriotticamente lo stivale della patria, li mandi al diavolo in russo, ti dichiarano «agente straniero». Per loro essere russo ed essere loro schiavo sono sinonimi. Io sono russo, ma non ho intenzione di essere loro schiavo.
Il potere ha bisogno solo di chi, sottomesso, mette la testa sul ceppo con un sospiro: «lo zar sa meglio». C’è solo una medicina per la coscienza servile – il pensiero critico, che arriva solo con l’educazione, l’istruzione: proprio per questo la cultura e i suoi portatori «contagiosi» devono essere distrutti per primi. Asili e scuole là oramai esistono solo per educare al «dono dell’obbedienza» (il concetto, introdotto da Nikolaj Danilevskij, è un eufemismo per l’ardente servitù patriottica), l’obiettivo della “letteratura” di cui il regime ha bisogno è educare al «patriottismo» servile. Ci odiano, noi uomini e donne di cultura, perché miniamo il loro monopolio sul potere.
Il principale nemico della cultura russa è lo stato russo. E Charms, e Mandel’štam, e tutti coloro che tentavano di fare letteratura libera, erano oppositori del regime già per il fatto che volevano togliergli il monopolio sulla lingua russa. Gli «ideologi» putiniani usano la lingua russa come arma nella «guerra ibrida» totale. Lo scrittore, canale per la lingua, deve, secondo i loro concetti, irrigare con le parole i campi patriottici, spiegare chiaramente ai lettori che intorno ci sono nemici assetati di sangue; quindi, «non dobbiamo risparmiare i nostri averi, non dobbiamo risparmiare niente, non dobbiamo esitare a vendere  le case, a impegnare mogli e figli, a prostrarci dinnanzi a chi si batte per la vera fede ortodossa ed è nostro capo» – come avvenne con il famoso appello di Minin nel secolo XVII per raccogliere la milizia e liberare Mosca dai polacchi.
Tutti i regimi hanno oppresso i veri scrittori: al tempo sovietico avevano bisogno di lacchè «scrittori sovietici», e ora di lacchè «scrittori-patrioti». Questo è uno stato criminale, che tollera gli intellettuali solo come subordinati. Vuoi emanare «patriottismo» – ecco il teatro, emana. Non vuoi – sei un «agente straniero». Altrimenti stai zitto-zitto.
Il regime ha sempre usato il patriottismo come una trappola per la popolazione, e la cultura come esca. Il pensiero critico, il rispetto per la personalità si educano attraverso generazioni – e questo a condizione di accettare che è davvero necessario un enorme lavoro minuzioso, vòlto a educare le qualità del cittadino libero in ogni scuola, in ogni asilo, in ogni famiglia. Tuttavia, il compito del ministero dell’educazione in tutti i tempi russi è stato completamente diverso – tirare su «soldati della patria». E in generale, il principale educatore là è sempre stata la strada con la sua mentalità carceraria e le sue leggi. E l’éducation sentimentale la completava il servizio obbligatorio nell’esercito. Chi c’è stato, sa cosa intendo.
Penso spesso a mio padre. Aveva 18 anni quando andò a combattere contro i tedeschi. Credeva di difendere la patria, in realtà lui e milioni come lui furono usati – difendeva il regime che aveva ucciso suo padre, mio nonno morì nel gulag. Mio padre per tutta la vita è stato orgoglioso di aver liberato l’Europa dal fascismo. E non poteva in alcun modo accettare che avesse portato ai popoli liberati semplicemente un altro fascismo. «Come, noi fascisti?! Noi siamo russi! Loro sono fascisti!» Lui, e tutto il paese si identificavano in questa vittoria. E cosa gli ha portato la «grande vittoria sul fascismo»? Sono diventati solo ancora più schiavi del regime. La gente si identificava con la grandezza dell’impero, così la servitù di corte provava orgoglio per la ricchezza e il potere del padrone.

GM: Uno dei tuoi saggi di cui ci hai parlato in precedenza è dedicato a Čechov. Riportando il suo pensiero, scrivi che la sua è la «diagnosi del medico»: la Russia è malata di schiavitù nella sua forma più acuta, cioè di schiavitù inconsapevole; e ricordi che per Čechov la cosa più terribile nelle persone era la loro incapacità di distinguere il bene dal male. Nella giovane protagonista di «Voglia di dormire» che, dopo una giornata di duro lavoro, soffoca il piccolo cui dovrebbe badare, vedi l’antesignano di una Russia che durante la costruzione del glorioso, felice avvenire, avrebbe soffocato nei gulag altri milioni di suoi figli. E ancora ti chiedi se il villaggio di Ukleevo, dove è ambientato «Nella bassura», sia veramente solo il simbolo della Russia di Čechov; ti chiedi come poter vivere nella bassura russa, conservando la dignità personale e distinguendo il bene dal male. Un patriota della dignità umana, così definisci Čechov. È davvero possibile che la letteratura perda sempre?   

Il problema è che la maggioranza della popolazione russa vive ancora con una coscienza tribale patriarcale: «Noi siamo russi, e intorno ci sono nemici che vogliono distruggerci, quindi dobbiamo difendere la nostra madrepatria, la nostra lingua, il nostro Puškin, dobbiamo sacrificare tutto per la conservazione della nostra amata Patria». Bisogna capire che l’umanità nel suo cammino dal mondo animale ha fatto solo mezzo passo. Non contano i computer e le navicelle spaziali: entrambi si possono usare anche per la distruzione barbarica. Tutto sta nel passaggio dalla coscienza tribale primitiva a quella individuale, nello sviluppo della personalità, che si fa carico della responsabilità per ogni cosa, e non la scarica sul potere. Non sono il popolo o il presidente regnante a dirti cosa è bene e cosa è male, ma solo tu stesso decidi cosa lo è e cosa no. Se vedo che il mio paese e il suo «popolo portatore di Dio» commettono il male, sarò contro il mio paese e contro il mio popolo.
La maggioranza dei miei ex compatrioti si strangola con questa coscienza patriarcale, е metterà la testa sul ceppo: «la madrepatria chiama». L’unico strumento per trasformare la coscienza tribale in individuale è l’istruzione. Perciò lo stato in Russia è sempre stato il principale nemico della cultura, e nelle scuole la materia principale è sempre stata pensare in fila e parlare al passo.
Questa guerra infame la popolazione russa la sostiene non perché si è nutrita di Čechov e ha sentito Rachmaninov, ma perché la vera cultura, che è il mezzo per risvegliare il senso della propria dignità, è sempre stata oppressa, mentre alla popolazione versavano nella tinozza la brodaglia patriottica. Nessun insegnante in tutto l’enorme paese appenderà nel suo ufficio, sotto il ritratto di Tolstoj, le sue parole: «Il patriottismo è schiavitù». Riportare la gente allo stato di tribù che confida nel Führer è più semplice che educare la personalità libera. L’abbiamo visto nella Germania nazista, lo vediamo ora nel paese che in eredità da tutta la cultura mondiale ha scelto per sé solo la lettera Z [allusione alla Z sui carrarmati russi, diventata un simbolo ufficiale dell’invasione russa all’Ucraina, ndt].
Nell’infinita lotta tra cultura e barbarie sul territorio del «paese che legge più di tutti», noi, «ceto culturale», perdiamo sempre – la forza spezza la paglia. Ecco, abbiamo perso di nuovo. Ora il nostro compito è conservare la cultura in lingua russa nell’emigrazione. E il «nevoso mostro» – secondo Majakovskij – continuerà oltre, a riprodurre sé stessо, dall’interno non può rigenerarsi (è impossibile immaginare che il regime hitleriano mutasse dall’interno trasformandosi in senso democratico), e senza sconfitta militare esterna, ahimè, non ci sarà niente.
Il regime putiniano si può distruggere solo con la sconfitta militare, come la Germania nazista, ma la presenza di armi nucleari rende questo impossibile. La malattia russa è la futurofobia, paura del futuro. La saggezza popolare russa «non si può augurare la morte a un cattivo zar» è attuale come non mai. La vera democrazia presuppone una rotazione costante del potere. L’arrivo di nuove persone al potere, elette dai cittadini, garantisce il cambiamento del futuro. La nuova élite criminale russa, arrivata al potere negli anni ’90, non ha intenzione di cedere questo potere a nessuno. Il suo compito consiste nel prolungare lo status quo per il più lungo tempo possibile. In una parola, annullare il futuro.
Per la cultura, per la libera creatività quel territorio è ostile. Di generazione in generazione, da regime a regime tutto ciò che è vivo là è stato soppresso, distrutto o spinto nell’emigrazione. Io odio tutto ciò che è ostile alla cultura, alla libertà creativa. I miei libri sono una dichiarazione d’amore a quella forza della libera creatività che si fa strada verso la vita, senza sé e senza ma.
Non dubito che su questa guerra si scriveranno molti libri. I libri che scriveranno gli scrittori ucraini saranno sull’eroismo, sulla lotta contro il male evidente. Gli scrittori in Russia dovranno rispondere a questa domanda: perché la popolazione russa nella sua maggioranza ha sostenuto questa guerra infame? Finché non ci sarà pentimento per quello che è stato fatto sia da questo regime sia da quello sovietico, il paese non uscirà dalla palude sanguinosa.

 

Dove l’agnello seppellisce sé stesso: Georges Bataille e la culla della non umanità

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di Marco Di Crescenzo

Alla notizia della grazia ottenuta, i burattini corsero tutti sul palcoscenico e, accesi i lumi e i lampadari come in serata di gala, cominciarono a saltare e a ballare. Era l’alba e ballavano sempre.

Carlo Collodi, Le avventure di Pinocchio

SCULTURA BRONZEA ROMANA DA ERCOLANO, MIMMO JODICE, 1990-1995

I

Il mondo e il regno

 

Sunday, August 29, 1971.

[…] Tonight I am watching a  movie, The Living Desert. It is about all sorts of animals.

Dai diari di David Wojnarowicz

Georges Bataille fu nominato per un incarico alla Bibliothèque nationale de France poco dopo aver completato gli studi all’École des Chartes. Fece un breve apprendistato al dipartimento dei libri stampati per poi entrare al Cabinet des Médailles il 15 aprile 1924, dove vi rimase per cinque anni e mezzo, fino a febbraio del 1930.

Nonostante le circostanze del suo allontanamento non siano mai state chiarite, la consultazione di documenti d’archivio ci permette di affermare che si trattò di una fase determinante nella sua formazione [1]. Ciò che colpisce immediatamente è l’incredibile conoscenza storica che Bataille acquisì rapidamente all’interno dell’istituzione, insieme alla capacità di vivisezionare le più varie civiltà naufragate del passato, sottolineando ciò che già ai tempi lo caratterizzava: l’indagine sulla decadenza associata alle più alte realizzazioni dello spirito umano. Questo ancor prima che lo scalpo tutelare dei grandi filosofi gli fornisse, per così dire, una validazione teoretica, in particolare Hegel.

L’anno in cui Bataille oltrepassò i cancelli della Biblioteca fu un anno di grandi cambiamenti. Il suo arrivo nel 1924 coincise, a pochi mesi di distanza, con la scomparsa di Ernest Babelon, conservatore del Cabinet per oltre trentadue anni, la cui morte sancì la fine di un’epoca all’interno dell’istituzione. Ciò è reso manifesto dalla lettura di un rapporto indirizzato all’amministratore generale, in cui si descrive un piano per nascondere le collezioni più preziose della Biblioteque in caso di conflitto armato, e dall’introduzione di nuove disposizioni regolamentari che distribuirono con rigore gerarchico i compiti all’interno dell’edificio [2]. Così, a Bataille fu affidata la revisione degli inventari delle monete straniere. Insieme al controllo e alla catalogazione generali, egli si occupò, con ogni probabilità e in completa solitudine, dell’intera collezione delle monete provenienti dalle colonie di Francia e dei vasti assortimenti del settore orientale. Attraverso questo incarico, Bataille ereditò presto anche la “parte maledetta” della numismatica, avventurandosi sempre più a fondo in un terreno ai tempi quasi inesplorato nelle accademie europee: la numismatica orientale.

Se Bataille era sicuramente un uomo del libro, si rivelò immediatamente anche un raffinato antiquario, divenendo in breve tempo specialista in una disciplina complessa.

In un breve testo redatto per il Guide du visiteur e pubblicato nel 1929 [3], cinque anni dopo il suo arrivo alla biblioteca, Bataille tentò di descrivere rigorosamente i fondamenti della numismatica orientale, dividendo la catalogazione delle monete orientali in due grandi ordini. Al primo ordine, egli collocò tutte le monete che proseguono la tradizione greca nei territori sottoposti al dominio musulmano e in India. Al secondo, appartengono invece le monete della Cina e dei paesi vicini, la cui origine e circolazione è indipendente dalla storia del resto del mondo. Nel primo caso si tratta di oggetti che presentano una parentela con una tipologia a noi nota di moneta. Un oggetto metallico di forma circolare, con sopra una delle due facce almeno una rappresentazione di un volto umano e, sul retro, una legenda associata. Nel secondo caso, invece, le forme appaiono insolite. Al posto di volti umani, sulle monete del lontano Oriente si trovano incisi coltelli, falci, uncini, martelli. Per un individuo di cultura europea, la circolazione dei beni è quasi naturalmente associata a oggetti metallici: prodotti dell’attività artistica o strumenti di propaganda che passano quotidianamente di mano in mano, di tasca in tasca. La monetazione dell’Estremo Oriente rivela invece una frattura nell’universalità di questo sistema; l’intera iconografia di tali artefatti poggia su rappresentazioni che eccedono ogni antropomorfismo di cui i piccoli dèi di metallo d’occidente sono imbevuti.

Tra i relitti delle innumerabili chimere orientali, Bataille si muoveva come una spia in terra straniera. I suoi passi, tra il 1927 e il 1929, vengono tracciati da rapporti mensili dell’amministrazione della biblioteca, che raccontano di intere giornate passate a osservare, studiare, catalogare.

Nel complesso, quella tra il 1925 e il 1930 fu un’epoca fervida per l’immaginazione scientifica dell’Europa occidentale, un periodo in cui gli studiosi iniziarono a tuffarsi nei segreti d’Oriente come in acque scure. Era il tempo delle grandi esposizioni museali agli albori del declino dei vecchi imperi coloniali. Fiere nazionali pubblicizzavano e celebravano i bagliori culturali di quel nuovo ordine mondiale che, da lì a pochi decenni, avrebbe sostituito il “regno di mille anni” della potenza marittima britannica.

Il British Museum di Londra, eretto nel 1753 e fatto proliferare sul bottino di intere civiltà depredate, è forse la tappa più eloquente di questo pellegrinaggio votato alla dominazione. Dai marmi del Partenone, fatti sparire dalla Grecia sotto il pretesto della conservazione, ai manufatti assiri di Nimrud, fino al fervore necrofilo con cui le mummie egizie furono sottratte alle sabbie, il museo divenne presto un monumento eretto in onore della cancellazione e della catalogazione sistematica. Non solo in Inghilterra. A Parigi, il Louvre custodisce ancora le delizie del grande saccheggio avvenuto durante le campagne napoleoniche. Gli obelischi d’Egitto, i colossi cambogiani plasmati dagli incubi degli imperatori, i segreti matematici incisi nei manoscritti islamici: questo e altro ancora veniva catalogato, spedito e scambiato come trofeo di conquista.

Il Pergamonmuseum di Berlino, inaugurato nel 1930, figura invece come altare votato ad una tipologia ancora più estrema di sparizione. All’interno del museo tedesco avvenne infatti il trasferimento di intere architetture provenienti dalle terre conquistate. Dall’altare di Pergamo alla Porta di Ishtar, strappati rispettivamente all’Anatolia e a Babilonia, l’ala museale dedicata all’arte antica custodisce i diorami di intere città ridotte a rovine.

Sei anni prima dell’apertura del Pergamonmuseum, nel  biennio del 1924-1925, a Wembley, Inghilterra, si tenne l’ambiziosa British Empire Exhibition. Sotto le note della Marcia Imperiale del compositore inglese Edward Elgar, nei maestosi padiglioni della fiera venivano esposti con lode estrema i manufatti sottratti alle colonie, le reliquie giunte in Occidente nelle stive degli esploratori. Tra questi, le monete antiche dell’Estremo Oriente figuravano tra i reperti più evocativi: minuscoli frammenti di sovranità dimenticate, tracce tangibili di imperi clandestini che la potenza inglese aveva ormai fagocitato per sempre.

Anche gli inventari della Bibliothèque Nationale, durante la breve permanenza di Georges Bataille, raccontano di doni straordinari. Prima ci furono le monete giunte al Cabinet des Médailles dalla Missione Archeologica di Persia, poi, nel 1926, un dono speciale: Joseph Hackin, il direttore del museo Guimet, portò alla Biblioteca delle monete antiche della lontana Battriana, luogo d’origine dello zoroastrismo, che da sole raccontavano il mistero di eternità innominabili, parallele alla storia retta del mondo occidentale [4].

Da quest’ultima scoperta, Bataille trasse nel 1929 le Note sulla numismatica dei Kushan e Le note sui Kushanshah sasanidi, pubblicate nella rivista Aréthuse [5]. Entrambi furono percepiti per ciò che di fatto erano: lavori estremamente seri, degni di uno studioso con spiccate capacità interpretative. L’articolo sulla numismatica dei Kushan risulta quasi chirurgico. Con ogni sua parte meticolosamente articolata, emerge immediatamente la capacità straordinaria di Bataille di inserirsi con sicurezza nel discorso scientifico, in particolare quello storico. L’articolo dedicato alle monete dei Grandi Moghul, sembra però provocare uno stupore opposto, un senso di esclusione trainato da un’estraneità radicale. La scienza di Bataille, questa volta, sembra procedere senza di noi. Questo perché, sotto l’apparente aridità scientifica, emergono già i temi che torneranno più vividi nel futuro della sua opera: la sovranità, l’ebbrezza, la crudeltà.

Qualcosa infatti cambiò nei mesi immediatamente successivi alla stesura dei due articoli di Aréthuse, spingendo Bataille a fondare nel 1929 un nuovo spazio di scrittura intitolato significativamente Documents, il cui sottotitolo recitava Archéologie, Beaux-Arts, Ethnographie et Variétés e che, nei suoi due brevi anni di vita, ospitò contributi di varie figure del sottosuolo intellettuale francese, dall’etnologo Michel Leiris, ai surrealisti dissidenti come André Masson e Joan Mirò, ad alcuni colleghi della Bibliothèque come Robert Desnos, Carl Einstein e Pierre d’Espezel, co-fondatore della rivista.

La rottura e la differenza di tono rispetto ad Aréthuse saranno evidenti.

Ma cosa si realizza in Documents, descritta da Bataille come una “macchina da guerra contro le idee preconcette”, che non poteva trovare spazio nella rivista accademica?

Si tratta di una concezione singolare di Bataille riguardo la storia del mondo, la cui manifestazione iniziale trova il proprio fondamento nell’urgenza di impedire che l’Oriente venisse ridotto ad un episodio momentaneo dell’odissea dello spirito occidentale.

Ma, come è facile intuire, c’è dell’altro.

Pare che Georges Bataille fosse rimasto talmente impressionato da alcune effigi gnostiche di arconti con teste di animali che aveva potuto ammirare al Cabinet des médailles della Bibliothèque Nationale, da dedicare ad esse, nel 1930, un articolo nella sua neonata rivista, dal titolo Le bas matérialisme et la gnose, il basso materialismo e la gnosi [6].

Le icone gnostiche, raffiguranti, secondo le didascalie batalliane, «tre arconti con testa d’anatra», uno «Iao panmorfo», un «Dio con gambe umane, corpo di serpente e testa di gallo» e, infine, un «Dio acefalo sormontato da due teste animali», sembrano funzionare come  prisma teleologico attraverso cui Bataille elabora la sua ossessione per l’informe e il capovolgimento delle categorie ontologiche tradizionali.

Come le monete dell’Estremo Oriente sostituiscono i volti umani delle monete occidentali e del vicino Oriente con coltelli, falci e uncini, conferendo valore e significato a forme altrove inconcepibili, così gli arconti dalla testa animale rappresentano più di semplici curiosità iconografiche. Esse sono figure emblematiche, portatrici di un materialismo che scende al di sotto delle sublimazioni ideali, sfidando e ricombinando le strutture verticali del linguaggio visivo occidentale.

Una folta schiera di accademici accorda sul fatto che parlare di una gnosi in Bataille può risultare azzardato [7]. La gnosi resta, in effetti, il grande tema interrotto di Bataille, stipato nel recinto inarticolato di poche pagine e consumato in rapide annotazioni.

Eppure, sei anni dopo l’avventura editoriale di Documents, sulla copertina del primo numero di Acéphale (la futura rivista di Bataille legata all’omonima società segreta), l’uomo senza testa visto per la prima volta alla Bibliothèque de France diverrà il vessillo della nuova sovversione ontologica.

La testa, sede della ragione e del comando, ma anche capo, depositario di ogni gerarchia verticale, viene recisa, lasciando il corpo come unico residuo sacrale della nuda vita. Attingendo dagli studi dell’antropologo Marcel Mauss sulle società segrete dell’Africa profonda, Bataille organizzerà gli incontri notturni dei membri di Acéphale nei boschi della campagna francese. All’ombra del cadavere di una grande quercia scolpita dai fulmini, i membri della congiura sacra mediteranno sui grandi tomi di Nietzsche e del Marchese de Sade, celebrando la decapitazione del re di Francia Luigi XVI come preludio al trionfo di un’umanità senza capo, annunciata dalla spoglia figura che campeggia il dorso della rivista.

Tuttavia, quando lo stesso ignudo comparirà nel terzo numero di Acéphale, esso figurerà questa volta non privo di testa, ma con una testa taurina. Emergerà, in tal modo, un’aporia politica già inaugurata anni prima nei Documents e mai del tutto risolta. Il rischio che l’uomo decapitato, nella sua fuga dalla schiavitù umana verso il regno del non umano, venga risucchiato in una animalità intermedia che non rappresenta un’alternativa dialettica alla tirannide antropocentrica, ma piuttosto un altro regime di dominio.

Qui si erge con violenza il grande paradosso e l’intera sfida teoretica dell’intera opera di Bataille: come può il desiderio di destrutturare l’umano sfuggire al rischio di ricostituire, nella nuova bestialità reclamata, un nuovo ordine gerarchico?

Tale contraddizione rimarrà centrale in tutto il lavoro di Bataille, dalla produzione letteraria a quella filosofico-politica, fino agli scritti autobiografici e, soprattutto, nel lungo dissidio con Alexandre Kojève riguardo la configurazione che la specie umana avrebbe acquisito alla fine della storia del mondo.

Eppure, l’acefalia non è pensata da Bataille per essere una soluzione definitiva bensì uno spazio di tensione, un campo aperto in cui l’umanità e la bestialità si dissolvono reciprocamente, lasciando nel mezzo un residuo informe, l’incertezza radicale che lentamente sfuma in un muso animale. Questo è il cuore del basso materialismo: non un semplice rifiuto della sommità della legge e della purezza delle forme, ma la consapevolezza che ogni discesa nel basso, seppur salvifica, porta con sé il rischio di un nuovo assoluto che ordina e legifera.

Nella mitologia gnostica, gli arconti sono le entità demoniche che creano e governano il mondo materiale, nel quale gli elementi spirituali si trovano mescolati e imprigionati in quelli corporei. In Egitto, nel contesto di questa cosmologia dualistica, Basilide, uno dei più enigmatici pensatori gnostici del II secolo – dalla cui cerchia di proseliti provengono le effigi con teste d’animali riprodotte in Documents [8] – elabora la sua visione radicale del creato: un dramma soteriologico che si dipana a spirale tra gli abissi dell’inesistenza divina e il groviglio della materia umana. Autore di un’esegesi monumentale dei Vangeli in venti volumi, Basilide descrive un dio non esistente che nella caligine originaria emette una triplice filialità. Di queste, l’ultima, la più imperfetta e remota, si trova intrappolata come un aborto nel grande cappio della materia, relegata alla regione più oscura del creato.

Il destino ultimo di questa filialità è niente meno che il ritorno graduale all’inesistenza divina, un movimento di riscatto che dissolve ogni legame con la corporeità. Ciò che rende il pensiero di Basilide straordinariamente originale, come notato da una nicchia di autori che va da Jacob Taubes a Giorgio Agamben, non è solo la profondità della sua cosmogonia, ma la domanda, fino a quel momento inespressa, che egli pone: cosa ne sarà della materia una volta che tutti gli elementi spirituali l’avranno abbandonata?

Con questa interrogazione, Basilide si distacca dagli schemi tradizionali dello gnosticismo, non limitandosi più a immaginare la redenzione come un semplice svuotamento del mondo, ma confrontandosi con il residuo politico di tale svuotamento, con la materia orfana. Una torsione del genere è rivoluzionaria, non nel senso politico convenzionale, ma, come si legge nell’Escatologia Occidentale di Jacob Taubes [9], essa è un capovolgimento radicale dei valori, una celebrazione della materia come principio essenzialmente anarchico.  «È così che appare — scrive Bataille nell’articolo del 1930 — che la gnosi, nel suo processo psicologico, non è poi tanto diversa dal materialismo attuale, un materialismo che non implica ontologia, che non implica che la materia è la cosa in sé. Poiché si tratta prima di tutto di non sottomettersi, e con sé la propria ragione, a niente di più elevato, a niente che possa dare all’essere che io sono, alla ragione che arma questo essere, un’autorità fittizia».

Fin qui, poco o nulla distingue il grande dramma della separazione di Basilide dal pensiero antisistematico di Bataille messo in moto dalla fuga da ogni aspirazione ideale umana. L’universo gnostico, concepito come punto cieco delle idealità antiche, sarà infatti il punto di partenza per Bataille per l’elaborazione di nozioni future, come quella della “negatività senza impiego”, e di confronti incessanti come quello con il pensiero di Nietzsche, che costituirà il laboratorio centrale delle riflessione di Bataille sul sacro e sul politico.

Dalla mitologia immaginifica del racconto gnostico, Bataille raccolse le grandi conseguenze antropologiche da cui si dipanerà il motivo centrale della sua opera: il disporsi cieco delle forze e del dinamismo dell’impuro. Collocata al di fuori della legge divina, la creatura è fuori legge. Non c’è più ponte fra Dio e creatura se non la grande conoscenza che ne guida l’itinerario dissolutivo. Anche il pensiero, dunque, risvegliatosi dal torpore dell’identità, si lancia nello stato meno probabile dell’universo: l’eccesso, il dispendio, il residuo, abbracciando una tensione dialettica irrisolvibile.

Letto in questa luce, il lavoro collettivo degli anni ’30 attorno alla rivista Documents rivela, in ogni tappa e attraverso registri molteplici, la sua intrinseca bipolarità; il collettivo stesso diviene un vettore vivente di denuncia sistematica dell’ordine sociale e culturale dell’Europa del novecento, intrecciandosi con quell’emersione della vitalità che sorge dal basso e che reclama il suo residuo politico irrappresentabile.

In Documents, Bataille non si limita a enunciare i suoi intenti, ma li incarna in una riflessione radicale sul mondo dell’arte, ampliandone i confini verso territori inesplorati. La rivista, nata, lo ricordiamo, con l’intento di occuparsi di Archéologie, Beaux-Arts, Ethnographie et Variétés, si oppone alla storia dell’arte totalizzante che esalta la contemplazione di forme pure e ideali, proponendo un’alternativa che rivaluta tanto le arti minori, come la numismatica orientale – a cui Documents dedica numerosi esempi – quanto espressioni apparentemente marginali come gli antichi spettacoli etnici o le riviste popolari.

Bataille, che ne dirige di fatto l’aspetto iconografico, sceglie personalmente le immagini che accompagnano gli articoli della rivista, creando una tensione volutamente alienante dove il registro alto e quello basso divengono indistinguibili. Alla pars destruens teorica che smonta le fondamenta idealistiche dell’eidos, si affianca una pars construens visiva: fotografie, illustrazioni e montaggi figurativi danno concretamente vita alle tesi crudeli della rivista. Questa rete visiva, che anticipa alcuni sottoprodotti della moderna cultura digitale (si pensi all’estetica traumacore, le cursed images o alla narrativa visuale degli horror analogici) eccede i limiti del singolo articolo, costruendo quella che Bataille stesso definisce una «contre-histoire de l’art». L’accostamento di elementi eterogenei genera un malessere intellettuale che forza l’osservatore a oltrepassare la contemplazione passiva e a immergersi in un universo di creature-oggetto insolite e perturbanti. Documents non è solo una rivista: è una ghigliottina sperimentale dove la storia dell’arte si trasforma in un’esperienza di sovversione visiva e concettuale.

La pratica del montaggio figurativo con cui Bataille popola la sua rivista, richiama irresistibilmente alla memoria il montaggio afasico di Aby Warburg nel suo enigmatico atlante Mnemosyne [10]. Creato tra il 1924 e il 1929, l’anno della  morte di Warburg, Mnemosyne rimase un’enciclopedia incompiuta. In essa, un migliaio di immagini si dispongono su pannelli di tela nera dove l’iconoclastia diviene metodo chirurgico: riproduzioni di capolavori del Rinascimento fiorentino convivono con ritratti fotografici dei nativi americani dei Pueblos, ninfe oceanine danzano accanto ai serpenti delle everglades della Florida, lo Zèfiro di Botticelli si accoppia con gli dèi mongoli della guerra, le volte delle cattedrali spagnole vengono eclissate dalle forme circolari delle antiche monete d’Oriente, producendo in tal modo collisioni di forme tanto eterogenee quanto perturbanti.

Concepito come una storia dell’arte senza parole, al cuore di Mnemosyne si trovano le pathosformel, formule archetipiche della storia dell’arte sopravvissute all’antichità e che riemergono in contesti totalmente differenti, in quella che potremmo azzardare a definire come una forma prototipica dei moderni memes digitali. L’intento dell’atlante di Warburg, come quella dei Documents di Bataille, non è solo catalogare queste tracce del passato, ma quello di convertire l’intera storia del mondo in un’arena di conflitti iconografici.

Collaborano infatti alla rivista Documents esuli del surrealismo come Jacques-André Boiffard, ma anche figure che oscillano ancora tra i due mondi della fotografia e della pittura, come Man Ray, Brassaï e Raoul Ubac. I loro esperimenti fotografici attuati con tecniche innovative aprono un campo di possibilità visive che Bataille sfrutta appieno.

Nell’articolo L’alluce, egli sviluppa appieno il dualismo tra idealismo verticale e materialismo orizzontale, associando al testo una serie di fotografie di alluci enormi e sproporzionati, realizzate da Jacques-André Boiffard e trattate come veri e propri volti, emulando i codici della ritrattistica tradizionale. Enormemente ingranditi, con il fondo nero e l’inquadratura rigorosa, ciascuno occupa un’intera pagina, accompagnati da didascalie scientifiche che ne enfatizzano il rigore espositivo, mentre la sproporzione intenzionale ne altera la percezione. Ciò che è abitualmente ignorato come ignobile o triviale, come l’alluce, che è di fatto l’estremità più bassa della sagoma umana, si impone come un’immagine iperreale che umilia le gerarchie estetiche delle accademie europee.

In un saggio del 1936 dedicato al pittore Edgar Degas, lo scrittore Paul Valéry si sofferma ad ammirare i pavimenti su cui danzano le minuscole ballerine del pittore francese; ciò lo induce, per qualche riga, a riflettere sul miracolo analitico che si cela dietro l’apparente insensatezza visuale di ciò che è privo di forma: «Ci sono cose, macchie, masse, contorni, volumi, che non hanno, in qualche modo, che un’esistenza di fatto: non sono che percepite da noi, ma non conosciute; non possiamo ridurle a una legge unica, dedurre il loro tutto dall’analisi di una delle loro parti, ricostruirle con operazioni logiche» [11]. Per Valery, c’è dunque una sorta di costruzione nella visione del mondo dalla quale siamo esentati per assuefazione, dove prevediamo e indoviniamo più di quanto vediamo. Le impressioni dell’occhio sono per noi dei segni che ci portano ad ignorare le presenze primordiali e anteriori a tutti gli arrangiamenti immediati a cui la nostra prima educazione ci ha abituato.

Gli alluci di Bataille, così come l’iposomia ammaliante del corpo di danza di Degas, sfuggono alla legge razionale e al riconoscimento per lasciare aperte le possibilità della contingenza prospettica. La verticalità del nostro corpo condiziona la nostra percezione del reale, fornendo un orientamento implicito che stabilisce gerarchie spaziali e simboliche. Eppure, quando questo asse viene turbato da procedimenti tecnologici che ne ribaltano la prospettiva, l’effetto non consiste più nel ritrovare un senso, ma nell’immergersi in un evento di pura incoerenza visiva.

Rosalind Krauss, che ha esplorato in profondità il paradigma dell’informe nella fotografia, ha fondato la propria analisi su una premessa cruciale: l’informe non implica la negazione della forma, ma scaturisce dalla sua dislocazione, dall’accostamento imprevisto e dinamico tra elementi eterogenei [12]. Partendo da questo presupposto, Krauss si chiede se un mezzo apparentemente oggettivo e meccanico come la fotografia possa generare entità dalla forma deterritorializzata, superando la sua tradizionale funzione di riproduzione mimetica. Tecniche come l’ingrandimento eccessivo, la sovraesposizione o l’alterazione delle prospettive consentono di declassare la rappresentazione canonica creando un effetto di riorientamento percettivo. Nella crudele autobiografia intitolata Estinzione, Thomas Bernhard definiva l’arte della fotografia come “una falsificazione infida e perversa” la quale mostrerebbe soltanto “l’istante grottesco e quello bizzarro” e chiunque o qualunque cosa  ritragga, essa rimarrebbe “un oltraggio assoluto alla dignità umana, una mostruosa falsificazione della natura, un atto meschino e disumano” [13]. Ebbene, sembrerebbe, secondo Rosalind Krauss, che i nuovi processi tecnologici della fotografia non solo destabilizzano la visione abituale, ma, paradossalmente, rendono l’immagine ancora più reale, nella misura in cui la liberano dall’idealizzazione e la riportano al livello del contingente e del brutale, cosicché “un semplice oscillamento dall’asse verticale all’orizzontale trasformi il tutto del corpo in parte: l’alto (la Gestalt) in basso (l’organo sessuale), l’umano nell’animale”.

Nello stesso numero di Documents, compaiono infine le immagini immortalate da Jacques-André Boiffard raffiguranti il mattatoio parigino de La Villette.

Eterotopia di spazio e sangue che collega la catena del valore economico di Parigi a quella alimentare dei suoi abitanti, il mattatoio de La Villette è trasfigurato nelle immagini di Boiffard in un’allegoria topografica della condizione operaia parigina. Anche stavolta, la brutalità non è celata né sublimata, il mattatoio diviene la soglia terrestre dove il corpo animale e quello umano si rispecchiano nella fatica, nella carne e nell’inesorabilità del gesto ripetuto della fabbrica. Nel montaggio figurativo di Bataille, le quattordici paia di zampe bovine, recise e allineate lungo il muro dello stabilimento industriale, dialogano con cinque paia di gambe umane recise da un sipario, appartenenti alle ballerine di Movietone Follies, musical in bianco e nero del 1929 prodotto dalla Fox Film Corporation. L’accostamento destabilizza. Eppure, il suo significato è immediato. Il montaggio diviene qui una riflessione sovversiva sul doppio binario della reificazione: le zampe di animali lavorate nei grandi mattatoi ai margini industriali delle metropoli e le gambe femminili che danzano tra le statiche elettriche dei televisori sono lati differenti della stessa moneta vivente, dello stesso corpo urbano asservito all’immensa macchina di produzione e intrattenimento che lo esibisce come frammento funzionale al desiderio e al consumo.

Ciò che consente a Bataille di mediare tra il regno della razionalità e quello dell’allegoria è la guerra che egli dichiara al sodalizio tra legge e pensiero, al binomio di logos e nomos, sforzandosi di trovare una terza via capace di oltrepassare i templi della forma.

La grande architettura che ne nasce, non si limita alla contrapposizione dicotomica tra forme ideali e reali ma produce un surplus, una dépense; e come avviene nelle grandi economie monetarie, ciò che è espulso acquista importanza proprio in quanto espulso, come oggetto di rifiuto in grado di conservare intatta la sua carica negativa. Il movimento dell’informe assimila forme diverse, producendo analogie e contrasti che implicano sempre una connotazione affettivo-emozionale, una forza capace di stimolare in chi osserva una reazione radicale, sia essa di appagamento, oppure di repulsione e terrore fisiologico.

Oggi più che mai, l’impuro reclama il proprio posto nel mondo. Viviamo immersi in un’epoca che erige il simulacro a propria cifra ontologica, in cui i Picasso delle multinazionali disegnano il corpo della modernità attraverso un repertorio di immagini, protesi e supplementi artificiali, estensioni tecnologiche che sostituiscono, amplificano, ma anche mutilano. Esiliati in cabine digitali agli angoli remoti dei nostri appartamenti, siamo tutti arconti dimezzati, mutilati virtualmente in una guerra sotterranea, non più combattuta sui campi aperti o nelle foibe sotto le praterie, ma nei laboratori biotecnologici, nelle fabbriche del desiderio mediatico, nei grandi bazar delle intelligenze artificiali e delle identità ricombinanti. La carne diventa creta e sembra non esserci più alcuna scusa per non modellare: cambiare aspetto, sesso, etnia. La chirurgia diviene il rito di una nuova metamorfosi: non più la rigenerazione mitica del corpo ma, come nello Mnemosyne di Warburg, la sua frammentazione perpetua, un culto della disarticolazione che nasce e al contempo fugge dal volere capitale che l’ha generato.

In questo scenario, il concetto di informe abbandona ogni residuo di giudizio negativo legato a disproporzione o privazione. Non è il caos privativo di una forma non raggiunta, né il difetto che si oppone all’ideale classico di armonia. Al contrario, l’informe si riappropria del proprio potenziale produttivo, affermandosi come forza esuberante che abbraccia il contagio e la disgregazione. È una categoria dell’eccesso, un’espansione centrifuga che dà luogo a nuovi paradigmi, a costellazioni mobili che rifiutano il primato millenario della verticalità: l’informe agisce oggi sul piano orizzontale. Come gli oceani senzienti nei romanzi di Stanisław Lem, esso si diffonde senza alcun riguardo per i confini, ignorando la centralità per disperdersi nelle marginalità remote. L’egemonia verticale, il Nomos della Terra schmittiano, oggi abbassa lo sguardo, costretto a confrontarsi con un mondo in cui le forme non restano più statiche ma si dissolvono e riaffiorano in una danse macabre perenne, gravida di nuovi stati di emergenza e nuove esplosioni. In questo contesto, l’informe non è solo una condizione estetica ma un paradigma ontologico. È il linguaggio stesso della contemporaneità, che vive nella sovrabbondanza liminale delle immagini compresse e delle voci interrotte, nei corpi piegati dalla tecnica e dai disordini cognitivi. È la resistenza contro l’ordine lineare del tempo e del progresso, contro il mito dell’integrità e dell’elevazione, proponendo al suo posto un’epistemologia della frammentazione, una politica del margine, una nuova etica del residuo.

 

II

I bambini selvaggi

 

 Il Signore lascerà che tutti i bambini vadano alla sua tomba. E le voci

bianche saranno voci di gioia nella notte.

Marcel Schwob, La croisade des enfants

 

 Dalla metà del XIV secolo, nei villaggi disseminati lungo le plaghe rurali dell’Europa cominciarono a diffondersi storie riguardo alcuni incontri avvenuti con i cosiddetti Wolfskind, o Enfant Sauvages.

Si trattava, secondo gli avvistamenti riportati nelle cronache locali, di fanciulli emersi dalle più buie cavità del mondo. Allattati dai lupi nelle foreste della Polonia occidentale, cresciuti nelle nidiate dei grifoni tra i canyons della Serbia, fatti correre con le linci nelle tundre siberiane o con gli sciacalli nell’entroterra francese, gli Enfant Sauvages erano in realtà, il più delle volte, bambini abbandonati dai propri genitori nelle lande selvagge al di fuori delle mura cittadine. Venivano poi ritrovati come fossero precipitati dal cielo, in condizioni tali da suggerire che avessero vissuto per anni lontano dalla società civile. Corpi erranti che vivevano e dormivano al margine del pensabile, sottratti ad ogni tipo di destino storico e riconsegnati all’inoperosità animale, non v’era traccia in loro del linguaggio umano. Ciò che restava era il puro istinto, un’infanzia compressa in gesti rapaci, in grida inarticolate e movimenti simili a quelli delle bestie. Molto presto, gli incontri sempre più frequenti con questi bambini divennero lo specchio rovesciato di una civiltà che aveva appena cominciato a sbirciare nelle tenebre oltre il primato della specie.

Nel 1341, un fanciullo di nome Hans (denominato in seguito Hans di Hesse), muto e in grado di muoversi soltanto a quattro zampe, fu trovato da alcuni monaci tra le erbe alte della foresta di Hesse, in Germania [14]. Condotto al sicuro in un monastero locale, i monaci tentarono invano di impartirgli  il dono della parola e i rudimenti del vivere civile. Nel 1591, nel capitolo 75 delle sue Operae horarum succisivarum, sive meditationes historicae, dal titolo Über die erstaunliche Beweglichkeit mancher Personen, (“Sulla sorprendente mobilità di alcuni individui”), il giurista tedesco Philip Camerarius riferisce di un enfant sauvage senza nome, soprannominato “il vitello di Bamberga” [15]. Recuperato dai grandi pascoli delle montagne limitrofe, il bambino fu condotto alla corte del principe di Bamberga, dove per il resto dei suoi giorni visse al sicuro.

Anche Peter di Hannover [16], di circa dodici anni, fu trovato che camminava nudo tra i labirinti delle foreste vicino a Hannover, in Germania. Non parlava e si nutriva esclusivamente di radici. Dopo la cattura, fu portato alla corte di re Giorgio I d’Inghilterra, dove divenne presto oggetto di curiosità per la classe intellettuale e nobiliare inglese. Sebbene sottoposto a vari tentativi di educazione, visse il resto della sua vita in una casa coloniale sotto la protezione della famiglia reale senza mai sviluppare la capacità di parlare. Dopo la sua morte, Re Giorgio continuò a riferirsi a lui come “il mio mostruoso confidente.”

Sembrerebbe dunque che l’incontro precoce tra le istituzioni politiche e religiose e i bambini selvaggi diede avvio al processo secolare con cui lo Stato e la Chiesa iniziarono anche a prendersene cura.

Il monastero, la cattedrale e la corte principesca, divenivano laboratori informali in cui la selvatichezza e l’anomalia venivano analizzate e ricondotte entro il recinto della civiltà. La vita naturale inizia così a divenire la posta in gioco di quel campo in continua evoluzione che, alcuni secoli dopo, Michel Foucault definirà come biopotere.

Con il XVIII secolo, gli enfant sauvages trovarono una formalizzazione teorica nel contesto dell’illuminismo scientifico. Nella decima edizione del suo Systema Naturae (1758), Carl von Linné, padre della tassonomia scientifica moderna, iniziò ad includere accanto alla categoria Homo Sapiens la variante Homo ferus, che sembrava rovesciare punto per punto i caratteri fondativi del più nobile dei primati [17]. L’Homo Ferus era infatti, secondo Linneo, tetrapus (cammina a quattro zampe), mutus (privo di linguaggio), birsutus (coperto di peli). Seguono, accanto alle didascalia scientifiche, le apparizioni e le identità anagrafiche di alcuni bambini lupo registrate in meno di quindici anni: il giovane di Hannover (1724), i due puer ipyrenaici (1719), la puella transisalana (1717), e la puella campanica (1731).

Riflettere su quest’anomalia tassonomica conduce Linneo a dubitare della teoria cartesiana che concepiva gli animali umani alla stregua di automata medianica, ponendo enfasi su come i confini dell’umano fossero, piuttosto, costantemente resi fluidi: non solo dal regno animale, ma anche da tutte quelle creature provenienti solo in apparenza dalla mitologia.

Nella prima versione della poesia Passion, il poeta austriaco Georg Trakl scrive:

Due lupi, sotto oscuri abeti

Mescolammo il nostro sangue in marmoreo abbraccio

E le stelle della nostra razza si infransero su di noi.

Il filosofo Nick Land, che nella sua collezione di scritti dal titolo Fanged Noumena dedica un intero saggio a questi ed altri versi di Trakl, scrive che in Passion la parola “razza” si libera da ogni tipo di scrupolosità ermeneutica, rivelando piuttosto il fattore politico ed epidemiologico che caratterizza da sempre l’intera mitologia espressa dalla figura del licantropo nella letteratura e nell’estetica gotiche [18].  Nonostante alcuni termini linguistici attribuiscono la stessa natura liminale sia al vampiro che al licantropo (si pensi al termine greco vyrkolaka, che fa indistintamente riferimento ad entrambe le figure), il lupo mannaro non sembra mai aver raggiunto la notorietà e lo status paradigmatico del vampiro. Questo perché, laddove il vampiro letterario è spesso portatore dei resti di un’aristocrazia privilegiata e depositaria di potere e conoscenza millenari,  essere un werwolf vuol dire essere inferiore secondo i più basilari criteri della civiltà.

Non solo significa essere estranei alla disciplina e alla responsabilità politica, ma anche all’intera storia del lavoro e della produttività in cui tali categorie si sono insediate. Rispetto al vampiro, gli uomini lupo sono caratterizzati da una profonda inferiorità spirituale e un’anormale incapacità a reprimere tutti quei tratti dell’inconscio che Freud descriveva come resistenti all’educazione.

I lupi di Trakl, così come gli Wolfskind trovati alle soglie dei villaggi dell’Europa rurale, disseminano il proprio sangue impuro attraverso gli spazi selvaggi di una contronatura imbattibile, abbattendosi sulla prospettiva di una soggettività dritta e trascendentale.

La regressione pagana di cui si fanno testimoni e portatori, l’istanza primeva che nella poesia Grodek Trakl chiamerà “il sangue dimenticato”, li conduce a non essere mai ghermiti dalla reciprocità e dall’incentivo contrattuale delle economie politiche.

Di conseguenza, come ribadito da Nick Land: ”È solo grazie alla più severe rigidità che i superiori riescono a reprimere le violente pulsioni che li condurrebbero a divenire inferiori, divenire femminili, neri, irresponsabili e nomadici”.

Ascoltate ancora Trakl:

Rovi incolti cingono la città

Da insanguinati passi allontana la luna

le atterrite donne.

E lupi ferini irrompono attraverso il cancello.

Dai passi appena descritti, provenienti dalla poesia di guerra Im Osten (Sul fronte orientale), sembrerebbe che, in tempi di pace, la progenie ferina di Trakl sia solita dimorare all’esterno delle mura sicure della città, nelle foreste limitrofe. Ma in seguito, a causa del disordine e dell’anomia scaturiti dalla guerra, cade ogni vincolo che rendeva la città un luogo protetto dalla contaminazione con l’Altro bestiale. I lupi di Trakl si fanno dunque strada oltre il cancello che in tempi di normalità li separava e li distingueva dalla società civile.  A scorrere fra il deserto e la polis, come scrive Nick Land, non è una storia politica, ma l’intera genealogia di una ferinità repressa.

Dallo stato di natura di Thomas Hobbes al contratto sociale di Jean Jacques Rousseau, il mito di fondazione della città moderna sarà infatti posto accanto, nell’ambito della terminologia politico-giuridica, alla nuova centralità dei corpi. Se in precedenza il Corpus aveva assunto una posizione privilegiata nella filosofia e nella scienza dell’età barocca, da Cartesio a Newton, da Leibniz a Spinoza, nella riflessione politica – nel Leviatano di Hobbes e nel Contratto di Rousseau – il corpo diviene la metafora centrale della comunità cittadina. Nel De cive Hobbes distingue nella specie umana un corpo naturale e un corpo artificiale, politico. Successivamente, nel De homine, sarà proprio l’uccidibilità del corpo naturale a fondare tanto l’uguaglianza degli uomini che la necessità di un corpo artificiale, il Commonwealth, affinchè tale omicidio venga impedito.

Come definitivamente comprovato da Giorgio Agamben nel magnifico Homo Sacer, la grande metafora del Leviatano, il cui corpo è formato dalla moltitudine dei corpi dei singoli, andrebbe letta in questa prospettiva [19]. Sono i corpi legittimamente uccidibili dei sudditi, le membra indisciplinate dell’Homo Ferus di Linneo o dei lupi di Trakl, a formare il nuovo corpo politico dell’occidente.

FRONTESPIZIO DEL LEVIATANO DI THOMAS HOBBES, 1651, INCISIONE DI ABRAHAM BOSSE

È vitale, dunque, per la riuscita dell’umanesimo e per il trionfo della purezza dello Stato, che la razza degli inferiori e dei selvaggi venga tenuta al di fuori delle mura della città, oppure resa docile. Un concetto come quello nazionalsocialista di razza, o nelle parole di Carl Schmitt, di “uguaglianza di stirpe”, funziona come una clausola generale su cui si fonda una immediata coincidenza tra stato di pericolo e diritto. In Forza di legge, Jacques Derrida fa derivare il rapporto asimmetrico tra diritto e giustizia  dal semplice fatto che la legge si presenta sempre come l’esito di rapporti di forza politico-economici, i quali riproducono sé stessi attraverso il rimando ossessivo dell’identico, attraverso un’idea di giustizia come “ciò che conserva il sangue e non lo sparge” [21].  Le forme più antiche di esecuzione capitale di cui abbiamo notizia, come la poena cullei, in cui la testa del condannato veniva coperta da una pelle di lupo, somigliano in effetti più a riti di purificazione che a pene di morte in senso tradizionale.

La produzione statale del corpo del servo diviene dunque una categoria fluida e frammentaria, la cui essenza ambigua resta aperta tra l’inoperosità animale e l’istanza artificiale umana: come nel sistema tassonomico di Linneo, la separazione del corpo ferino è l’immediata produzione del corpo umano.

Anni dopo l’esperienza editoriale dei Documents, a Tossa da Mar, Georges Bataille e Andrè Masson lavoravano in pieno fervore alla creazione della rivista e della società segreta Acéphale. Nel nuovo contesto di Acéphale (i cui collaboratori nel corso degli anni erano aumentati e, oltre l’immancabile Pierre Klossowski, vi erano i nomi di Jean Rollin e Jean Wahl), Bataille tenderà a porre l’accento sull’aspetto dionisaco e nietzscheano di tutti quei gruppi di resistenza che aspirano a sbarazzarsi di ogni istanza autoritaria repressiva per generare forme di irraggiamento ferino all’interno di una dimensione acefala.

Il secondo numero di Acéphale, si presenta fin dal titolo come una riparazione: Nietzsche et les fascistes, une réparation (Nietzsche e i fascisti, una riparazione).

Il recupero e l’esaltazione di Nietzsche operati da Bataille nascono dall’urgenza di sottrarre definitivamente Nietzsche al culto della personalità propria dei gruppi fascisti e delle ideologie totalitarie. Tutti i tentativi di usurpazione e deformazione del pensiero di Nietzsche, secondo Bataille, non fanno che rivelare la loro incompatibilità con una verità essenziale: il recupero ossessivo del passato, la mitologia stantia dei padri e della patria, il terrore nei confronti del diverso, in nulla si possono conciliare con il mito nietzschiano dell’avvenire. Ciò che Bataille fa emergere dal confronto con Nietzsche  è, come nella poesia di Trakl, il terrore della specie retta nei confronti dell’impuro, dell’inferiorità ferina, il cui confinamento si scopre essere da sempre condizionato da un’insensata distribuzione di intensità politica. Tale emancipazione del pensiero nietzschiano avverrà con l’apoteosi rivoluzionaria che trova il proprio centro nella dimensione femminile.

Nel futuro regno acefalo di Bataille, il “fuoco degli inferiori” è destinato a diffondersi incontrollato. È il fuoco postumano dello spreco, della deumanizzazione e di una profonda fertilità androgina che non può essere compresa né contenuta dall’industria patriarcale del Sovrano. Questo fuoco lupino è l’elemento apolitico della guerra, che nella catastrofe imminente si rivolge contro il patto iniquo di un’eternità esclusivamente verticale e maschile, dischiudendo la strada alle propagazioni materne della ferinità e dell’entropia. Contro la società monocefala dei regimi totalitari, atrofizzata su un modello organizzativo in cui il volto del padre sfuma nel volto di Dio, è necessario conoscere e riscattare il volto e la forza della Madre; non più le ninfe pomeridiane cantate da Mallarmé, ma l’ultramaterialità esorbitante di una venere-idra che trascina via i suoi figli dalla prospettiva retta del mondo. Oltrepassare il padre equivale, in tal senso, a castrare l’archè, che in greco significa origine ma anche comando. Il delitto in tal senso è fondatore. La grande madre batailliana riunisce i suoi figli senza patria nel delitto rivoluzionario, in una comunità senza capo dove gli affetti dionisiaci creano, con l’abolizione dell’identità, le forme policefale della tragedia. L’espulsione del silenzio paterno inaugura la violenza del verbo femmineo che confessa la vita notturna del mondo. In un’opposizione inconciliabile in cui si contrastano lo stato poliziesco delle società totalitarie e la comunità orizzontale resa possibile dalla sua eliminazione, il rimpatrio nell’utero appare come il ritorno ad una terra selvaggia. Si prospetta allora per Bataille una nuova configurazione comunitaria, già teorizzata al Collège de Sociologie insieme a Roger Caillois, e che sembra modellarsi su quei gruppi giovanili predatori e antiautoritari che già Georges Dumézil aveva individuato nei Gandharva indiani o nei Luperci romani. Superati i sistemi monocefali e patriarcali, si intravede la fisionomia di quelle comunità elettive, quelle società segrete puramente existentielles e apolitiche, come le esistenze degli Enfant Sauvages tra le erbe alte oltre le mura delle città-stato, senza progetto e senza scopo se non quello della sovversione e della rivolta.

Nel 1934, in uno scritto seminale di mitologia comparata dal titolo Ouranos Varuna,  Georges Dumézil aveva ripercorso, attraverso la Teogonia esiodea, le sequenze originarie della rivolta dei figli contro il padre che culmina con l’uccisione e la castrazione di quest’ultimo attuata con la complicità della madre, leggendo in tale atto un drame familier et politique, un dramma familiare e politico [21].  Se nel mondo moderno, in special modo dopo James George Frazer, non ignoriamo più che certe feste nell’antichità comportavano assiduamente sacrifici espiatori, dopo gli studi di René Girard siamo sempre più vicini al sospetto che ai tratti distintivi di tali fenomeni risale, direttamente o indirettamente, una violenza collettiva e fondatrice.

Nell’antichità, il possesso da parte dei padroni di prigionieri o schiavi disarmati che si potevano uccidere o divorare, pose l’uomo stesso nel novero degli oggetti che, di tanto in tanto, bisognava utilizzare o sacrificare. L’infrazione del sovrano alla regola comune del non uccidere dette inevitabilmente inizio all’isolamento dell’uomo comune dalla sfera di potere.

Fu senza dubbio il faraone egiziano a conferire per primo alla persona umana la sua volontà di oltrepassare ogni limite stabilito, la quale si manifestò specularmente nella costruzione di alti edifici e monumenti che dalle sommità del cielo scrutavano il popolo terrestre. Molto presto, gli uomini iniziarono a soffrire l’assenza di comunicazione data dall’esistenza separata di un re, come un corpo la cui testa si trovasse recisa oltre le volte visibili del mondo, in camere esclusivamente private.

Quando i popoli, molto tempo dopo l’epoca delle grandi piramidi, vollero impossessarsi dei segreti  dell’immortalità, essi dovettero sottrarre al sovrano la conoscenza privilegiata dei miti e dei rituali degli dei. Questo perché, come scrive René Girard ne La violence et le sacré “è solo nella misura in cui una massa di potenza considerevole si era accumulata in un solo capo che l’essere umano aveva elevato fino al cielo la sua avidità di potenza eterna: ciò che non era senza dubbio avvenuto prima che lo pschent [la corona del sovrano egizio] non designasse la testa del faraone al terrore sacro di una popolazione numerosa”. [22].

ILLUSTRAZIONE DI UN “UOMO DI VIMINI”, IDOLI SACRIFICALI DESCRITTI NEL DE BELLO GALLICO DI GIULIO CESARE. INCISIONE TRATTA DA “A TOUR IN WALES”, THOMAS PENNANT, 1778.

Così, per assicurare il ritorno alla comunione di tutto il popolo, agli uomini era chiaro che dovevano mettere a morte non più lo schiavo ma il re. Ma se si trattava di capi militari, il sacrificio risultava impraticabile in quanto un signore della guerra li avrebbe facilmente annientati con la forza. Tuttavia, si da il caso che in innumerevoli tradizioni e culture, il sovrano trovava il proprio corrispettivo nella figura del suo “buffone”, figura sacra e al contempo sacrificabile, la cui storia nei secoli scorre parallela a quella delle corti reali – come recentemente illustrato nel meraviglioso libro di Beatrice Otto, Fools Are Everywhere: The Court Jester around the World [23] –  e con il quale il sovrano condivide una situazione di esteriorità, un isolamento effettivo, come re Giorgio I e il suo “mostruoso confidente”, il bambino di Hannover recuperato dai boschi.

Se in alcune culture capitava che il sovrano stesso venisse sacrificato, come in certe monarchie africane, a divenire eminentemente sacrificabile in alcune festività era il buffone, proprio in quanto doppio speculare del re.

Nei Saturnali di Macrobio si legge delle grandi immolazioni avvenute nei banchetti notturni di Roma nei riguardi di questi falsi re del carnevale, le quali permettevano il temporaneo ritorno all’Età dell’oro attraverso il favore delle divinità infere. L’esperienza e le dinamiche di potere, nei Saturnali, vengono rovesciate nel loro contrario: cinti di vesti rosse e identificati di volta in volta con Plutone o con Saturno, ai buffoni veniva conferito il titolo provvisorio di princeps, divenendo così il simulacro vivente e sacrificabile dei peccati del proprio padrone [24].

A Babilonia, durante le feste Sacee, i prigionieri venivano ornati di gioielli preziosi e travestiti da re prima di essere uccisi e lo stesso avveniva nella corrispettiva usanza persiana dove, vestito dei manti regali, lo schiavo veniva fatto sedere sul trono e subito dopo condannato a morte [25]. La differenza tra sacrificabile e non sacrificabile, tra leader e capro espiatorio, eretta sulla base della nulla o piena appartenenza alla società, sfuma pertanto nella liminalità delle categorie politiche di volta in volta ritualizzate e riconcettualizzate. Tuttavia, pur venendo occultato dietro la maschera di divinità differenti, il rito non ha cambiato scopo.

Tra il mondo primitivo e l’epoca moderna, l’esempio letterario del rovesciamento del principio monarchico trova la propria manifestazione radicale nel Riccardo II di Shakespeare. La grande scena della deposizione del re si svolge a tutti gli effetti come un’incoronazione alla rovescia, un rito invertito: Riccardo, precursore della melanconia di personaggi come Amleto o Bruto, si trasforma quasi messianicamente in vittima espiatoria una volta che la maschera da sovrano lascia scivolare al suo posto il volto umano.

La distruzione dello specchio durante l’atto della deposizione è un atto di rifiuto e insieme autoaffermazione: rinnegando l’immagine di sé come sovrano, Riccardo spezza  l’illusione di una regalità che lo aveva isolato dal resto del popolo..

Lo specchio infranto riduce il corpo del re a mera protesi temporanea, rivelando e neutralizzando quella che lo storico Ernst Kantorowicz, nella teoria medievale delineata nel monumentale The King’s Two Bodies [26], definisce come il dispositivo teologico e giuridico che configura il re quale figura doppia e mostruosa, “like the angels”, sospeso tra la caducità umana e l’incorruttibilità divina.

Fin dall’inizio, l’esperienza batailliana di Acéphale si inserisce in questa sequenza  storica di miti e letterature, dove il ribaltamento della dimensione omogenea del potere acquista il proprio potenziale ricostituente sotto il segno dell’insubordinazione all’ordine diurno e allo sguardo dall’alto. La violenza originaria della dissoluzione e della ricomposizione comunitaria attraverserà l’esperienza di Acéphale per l’intero corso della sua esistenza, dalla rabbia parricida e antiautoritaria al culto della madre come forza devastante e liberatoria.

Nel disegno di A. Masson che si staglia sulla copertina della rivista, la figura di Acéphale stringe tra le mani gli strumenti del suo atto rituale. A destra, una torcia forgiata dalle ceneri del sacro cuore, a sinistra, un pugnale, l’arma del sacrificio, simile a quelli incisi sulle monete dell’Estremo Oriente che Bataille era solito catalogare alla Bibliothèque Nationale. Visivamente, il mito acefalo di Bataille, in analogia con quello di Urano o del Riccardo II, mette in scena sia un dramma familiare che un dramma politico: il figlio che in basso si libera del padre dopo averlo incorporato evoca, nell’ordine mitologico, il regicidio del dio che è vittima e sacrificante al tempo stesso. Il sovrano di Bataille si libera dalla testa ma custodisce il patibolo, mentre l’identità amputata fa sì che l’altro si insinui al centro del proscenio. Come nel Riccardo II, dietro la sagoma priva di testa scivola, invadendo la scena, il suo doppio speculare, la figura nietzscheana di un Dioniso incoronato, il buffone che nella notte del mondo celebra la sua nascita terrestre.

III

Il male che non è mai arrivato

 

The Gothics are now as far from us as the Greeks. All the kings of France are in this shadow, in this majestic tower that overhangs.

Auguste Rodin, The Cathedral Is Dying

 

Negli stessi anni in cui Henri-Charles Puech dipana il suo grande racconto mitologico  attraverso i frammenti del nichilismo gnostico, Alexandre Kojève, nelle sue lezioni sulla Fenomenologia dello spirito di Hegel tenute dal 1933 al 1939 all’École Pratique des Hautes Études, sancisce la fine della storia dell’uomo. Negli stessi anni, intorno al 1935, Georges Bataille frequenta assiduamente le lezioni dell’uno e dell’altro.

Per Kojève, con la battaglia di Jena, l’avanguardia dell’umanità ha virtualmente raggiunto il punto omega della propria evoluzione storica. Tutto quello che ne è seguito, le due guerre mondiali, il nazismo, la sovietizzazione della Russia, non rappresenta altro che il lungo processo di accelerazione volto ad allineare il resto del mondo sulle posizioni dell’Occidente più avanzato. Nelle famose trascrizioni di Raymond Queneau delle lezioni di Kojève si legge che “l’American way of life è il genere di vita proprio del periodo poststorico, e che il ruolo storico degli Stati Uniti nel Mondo prefigura il futuro «eterno presente» dell’intera umanità. Il ritorno dell’uomo all’animalità appare allora non già come una possibilità futura, ma come una certezza già presente” [27]. Dopo la fine della Storia, scrive Kojève in una nota successiva alla seconda edizione delle Lezioni, “gli uomini costruiranno i loro edifici e le loro opere d’arte come gli uccelli costruiscono i propri nidi e i ragni tessono le proprie tele, eseguiranno concerti musicali alla maniera delle rane e delle cicale, giocheranno come giocano i giovani animali e si daranno all’amore come fanno le bestie adulte”. Il lungo dissidio tra Alexandre Kojève e Georges Bataille, testimoniato da una serie di corrispondenze fra i due, riguarda precisamente quello scarto significativo che sopravvive, come nel dramma di Basilide, alla morte dell’uomo ridivenuto animale al compimento della storia. Come spiega Giorgio Agamben nel L’Aperto “Quel che [Bataille] non poteva accettare ad alcun costo era che l’arte, l’amore, il gioco, come anche il riso, l’estasi, il lusso, cessassero di essere sovrumani, negativi e sacri per essere semplicemente restituiti alla prassi animale”.

Nell’autunno del 1940, quando Alexandre Kojève si era ormai avviato lungo il binario finale della storia, il diciottenne Marcel Ravidat e il suo cane di nome Robot ne raggiunsero accidentalmente l’origine.

Nelle campagne francesi della Dordone, mentre la seconda guerra mondiale imperversava in Europa, Marcel e Robot uscirono a camminare lungo il fiume che scorreva vicino la loro casa, nella città rurale di Montignac. Quando all’improvviso il cane sparì oltre un buco nel terreno, Marcel gridò per il suo amico a quattro zampe e, come risposta, un’eco rovesciata gli giunse dal profondo del suolo. Fu allora che quella inizialmente improvvisata come una missione di salvataggio si rivelò come una delle scoperte più significative nella storia dell’umanità [28]. Guidati soltanto dal bagliore di una minuscola lanterna ad olio, Marcel e il suo cane Robot si fecero strada lungo lo stretto pozzo di 50 piedi che si apriva, infine, in una vasta grotta sotterranea. Al termine del pozzo, ciò a cui si trovarono davanti furono delle grandi figure di animali che come in una grande cavalcata si stagliavano dipinti sulle pareti e sui soffitti della grotta. Ad insaputa di Marcel, queste immagini avevano più di 17.000 anni e fu, probabilmente, la prima persona in migliaia di anni a poterle osservare.

Una volta tornato in superficie, Marcel condivise la propria scoperta con un gruppo di giovani amici, Jacques Marsal, Georges Agnel e Simon Coencas. Una volta riuniti, i ragazzi tornarono ad avventurarsi in quelle che, otto anni dopo, verranno rese accessibili al pubblico e conosciute in tutto il mondo come le Grotte di Lascaux.

Ciò che rende speciale Lascaux è la presenza di quella che molti considerano la prima narrazione della storia umana: La Scène du Puits. Pur essendo la meno impressionante tra gli oltre 600 affreschi della grotta, essa rappresenta il primo esempio conosciuto di racconto visivo, secondo alcuni, un mistero, un enigma indecifrabile legato ad un omicidio avvenuto più di 17.000 anni fa [29].

La scena raffigura una composizione ambigua dominata da due figure principali: un bisonte con le viscere fuoriuscite a cascata e una figura maschile antropomorfa con una maschera da uccello e un’erezione visibile. Sotto questa sagoma, un uccello più piccolo si trova infilzato su un bastone, mentre a sinistra un rinoceronte sembra allontanarsi dalla scena. In netto contrasto con il naturalismo dettagliato delle altre figure animali, la figura ibrida, metà uomo e metà uccello, sembra invece essere disegnata in modo grezzo, come scolpita dal passaggio di una mano infantile.

Georges Bataille si occupò per la prima volta di La Scène du Puits nel suo libro Lascaux, ou la Naissance de l’art (1955), commissionato dall’amico editore Albert Skira [30].

Evitando di soffermarsi sulle possibili interpretazioni narrative, ciò che interessava a Bataille erano i tre elementi principali della scena: la ferita aperta del bisonte, l’erezione della figura umana mascherata e lo stile infantile con cui l’uomo era rappresentato, a differenza del rigore dettagliato delle altre figure.

Per Bataille, questa differenza stilistica non rappresentava altro che l’allegoria della dipartita dell’umanità dalle viscere della propria animalità. La stilizzazione grottesca e infantile del corpo umano in La Scène du Puits non è per Bataille un segno di immaturità estetica, ma un atto di negazione che in una sorta di effacement riflette l’istante immediato della perdita della animalità e, al contempo, un senso di vergogna che comincia appena ad emergere nei confronti della nuova condizione umana. Tale fuga, come nel disegno di Acéphale, porta con sé una tensione irrisolta.

Lungi dal liberarsi del tutto dello scarto animale che rimaneva in lui, l’uomo lo ha conservato “sotto i tratti di qualche animale”, dietro una maschera da uccello. Bataille suggerisce che la rappresentazione stilizzata dell’uomo in maschera in La Scène du Puits sia una forma di espiazione, un’allegoria dietro la scena di un crimine: “L’umanità doveva provare vergogna di sé stessa in quel periodo, ma non della propria animalità residua”, così, come gli arconti che Bataille vide al Cabinet des médailles, la figura umana, con la metà del corpo antropomorfa, è ridotta ad una stilizzazione infantile, mentre la testa animale diviene un gesto di deferenza all’atto di espiazione.

Attraverso l’atto della pittura, gli uomini selvaggi sperimentavano la sovranità di un momento libero dal calcolo, dalla finalità e dal servilismo gerarchico che da lì a poco sarebbero emersi tra le tribù selvagge, che incarnava e rifletteva l’immediatezza dell’esistenza animale. Tuttavia, per Bataille l’arte di Lascaux porta con sé un paradosso fondamentale: mentre gli esseri umani si distaccavano dalla natura animale attraverso gli strumenti del lavoro, essi coltivavano al tempo stesso il desiderio di tornare a quell’intimità primordiale. In tal senso, l’atto del dipingere nelle grotte non aveva lo scopo di accumulare e conservare, ma di coabitare la sovranità in un’esperienza plurale e libera da finalità utilitarie, per questo motivo l’arte viene descritta da Bataille come un atto intrinsecamente malvagio, in quanto sfida la logica del profitto e della sottomissione al lavoro.

Oltre le due operazioni fondamentali del pensiero di Georges Bataille che abbiamo finora esplorato, la rivelazione estetica e politica dell’impuro e la decostruzione della legge contingente con il riscatto della violenza fondatrice — inaugurati in forma visuale in Documents e portati all’estremo politico in Acéphale — con lo studio sulle grotte di Lascaux si delinea un terzo grande tema: il mutare della condizione umana in rapporto al mutare del lavoro, della guerra e dell’economia.

Seppur sondato e teorizzato in precedenza in scritti come La structure psycologique du fascisme (1933-34), La Souveraineté (1953-1954), e nei postumi La limite de l’utile (scritto fra il 1939 e il 1945) e Théorie de la religion (pubblicato nel 1971), il tema trova la propria espressione paradigmatica nello studio di Bataille su Gilles de Rais, generale di guerra Francese e, in seguito, assassino seriale di bambini [31].

Pubblicato nel 1959 e descritto da Bataille come una tragedia che ha come soggetto  un “mostro sacro” che deve la sua gloria durevole ai suoi crimini, Le Procès de Gilles de Rais figura come uno studio antropologico e sociologico dal rigore weberiano, il quale si prefigge il compito di dimostrare come il passaggio da un’economia fondata sul dispendio e l’eccesso (che trova il proprio fondamento nella guerra violenta) ad un’economia razionalizzata e cumulativa (la cui conseguenza è la nascita della macchina statale della burocrazia) conduca al confluire degli istinti violenti verso direzioni inedite.

Su questo sfondo, Bataille ritiene che la transizione da signore della guerra a principe con funzioni prettamente amministrative sia cruciale per comprendere le azioni terribili di de Rais. Nato verso la fine del 1404, Gilles de Rais ereditò il patrimonio e le insegne patinate dei Rais in virtù di un intrigo politico che coinvolse i suoi genitori, Guy de Laval e Marie de Craon. Sin dalla nascita, de Rais fu destinato e iniziato al militarismo sconsiderato dell’aristocrazia francese. Tale disciplina militare era inscritta nel modello bellico della “violenza senza ragione”, dove l’atto violento non ha altro scopo sacrificale se non quello di porre fine alla disputa tra due eserciti rivali (René Girard parla, in questo caso, di elaborazione mitica minima). L’omicidio collettivo alla base di tale modello bellico ha il compito di restaurare l’ordine proiettando retrospettivamente quel desiderio selvaggio di massacrarsi a vicenda che spingerà Thomas Hobbes ad elaborare la propria dottrina del Leviatano fondata sullo stato di natura.

In seguito, la guerra venne progressivamente resa sterile dai moti della nobiltà, divenendo progressivamente uno strumento di governo razionale manipolato dalle leggi del sovrano. Tale processo portò con il tempo alla costruzione delle grandi macchine militari dell’Europa rinascimentale,  burocratizzate e condotte da ufficiali sempre più specializzati le cui manovre sul campo dipendevano sempre più dalla pragmatica politica dei palazzi.

In questo modo la guerra diviene, nelle parole di Bataille, un apparato giuridico pietrificato, dove ogni caso di guerra viene trattato come un’anomalia da addomesticare, politicizzare, e rendere infine utile. La tragedia di de Rais, che Bataille estende a tutto il ceto nobiliare, consiste precisamente nell’aver esperito il passaggio dalla società nobiliare dell’eccesso a quella statale delle macchinazioni razionali. Tale cambio di paradigma non ha investito soltanto la guerra, ma anche l’economia. Gli assunti economici generali dello studio di Bataille indicano come in società e in tempi diversi dai nostri a prevalere era il principio di perdita della ricchezza, dove quest’ultima veniva sperperata, distrutta, o persino regalata. A differenza della nostra concezione economica subordinata, dove la ricchezza viene accumulata e immobilizzata in vista di una crescita continua, le ricchezze sperperate o distrutte avevano per chi le distruggeva un valore supremo: rese inoperose e insubordinate, esse non assolvevano a nient’altro che alla funzione sacra del dispendio.

Persino per gli standard del suo tempo e del suo rango, de Rais dissipò enormi porzioni del proprio patrimonio con una prodigalità fuori dal comune, per usare le parole di Bataille, egli “dilapidò senza badare una fortuna immensa”. Durante la battaglia di Orléans combatté a fianco di Giovanna d’Arco e si conquistò una reputazione che negli anni a venire continuò a celebrarlo come un “valoroso cavaliere in armi”.

Agli occhi di de Rais, la guerra appariva ancora come un’arena ludica, un teatro di spregiudicatezza e imprese eroiche dove la nobiltà esercitava il proprio diritto al rischio e all’eccesso dell’avventura. Tuttavia, questa concezione della guerra iniziò a farsi sempre più obsoleta nella misura in cui il privilegio aristocratico cominciò a sgretolarsi. In questo contesto, la violenza bellica si ridisegnava come sciagura collettiva e fatica condivisa e la guerra, un tempo campo privilegiato dove gli istinti bestiali di pochi eletti potevano trovare una via di sfogo, iniziò a configurarsi come lavoro impersonale e metodico delle moltitudini civili.

Il 30 maggio 1431, a Rouen, Giovanna d’Arco venne condannata per eresia e arsa al rogo dagli inglesi. Tra il 1432 e il 1433, Gilles de Rais iniziò a rapire ed assassinare bambini.

Ciò che Bataille suggerisce nella sua raffigurazione della guerra è quella di una zona di scomparsa, di passaggio dalla civiltà verso l’ignoto, mediante la quale, come nelle poesie di Trakl o durante gli incontri con gli Enfant Sauvages, la città comunica con la propria impossibilità, con l’istanza repressa di una ferinità che trova il proprio sfogo nei campi di battaglia. In tal senso, in maniera simile a Nietzsche, Bataille pensa alla guerra come l’intera evidenza storica attraverso cui viene esperita la funzione produttrice della morte.

In epoche antiche, le fortezze nobiliari rappresentavano i depositi in cui l’eccesso sociale veniva massimizzato fino ad essere incanalato nella distruzione orgiastica che avrebbe imperato sui campi di battaglia. Ma ai tempi di Gilles de Rais, mentre la Chiesa innalzava cattedrali a testimonianza della morte di dio, la nobiltà andava erigendo roccaforti moderne per sancire l’economia bellica che avrebbe occultato i cadaveri della guerra tradizionale. Fu proprio nella sua fortezza che de Rais si ritirò, senza nemici da combattere e alienato da una società nobiliare che lo aveva relegato in mansioni esclusivamente burocratiche.

Nelle campagne circostanti, i bambini iniziarono a sparire come aquiloni oltre le mura del suo maniero. La consunzione aveva cessato di manifestarsi nello spettacolo aperto della guerra tra eserciti per ripiegarsi invece in una serie clandestina di omicidi privati.

L’infima aberrazione di Gilles de Rais, secondo Bataille, non risiede tanto nella ricerca sensoriale della morte quanto nella sua rappresentazione mediale: una vanità che testimonia un desiderio estetico e celebrativo piuttosto che carnale. Lungi dal non condannare le azioni indicibili di De Rais, Bataille tiene a sottolineare come l’ex generale non sia il vero soggetto del proprio crimine ma piuttosto il sintomo della tendenza suntuaria e alienante di un sistema economico incapace di integrarsi nel paradigma emergente della società pre-capitalistica.

In tal senso, per Bataille la morte non ha rappresentanti perché il crimine non ha un autentico autore, come nella La Scène du Puits nella grotta di Lascaux.

Pur essendo il prodotto di una mente abbietta, i crimini di de Rais vengono amplificati e resi significativi da una serie di sequenze storiche ed economiche che sembrano manifestarsi in ogni fase di grandi cambiamenti che intercorrono tra un’epoca e la successiva.

STAŃCZYK, JAN MATEJKO, 1862.

Come Eichmann a Gerusalemme, durante il processo Gilles de Rais sembra fuggire dalla responsabilità dei suoi atti atroci, separandosi dai suoi crimini in un “mare di oblio”, terrorizzato, come il Saul di Vittorio Alfieri, dal giudizio finale di forze che egli stesso ha invocato. La verità che qui Bataille sembra suggerire è che il male non sopravvive abbastanza a lungo da essere giudicato. Nietzsche, nella Genealogia della morale, coglie la stessa dinamica quando descrive la pena come un atto mimico della legge, il grado massimo di un rituale che reitera la normalità quando il nemico è già inerme. Ciò che resta di de Rais, come nel “pallido criminale” nietzscheano, è un relitto pre-umano, una figura che rivela l’impotenza della legge di fronte ad una nuova tipologia di male che sopravvive anche dopo la pena inflitta.

Come scritto da Nick Land:

Poiché non sapremmo riconoscere questa guerra che proviene dall’esterno della città e da oltre il limite della legge; questo movimento senza essenza o precedenti che, forse, ci sta già guidando. Un movimento senza utilità, ideologia o motivazione, che abbandona il melodramma per la vera violenza dell’insidia; dell’infiltrazione, della sovversione, della metamorfosi larvale e del cambiamento di fase [32].

De Rais non è che l’umana premessa di un mutamento di fase oltre la legge, di una tragedia che sembra non appartenerci più. È in un simile contesto di immanentizzazione anticipato dallo studio di Bataille su de Rais che il moderno culto del serial killer e la moltiplicazione dei prodotti true crime sulle piattaforme streaming e digitali andrebbe letto. L’omicida seriale è sia la giustificazione finale della teatralità delle legge in forma mediatica, sia il momento di transizione dal male collettivo alla patologia individuale.

L’anima criminale, lo stato di natura, si stacca dal corpo artificiale del Commonwealth e torna a vagare solitaria tra le rovine metropolitane. Come Aileen Wuornos è stata la progenie diretta del sistema violento e patriarcale statunitense e l’ideologia di Charles Manson il frutto estremizzato della retorica razziale che viaggia parallela alla storia degli Stati Uniti, così il de Rais di Bataille è una disfunzione dell’apparato bellico e dell’evoluzione delle politiche economiche, del passaggio da una società nobiliare fondata sull’eccesso ad una società burocratizzata fondata sull’accumulo.

Con lo studio del caso di De Rais, Bataille chiude il cerchio dell’esteriorità e della fuga dell’impuro, svelando la subdola fragilità delle categorie di contenimento che soggiace alla storia naturale della cultura, dello Stato e della coscienza. Quello che Bataille fa valere, la materia selvaggia che cade al di fuori delle grandi macchinazioni ontologiche, occupa un punto cieco della creazione, essa è essenzialmente fuori legge.

Per questo l’individuo, nelle epoche rese incerte da grandi cambiamenti come quella in cui oggi siamo immersi, può sia arrendersi al male che la soggiace, come de Rais, oppure impegnarsi nel produrre creativamente nuove forme di arte, condivisione e resistenza comunitaria, come i collettivi di artisti e scrittori di Documents e Acéphale.

La repressione capillare delle clandestinità e delle diversità individuali e collettive riemerge oggi con forza sotterranea, alimentata, come anticipato dai lavori di Deleuze e Guattari,  da nuove configurazioni di antichi meccanismi di controllo. Gruppi religiosi armati di retorica divisiva che operano sui corpi delle minoranze come su tavole chirurgiche, neo tribalismi rivestiti di nostalgia identitaria che emergono come spettri di un passato che non si rassegna alla sua fine; la riesumazione e l’avanzata dell’estrema destra, in Europa e nel mondo, non è che il volto contemporaneo di questa regressione al confinamento delle identità pensate come abbiette, un incubo ciclico che traduce in violenza urbana e politica la paura della disgregazione del corpo sociale.

Nel quotidiano, tale logica escludente si fa norma e struttura: linciaggi, aggressioni, esecuzioni sempre più frequenti, sono la manifestazione ultima di una ferinità simbolica attribuita a corpi già da secoli confinati e marginalizzati, un marchio di alterità assoluta che giustifica l’azione punitiva e purificatrice. Così, come nella poena cullei, ai corpi queer vengono fatte indossare pelli di lupo prima di essere linciati e sfigurati nei centri storici delle nostre capitali civilizzate. Come a Babilonia, i corpi fuggiaschi sulle navi vengono adornati dei gioielli del re prima di essere espulsi nei fondali marini e, al pari dei princeps nei saturnali di Roma, alle minoranze etniche in suolo occidentale vengono fatti espiare i peccati dei propri sovrani oltreoceano.

Quello che Georges Bataille aveva intuito, in anticipo rispetto a tutte quelle figure che in modi differenti  hanno contribuito all’impresa di liberare il pensiero occidentale dal gesto autoritario – come Michel Foucault, Gilles Deleuze, Jacques Derrida, Jean Luc Nancy, Giorgio Agamben o Mark Fisher – è che ciò che per secoli viene esiliato fa ritorno nel presente come trasfigurato. Ciò che ne consegue non è soltanto anomia e distruzione, ma come nelle poesie di Georg Trakl, la possibilità di un’alterità che sfugge al controllo, di un mondo collaterale che tenta di ricreare le proprie comunità al di fuori delle leggi della tradizione. Quello che per millenni è stato espulso, il sangue dimenticato delle vite indegne, le membra addomesticate degli Enfant Sauvages, sembra ritornare oggi con una forza tale da rivelare il fallimento delle mura innalzate per contenerlo.

Da Histoire de rats di Georges Bataille del 1947, illustrata da Alberto Giacometti, mia traduzione:

“Noi non disponiamo dei mezzi per raggiungere: per la verità, noi raggiungiamo; noi raggiungiamo improvvisamente il punto che occorreva raggiungere e passiamo il resto dei nostri giorni a cercare un momento perduto; ma quante volte lo manchiamo, per la semplice ragione che cercarlo ce ne discosta, unirci è forse un mezzo […] per mancare sempre il momento del ritorno. Improvvisamente, nella mia notte, nella mia solitudine, l’angoscia cede il passo alla convinzione: è qualcosa di infido, nemmeno piú lacerante (a forza di lacerare, non lacera piú), improvvisamente il cuore di B. è nel mio cuore” [33].

 

Note bibliografiche

[1] Si veda il necrologio a Georges Bataille scritto dal suo amico e collaboratore André Masson. Masson, A. Georges Bataille (1897-1962). In: Bibliothèque de l’école des chartes. 1964, tomo 122. pp. 380-383.

[2] Per un approfondimento, si legga Lethève, J. and Rosemary Plater-Zyberk Clark. “The Bibliothèque Nationale.” The Journal of Library History (1974-1987)19, no. 1 (1984): 9–26.

[3] Consultabile qui: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k64207768.texteImage

[4] Bopearachchi, Osmund. Les données numismatiques et la datation du bazar de Begram. In: Topoi, volume 11/1, 2001. pp. 411-435.

[5] Si veda Bataille, G. (1926-1927). Les Monnaies des grands Mogols. Aréthuse: Revue trimestrielle d’art et d’archéologie, (13-14) e Bataille, G. (1928). Notes sur la numismatique des Koushans et des Koushan-Shahs Sassanides. Aréthuse: Revue trimestrielle d’art et d’archéologie, (18).

[6] Bataille, G. (1930). Le bas matérialisme et la gnose. Documents, 2(1), 1-8.

[7] Ad esempio York, R. A. (2004). Flesh and Consciousness: Georges Bataille and the Gnostic Tradition. Journal for Cultural and Religious Theory, 4(3), 1-12. Oppure Connor, P. T. (2000). Georges Bataille and the Mysticism of Sin. Johns Hopkins University Press.

[8] Questo punto è stato analizzato, seppur brevemente, da Agamben, G. (2002). L’aperto. L’uomo e l’animale. Torino: Bollati Boringhieri.

[9] Taubes, J. (2021). Escatologia occidentale (G. Valent, Trad.). Macerata: Quodlibet. (Opera originale pubblicata nel 1947).

[10] Per un approfondimento, si dia un’occhiata a https://www.engramma.it/eOS/core/frontend/eos_atlas_index.php?id_tavola=1047&lang=eng

[11] Valéry, P. (1937). Degas Danse Dessin. Paris: Ambroise Vollard.

[12] Krauss, R. (1996). “Informe” without Conclusion. October, 78, 89–105.

[13]  Bernhard, T. (1986). Auslöschung [Estinzione] (S. Werner, Trad.). Adelphi, 1997.

[14] Per un approfondimento, si veda https://www.inthemedievalmiddle.com/2010/09/wolf-child-of-hesse-walking-and-not.html

[15] Strivay, L. (2004). Enfants-loups, enfant-mouton, enfants-ours, enfants seuls… Communications, 76, 41–57. In S. Bobbé (Ed.), Nouvelles figures du sauvage.

[16] Defoe, D. (1726). Mere nature delineated: or, A body without a soul. Being observations upon the young forester lately brought to town from Germany. With suitable applications. Also, a brief dissertation upon the usefulness and necessity of fools, whether political or natural. London: Printed for T. Warner.

[17] Agamben, G. (2002). L’aperto: L’uomo e l’animale. Torino: Bollati Boringhieri.

[18] Land, N. (2020). Collasso: Scritti 1987–1994 (V. Cianci, Trad.),  91-95. Roma: Luiss University Press.​

[19] Agamben, G. (1995). Homo sacer: Il potere sovrano e la nuda vita. Einaudi.

[20] Derrida, J. (1990). Force de loi: Le “fondement mystique de l’autorité”, p. 43. Galilée.

[21] Dumézil, G. (1934). Ouranos-Varuna: Étude de mythologie comparée indo-européenne. Adrien Maisonneuve

[22] Girard, R. (1972). La violenza e il sacro (M. Beretta, Trad.), p. 72.  Adelphi.

[23] Otto, B. K. (2001). Fools Are Everywhere: The Court Jester Around the World. University of Chicago Press

[24] Dolansky, F. (2011). Celebrating the Saturnalia: religious ritual and Roman domestic life. A companion to families in the Greek and Roman worlds, 488-503.

[25] Riva, R. D., & Galetti, G. (2018). Two Temple Rituals from Babylon. Journal of Cuneiform Studies, 70(1), 189-227.

[26] Kantorowicz, E. H. (1957). The king’s two bodies: A study in mediaeval political theology. Princeton University Press.

[27] Kojève, A. (1996). Introduzione alla lettura di Hegel: Lezioni sulla «Fenomenologia dello Spirito» tenute dal 1933 al 1939 all’École Pratique des Hautes Études (G. F. Frigo & R. Queneau, A cura di). Adelphi.​

[28]https://www.independent.co.uk/independentpremium/long-reads/lascaux-cave-paintings-discovery-anniversary-b421481.html

[29] Leroi-Gourhan, A. (1982). The archaeology of Lascaux cave. Scientific American, 246(6), 104-113.

[30] Bataille, G. (1955). Lascaux: La naissance de l’art (F. L. Whitehead, Trad.). Editions de la Nouvelle Revue Française.

[31] Bataille, G. (2014). Le procès de Gilles de Rais. Fayard/Pauvert [1965].

[32] Land, N. Op. Cit., p. 125.

[33] Bataille, G., & Giacometti, A. (1947). Histoire de rats (Journal de Dianus): Avec 3 eaux-fortes. Alberto Giacometti.[Ed. original]. Éditions de minuit.

Dal letame nascono i fiori: su Io di Wolfgang Hilbig

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di Giorgio Mascitelli

Esce finalmente per i tipi di Keller Io di Wolfgang Hilbig (Rovereto, 2025, euro 20), uno dei testi contemporanei più significativi della letteratura tedesca ed europea, in una traduzione, capace di rendere plausibile in italiano il tedesco sedimentato e personalissimo dell’originale, di Roberta Gado e Riccardo Cravero, che si erano già cimentati nei racconti lunghi Le femmine e Vecchio scorticatoio, di cui mi ero occupato qui: https://www.nazioneindiana.com/2020/01/06/le-femmine-di-hilbig/ .

Il romanzo narra di uno scrittore o aspirante scrittore, che conosciamo con il nome di copertura di Cambert, arruolato dalla Stasi e trasferito dalla sua cittadina di origine, indicata solo con l’iniziale A., nella Berlino Est degli anni ottanta per introdursi nella ‘scena’, così vengono chiamati in gergo dalla ‘ditta’, cioè la Stasi, i circoli letterari del dissenso, e in particolare per seguire uno scrittore misterioso, in quel momento in cima ai sospettati proprio perché nella sua attività letteraria e nel suo comportamento personale non sembra tramare nulla contro la DDR. D’altra parte Cambert rivela, per così dire, un’ontologia debole per cui la sua identificazione con i tratti fittizi della spia diventa in certi momenti pienamente sincera, interpolandosi e scontrandosi con lacerti della sua vita precedente, favorito in ciò dal suo superiore, nome in codice Feuerbach, che lo instrada a una visione disincantata dei rapporti tra cultura, verità e potere e allo stesso tempo sembra essere l’unico a prendere sul serio il potenziale della letteratura. Insomma abbiamo qui un personaggio parzialmente fittizio che si trova per ragioni professionali a dover seguire soggetti dai tratti sconosciuti o nebbiosi, quanto meno a lui, ai quali talvolta deve assegnarne, per necessità di servizio, di inesistenti in una sorta di gioco delle tre carte tra verità e finzione, che troverà il suo esempio più eloquente, quando recatosi in visita dalla madre, che non vede da tre o quattro anni, si accorge che la ditta le ha fatto credere tramite delle sue lettere false che lui fosse fuggito in Germania Federale e decide di non rivelarle la verità perché la storia falsa è più gratificante agli occhi materni della realtà delle cose.

Il romanzo è organizzato in tre lunghi capitoli, dei quali il primo e il terzo sono narrati in prima persona da Cambert stesso, il secondo da un narratore onnisciente in terza persona, sia pure con focalizzazione interna, che racconta la storia dell’arruolamento nella ditta di W., il vero nome di Cambert, che noi però non apprenderemo mai, anche se sembra condividere alcuni aspetti della biografia dell’autore (un poeta proletario che lavora in fabbrica come fuochista in una cittadina di provincia), mentre altri non coincidono (per es. la vicenda si svolge in buona parte negli anni della perestrojka quando Hilbig era già in Germania Federale). Visto che il narratore esterno si insinua nel romanzo proprio nel momento in cui Cambert si addormenta su un treno del passante ferroviario, si potrebbe arrivare a pensare che il narratore non sia nient’altro che lo stesso Cambert che contempla il suo vero io, come una sorta di sosia, di gemello ormai lontano in una differente temperie morale. E’ insomma una struttura narrativa che richiama quell’incertezza di identità di cui scrivevo sopra relativa non solo al protagonista, ma anche allo stato tedesco orientale stesso che appare caratterizzato da una fatiscenza tanto materiale, quanto istituzionale e ideologica. Il libro alterna tratti realistici con momenti onirici e claustrofobici e ciò in ragione non solo dell’architettura narrativa e tematica, ma anche dei registri stilistico-retorici, gestiti dall’autore con quella libertà e padronanza tipiche delle opere destinate a diventare dei classici; accade quindi che vi siano momenti  ironici nei confronti del sistema, che viene irriso anche linguisticamente tramite la messa in scena parodica dei suoi slogan e convenzioni linguistiche, lunghi monologhi interiori, espliciti o riferiti nel libero indiretto, in cui convivano osservazioni e domande ultime sul senso in generale con particolari quotidiani, anche scatologici; infine una procedura fondamentale nel mantenere l’equilibrio tra il realistico e l’onirico è lo sviluppo di una determinata espressione sia in una serie letterale sia in una serie figurata, metaforica o metonimica. A titolo d’esempio nella pagina inziale è possibile leggere l’affermazione “riesco a passare più spesso di tanti altri attraverso i muri”, dove l’io narrante intende la facilità come spia nel penetrare fisicamente negli spazi altrui e quella di avere rapporti proficui con il potere. Ancora più significativo è il titolo del secondo capitolo, “Ricordi nel sottosuolo”, nel quale l’evocazione dell’uomo del sottosuolo convive con la marcata preferenza del protagonista per le cantine come luoghi di quiete e riflessione e nello stesso tempo ottimi nascondigli.

Proprio il riferimento al personaggio dostoevskjano abitatore del sottosuolo, cioè dell’uomo disperato e un po’ compiaciuto della propria abiezione, è il punto (di partenza) che distingue Io dai romanzi di denuncia dell’apparato repressivo del socialismo reale, non perché manchino passaggi pesantemente critici sia in senso realistico, l’odio spontaneo in cui incorre Cambert quando la gente si avvede che si tratta di un collaboratore della Stasi, sia nel monologo raziocinante come un sensazionale  passo in cui il protagonista si convince che l’idea paranoica della Stasi di trasformare l’intera nazione in una massa di spie che si sorvegliano a vicenda sia la perfetta realizzazione di ogni utopia ugualitaria da Platone a Lenin. La questione è invece che i sentimenti contrastanti sulla propria condizione morale determinano quella oscillazione esistenziale, quell’incertezza continua tra realtà e finzione, e si estendono fino a coinvolgere tutto il sistema che Cambert serve: allora  è evidente che emerga il problema del senso o meglio della mancanza di senso che caratterizza tutto il suo mondo; tale sentimento di smarrimento poi è aggravato da un’assenza di qualsiasi illusione sulla controparte occidentale, di cui viene criticato ironicamente il culto mediatico dello scrittore dissidente, che nasconde un vuoto di senso ancora maggiore per la letteratura: lo scrittore al di là del Muro, dice Feuerbach, è “un impiegato impegnato a rigirare i cliché della società dei consumi”. Sono solo le parole di un ufficiale della Stasi, ma per un uomo del sottosuolo le verità spiacevoli non possono che venire da persone spiacevoli, anzi propendo a credere che nell’insistere su questa verità sfuggente e camaleontica in Hilbig ci sia una sfumatura parodica del postmoderno occidentale: si tratta di una lettura probabilmente tendenziosa, ma nel rileggere il libro avevo l’impressione che in questi insistiti giochi di finzione ci fosse anche una sottile presa in giro dello scetticismo light postmoderno occidentale.

Se la problematica centrale del libro, o quanto meno una delle centrali, è l’assenza di senso, l’ascesa del nulla evocato parzialmente in chiave ironica, pare ovvio qui convocare il nome di Samuel Beckett, che anzi è citato esplicitamente, anche se i superiori di Cambert e Feuerbach lo confondono con il santo medievale Thomas Becket. In particolare un romanzo come Molloy, in cui l’agente segreto Moran si dedica alla ricerca dell’inafferrabile personaggio eponimo, con i suoi cambi di narratore sembra recare una lezione che Hilbig ha inteso molto bene e riutilizzato a modo suo. L’ironia beckettiana rimanda però a quella che è una delle fonti principali dell’intera opera hilbigiana ossia il romanticismo tedesco, del quale voglio qui ricordare non qualche citazione o debito stilistico presenti nel testo, ma la nozione di ironia. L’ironia romantica, come sappiamo, è l’ironia radicale che investe tutto il mondo a cominciare dal soggetto stesso che la esercita in una forma di scetticismo generalizzato e non vi è dubbio che in questo senso Io sia un romanzo profondamente ironico. Ciò che probabilmente accomuna Hilbig ai grandi scrittori del romanticismo tedesco è un disagio storico radicale: i romantici, provenienti spesso da un’aristocrazia impoverita dallo sviluppo del capitalismo, non solo vivono dinamiche di emarginazione simbolica e pratica, ma guardano a un mondo che non riconoscono più dominato dal profitto e da uno spirito tecnico di dominio sulla natura, da questa esperienza emerge una domanda senza risposta sul senso di cui l’ironia rappresenta una reazione, assieme, in alcuni di loro, alla regressione reazionaria nell’idealizzazione di un passato medievale. Pur da premesse diverse, Hilbig, il proletario Hilbig si trova nella stessa situazione di sbandamento non solo nel constatare il penoso fallimento dello stato proletario, ma di tutta la modernità illuminista (un fallimento per Hilbig iscritto già nell’idea stessa tipicamente illuminista di una critica perenne). In una serie di lezioni poetiche tenute all’università di Francoforte nel 1995 e intitolate Taglio della critica Hilbig affronta la questione della critica letteraria e della sua trasformazione nella nostra società; essa è però considerata come, in maniera corretta storicamente, un’espressione dello spirito di critica dell’illuminismo. Nella situazione attuale, in particolare dopo lo sviluppo della società mediatica, “letteratura e progresso sono degli opposti”. Infatti Hilbig ricorda che nel 1930 con il suicidio di Majakowski letteratura e illuminismo si separano definitivamente, dopo che il programma del poeta russo di trasformare in un’arma rivoluzionaria la propria penna, nel corso di quella rivoluzione d’ottobre che Hilbig definisce l’ultima grande fase dell’illuminismo, era fallito. In pratica il nostro scrittore accetta la diagnosi postmoderna sulla fine delle grandi narrazioni, ma questa viene vissuta da lui dentro una dinamica drammatica senza aperture in positivo, in perdita di speranze per società e cultura, laddove essa è accettata dai postmoderni in maniera serena e giocosa come fine della storia. Quindi anche se i contesti storici e i contenuti sono radicalmente diversi (i romantici osteggiano quell’illuminismo che per Hilbig non è più tragicamente possibile legare alla letteratura e si risolve in dominio), una delusione senza prospettiva di cambiamento è il terreno comune tra di loro da un punto di vista sentimentale e morale sul quale fiorisce l’ironia radicale.

Michele Sisto in un importante ed esaustivo saggio dedicato alla fortuna italiana di Wolfgang Hilbig, Wolfgang Hilbig nel campo letterario italiano (2024), ricorda come il primo tentativo di far conoscere lo scrittore al lettore italiano con il libro di racconti La presenza dei gatti (1996) si scontrò con un’aspettativa nei confronti di un autore dell’ex DDR di maggiore realismo e di una leggibilità politica più immediata e chiara. Si potrebbe allargare questa considerazione sulla scorta di Critica della vittima di Daniele Giglioli osservando che proprio negli anni Novanta nella cultura occidentale si afferma quel paradigma vittimario, in ragione del quale alla vittima di persecuzioni storiche viene assegnata un’autorità morale assoluta e indiscutibile sulla quale si sono costruite brillanti carriere letterarie anche tra gli scrittori dei paesi del fu Patto di Varsavia, e che un romanzo come Io va in direzione opposta seguendo lo svolgimento della vita anche nei suoi aspetti meno edificanti invece di cercare un fermo immagine con i protagonisti ripresi nella giusta luce e in posa quasi monumentale. Siccome il paradigma vittimario esprime lo spirito del tempo, segnatamente del post Ottantanove, possiamo considerare Io un esempio di letteratura inattuale: come sappiamo l’inattualità è nella letteratura un pregio irrinunciabile per poter essere letti con profitto al di fuori del contesto in cui il libro è stato scritto. E così ora che la DDR è ormai un argomento di repertorio anche in Germania, esaurita la nostalgia per la Trabant, l’ironia e l’ambiguità di Cambert sono illuminanti anche in questo nostro disgraziato tempo, nel quale, se ci guardiamo intorno o anche solo osserviamo il fondo della tazzina di caffè appena bevuto, ci accorgiamo che il sentimento dominante, a dispetto di tutte le libertà di cui siamo passibili, come cantavano i CCCP Fedeli  alla linea negli anni ottanta,  è quello dell’impotenza, e quindi della disperazione, di fronte alle catastrofi (belliche, ambientali, umanitarie e morali) che ci circondano: un sentimento che Cambert conosce profondamente in tutte le sue sfumature.

 

Ancora due note sul «Cassetto segreto» di Costanza Quatriglio

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Un’immagine da “Il cassetto segreto” di Costanza Quatriglio

di Carola Susani

Prendo il testimone da Daniela Mazzoli che, nell’aprile del 2024, dialoga con Costanza Quatriglio qui su Nazione Indiana, per continuare il discorso su Il cassetto segreto. Già dal dialogo è chiaro come il documentario di Costanza Quatriglio sia un sistema stratificato e complesso.

A raccontare la trama evidente si fa presto: in occasione dello sgombero della casa della sua infanzia, del riordino dei materiali audiovisivi e fotografici, della creazione del Fondo all’Archivio di Stato e della donazione alla Regione Siciliana della biblioteca del padre Giuseppe Quatriglio, scrittore, giornalista del Giornale di Sicilia e straordinario fotografo, Costanza, selezionando dall’incredibile mole dei materiali d’archivio audiovisivi, dagli scatti, dalle lettere, ne racconta la vita ricca e piena, il mondo intimo e vasto che ha attraversato.

Dietro la trama esplicita però si nasconde dell’altro, quest’altro ha a che fare con le dinamiche che abitano la relazione fra una figlia e un padre di cui ha raccolto il testimone, con la forma che prende lo sguardo della figlia adulta su suo padre. Quando la figlia di un intellettuale guarda il padre e testimonia pubblicamente del suo sguardo cambia i termini del gioco; la figlia è stata guardata, è stata fotografata, registrata, contemplata, è l’oggetto su cui si posa l’occhio, l’oggetto del pensiero affettuoso proiettato sul futuro. Ora restituisce lo sguardo. Se raccontasse suo padre come un monumento e stop, tutto tornerebbe a posto. L’aderenza pigra a uno stereotipo fa sì che ci si aspetti uno sguardo semplicemente e tardivamente innamorato, l’encomio, l’agiografia, il grande ritratto fotografato dal basso, e la dimenticanza di sé. È un abbaglio.

Come un romanzo d’altri tempi, il documentario si muove all’interno di una cornice scritta, dei capitoli di un indice parlante: un cartello, che imita un frontespizio settecentesco, ci dice il punto della vicenda in cui ci troviamo, ci indica come guardare. E qui, la prima sorpresa, si parte dall’Epilogo. Già da questa scelta è chiaro che messo a tema, e non solo raccontato, è il tempo.

Al centro dell’epilogo è la scoperta del cassetto segreto, pieno di lettere, di tracce del passato. Il racconto si serve di uno dei materiali più importanti del film, le riprese che Costanza fa nel 2010, il padre già anziano (Giuseppe Quatriglio è nato nel 1922). Qui vediamo Costanza più giovane che lo interroga con un piglio ironico e indagatore, persino invadente, un’invadenza dalla quale il padre fa debolmente la mossa di difendersi e che in fin dei conti accoglie con benevolenza e tremore. Ma qui c’è già da subito la posizione di una relazione complessa, una specie di: ecco, facciamo i conti, fra me e te. Preziosissima nella ripresa la presenza della madre, quel cassetto segreto, dice la madre, che lei non ha mai aperto per affetto e riserbo, Costanza ha il diritto di aprirlo: è una legittimazione. L’atmosfera è scherzosa, affettuosa, la casa è quella che vedremo poi messa a soqquadro, qui è ancora un ambiente quotidiano, domestico. Dall’Epilogo, passiamo al V Tomo. Entriamo dal giardino, nel giardino troviamo la magnolia e i giardinieri che fanno pulizia; è il giardino di una casa, soglia non hortus clausus. Il giardino, come la casa, capiamo fin da subito, è coprotagonista di questa storia, qualcosa sta per cambiarli per sempre. La casa la vediamo cambiare da subito, del giardino non sappiamo ancora come cambierà, non abbiamo idea che lì si nasconda la chiave della storia.

Via via risalendo dal V Tomo fino al Prologo, seguiamo alcune linee del racconto. Nel presente narrativo, i bibliotecari e gli archivisti, smontano, riordinano, archiviano producendo trasformazioni nello spazio della casa che ne rompono l’ovvietà porgendo l’occasione al racconto. Giuseppe Quatriglio, grande viaggiatore del dopoguerra, viene narrato attraverso le sue fotografie, foto dalla luce straordinaria, visi, corpi, monumentali e umani di adulti e bambini, Berlino nel primo dopoguerra, angoli di strada, cinema, teatri, veicoli. Guardare oggi quel dopoguerra, nelle foto di Quatriglio così luminoso, fa l’effetto della contemplazione dell’immagine del metallo appena uscito di fabbrica quando il metallo si è corroso e arrugginito. Costringe alla riflessione sul presente. È un tempo lunghissimo che si sviluppa prima della venuta al mondo di Costanza (che nasce nel 1973). E poi Il Giornale di Sicilia, il periodo di permanenza negli Stati Uniti, la vita privata perfettamente calata nelle dinamiche sociali del tempo, l’incontro con Enrico Fermi, le numerose rutilanti esperienze di Giuseppe Quatriglio, che raccontano con dovizia, con lucidità, i decenni prima della nascita di Costanza, sono il cuore della narrazione. Qui, ricapitolando gli anni del padre, da quello speciale balcone che sono i suoi materiali, la regista restituisce allo sguardo un ritratto sfaccettato di una vita piena e contemporaneamente se ne riappropria. Elemento essenziale, guida per chi guarda e ascolta è la voce fuoricampo. Costanza è anche in campo, insieme ad archivisti, bibliotecari, collaboratori, gira per le stanze, elabora scelte, contempla. Ma la voce è un indicatore, non è una voce fuoricampo consueta, è la voce sporca, ironica, scherzosa addirittura, di chi ci racconta qualcosa di suo, si fa professionale quando la vita del padre entra in contatto con la vita ufficiale del mondo ma resta sorniona, diventa scherzosa raccontando delle fidanzate di lui prima della madre, mentre scorrono le foto di bellissime ragazze che con i loro abiti e le loro posture raccontano un’epoca, si fa vicina e implicata, quando descrive la storia d’amore fra il padre e la prima moglie americana.

Al momento del Prologo si svela che cosa davvero racconta Il cassetto segreto, il Prologo è dedicato a Costanza. Costanza bambina, ritratta dagli amici del padre, ritratti nei quali fatica a ritrovarsi reale, fotografata dal padre, registrata, guardata. Le due voci, quella della bambina e quella dell’adulta le sentiamo per un momento accostate. Una bambina abita un mondo in cui c’è Guttuso, c’è Sciascia, sono amici del padre. Sembrerebbe una particolare ma normale condizione dell’infanzia, appena più documentata di un’altra, ma qui la documentazione cambia di segno, ha a che fare con l’arte, che ruba, il viso o la corsa di una bambina, per dare agli altri, a chi guarda e guarderà. Il prologo della storia è in quest’infanzia documentata e, per chi ne è il documento, fuori fuoco. Si parte da qui. Qui nella consapevolezza, che un elemento se non di furto, di appropriazione indebita, è alla radice dello sguardo, che Costanza fonda la nascita del proprio sguardo, uno sguardo curiosissimo e implacabile in cui l’amore e la violenza sono strettamente legati ma che possiamo guardare come fossero distinti. Tutto il contrario di una vestale, la protagonista e regista della storia, rendendo omaggio al padre, facendone per noi il ritratto fascinoso e potente, contemporaneamente lo archivia, fa spazio. E si ritorna al giardino. Che cosa deve succedere ancora al giardino ormai potato, ripulito? Scopriamo che il padre in previsione della sua morte aveva dato indicazione di seppellire l’urna con le sue ceneri fra le radici della magnolia. Dal 2017 l’urna è là. Questa è la conclusione dello sgombero, l’urna sarà tolta, troverà posto fra i cari al cimitero, Costanza con la sua espressione più scherzosa e la sua voce quanto mai sorniona danno al padre la notizia. La figlia che ha aperto il cassetto segreto, si fa carico anche di sloggiare quanto di ingombro è rimasto del padre, per aprire una fase nuova, una maturità allegra e feroce. Lei è la figlia, lei è legittimata a farlo. Nel segno di un battibeccare affettuoso fra la figlia e suo padre, Il cassetto segreto racconta di uno sguardo ricevuto, originario, creativo e sempre fuori fuoco, della ricostruzione e riconquista della storia del padre, del riconoscimento della sua forza e bellezza e spessore di fronte al mondo, ma anche, infine, della creazione di uno spazio nuovo che non è più del padre; lo fa con una ricchezza di materiali, con un eccesso, senza perfezione, senza neanche pretenderla, ma con una vitalità feroce che è il nucleo delle opere migliori di Costanza Quatriglio.

➨ AzioneAtzeni – Discanto Terzo: Giacomo Casti

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Discanto Terzo*

– Salta, salta, rondinella – gracida un rospo e Juanica salta una pozza lunga quanto un uomo è alto. – Corri – frusciano le canne. – Salta – gracidano i rospi. E Juanica salta e corre come mai avrebbe pensato di saper correre e saltare. Da Apologo del giudice bandito di Sergio Atzeni   Correte gente a vedere correte gente a ascoltare è arrivata è arrivata Aleni la coga legge il futuro il passato e il presente di uomini donne bambini e animali a libera offerta e balla per voi le antiche danze di Arbarei Da Bellas mariposas di Sergio Atzeni    

Apologo di Juanica

di

 Giacomo Casti

  

 I

Le bambine giocano con le pietre, concentrate. Bicus, si chiama il gioco. Si fa con cinque piccole pietre, ne tieni in mano una e ne lanci in aria un’altra, ne tieni due, poi tre, poi quattro. Poi sempre più difficile. Tutti sanno giocare a bicus. Le bambine, e i ragazzini che più in là si divertono con il cavallino di legno che gli ha fatto tziu Fieli, il maestro del legno. Sa giocare a bicus Andrìa, lo strano del villaggio, che guarda senza dire niente seduto laggiù nello spiazzo, e le donne che, di fronte a casa di Donna Maria, rammendano le grandi lenzuola chiare. Probabilmente sa giocare a bicus anche Grogu, il randagino che si aggira da queste parti e che di notte va a dormire dietro la chiesa di San Giovanni. E sanno giocare a bicus anche i muri di ladiri delle abitazioni del villaggio, e sa giocare a … Un momento, cos’è quel polverone che si vede laggiù, nella strada che arriva dalla città? Si avvicina sempre di più, sempre di più, e adesso tra la polvere si intravedono le figure, cavalli e cavalieri … Uno, due, tre, sei, sette soldados de su Vissurey che vengono in questo paese, non capita spesso. Certo, ogni tanto arrivano uno o due esattori del Barone a riscuotere gli odiosi tributi, ma mai così tanti. Dev’essere successo qualcosa di importante, per farli arrivare così all’improvviso, in una mattina di primavera come tante dell’anno del signore 1478. Uno dei cavalieri si avvicina alle donne, chiede con tono perentorio di parlare coi probiviri o con l’uomo di chiesa, le donne gli rispondono che gli uomini sono tutti ai campi e che l’uomo di chiesa è morto l’anno prima e il nuovo non è ancora arrivato. Nel frattempo sono scesi da cavallo anche gli altri, si aggirano per lo spiazzo che funge un po’ da piazza del paese. Le donne chiedono se possono fare qualcosa, l’uomo che sembra il comandante dice: – Sì, stiamo cercando qualcuno. E voi sapete chi è. Fa un nome, ma nessuno lo ha mai sentito, lì. – Strano, perché è proprio di queste parti, e ci risulta abbia amici e parenti, qui. Chissà, magari uno di quei ragazzini lo sa. Ehi, niño, avvicinati un attimo. Sì, tu, il più grandicello. E così Franciscu, impaurito, si avvicina. Non ha il tempo di guardarlo negli occhi che – Aaaah! – il soldado gli stringe forte la guancia tra le dita e dice: – Magari tu lo sai, dove sono Gunale e la sua banda, eh? Franciscu si contorce dal dolore, piagnucola, non sa cosa dire, chi lo conosce, questo Gunale. All’improvviso una pietra colpisce sulla testa del soldado, poi due, poi tre, poi una voce che dice: – Lascia stare mio fratello, brutto scimunito! La voce della piccola Juanica, a cui rispondono le risatacce degli altri soldati e la loro ironia: – Beh, capitano, questa volta ha trovato pane per i suoi denti! Bernat, capitano del drappello, lascia il ragazzo e si dirige a passo svelto verso le bambine, all’altezza di Juanica sta per sferrare un terribile manrovescio quando si sente afferrare il braccio e spingere di lato con notevole forza, fino a cadere. È Andrìa, lo strano del villaggio, col suo curioso modo di parlare: – Qui-qui-qui non c’è … niente-niente … Gunale … capito? Qui-qui-qui … tutti … totus … todos bravos.. buenos cristianos … – Hei, Capitano, qui mi sa che tra bambini e scemi, le fanno la festa, eh! – ridono sguaiati i soldados. Capitan Bernat si rialza, sputa per terra e sguaina la spada. – Hai fatto un grave errore, cabron. Chiedi perdono! – E qui, purtroppo per lui, Andrìa fa un secondo, impavido errore e, invece di scappare, tira fuori il coltello che, come tutti, tiene sempre con sé. Bernat non ci pensa due volte. Con un affondo buca la pancia di Andrìa e, con cattiveria, ritraendo la spada, apre sin quasi a squarcio. – Ricordatevi questo nome, il nome di Gunale! – dice, mentre ringuaina la spada. – La prossima volta che saremo qui, non sarà solo uno scemo a pagare per colpa sua! Risale a cavallo e parte al galoppo verso il villaggio vicino, seguito dai suoi. La prima ad avvicinarsi ad Andrìa è Juanica, che si inchina e, piangendo, gli dice: – Sei coraggioso, Andrìa, sei proprio coraggioso, bravo. Andrìa la guarda e, con una specie di sorriso, a parole sue, gli dice: – Tu-tu-tu … brava, Juanica. Tu … adesso … mio coltello. Io … stanco … E poco prima di chiudere gli occhi, le prende la mano e vi ci posa sopra il coltello.  

II

Eh, ne è passato di tempo – dice tra sé Juanica, riaprendo gli occhi.  Con lentezza esce dalla capanna, guarda tra le canne, intravede il sole che sta per sorgere, riattizza il fuoco e mette a riscaldare il caffè, questa strana bevanda arrivata da poco da chissà dove. Le piace, ci aggiunge il cardamomo e il finocchietto per insaporirlo, si domanda da quanto ormai sia diventata la prima cosa che beve al mattino. Anni, decenni, forse secoli. Sì, quello schiavo moro conosciuto tanto tempo prima le aveva fatto proprio un bel regalo. Dopo che lei gli aveva in pratica salvato la vita. L’aveva trovato mezzo morto e in fuga, con alle spalle i soldati de su Vissurey. Una storia che conosceva bene. L’aveva curato e l’aveva nascosto. E lui, per ringraziarla delle cure, le aveva regalato i primi chicchi di caffè della sua vita. Nessuno cura come Juanica, nessuno conosce la palude meglio di lei. Non ricorda più da quanto tempo c’è finita dentro, ma una cosa la sa bene: quello è stato il momento in cui è rinata, quello il momento in cui ha iniziato a vivere davvero. Senza più padroni, senza più paura. Sempre sola, in compagnia dei suoi gatti. Decine e decine. I gatti la cercano, la trovano, la venerano, e lei ricambia. Ogni tanto Juanica, famosa per la sua bellezza, si sveglia ancora di soprassalto, nel cuore della notte, quando sogna di essere inseguita e di sentire dietro di sé le voci, le grida, l’abbaiare ringhioso dei cani e lo zoccolio dei cavalli. Ma è acqua passata, tempo trascorso. Un’altra vita. Ora, Juanica è diventata per tutti Aleni, la coga. La sua avvenenza si è trasformata in saggezza, e quella che chiamano sa Illetta è diventato il suo regno. In pochi si avventurano dentro le infide paludi dello stagno. Ci capitano i fuggitivi, ci capita qualche pescatore coraggioso, ci capita chi conosce i poteri di Aleni e ne va alla ricerca. Così Juanica, diventata Aleni, è la persona che cerchi quando vuoi guarire da un male che nessun dottore può curare, quando vuoi toglierti di dosso il malocchio, quando hai bisogno del consiglio giusto, quando la notte senti l’alito del demonio vicino al tuo viso. Lei prende le sue cinque pietre, le lancia in aria sei volte e costruisce un esagramma, sul quale legge la tua vita e quello che ti aspetta. Non sbaglia mai. Così, giorno dopo giorno dopo giorno, Juanica diventata Aleni ha visto il mondo cambiare sotto i suoi occhi, lo ha visto cambiare e rimanere sempre uguale, ha visto virtù e meschinità, paura e coraggio, gioia e dolori di un popolo che è cambiato rimanendo sé stesso, un popolo che ancora aspetta qualcosa che lei sa non potrà arrivare che da sé stessi, e arriva solo quando uomini e donne decidono di ribellarsi al destino che pare inevitabile. Ma quel destino, a volte, è solo il ventre molle del passato in cui, per sopravvivere, non bisogna avere paura di affondare la lama.

* Azione Atzeni- mode d’emploi

di

Gigliola Sulis e Francesco Forlani

‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale.

*

Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia Gigliola Sulis, Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012

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Les nouveaux réalistes: Giorgio Cassano

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Le cose che lasciano un segno

di

Giorgio Cassano

Un grido assordante attraversa tutto il corridoio, dopodiché qualcuno spalanca la porta di camera mia con un calcio.

Fabrizio Meneghini, alias il Menga, alias il mio migliore amico, entra con una pistola giocattolo puntata alla tempia e mi dice che la morte non lo preoccupa perché finché siamo vivi la morte non c’è e quando arriverà, noi non ci saremo più. Mi punta la canna della pistola in faccia e mi dice:

– E tu, hai paura di morire?

Tutto quello che riesco a mettere a fuoco è il pezzo di plastica arancione fluorescente che fuoriesce dalla canna. È una calibro 6 mm, prodotta dalla Plastik S.r.l., ha un caricatore estraibile ed è riempita da 30 pallini gialli di gomma dal diametro di 0,6 cm. Lo so perché la pistola è mia, acquistata qualche settimana fa durante il periodo di Halloween, per completare un travestimento da Vincent Vega, uno dei protagonisti di Pulp Fiction.

– Allora? Non mi rispondi? Dimmi, danzi mai col diavolo nel pallido plenilunio?

Con la mano sposto la pistola e gli dico che manca di originalità, perché questa battuta l’ha copiata dal film “Batman” di Tim Burton. Mi stropiccio gli occhi. La sveglia sul comodino segna le 16:30. Dunque, ricapitoliamo. Io mi sono appena svegliato da un riposino pomeridiano post-Università con il Menga che mi punta una pistola di plastica in faccia.

Poteva andare peggio.

Fuori dalla finestra, verso l’orizzonte, la vista dal terzo piano di uno squallido appartamento in periferia mostra solo una folta massa di cemento e case popolari. È una giornata nuvolosa, probabilmente a breve pioverà. Il vento muove vorticosamente le fronde degli alberi e dei cespugli del giardino in cortile. Tipica giornata di Novembre.

Poteva andare peggio.

Mi alzo dal letto e chiedo al Menga chi cazzo lo abbia fatto entrare. Lui mi risponde che è stata mia madre e che è stata tanto gentile da chiedergli di svegliarmi, perché aveva un appuntamento dal dentista e doveva proprio scappare. Vado un attimo in cucina e ritorno con due lattine di Coca-Cola.

Io non lo so ancora, ma fra sette mesi Fabrizio Meneghini, alias il Menga, alias il mio migliore amico, si ammazzerà.

Prenderà un fucile.

Premerà il grilletto.

Il proiettile gli fracasserà il cranio e gli spappolerà il cervello sul muro e scomparirà per sempre.

Intanto, sotto di noi, nel cortile, dei bambini iniziano a giocare con un vecchio pallone di cuoio. Usano gli zaini come pali e si organizzano in due piccole squadre da tre. Io prendo una Lucky Strike, mentre il Menga si rolla una sigaretta, inumidendo la cartina con la lingua. Ci sediamo al tavolino bianco fuori dal balcone di camera mia.

C’è un vecchio detto che dice che il diavolo sta nei dettagli. Beh, probabilmente è vero. Quei continui riferimenti alla morte. Questa improvvisata in camera mia, ora. Gli sguardi assenti. Erano dettagli inequivocabili, che non ho colto. Avrei dovuto accorgermene prima.

Avrei potuto fare qualcosa.

Un altro detto dice che la storia non si fa con i se e con i ma.

I dettagli fanno la differenza.

Fra il bene e il male.

Fra il vero e il falso.

Fra la vita e la morte.

Le mamme dei ragazzi, uscite sul balcone, strillano ai loro bambini di smettere di giocare e di tornare in casa, perché fa freddo e se continuano a sudare si ammaleranno.

Io e il Menga creiamo una piccola cappa di fumo grigio e denso. La Coca-Cola, che beviamo a lunghi sorsi, rilascia la sua frizzantezza sulle pareti della gola e ci disseta. Dobbiamo sbrigarci, gli altri ci aspettano.

Del giorno in cui è morto, ricordo perfettamente la rabbia che mi avvolse. Non accettavo l’idea che gli altri andassero avanti con le loro vite.

C’è un detto che dice the show must go on.

Le persone continuavano nella loro routine. La tv continuava a trasmettere i suoi insulsi programmi e quiz televisivi. Il mondo continuava a girare come se nulla fosse.

Eppure per me era diventato tutto superfluo.

Come affrontare queste perdite non te lo insegnano da nessuna parte.

Ci dimentichiamo spesso quanto è piccolo il valore delle nostre vite nel grande schema delle cose. Se avessi l’occasione di tornare indietro, direi al Menga che non ho paura della morte.

Ho paura dell’effetto che fa su chi rimane.

L’effetto farfalla, in matematica, è un’idea secondo cui piccole variazioni nelle condizioni iniziali producano grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema.

Quello che è successo dopo la sua morte, è stato un graduale disfacimento di tutte le relazioni personali che mi circondavano. Un’onda d’urto che ha scombinato tutto.

I rapporti familiari.

I rapporti di amicizia.

Nulla è rimasto come prima.

Buttiamo entrambi la cicca nel posacenere in metallo. I bambini smettono di urlare e di sudare e tornano in casa. All’orizzonte, oltre i caseggiati, le nuvole si colorano di un nero più intenso. Iniziano a cadere le prime gocce di pioggia.

Se avessi l’occasione, probabilmente cercherei di fotografare mentalmente questi momenti.

Il Menga che mi sveglia con una pistola in faccia.

Io e il Menga seduti al tavolino.

Io e il Menga che fumiamo.

Intrappolare gli istanti per sempre, senza farli invecchiare. O cambiare.

Mentre la pioggia si fa incessante, il Menga mi dice:

– Ho paura di essere dimenticato.

Usciamo di fretta, correndo sotto gli ombrelli. Gli altri ci aspettano in Biblioteca.

Quello che ti posso promettere è che io ricordo. Tutto.

Il seno di Caterina è sodo e accogliente e io ci rimango con la testa dentro, schiacciata nell’oscurità,  attento a non muovermi troppo per non sfiorare i capezzoli rosei e turgidi.

Il cortile della Biblioteca comunale è pieno di ragazzi e ragazze che si incontrano all’aria aperta per prendere una pausa dallo studio. Davanti a me ci sono Giulia, il Menga, più in là c’è Carlo, io sto sul petto di Caterina; le sue braccia sottili mi stringono i fianchi. I suoi capelli biondi ricci e lucidi, modellati con un gel che si chiama nel gergo schiuma modellante, mi solleticano il collo. La sua mano, con le dita affusolate, mi accarezza la testa con un movimento circolare.

– Devo essere sincera con voi – dice, a voce alta. – Questa volta sono positiva.

Dalla posizione in cui mi trovo, sento il suo cuore battere ritmicamente, mentre pompa il sangue in circolo nel corpo.

– Ho preparato tutto un mese prima dell’appello – continua –  Ho letto un articolo a riguardo. Statisticamente parlando, il quarto tentativo è quello con la più alta probabilità di passare questo tipo di esame.

Caterina rovista nella sua borsa in pelle ed estrae una Winston Blue. Fa una lunga boccata e poi fa fuoriuscire il fumo. Percepisco il suo petto alzarsi e poi abbassarsi. Sono tre anni che frequentiamo questo posto. Ogni anno ci prefiggiamo gli stessi obiettivi e puntualmente non li raggiungiamo mai. Caterina prova ogni semestre a dare l’esame di Fisica Tecnica e Impianti e ogni volta o viene bocciata o non si presenta. Io, il Menga, Giulia e Carlo abbiamo dato cinque esami in quattro. Siamo ormai un anno fuoricorso. Anzi, forse quasi due. Cala il silenzio. Io mi stringo ancora di più nel petto di Caterina, chiudo gli occhi e mi metto a riflettere. Riflettere é facile al buio, abbandonato completamente a qualcun altro, quando l’unica prospettiva che ti si palesa davanti é che tutto quello che sei non è altro che un fallimento che non riuscirà mai ad essere fiero di se stesso.

C’è un detto che dice chi è causa del suo mal, pianga se stesso.

Siamo tutti dei perdenti qui.

Carlo spegne il mozzicone per terra e dice che ieri a suo padre hanno asportato un pezzo di polmone. Aveva un tumore causato dal fumo. L’intervento si chiama lobectomia polmonare. Si effettua isolando e sezionando le arterie, le vene ed il bronco corrispondenti a un lobo del polmone. Si fa un’incisione di 3 o 4 cm, dopodiché si inserisce una telecamera speciale e gli strumenti per asportare la malattia. Apro gli occhi e mi giro a guardare Carlo. I suoi occhi sono lucidi. È inevitabile piangere quando ti rendi conto che la vita è destinata all’oblio totale. Tutte le persone che ti circondano, anche quelle che ami di più, sono destinate a morire. E non c’è proprio un cazzo che tu possa fare. Di fatto, abbiamo una sorta di data di scadenza stampata nel DNA. Per questo non riusciamo a concepire perché qualcuno debba scomparire prima del tempo, anticipandola, magari per una causa esterna, per una malattia o per un suicidio. Intorno a noi, sulle scale antincendio di metallo e le panchine di legno, una trentina di studenti parlano e discutono. C’è chi beve del caffè, chi fuma. Un paio di coppiette si sbaciucchiano avvinghiate.

Il Menga dice:

– A volte mi chiedo perché ci sbattiamo così tanto. Insomma alla fine la vita si riduce a questo no? Sopravvivere per non crepare. Siamo noi a complicare il tutto.

Io non penso che sia uno dei dettagli a cui dovevo stare attento. Penso che il Menga abbia ragione. Penso agli animali. Penso che per loro la vita è lineare e chiara: si nasce, si cresce, ci si riproduce e poi si muore. Noi abbiamo complicato tutto. Abbiamo inventato la povertà, il Capitalismo, i mutui a tassi agevolati, i lavori part-time e full time, la bancarotta, l’inflazione, la guerra, la bomba atomica. Einstein diceva che l’uomo ha inventato la bomba atomica, ma nessun topo al mondo costruirebbe una trappola per topi. L’ha detto proprio lui che sapeva del Progetto Manhattan. Penso al paradosso insito nell’uomo, tanto attaccato alla vita quanto ingegnoso nel trovare nuovi modi per farla terminare prima del dovuto. Penso che Einstein sia stato proprio uno di quei topi che ha aiutato a costruire una trappola per i suoi simili. Penso che é tutto una gran bella fregatura. Alzo la testa dal petto di Caterina e mi ricompongo al mio posto, estraendo una Lucky Strike dalla tasca interna del giubbotto e l’accendo con il mio zippo in metallo mezzo rotto. Osservo una per una le persone che ho davanti. Le loro menzogne, le loro ansie, si riflettono nelle mie e io non vedo altro che queste attorno a noi. Nel mezzo, un’unica verità. Studiare, fumare, condividere le nostre esperienze, tutto questo ci serve per dare un senso alle nostre esistenze, per allontanare l’angoscioso pensiero che in noi non c’è nulla di speciale perché siamo fallaci, patetici e poco rilevanti come tutti gli altri esseri umani. Questo magone si ripercuote nelle nostre vite continuamente, non se ne va mai, e tutto quello che rimane è solo una sensazione, amara come il sentore di tabacco bruciato nelle bocche a causa delle troppe sigarette consumate, che qualcuno ci stia premendo un grosso coltello da cucina contro la gola e ci stia urlando di darci un contegno, di fare qualcosa di vagamente produttivo piuttosto che piangersi addosso, perché il tempo è agli sgoccioli e ormai sta per scadere. Giulia alza gli occhi verso il cielo e io sento Carlo singhiozzare e vedo il Menga accendersi l’ennesima sigaretta e tutto ad un tratto persino l’agonia scende al rango di evento senza importanza, davanti all’idea che questo gruppo, questo piccolo, patetico, irrilevante gruppo di persone è tutto quello a cui possiamo aggrapparci. Un centro caldo e accogliente all’interno di un mondo freddo e crudele.

Milano, a place to bye

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di Gianni Biondillo

(ho la sindrome di Cassandra. Mi accorgo di scrivere sempre le stesse, inascoltate, cose)

Fossi ricco sarebbe bellissimo vivere a Milano. Lo spiega perfettamente un manager in una intervista al Financial Times: “Portofino è a due ore di macchina; in 45 minuti si può pranzare sulla terrazza di Villa d’Este sul Lago di Como; e in tre ore si possono raggiungere St. Moritz, Megève o Verbier”. Il problema è che non sono ricco. E io quei posti, anche se sono nato e cresciuto a Milano, non li ho mai visti.

Faccio Biondillo di cognome, non Cazzaniga o Brambilla. Sono un milanese “doc”, figlio di una siciliana e di un campano che negli anni del boom cercarono fortuna a Milano. Figlio, insomma, di quel sottoproletariato che cercava a Milano un posto dove emanciparsi. Sono figlio di una Milano novecentesca che non esiste più.

Modernizzarsi, adeguarsi al cambiamento, spesso guidarlo, è una prerogativa di Milano, non dovrebbe spaventarmi quest’ultimo cambio di rotta, che va avanti da ormai un quarto di secolo e che ha avuto una spinta decisiva grazie alla flax tax voluta da Renzi nove anni fa. Da sempre, dai tempi di Bonvesin della Riva, nascere a Milano non è un obbligo. Si sceglie di essere milanesi. C’è sempre stato come un patto: dimmi cosa sai fare, qui lo potrai fare. Il patto però era esteso a tutti. Fin dall’Unità d’Italia, fin dalla nascita del mito della “capitale morale”, passando per la ricostruzione post bellica, la Milano borghese, capitalista, imprenditoriale, progrediva se tutta la città progrediva. Al Capitale conveniva investire nella città e nei suoi abitanti. Milano era una città inclusiva, insomma. Io sono figlio di quella città. Io, figlio di due analfabeti, ho studiato e ho trovato con fatica il mio spazio. Oggi gli ultimi milanesi che mi somigliano sono i figli degli srilankesi, dei moldavi, dei magrebini, che hanno fatto le elementari con le mie figlie.

Poi il turbocapitalismo globale ha sparigliato le carte in tavola.

Vista da fuori la mia sembra la deprecabile lamentela di un vecchio nostalgico. Milano è più che vitale, ha aumentato di centomila unità i suoi cittadini, continua, insomma ad essere una città attrattiva. Non è così semplice (non lo è mai). In questi ultimi vent’anni sono arrivate in città cinquecentomila persone e se ne sono andate almeno quattrocentomila. Questo significa che oltre un terzo degli attuali milanesi non ha alcun legame affettivo, storico, familiare, con la città. Cos’è successo? Che la forbice fra i ricchi e i poveri si è allargata a dismisura. Il ceto medio, quello che reggeva simbolicamente le redini della città, si è impoverito, il proletariato è scomparso, il sottoproletariato è cresciuto senza posa. In città sono arrivati o i nuovi ricchi – gli influencer, i calciatori, i manager della finanza – o i poverissimi che vivono di una economia parassitaria. Extracomunitari che fanno i rider, le pulizie, i lavapiatti, le badanti. Cosa accomuna i due gruppi? L’indifferenza al territorio. Per i primi Milano è un posto come un altro che ha il “plus” della millantata qualità della vita (la “dolce vita” scrive il Financial Times, dimostrando come ancora nel mondo siamo raccontati per luoghi comuni), ma quel che conta è pagare di tasse una miseria per almeno quindici anni, poi, si cambia città. Vancouver o Praga, Sidney o Helsinki, è poco importante. Ad essere ricchi si sta bene ovunque, sopratutto se fai i soldi con la finanza, non con la produzione. Per i secondi non c’è radicamento perché sono stati scientemente espulsi fin da subito, simbolicamente e praticamente, dalla cittadinanza (non hanno diritto di voto, non hanno voce in capitolo, non esistono per la politica).

Chi è andato via, invece, è chi non ce la fa più a reggere economicamente le pretese economiche della città. Milano costa come Londra ma ha gli stipendi di Reggio Calabria. Chi apparteneva, per titolo di studio, alla piccola borghesia non ce la fa più: impiegati, docenti, infermieri, ma anche giovani architetti, scienziati, medici, ingegneri, avvocati. Quest’ultimi neppure cercano casa nella città metropolitana. Se ne vanno via direttamente dall’Italia.

La continuità amministrativa fra giunte di destre e di sinistra, a Milano, è stata il motore che ha fatto della città una “place to be”. Ma non per tutti, solo per chi se lo poteva permettere. Non basta essere una città ricca, occorre che parte di quella ricchezza “estratta” dalla città venga restituita in servizi e infrastrutture. Altrimenti, appena i ricchi troveranno un altro posto dove svernare, qui resteranno solo macerie. Mi spaventa il paesaggio a venire.

(precedentemente pubblicato su Repubblica-Milano, il 31 agosto 2025)

Intermezzo? Leggendo d’estate Sally Rooney

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di

Lisa Ginzburg

 

Aspettavo di avere tempo calmo per calarmi nella lettura di Intermezzo, ultimo romanzo della scrittrice irlandese Sally Rooney, uscito qualche mese fa per Einaudi nella traduzione di Norman Gobetti. Ne avevo molto sentito parlare, in modi e toni diversi, e come accade con quel che è  “sulla bocca di tutti”, la mia era curiosità impastata di prudente diffidenza. Il tempo calmo di una feria d’agosto, ed ecco ho divorato Intermezzo in due giorni o poco più. Una lettura rapinosa che mi ha lasciato sazia tanto quanto perplessa. Se la mia curiosità era stata ampiamente soddisfatta, la diffidenza invece era ancora lì, corroborata e in un certo senso più persistente di prima. Perché? L’occasione era utile a riflettere sugli strani processi per cui ci succede di venire accalappiati da un storia, ammirare la maestrìa tecnica con cui è stata costruita e raccontata, a quella storia ripensare più volte nei giorni successivi alla lettura – e tuttavia, non esserne per davvero convinti. In questo caso, anzi, poco.

Sempre impercettibile e difficile da articolare, il motivo profondo per cui da un romanzo ci sentiamo nutriti, trasformati, o invece no. Sally Rooney, potrei dire, per un certo verso mi ha stregata: mi svegliavo e già davanti al secondo caffè ero lì, pronta a leggerla fino a notte, pagine su pagine macinate senza sforzo, avida di capire come la vicenda da lei inventata e tanto bene imbastita sarebbe andata a finire.

Ma poi, ecco – però.

Faccio parte della chissà quanto esigua schiera di lettori convinti che la letteratura debba soprattutto nutrire il nostro bisogno di complessità. Persuasa che un “buon” romanzo, buono lo è se lascia in testa domande, deposita sensazioni da ricordare sotto forma soprattutto di tracce di interrogativi. Non che la scrittura di Sally Rooney diserti le complessità psicologiche, tutt’altro; eppure l’impressione conclusiva lasciatami da Intermezzo per me non è stata quella di avere seguito un processo di scavo. Leggendolo ho fatto un viaggio, ma come fosse un viaggio turistico, dove non si vede per davvero un pezzo di mondo in modo autonomo, con occhi propri, selettivi e liberi, bensì ce ne si fa un’idea sommaria, di facciata, un po’ “da cartolina”. Effetto voluto o meno, il passo narrativo di Rooney, in intermezzo almeno, mi è sembrato possedere un’andatura cauta, fedele ai chiaroscuri di ogni personaggio e di ogni dinamica di relazione, ma procedere in maniera non veramente coraggiosa. Passo fermo sul limitare, passo che non entra, non si addentra. Quanto ai chiaroscuri della vicenda, pagina dopo pagina si riflettevano nei miei occhi come giochi di luce dalle tonalità le più varie, perfettamente restituite dalle parole, man mano però affievolendosi sino a scolorare assestandosi su un tiepido grigio, per poi spegnersi del tutto in nome di un imperativo a “chiudere il cerchio”, monito chiaramente urgente per questa narratrice abilissima quanto in lotta (forse a sua insaputa) con la tentazione di una fuga dalla complessità.

Scrittura magistrale quanto a tecnica; dosata alternanza di voci precise e anche poetiche; nitide descrizioni di luoghi; dialoghi resi spesso in forma indiretta, sempre molto verosimili, efficaci. Eppure, e quasi parrebbe un paradosso, terminata la lettura ho sentito la mancanza di una sensazione fondamentale nel caso dei romanzi importanti, quelli che poi “restano”. La sensazione di avere lambito un enigma, un mistero:  eccola perduta, aggirata,  scivolata via, ineffabile come un’occasione persa. Senza avere avvertito, filtrato attraverso la trama del racconto, quanto la vita sia anche assurdità, insensatezza. Quanto il nostro sapercisi barcamenare equivalga alla capacità di accettare l’incompiuto, l’inconcluso, il non senso delle cose.

Due fratelli, a Dublino. Hanno perso il padre da poco tempo. Il fratello minore con il padre viveva, mentre il maggiore abitava lontano, in apparente dissidio dal genitore. Ora che quello è morto, entrambi i figli (uno molto più giovane dell’altro) soffrono e lo piangono. Il lutto li ha colpiti, sferzati, ed entrambi cambiano, e si allontanano: tra di loro, e ciascuno da se stesso, per poi nel corso del romanzo riavvicinarsi, tra di loro così come ciascuno a se stesso. Amano delle donne, donne del passato o appena incontrate, ci fanno l’amore. Tutto è cataclisma, tutto è vibrare, in una vertigine di tanathos e eros. Tutto prelude a un’epifania, che infattti puntuale alla fine arriva. A chiudere, sin troppo, il cerchio.

Molto sesso. Sesso sempre appagante, invariabilmente felice a prescindere dalle tristezze circostanti. “Oh che bello”, “che meraviglia”, a ogni penetrazione, già prima a ogni sfregarsi di genitali. In uno scenario di dolore, di rapporti lacerati tra due fratelli solipsisti, qualsiasi loro contatto fisico con le donne, invece una delizia.

Percezioni della natura, fruscìo di foglie, l’odore della neve, fatica di andare sotto la pioggia, desolazione di una Dublino stanca di sé stessa e semi-deserta, squallore protettivo di centri abitati più periferici. Il cerchio chiuso per cui ciascun personaggio è le sue sensazioni e i suoi contatti con il prossimo. Contatti che certe volte sono violenza (nella migliore tradizione, i due fratelli, scossi dagli avvenimenti, vengono alle mani). Altre volte, altro sesso – coiti come forme di conoscenza non solo delle amanti, conoscenza “in toto” del mondo. Nel più  riuscito dei casi, amore per gli animali (un cane è il vero grande protagonista, il suo contatto con il più giovane dei due fratelli è unico caso di tenerezza davvero reciproca).

Nella lunga durata, la tecnica ineccepibile e “accalappiante” con cui Intermezzo è scritto mostra il nervo scoperto del suo punto debole. L’automatismo dello sguardo narrativo, impossessandosi di ogni possibile mistero, va a detrimento della potenza letteraria.  Benissimo costruito, è però un romanzo che si scontra e nel finale si arena nello scoglio di una superficialità di fondo. Pare un ossimoro. Ma la “superficialità di fondo” non solo esiste: ci circonda. E saperla vedere, se pure amareggia, anche salva.

Per una pace rivoluzionaria (considerazioni in tempi di guerra)

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di Sergio Violante

«Quale diritto ha lo Stato di servirsi dei suoi sudditi per muovere guerra ad altri Stati, impiegando e mettendo a rischio i loro beni e persino la loro vita?». Questa è la domanda che pone Kant, uno dei pilastri della cultura liberale, che denuncia la pretesa dello Stato di trattare i propri sudditi come «piante o animali domestici di sua proprietà, che si possono adoperare, consumare e distruggere (far morire)» (I. Kant, Scritti politici).

È in quest’ottica che parliamo oggi di pace, collocandoci all’interno di un Paese capitalistico, mosso da un’ideologia liberale. In contesti con sistemi economici differenti, la declinazione del concetto di pace potrebbe variare sensibilmente.

Il principio della guerra con tutta evidenza precede storicamente il capitalismo, il quale ne costituisce una delle sue espressioni e che, pur avendo avuto anche funzioni emancipative – si pensi alla rottura con il feudalesimo – mantiene un rapporto strutturale con il conflitto. È quindi nella relazione fra capitalismo e guerra che si svilupperà il nodo centrale del ragionamento, da cui derivano implicazioni giuridiche, storiche, filosofiche, religiose, economiche, sociologiche e scientifiche.

 

Tecnica e Dominio

Lo straordinario sviluppo della tecnica moderna, intesa come illimitata manipolabilità della realtà senza alcun argine, senza alcun condizionamento, senza nessun riferimento a valori altri che non siano quelli del progresso tecnico e commerciale, ha raggiunto un livello di autoreferenzialità e onnipotenza senza precedenti. È evidente come questo sviluppo sia stato accelerato dalla logica capitalistica della massimizzazione del profitto. Ma oggi dobbiamo chiederci se l’intero percorso della modernità non sia giunto a una crisi irreversibile, che impone un cambiamento radicale per evitare la rovina e costruire un mondo di pace.

A questa crisi contribuiscono inoltre la scarsità delle risorse naturali e il disastro ambientale, ma, soprattutto la perdita dell’uomo come soggetto. Il trionfo del capitalismo, fondato sul primato dell’economia, ha assorbito la realtà intera, riducendo tutti – padroni e operai, ricchi e poveri – a ingranaggi di una macchina produttiva a cui sono soggiogati.

Questo rapporto di dominio col mondo, della cosa sull’uomo, si dispiega oggi in un incondizionato meccanismo di autofinalizzazione, da cui la soggettività è inevitabilmente esclusa.

Siamo di fronte a una forma di neo-feudalesimo tecnologico, dove il potere si concentra in poche gigantesche corporazioni globali. Come sottolinea Yannis Varoufakis, le tecnologie digitali stanno generando un nuovo modello di capitalismo. Questo sistema implica l’espropriazione planetaria da parte di pochi a scapito della maggioranza, con un trasferimento continuo di ricchezza dalle fasce medie e basse verso i grandi gruppi economici, favorito da precarizzazione del lavoro, smantellamento del welfare e distruzione delle piccole e medie imprese.

Per affermarsi, il tecno-feudalesimo ha bisogno di un individuo mutato, ridotto a vivere in un presente perpetuo, privo di memoria, cultura, desideri reali o domande profonde. Un soggetto spoliticizzato, docile, svuotato di inconscio.

 

La Guerra e il “Sistema di guerra”

La guerra, motivata da religioni, interessi statali o capitali in cerca di nuovi mercati, segue sempre una logica di sopraffazione e dominio. Nel 2024, il numero di conflitti con il coinvolgimento diretto degli Stati ha raggiunto il massimo storico dal 1946.

Se un tempo la guerra era considerata un’eccezione, epilogo di contraddizioni non risolte, oggi è diventata elemento strutturale, permanente, funzione costituente dell’ordine politico e sociale.

È passata da evento di crisi a istituzione, da rottura a fondamento dell’ordine costituito. Che si parli di “guerra preventiva”, “ingerenza umanitaria” o “guerra giusta”, siamo comunque di fronte a un sistema incentrato sul dominio, dove il dialogo e il compromesso sono subordinati alla logica del potere. Ciascun contendente cerca esclusivamente di imporre le proprie ragioni, con il conseguente proseguimento dei conflitti finché non vinca il più forte.

Come scriveva Claudio Napoleoni, «un sistema dove le armi non sono solo strumenti militari di difesa, accessori e subordinati alla volontà generale, ma sono di fatto la massima struttura di potere della società, ciò che ne esprime e determina la vera natura; un sistema dove le armi non hanno solo una funzione militare, ma ancor più hanno una funzione politica; esse di fatto determinano la natura del regime politico, ne producono la costituzione materiale segnano limiti rigidi alle possibilità di alternative e di mutamenti interni al sistema politico, fissano i confini di compatibilità dei suoi rapporti esterni e della sua politica internazionale, si impongono come fonte normativa primaria e architrave del sistema; in una parola, oltre una certa soglia, esse non sono più l’armamento di una società, ne sono l’ordinamento».

La corsa al riarmo che stiamo osservando implica una massiccia riallocazione di risorse verso l’industria bellica, trasformando profondamente le economie nazionali e gli equilibri internazionali. In questa logica, che potremmo definire di warfare, istituzioni neoliberali come l’OCSE prevedono che l’aumento della spesa militare possa generare “crescita economica a breve termine”. È l’idea di “convertire” industrie in crisi (come l’automotive) in fabbriche d’armi. Il costo di questo processo tuttavia ricadrà nel modo più classista e tradizionale sugli strati meno agiati della popolazione attraverso il taglio dei servizi pubblici e l’aumento della pressione fiscale. Un simile modello rafforzerà inoltre la dipendenza dei Paesi più deboli dai grandi produttori di armamenti, accrescendo in un circolo vizioso il dominio geopolitico e fomentando nazionalismi e autoritarismi.

L’effetto oppressivo della guerra colpisce quindi non solo i nemici esterni, ma anche i cittadini, ridotti a sudditi. Le sue macerie – materiali e spirituali – diventano terreno fertile per nuovi conflitti, nuove diseguaglianze, nuove forme di oppressione.

Nel contesto europeo, la guerra non deve nemmeno essere combattuta: basta che sia programmata, con tutto ciò che ne discende in campo economico, giuridico, sociale. Ne è esempio il recente discorso di Mario Draghi al Parlamento Europeo, in cui si propone l’emissione di un debito europeo per finanziare riarmo, intelligenza artificiale e innovazione tecnologica. Un debito da sottoscrivere con il risparmio privato dei cittadini europei, e non con l’intervento della Banca centrale. Il piano “ReArm EU” è stata la pronta risposta della Commissione Europea, sostenuto da una campagna ideologico-mediatica, che punta a legittimare un potere politico sempre più autoritario, che invita i cittadini a “pagare il prezzo della libertà” (Josep Borrel).

Il linguaggio, nel “Sistema Guerra”, è strumento centrale: si moltiplicano le formule eufemistiche come “missione di pace”, “guerra umanitaria”, “intervento preventivo”, che nascondono la realtà fatta di sofferenza, orrore, distruzione. I ceti dominanti, che preparano e promuovono la guerra, non la “parlano”. L’informazione si trasforma in propaganda. I morti scompaiono, contano solo le munizioni, i carri armati, le risorse finanziarie per continuare la guerra. Quando poi la mistificazione non tiene più, come nel caso di Gaza, si aprono inevitabilmente grandi contraddizioni irrisolte.

Il “Sistema di Guerra”, per funzionare, richiede la militarizzazione della società: il nazionalismo ritorna, l’autoritarismo si consolida. In Italia, con l’emergenza Covid, questo processo ha assunto contorni evidenti. Come dimenticare i sanitari dell’esercito nelle corsie degli ospedali sovraccaricati dai pazienti Covid-19, le tende dell’esercito per il triage fuori degli ospedali, le bare di Bergamo trasportate dai camion militari, i vaccini antinfluenzali somministrati negli ospedali militari, l’esercito a presidiare le strade, i vaccini Covid-19 scortati nei loro viaggi da mezzi militari? Come dimenticare che il Commissario straordinario per l’emergenza Covid-19 era il Generale di Corpo d’Armata Francesco Paolo Figliuolo? Che i decreti legge emergenziali promulgati in quel periodo limitavano le libertà costituzionali di spostamento e di aggregazione e militarizzavano al contempo le strade delle città? Nel momento in cui si è tentato di “legittimare” pienamente l’uso del militare per gestire ogni funzione civile, occupare la sfera pubblica e assumere il pieno controllo dell’“ordine pubblico” in uno stato di guerra contro il “nemico invisibile”, abbiamo sperimentato pericolose torsioni autoritarie nelle società. Quando si è cancellata la distinzione fra spazio pubblico e spazio privato, quando l’individuo non è più stato padrone del proprio corpo, padrone delle libertà sancite persino costituzionalmente, ecco che, come ha chiaramente spiegato Hannah Arendt, abbiamo compiuto un primo passo verso il totalitarismo.

 

 

 

L’Autodifesa

Una società priva di autodifesa d’altra parte perde identità, capacità di prendere decisioni in modo democratico, natura politica. L’autodifesa tuttavia non è solo legata all’aspetto militare, ma è strettamente legata ai processi di democratizzazione. Guardando al campo occidentale capitalistico un esempio è dato dalla neutralità armata della Svizzera, che si fonda sull’autosufficienza nei settori vitali (energia, alimentazione) e su una efficace difesa puramente difensiva, senza proiezione esterna. La Svizzera costituzionalmente può utilizzare le forze armate per difendere la sua indipendenza e la sua integrità territoriale ma non per far valere interessi che vadano oltre l’autodifesa. Questo fa sì che il Paese non possa aderire a alleanze militari internazionali, come ad esempio la NATO.

Un secondo modello più radicale di autodifesa democratica, che potrebbe essere concettualmente integrato con quello svizzero, è quello del Rojava in Siria, basato su autodifesa diffusa e partecipata. Parti del complesso sistema di difesa sono autoorganizzate (si pensi ad esempio ai feriti e a tutte le persone menomate dalla guerra, che vengono ospitate in centri autogestiti dagli stessi combattenti ospiti per poi essere reinserite nella società), le donne hanno un ruolo centrale, la formazione militare è integrata con educazione politica ed etica. Il sistema si fonda sul rifiuto della logica statale gerarchica, trae forza dalla comunità e si pone sulla scena in un’ottica internazionalista.

Da ultimo, la resistenza curda ha dimostrato che anche contro forze soverchianti – come il secondo esercito della NATO (la Turchia) – è possibile difendere i propri territori e valori.

Qui la forza nasce dal basso, da una società consapevole, solidale, politicizzata.

 

La Pace come Progetto Politico

Alla luce di tutto ciò, la Pace non può essere intesa solo come assenza di guerra (in ogni caso sempre auspicabile), ma come superamento di ogni forma di alienazione, sfruttamento e dominio. Costruire un’alternativa al Sistema di Guerra richiede un nuovo pensiero rivoluzionario: un pensiero critico, che recuperi la lezione di Marx ma vada oltre l’impostazione classica del conflitto capitale/lavoro.

Possiamo quindi parlare di Pace Rivoluzionaria: una pace intesa come lotta di liberazione.

Ciò implica smascherare le forme del dominio e attuare una trasformazione radicale della società. Come suggerisce Napoleoni, dobbiamo agire sul “residuo” umano che sfugge alla logica della valorizzazione capitalistica. Questo residuo – la parte viva, incorruttibile dell’essere umano – è la leva della rivoluzione, una forza interiore e collettiva che può diventare un fattore politico decisivo. Il compito diviene allora quello di recuperare le soggettività perdute e di mettere in moto un opposto e virtuoso processo verso la Pace.

Un esempio interessante di pace così intesa, che non a caso ha goduto di pochissima attenzione sui principali mezzi d’informazione, è l’iniziativa di pace proposta da Abdullah Öcalan, in Turchia. In un Medio Oriente sconvolto da bombardamenti e annientamento di popoli. Öcalan, dopo una guerra civile sanguinosissima durata 40 anni, dopo migliaia di morti, ha proposto Pace e praticato il disarmo unilaterale del PKK in nome di una rivoluzione democratica tesa al bene comune pur esercitando il diritto all’autodifesa. Un gesto radicale, che dimostra come la pace possa nascere anche nel cuore del conflitto, e che ribalta completamente uno dei principi del pensiero unico, per cui la pace può (e spesso deve) essere raggiunta attraverso le armi e la guerra. Armi e guerra che in realtà distruggono i rapporti, le relazioni, il dialogo. Come scriveva Giovanni XXIII nella Pacem in Terris: «La pace si può costruire solo nella fiducia reciproca.»

Passando ora al “pacifismo”, vediamo che oggi ha perso incisività e appare sempre più marginale politicamente: le bandiere arcobaleno e i gesti simbolici, spesso praticati da chi non ha più alcuna credibilità, non bastano più, anzi risultano talvolta controproducenti per il raggiungimento della Pace. La Pace non può essere trattata come un semplice valore, come suggerisce il pensiero dominante, ma come un principio non negoziabile. Se è un principio, allora nessun mezzo – neppure la guerra “giusta” – può essere ammesso.

Il Pacifismo Rivoluzionario agisce dentro le contraddizioni nei modi più disparati e opportuni, come la diserzione da parte dei renitenti alla leva ucraini o dei refusenik  israeliani, l’opposizione civile al regime putiniano, il blocco dei convogli di armi come a Genova e Marsiglia, un’informazione davvero libera, il boicottaggio di prodotti legati alla guerra e all’oppressione, le sanzioni contro interi Paesi e/o singoli criminali internazionali, una piena applicazione del diritto internazionale, oggi piegato e mortificato davanti alla tracotanza delle potenze e degli interessi dominanti. Il Pacifismo rivoluzionario, come visto, è naturalmente connesso a un cambiamento radicale della società, non può esistere all’interno del sistema dominante, deve uscirne, nelle pratiche e nelle finalità. E’ pensiero e agire critico che parte dal basso, che federa in un certo senso le necessità e i temi che partono da territori e luoghi differenti, con il comune denominatore del contrasto al conformismo, all’obbedienza, alla gerarchia; pone interrogativi cruciali sul ruolo e sull’esistenza stessa dello Stato. Il pacifismo rivoluzionario è quindi una pratica rigorosa, che distingue tra fatti e opinioni, tra propaganda e conoscenza, tra narrazioni dominanti e verità plurali.

Infine, mi piace concludere ricordando il gesto di pacifismo rivoluzionario che attuò Rosa Parks nel lontano 1955, che rifiutandosi di cedere il posto sull’autobus a un bianco per ciò finì incarcerata. Come lei ebbe a dire: «Dicono sempre che non ho ceduto il posto perché ero stanca, ma non è vero. Non ero stanca fisicamente, non più di quanto lo fossi di solito alla fine di una giornata di lavoro […]. No, l’unica cosa di cui ero stanca era subire». Ciò che ne è seguito, il percorso che si è compiuto a partire da quel momento di rottura radicale, nonostante gli innumerevoli ostacoli frapposti, è di evidenza lampante.

 

➨ AzioneAtzeni – Discanto Secondo: Patrick Chamoiseau

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Discanto Secondo 

“Hanno speso per autori molto inferiori a Chamoiseau, li hanno spinti, hanno premuto presso i recensori affinché i libri fossero recensiti. Sono libri magari anche “bellini”, ma c’è la differenza che passa tra una grande descrizione, un grande affresco del mondo e della storia come Texaco e i giochini di intellettuali di medio calibro italiani che devono fare vedere quanto sono intelligenti. Siamo veramente su pianeti diversi. Non hanno fatto nulla per Chamoiseau. È un augurio che non ha molto senso nell’Italia di oggi, ma io mi auguro sempre che ci siano dei lettori che scoprono autonomamente, casualmente, il libro, lo leggono, se ne innamorano e lo fanno conoscere agli amici.”  Sergio Atzeni, Seminario di Parma, 1995 ‘Sergio e Patrick si riconoscono nella poetica della creolità, nel racconto epico-mitico delle minoranze, nella sperimentazione linguistica. ‘Pastori della diversità’ (Giuseppe Marci). Sergio Atzeni è stato il traduttore del romanzo Texaco di Patrick Chamoiseau, vincitore del Prix Goncourt nel 1992 e uscito inizialmente in Italia per Einaudi nel 1994 e attualmente disponibile nell’edizione de Il Maestrale .  

Per Sergio*

di Patrick Chamoiseau

Ho conosciuto Sergio durante un mio breve soggiorno a Parigi. Lavorava allora alla traduzione del mio romanzo Texaco. Ci siamo incontrati al bar dell’albergo. Io credo molto al primo sguardo, prima ancora che intervengano parole e gesti. Una percezione immediata, ben poco razionale, che spesso mi orienta, e determina le mie amicizie, e stabilisce le mie complicità. Vedendo Sergio Atzeni, la mia sensazione è stata immediata: un poeta, uno scrittore, una vampa di vita, semplice, tattile, che ama davvero i libri e la letteratura. Una sensibilità estrema, una esigenza, anche, una grande attenzione agli altri e il costante scrupolo di permettere agli altri di esprimere al meglio ciò che sono. Ho avvertito la modestia e l’erranza interiore in questo intimo trionfo che vivono coloro che dispongono di vero senso poetico. Parlammo a lungo, e spesso, e io non parlavo più a un traduttore ma a un alleato dietro il quale sentivo lo scrittore senza concessioni né compromessi, lontano da qualsiasi vanità. Eravamo d’accordo che le lingue devono perdere il proprio orgoglio ed entrare nell’umiltà dei linguaggi, dei linguaggi liberi, dei linguaggi folli, dei trasalimenti che le rendono disponibili a tutte le lingue del mondo. Eravamo d’accordo che una traduzione non deve essere una chiarificazione, ma diventare la messa a disposizione d’un elemento delle diversità del mondo in una lingua d’accoglienza. Eravamo d’accordo che la traduzione non deve andare da una lingua pura a un’altra lingua pura, ma organizzare l’appetito delle lingue tra loro nell’ossigeno impetuoso del linguaggio. Eravamo d’accordo che una traduzione non abbia più timore dell’intraducibile, ma sciami a dar conto di tutti i possibili intraducibili. Ed eravamo d’accordo che una traduzione onori innanzitutto l’irriducibile opacità di ogni testo letterario; che, in questo mondo che ha finalmente la possibilità di risvegliarsi, il traduttore divenga il pastore della Molteplicità. Il paese di Sergio è terra di linguaggi, d’ombra e di luce, e di molteplicità. Lui capiva quel che io dicevo. Lo sapeva già. Avevo in Sergio una bella proiezione di ciò che mi sforzo di diventare nelle pene della scrittura. Il mondo ha perduto uno di quei poeti discreti che fondono la forza dei venti e delle stagioni. Io ho perduto un amico. Fratello, senza di te, mi sento d’improvviso impoverito di mille anni.

Pour Sergio*

J’avais rencontré Sergio Atzeni durant un bref passage à Paris. Il travaillait alors à la traduction de mon roman Texaco. Nous nous étions rencontrés dans le bar de l’hôtel. Je crois beaucoup au premier regard, avant même que les mots et les gestes n’interviennent. Une perception immédiate, bien peu rationnelle, qui me renseigne souvent, e qui détermine mes amitiés, et qui installe mes connivences. En voyant Sergio Atzeni, mon sentiment a été immédiat: un poète, un écrivain, une flamme de vie, simple, tactile, aimant vraiment les livres et la littérature. Une sensibilité extrême, une exigence aussi, une grande attention aux autres, et le souci constant de permettre aux autres d’exprimer au mieux ce qu’ils sont. J’ai perçu la modestie et l’errance intérieure dans ce triomphe intime que vivent ceux qui disposent d’un vrai sens poétique. Nous parlâmes longuement, et souvent, et je ne parlais plus à un traducteur mais à un allié derrière lequel je percevais l’écrivain sans concession ni compromis, loin de toute vanité. Nous étions d’accord pour que les langues perdent de leur orgueil et qu’elles entrent dans l’humilité des langages, des langages libres, des langages fous, des tressaillements, qui les rendent disponibles pour toutes les langues du monde. Nous étions d’accord pour qu’une traduction ne soit pas une clarification, mais qu’elle devienne la mise à disposition d’un élément de la diversité du monde dans une langue d’accueil. Nous étions d’accord pour que la traduction n’aille pas d’une langue pure à une autre langue pure, mais qu’elle organise l’appétit des langues entre elles dans l’oxygène impétueux du langage. Nous étions d’accord pour qu’une traduction ne craigne plus l’intraduisible, mais qu’elle devienne comptable, et essaimeuse, de tous les intraduisibles possibles. Et nous étions d’accord pour qu’une traduction honore avant tout l’opacité irréductible de tout texte littéraire, pour que, dans ce monde qui a enfin une chance de s’éveiller à lui même, le traducteur devienne le berger de la Diversité. Le pays de Sergio est une terre de langages, d’ombre et de lumière, et de la diversité. Il comprenait ce que je disait. Il le savait déjà. J’avais en Sergio une belle projection de ce que je m’efforce de devenir dans les affres de l’écriture. Le monde a perdu un de ces poètes discrets qui fondent la force des vents et des saisons. J’ai perdu un ami. Frère, sans toi, je me sens tout d’un coup appauvri de mille ans. * Ringraziamo Patrick Chamoiseau per averci concesso di ripubblicare il ricordo che mandò alla rivista cagliaritana La Grotta della vipera per il numero dedicato a Sergio Atzeni all’indomani della scomparsa (72/73, autunno-inverno 1995), su iniziativa del direttore Giuseppe Marci. Ne riprendiamo il testo nella versione proposta dalla rivista Tradurre. Teorie pratiche strumenti, n.9, autunno 2015, per gentile concessione del direttore Gianfranco Petrillo.

* Azione Atzeni- mode d’emploi

di

Gigliola Sulis e Francesco Forlani

‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale. * Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia Gigliola Sulis, Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012

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Cavazzoni: esploratore pacato dell’abnorme

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Di Andrea Inglese

Ermanno Cavazzoni fa parte di quegli scrittori umoristici che hanno il privilegio non solo di farvi sorridere e divertire, ma di provocare proprio lo scoppio di risa. Non sono in tanti gli autori che, attraverso le uniformi e inerti lettere stampate, provocano il sussulto cinetico e sonoro della risata. È così, d’altra parte, che l’ho scoperto, divorando anni fa, tra franche risate, il suo Vite brevi di idioti (Feltrinelli, 1994). Per carità, Cavazzoni non si può certo ridurre al solo lato comico, all’assurdità pratica e logica di certe situazioni, in cui infila i suoi malcapitati personaggi. Uno dei fili rossi che attraversa la sua opera è l’esplorazione pacata dell’abnorme, in tutte le sue forme, sociali, culturali, metafisiche. Che si tratti della lista degli idioti che “santificano” i trentuno giorni di un mese, o la casistica che permette a degli aspiranti scrittori di diventare pienamente inutili, o ancora del trattato sulla storia e i costumi dei giganti, Cavazzoni c’introduce, accompagnato da qualche meticolosa attrezzatura da entomologo, allo studio di metamorfosi kafkiane: nulla di meno capriccioso e straordinario lo interessa.

Anche il Manualetto per la prossima vita, apparso nel 2024 per Quodlibet appartiene a questo casistica. Il titolo, per altro, già annuncia il doppio passo tipico dell’autore: sistematicità del buon padre di famiglia e ricognizione dell’oltretomba. I metafisici abissi di ciò che potrebbe attenderci dopo la morte sono ricondotti alla spicciola praticità del manualetto domestico: il gigantesco scarafaggio è trattato con un comune retino per farfalle. L’umorismo di Cavazzoni gioca, infatti, sia sulla sproporzione tra mezzi espressivi e oggetto del discorso, sia sul contrasto tra il fantasmagorico più gassoso e un approccio sistematizzante, da mesto produttore di tassonomie che intrappolino la furiosa eterogeneità dell’esistente. Come già in altri suoi libri, una stringata premessa ci fornisce argomento principale (consigli per le prossime reincarnazioni) e svolgimenti secondari (le sei questioni fondamentali che guideranno i criteri di comportamento nella nuova vita). Tutto sembra ben ordinato, architettato secondo criteri di coerenza logica o di consecutività pratica, ma immediatamente siamo presi nel movimento zigzagante e serpentino della sua prosa: la voce ragionante salta di palo in frasca, mescola le carte, confonde i sentieri, e soprattutto strattona e rovescia il nostro mondo storico, come fosse un calzino.

In un saggio del 2016 sulla letteratura umoristica (L’umorismo letterario. Una lunga storia europea (secoli XIV-XX), Carocci), Giancarlo Alfano aveva dedicato un capitolo specifico all’uso delle prospettive insolite, che permette “uno straniamento ottenuto attraverso il gioco dei punti di vista”. Cavazzoni è un maestro, nel far vedere il mondo, ad esempio, dall’occhio di una vite a ghiera, che tiene stagno il tubo di scarico del lavandino, o da quello dei lepidotteri, le cui vicende metamorfiche forniscono il modello di una plausibile vita oltre la morte. Vi è poi uno sguardo che in questo Manualetto sembra trionfare, perché garante dell’unica via di salvezza ormai percorribile: quella del vagabondo nullatenente e senza fissa dimora, vero eroe di una decrescita affrontata a passo di marcia. Se Cavazzoni fosse un assessore all’urbanismo, sostituirebbe in blocco le panchine dal bracciolo anti-barbone con statue pedestri di anonimi e raminghi personaggi, che celebrano l’adozione di una filosofia cinica aggiornata coi tempi. In tutte queste operazioni di spiazzamento della prospettiva domina un’insolenza satirica, che travolge eroi e miti della nostra società: le star televisive, gli esperti, le tecnologie elettroniche, le liberazioni sessuali, le utopie politiche, ecc. Alla critica sociale, però, l’autore associa un ancora più destabilizzante riso metafisico, e qui siamo nei dintorni delle Operette morali, di cui l’amico Gianni Celati elogiava “La linea astratta della prosa leopardiana [che] ci toglie sotto i piedi la pretesa dei fondamenti, dei valori che hanno fondamenti” (“Discorso sull’aldilà delle prosa””, in Studi d’affezione per amici e altri, Quodlibet, 2016). Se il lettore si diverte alla fustigazione insolente dei vizi collettivi, il suo divertimento si tinge di spavento, quando Cavazzoni passa dalla manomissione sociale a quella cosmologica e deplora la velocità delle luce perché troppo lenta per la vastità del cosmo oppure assimila il nostro universo a una bolla di schiuma, in attesa del grande risciacquo (apocalittico) di una lavatrice. In queste pagine, infatti, abbiamo la sensazione che, a finire a gambe all’aria, non sarà solo il bersaglio ridicolo, ma anche noi lettori mentre ridiamo a suo discapito.

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[Articolo uscito in origine per “L’Indice” (gennaio 2025)]

➨ AzioneAtzeni – Discanto Primo: Laura Pariani

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– Itzoccor Gunale. Benvenuto a Caglié – saluta Don Ximene in tono un po’ isterico mentre muove nell’aria le dita ossute, rami di mandorli invernali, stridenti coll’enorme corpo viceregio, disegnando piccole forche e nodi scorsoi per intimorire il prigioniero.

– La volpe… – dice Don Ximene in tono irridente. – Pure sei caduto nella rete…

da Apologo del giudice bandito  di Sergio Atzeni

Congetture sopra Itzoccor

di

Laura Pariani

Nel medioevo ti chiami Itzoccor Gunale: condannato come bandito e gettato in fondo a un pozzo a Cagliari, mentre nella piana circostante infuriano le locuste. Il viceré Don Ximene, da qualche giorno indisposto, se ne sta sdraiato su un lettone a cui è stato accostato un tavolo con la scacchiera. Ha saputo che sai giocare a shah come la meglio gioventù di Castiglia e di Navarra; non sembrandogli vero di potere sfidare qualcuno, ti ha fatto portare nella sua stanza. L’enorme corpo viceregio è stato scosso dalle risate quando sei apparso, così piccoletto, un soldo di cacio, e ora te ne stai appollaiato su uno sgabello più grande di te, con le gambe che penzolano nel vuoto. Col gomito poggiato sui cuscini, don Ximene ti invita a una mangiativa di focaccine al latte, ma tu rifiuti. Allora, con tono piuttosto isterico, ti ordina di schierare le pedine. “Sbrigati! Dimostrami quello che vali! Se vinci, sarai salvo. Se perdi…” dice con una risatina, muovendo a vuoto le dita ossute, quasi volesse disegnare nell’aria una piccola forca e un nodo scorsoio. Ma tu non gli badi, tieni gli occhi chiusi, rievochi la prima volta che tuo nonno Arsoco il falco ti mostrò le pedine – elefanti, guerrieri, re, cavalli – ricevute in dono da un mercante arabo. Le riconosci al tatto e le sistemi al loro posto. Aggiustandosi nella sua vestaglia di seta azzurro cangiante, il viceré sorride. “Muovi!” ti incalza. Apri con cavallo di re. “Oh, partita d’impegno!” ridacchia don Ximene buttandosi all’attacco. Sacrifici, riconquiste, tranelli, combinazioni… Magia delle magie: è tua la vittoria nel silenzio costernato dei servi e dei soldati presenti. “Rigettatelo nel pozzo!” urla il viceré con il viso sfigurato dall’ira. Forse si aspetta che tu pianga o che implori clemenza. Ma tu stai zitto.

Il secolo ha cambiato numero e ti chiami Isácu, allevi galli da combattimento nella tua casupola persa nella brughiera lombarda. È qui che arriva un corteo di cavalloni lucenti di sudore sotto le gualdrappe cremisi. Da tre carri con le insegne spagnole in un santiàmen vengono scaricati un tavolo e sedili di cuoio con spalliera, poi due soldati srotolano un tappeto di porpora di modo che l’Infante Cardinale possa smontare dalla sua carrozza senza insudiciare gli scarpini di capretto bianco. Una volta che sua Eccellenza si è accomodato su un alto scranno, si sbottona la giubba con le maniche a sbuffo e si sventaglia lamentandosi dei mosquitos. In un esùssi sul tavolo è stato poggiato un piatto ovale di ceramica bordata d’oro su cui è steso un prosciutto avvolto in mussolina bagnata nell’olio. Il Cardinale Infante ti annuncia di essere venuto da Busto Grande a vedere giocare il tuo gallo. “Facciamo così, zòtico: te juego todo. Il mio gallo Nerone contro il tuo. Se vinci, ti tieni la vita; per contra, diventi mio schiavo se vince la mia bestia…” e nel mentre indica un grosso involto che quattro soldati corrono a calare con cautela dalla carrozza. Tolto il drappo che lo ricopre appare una grande gabbia di ferro, dentro la quale sta il più bel gallo da combattimento che si sia mai visto: enorme, col piumaggio verdenero e l’aria ferocissima. “D’accordo,” dici, “però a morte.” “Está bien. A muerte,” sorride il Cardinale. Con le tue gambette corte corri al pollaio dove sta il tuo campione, Magatèll: di un comune marrone, grosso ma niente a che vedere con le dimensioni del gallo dell’infante Cardinale. Comunque, in fin dei salmi, hai fiducia: sai quant’è bravo il Magatèll e adesso gli spalmi sulle piume cera piccante a mo’ di rinforzo. Ecco, è tutto pronto: ai due galli sono stati montati gli speroni di ferro. Al suono di un corno i due campioni si studiano e poi iniziano la zuffa in un furioso sbattere di piume. Gli Spagnoli che intorno fanno quadrato ci danno dentro con gli incitamenti, ogni volta che la bestia del Cardinale ha la meglio. Ma quando poco a poco diventa chiaro che il Magatèll, anche se più piccolo, non è meno resistente e valoroso, cala poco a poco il silenzio del rispetto. Mezz’ora dura, poi il Nerone non ce ne può e stramazza a terra in una grande insanguinata. Il tuo gallo, seppur ferito e orbato di un occhio, ha vinto. Silenzio costernato. Sua Eccellenza la prende molto male. “Tuviste suerte”, ammette a denti stretti. Poi dalla bocca storta del Cardinale viene un ordine secco: “Tirate todo eso abajo. Ché non resti niente!” Ci vuole poco ai soldati, per radere al suolo la casupola e dare fuoco alla radura. “Non piangi, furfante?” ti sibila in faccia il cardinal Infante. “Non implori clemenza?” Fai segno di no col capo: tu sei della razza dei poerìtt ma gnücch.

Nel 1994 ti chiami Isa Gunapan. “El agua es el mayor tesoro que tenemos y la vamos a defender”” dice il cartello che inalbera il gruppo dei manifestanti. Avete lasciato il villaggio ieri sera, camminato tutta la notte per essere qui all’apertura del cantiere dell’ennesima multinazionale intenzionata a estrarre petrolio in questa quebrada preandina ricca di pitture rupestri. Ogni pozzo petrolifero richiede 640 camion d’acqua, l’equivalente di nove piscine olimpioniche, per tutta la vita del pozzo…  “L’acqua non si tocca” scandiscono le donne, e i bambini ripetono la frase, gli occhi fissi sulle  jeep lucide da cui sono scesi uomini in giacca e cravatta e poliziotti armati. A cento metri di distanza, con un altoparlante il rappresentante della multinazionale – Mr Traherne, un biondone con la faccia arrossata dal sole – in un castellano condito di inglese spiega i suoi piani sull’investimento di mucha plata che cambierà la sorte di questo deserto dimenticato da dio. E quando l’altoparlante chiede che qualcuno dei manifestanti si faccia avanti, è te che mandano a trattare: hai imparato l’inglese alla scuola dei salesiani. Ti fai avanti esitando. Sbalordisci quando un gigante in occhialoni neri ti perquisisce. Il biondone sembra studiarti, ti invita a sedere a un tavolo da campeggio ingombro di scartoffie; su un angolo lattine di cocacola che tu rifiuti. I tuoi occhi si fissano su un disegno a croce inciso sulla roccia su cui poggi i piedi. “Cos’è?” chiede Mr Traherne che ha seguito il tuo sguardo. “Una pietrografia millenaria”, rispondi, “ce ne sono quasi tremila su queste rocce.” Ti chini a scostare con la mano la sabbia che in parte la ricopre e porti alla luce cinque quadrati disposi a croce, ogni quadrato con 9 nodi. “È un gioco” dici. Visto che hai catturato il suo interesse, inizi a spiegare. “Sui nodi si posizionano, venti pietre bianche (le pecore) e due nere (i puma): le pecore devono entrare almeno in nove nell’ovile (il quadrato più meridionale) dove stanno in agguato i puma. Le pecore possono muoversi un nodo per volta, solo lungo i segmenti orizzontali e verticali. I puma invece, possono spostarsi anche in diagonale e mangiare le pecore saltandole ed andando in un punto retrostante purché libero” concludi, e intanto hai raccolto sassolini e li hai posizionati in modo da iniziare il gioco. “Come nella dama” ride il rappresentante della multinazionale. “Sì,  anche se non si parte alla pari” ribatti: è un gioco con sproporzione di pedine a testimonianza delle disuguaglianze della vita. Molti deboli contro pochi potenti. “Vuole provare?” Ti sorprendi che lui accetti. Cominciate. La prima mossa tocca alle tue pecore che, come sacrificio, cominciano a farsi mangiare dai puma. Ogni tanto lanci un’occhiata ai manifestanti – Fernanda, Claudina, Ailin, Yanina, Dagma, il piccolo Nauhel con la maglietta del Boca, il vecchio Ramiro – che a un centinaio di metri si staranno chiedendo cosa diavolo fai. Magia! Le pecore hanno vinto. Mr Traherne non crede ai suoi occhi. Tossicchia, sospira, dice con voce strozzata che la società pagherà un indennizzo per l’uso dell’acqua della quebrada. Fai segno di no col capo. “El agua la vamos a defender, da qui non ci muoviamo” dici, ti volti e cammini verso la tua gente, facendo il segno della vittoria. Il colpo di pistola ti sorprende mentre sei a pochi metri dal tuo gruppo. Ti afflosci, colpita alla schiena. Alla tv diranno che eri una terrorista caduta in un enfrentamiento.

Nel 2025 ti chiami Isca, hai dieci anni, la pelle scura della tua nonna angolana. Nella polvere del cortile condominiale tracci con un bastoncino il disegno di dieci caselle da percorrere saltando, a partire dalla prima che si chiama “terra” fino all’ultima detta “cielo”. Ma ecco che irrompono tre ragazzetti per giocare a calcio. Due tiri e già il pallone rimbalza con fracasso sulla serranda di un garage. Da una finestra del terzo piano si affaccia un vecchio sacramentando che fino alle quattro del pomeriggio vige il silenzio. Mugugnando, i tre escono dal cortile. Isca contempla sconsolata ciò che resta del suo disegno calpestato e pazientemente si mette a rifarlo. Ha quasi finito quando due motorini entrano nel cortile strombazzando. Dall’alto il solito inquilino grida che non se ne può più: “Bastardi! Un giorno di questi vi ammazzo!”. E i due rispondono a insulti, godono a scorticare i nervi del vecchio, poi sgommano via. Cerchi nella polvere le tracce su cui sono passate le gomme dei motorini e sospirando ricominci da capo. Intanto si sentono suonare le quattro e, come a un segnale, i ragazzetti del pallone tornano nel cortile, costringendoti a rifare il disegno più in là, mentre ricominciano i tiri, le urla, i colpi sulle serrande metalliche. Incurante di tutto, ti rimetti a disegnare le tue caselle. Ecco, ce l’hai fatta, parti, a ogni salto le tue dieci treccioline ondeggiano. Avanti su un piede solo, senza perdere l’equilibrio. “Maledetti, vi ammazzo!” strepita il vecchio del terzo piano. I ragazzi sghignazzano, si sentono forti ché ormai sono le quattro passate. Manca solo l’ultimo salto. “Vi faccio tacere io!” strilla il vecchio affacciandosi con un fucile. La detonazione scoppia nel momento preciso in cui raggiungi il cielo. È immenso il silenzio mentre cadi.

* Azione Atzeni- mode d’emploi

di

Gigliola Sulis e Francesco Forlani

‘E scoprirai quello che resta di un uomo, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui’. Sergio Atzeni, Il figlio di Bakunìn

Il 6 settembre del 1995, inghiottito dal mare come l’amato Fleba il Fenicio, Sergio Atzeni perdeva la vita nelle acque dell’isola di Carloforte. Sardo, appena quarantenne, era stato militante comunista, anarchico leader studentesco, impiegato insoddisfatto, sindacalista, pubblicista. Dopo la fuga dall’isola, tra l’Emilia e Torino, divenne correttore di bozze, lettore di manoscritti per case editrici, sontuoso traduttore – un testo su tutti: Texaco di Patrick Chamoiseau. Per tutta la vita fu intellettuale rigoroso, poeta e scrittore immaginifico, autore di romanzi-mondo come Apologo del giudice bandito, Il figlio di Bakunìn, Il quinto passo è l’addio, Passavamo sulla terra leggeri, e di una cascata di racconti tra cui Il demonio è cane bianco, I sogni della città bianca, e Bellas mariposas. Come nel Figlio di Bakunìn, pensando oggi a Sergio, ci chiediamo: che cosa resta di uno scrittore, dopo la sua morte, nella memoria e nelle parole altrui? Per rispondere a questa domanda, abbiamo invitato degli autori legati all’opera di Atzeni a dare nuova vita ai personaggi o ai luoghi o alle atmosfere della sua opera. Interpretando, riscrivendo, stravolgendo creativamente, in totale libertà. Un coro di voci diverse per una raccolta di racconti brevi, una rifrazione e moltiplicazione di frammenti post-atzeniani. Assolutamente vietata l’agiografia, e ‘massima penalità per chi si prende troppo sul serio’, come scriveva Sergio in uno dei suoi ultimi articoli per “L’ Unione Sarda”. Nasce così il gioco del discanto*, da intendere sia come far decantare delle buone pagine in nuove storie sia come costruzione di voci in forma di polifonia medievale.

*

Francesco Forlani ‘Nella Sardegna magica in cerca di Sergio Atzeni, “Reportage”, n.10, 2012, ripreso nel 2017 da Minima Moralia Gigliola Sulis, Chi era Sergio Atzeni?’, “Le parole e le cose”, 22 novembre 2012

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Nella terza guerra mondiale

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di Giorgio Mascitelli

Nella terza guerra mondiale (Deriveapprodi, Bologna, 2025, euro 15) è un libro a cura del collettivo politico ʃconnessioni precarie, che si propone tramite l’analisi di alcuni concetti chiave di esaminare la situazione internazionale individuando alcune linee di intervento politico dal basso nella situazione attuale. I concetti chiave individuati (transnazionale, Stato, militarismo, migranti, conflitti climatici, decoloniale, resistenza, strike the war) a cui corrispondono i vari capitoli vanno a formare un lessico politico che deve essere alla base dell’impegno per trasformare il presente.

Come si può capire da questi stessi lemmi, la riflessione sulla guerra intreccia una serie di temi salienti della contemporaneità. Proprio questa impostazione è funzionale ad abbandonare qualsiasi prospettiva geopolitica nell’affrontare il tema della guerra riportando al centro dell’attenzione il fatto che “nelle guerre definite mondiali la posta in gioco non è stata solo la lotta tra gli Stati per il predominio, ma in maniera altrettanto, se non più, rilevante il modo di esercitare il comando sul lavoro vivo”(p.12). Questo è il primo merito del libro perché il discorso geopolitico, sebbene resti un’analisi razionale rispetto a forme di spiegazione ideologiche o mitologiche come lo scontro di civiltà, finisce con l’oscurare l’aspetto strutturale, che è alla base della guerra mondiale, e in particolare quella guerra civile mondiale, analizzata con rigore da Maurizio Lazzarato, che il grande capitale ha cominciato contro le masse, ben prima che il conflitto coinvolgesse apertamente gli stati con l’invasione russa dell’Ucraina.

In questa prospettiva lo stato, che con la guerra sembra avere riacquistato una posizione di primo piano tramite il suo tradizionale ruolo di detentore del potere militare, dopo che la globalizzazione ne aveva messo in crisi il ruolo di garante dei processi di accumulazione dei profitti, si trova in realtà in una situazione di disarticolazione, qui chiamata disallineamento tra stato e capitale, nel quale il primo non riesce pienamente a essere funzionale agli interessi del secondo, che muta forma nella nuova situazione bellica. Ad esempio l’intervento nel 2023 per salvare alcune banche statunitensi da una nuova crisi finanziaria, coordinato tra stato e la banca privata J.P. Morgan, come del resto su un altro piano dell’azione statale il ruolo di Starlinks nella guerra in Ucraina, è una testimonianza di questo rapporto diverso rispetto al passato tra stato e capitalismo privato.

Il militarismo a sua volta viene individuato non come semplice ideologia bellica, che prelude a un’involuzione autoritaria della società sia nei suoi aspetti politici sia in quelli sociali (donne, lgbqt, migranti), ma come regolatore politico che “dà forma a politiche industriali e sociali che ridefiniscono le condizioni della produzione e della riproduzione e i rapporti di forza tra capitale e lavoro” (p.50). E qui è possibile notare uno scarto netto con la fase della globalizzazione, dove nonostante la serie delle guerre umanitarie, l’autorappresentazione ideologica era quella della fine della storia e di un mondo pacificato tramite il neoliberismo, mentre ora il principio della guerra e le sue eccezioni allo stato di diritto vengono rivendicati.

La guerra investe anche l’emergenza ambientale destrutturando o sospendendo le politiche di transizione verde. Queste politiche già in precedenza erano volte alla costruzione di “una grande fabbrica pulita internazionale” ossia al mantenimento delle logiche produttive capitalistiche globalizzanti, che sono alla base della crisi ambientale e dello sfruttamento dei lavoratori, mentre oggi si assiste a un ritorno, con il riarmo, del capitalismo tradizionale e a un interventismo dello stato, in un quadro in cui il movimento ambientalista tende a disperdersi in lotte frammentarie e incapaci di costruire connessioni stabili.

In un quadro di terza guerra mondiale a pezzi, per usare la perspicua formula bergogliana, dove quindi le linee di conflitto sono più articolare e intrecciate e, in una parola, meno chiare rispetto ai due conflitti mondiali precedenti, se non altro perché tra i paesi del G7 e quelli dei Brics non sussiste uno stato di guerra aperta, ma tutt’al più per procura secondo modalità da guerra fredda, anche la nozione di decoloniale deve essere rideclinata. Secondo gli autori “a differenza della rottura decoloniale dei primi anni Novanta, il discorso decoloniale alimenta le divisioni belliche in campo, ma ha smesso di produrre crepe all’interno del tentativo di comando globale sul lavoro vivo che la Terza guerra mondiale punta violentemente a riaffermare” (p.79); in altre parole, rispetto alla fase della globalizzazione, in cui i movimenti decoloniali esercitavano un ruolo diretto di critica dell’organizzazione capitalistica, la guerra ha messo in primo piano posizioni nazionaliste che non svolgono più una contestazione all’ordine globale, ma si posizionano all’interno della logica bellica magari a sostegno dei capitalismi emergenti scambiati per resistenze all’imperialismo occidentale. E’ insomma il rischio del campismo (il termine indica il sostegno a regimi autoritari, retrivi e a loro volta capitalistici semplicemente perché generano l’illusione che siano forze anticapitaliste per il solo fatto di essere antioccidentali) quello che viene paventato. E’ indubbio, sul piano storico, che il movimento no global, che a Genova nel 2001 aveva espresso un suo punto alto, fu messo in crisi dalla guerra promossa da Bush dopo l’attentato alle Due Torri, così come l’affermazione sulla scena mondiale di potenze non occidentali che puntano a un mondo multipolare, in primo luogo la Russia putiniana, non coincide certo con uno sviluppo di forze democratiche né tanto meno antimperialiste. D’altra parte l’ascesa di Cina, India, Brasile e in misura minore Sudafrica, basti pensare all’espansione cinese di Africa a colpi di accordi commerciali, ha portato rispetto a trent’anni fa a un parziale ridirezionamento della ricchezza verso i paesi del Sud, anche se ha fatto nascere all’interno dei singoli paesi una borghesia nazionale (e nazionalista) e quindi una questione sociale che pone la necessità di una radicale ridistribuzione all’interno di quelle stesse società. D’altra parte sappiamo grazie a Piketty che l’economia occidentale  oggi è essenzialmente un’economia della rendita finanziaria, la quale per funzionare ha bisogno di una moneta di riferimento internazionale, che a sua volta diventa tale sia per un primato economico sia politicomilitare del paese che la emette ossia degli Stati Uniti, ed è evidente che linee alternative, specie se globali, di distribuzione della ricchezza mettono in discussione tale primato. E la guerra, insieme a politiche economiche aggressive (dazi, dumping, attacco ai debiti pubblici), è uno degli strumenti del suo mantenimento.

Nella prospettiva, giustamente evocata dal libro, di uno sciopero generale transnazionale contro la guerra è dunque importante disporre di un’analisi puntuale delle origini del conflitto per costruire una piattaforma politica con risposte all’altezza delle domande che la situazione pone. E non vi è dubbio che questo libro porti un contributo importante in tal senso, anche da un punto di vista metodologico in quanto la scelta di costruire un lessico politico della Terza guerra mondiale si rivela feconda per il lettore mettendo in luce sconvolgimenti e cambiamenti che lo scenario produce sulle grandi questioni dell’agenda politica contemporanea.

Strani Disegni (Einaudi) – recensione di Niccolo’ Vittorio Pasetti

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I due volti dello struzzo

Breve analisi del “fenomeno Strani disegni”

[@einaudieditore su Instagram, 24 giugno 2025]
Leggilooooooooooooooooooo.
“Strani disegni” è in libreria.
Lo ha scritto Uketsu (@uketsu_ ) e Stefano Lo Cigno (@steflcgn) lo ha tradotto.

Sfondo nero. Lo struzzo di Einaudi in bianco, con una maschera senza lineamenti. Maschere, struzzi, maschere. “Strani disegni” in verde acido.

[Roberto Saviano Official su YouTube, 27 giugno 2025]
E così mi sono imbattuto in questo performer, youtuber, scrittore giapponese. Uketsu. Senza volto, o meglio: indossa questa maschera. […] Mi ha incuriosito subito perché ho pensato a Miyazaki, all’uomo senza volto di Miyazaki. […]
L’horror di Uketsu si trasforma in atto artistico, che non vuole soltanto intrattenere, ma inquietare, muovere un pensiero.
[…] Il Teatro Nō, il Kuroko, sembra essere il riferimento evidente di Uketsu. […] Visto che conoscevo il personaggio, youtuber, ho diffidenza sui [sic] libri di chi fa video. […] Qui mi è sembrato talmente geniale il personaggio […] capace di descrivere l’incubo senza dover avere quella cifra tipica statunitense: l’incubo che mi deve far alzare i peli. […] Qui no, qui è far pensare.
[Libreria Feltrinelli di Pavia, 29 giugno 2025]
Prendo in mano il libro. Diciotto euro e cinquanta. Lo sfoglio, poi lo poso di nuovo sullo scaffale.
[Quarto piano di Casa Feltrinelli, 30 giugno 2025]
“Il problema della comunicazione editoriale è che si cerca di piegare il mezzo al contenuto. Se si vuole arrivare al grande pubblico, raggiungendo i giovani, bisogna saper parlare la loro lingua e quella del medium che li ospita. Sono pochi i casi in cui succede. Mi sembra che ci stia riuscendo Strani disegni, il romanzo uscito la scorsa settimana per Einaudi.”
“Lo hai comprato?”
“No.”
“E allora forse non funziona.”
“Però l’ho preso in mano.”
[Amazon, 8 luglio 2025]
Strani disegni è stato aggiunto al carrello. Grazie per il tuo ordine. Ti invieremo un’e-mail quando il tuo articolo sarà spedito.
[Whatsapp, 11 luglio 2025]
Immagine allegata: foto della copertina.
“Ne ho parlato ieri con le altre, volevamo comprarlo anche noi! Poi dimmi com’è.”
“Stasera te lo dico.”
[Aula del Master in Editoria, 14 luglio 2025]
“Nei prossimi giorni mi metto a scrivere qualcosa su Strani disegni.”
“Lo hai letto? Com’è?”
“… Mediocre.”
Ecco il succo. Il libro che “ha ridefinito i confini dell’inquietudine” è un testo mediocre. Non l’urlo di disgusto per il brutto, né il tremito della lingua che ammutolisce dinanzi al bello: la medietà ha pochi aggettivi, perché genera poco trasporto. In copertina c’è tuttavia uno struzzo, a cui si deve in fondo qualche parola, fosse anche per il fatto di non aver “mai nascosto la testa sotto la sabbia”.
Gli elementi fondamentali di un “thriller psicologico” sono due, senza che questa affermazione abbia un sapore definitorio: l’atmosfera e la verosimiglianza della trama. Si può forse dir meglio: atmosfera e verosimiglianza della trama sono ciò che distingue un libro mediocre da un buon libro, almeno per chi ai testi chiede qualcosa. Sull’atmosfera serve spendere qualche parola. Essa è ciò che accade sulla superficie delle parole, è la patina che vi si posa, il metallo delle concatenazioni sintattiche che si ossida e acquisisce riflessi cangianti. In breve, è l’idea gestaltica della maggior ricchezza del tutto rispetto all’insieme delle parti: si leggono parole neutre, quotidiane, e in virtù della loro collocazione queste ci appaiono come impregnate di un senso più ricco, che trascende il significato letterale.
Ma è sopra e tra le parole che si crea l’atmosfera, non al loro interno: ancora, è qui che si apre la faglia tra la buona narrativa e quella mediocre. Gli americani dicono show, don’t tell, come se fosse un precetto di Dio: io ritengo si debba dire “fa’ ciò che vuoi”, purché non mi si prescriva cosa percepire, soprattutto se non lo percepisco. Delle venticinque pagine che seguono l’introduzione di Strani disegni (pp. VII-X), circa quattordici sono occupate dalla trascrizione dei post del blog che fa da cornice alla trama. I personaggi discutono e riflettono dunque per una decina di pagine, immagini incluse. “Strano” ricorre sei volte; “sinistro” tre, di cui due tra pagina cinque e sette, nello spazio di due cartelle di testo; “paura” compare tre volte, una volta “pauroso”, una volta “inquietante”. Il risultato è un po’ grottesco, come spesso sono grottesche le reazioni dei creatori di contenuti sul web: chiunque sia cresciuto con YouTube e abbia imparato sulla propria pelle cosa valga la pena vedere, conosce il fenomeno dell’overreacting. Qui se ne ha una testimonianza scritta, deprecabile quand’anche si trattasse di uno stilema giapponese.
Messa da canto l’atmosfera, per verosimiglianza della trama intendo la sensazione suscitata nel lettore che l’articolarsi dei fatti sia coerente con il mondo finzionale in cui sono ambientati. In una Terra senza gravità (dunque fantastica, lontana dal reale), gli oggetti non cadono, e se lo fanno deve esserci una ragione che lo spieghi. Così, nella Tokyo dall’aspetto canonico che fa da sfondo al romanzo di Uketsu, le persone si incontrano, le vite si incrociano per caso: in sintesi, le coincidenze esistono. Ma la prerogativa di una coincidenza è la sorpresa, la sua rarità nel trascolorare senza volto degli eventi.
Chi scrive gialli è un tessitore. Seduto al telaio, tira i fili sapendo che si dovranno intrecciare: la narrazione si deve risolvere, deve emergere un disegno dalla trama. È un compito ingrato, perché il lettore vuole essere stupito nonostante se lo aspetti, ha comprato il libro per quello: una ventina di euro in media, non briciole, per qualche nodo ben ordito. Solo qualche nodo ben ordito, perché non tutto torna, né deve farlo. In gioco c’è la verosimiglianza della trama, la sensazione che non sia tutto perfetto a tal punto da sembrare irreale persino nella finzione.
Si può fare un esempio. Supponiamo di camminare in una città straniera e di incontrare un vecchio compagno di scuola. Lo salutiamo con entusiasmo, sorridendo del destino che ci ha condotti lì (“come è piccolo il mondo!”). Poniamo ora che quell’amico ci appaia durante il nostro viaggio successivo, e in quello dopo, e in quello dopo ancora, infinite volte: l’entusiasmo dei primi incontri si esaurirà presto, lasciando posto al fastidio, a una forma di straniamento. Se alla roulette esce sempre lo stesso colore è truccata, e giocare a un gioco truccato non è così divertente. Bene, nella finzione letteraria mi sembra accada lo stesso. Ogni volta che il meccanismo della verosimiglianza si inceppa, il lettore fa un passo indietro e aggrotta le sopracciglia: la realtà, anche quella più distante da noi, non funziona così.
Chiunque abbia letto il libro di Uketsu si renderà conto di averlo chiuso con in bocca il sapore implausibile delle scene finali, dove tutti i pezzi si appaiano e nulla va sprecato. Strani disegni si dà insomma in questo modo: tondo, artificioso e pertanto inverosimile.
Per fare un passo oltre si deve però dire qualcosa in più, perché un suono non è solo il contatto della corda con il martelletto: è anche la vibrazione che si diffonde nell’aria, che rimbalza sulle pareti, che prefigura la nota successiva e ritiene il silenzio che l’ha preceduta. E così il terremoto non è mero contatto tra due placche tettoniche, ma è il sismografo che oscilla, il lampadario che trema, i passi svelti della gente che si riversa in strada. In altre parole, un fenomeno è l’insieme di relazioni che si dipana da un nucleo, non un punto nello spazio. Più che la recensione del suo contenuto, allora, faremmo meglio a dire che è l’analisi del “fenomeno Strani disegni” a meritare un po’ di attenzione.
Uketsu è probabilmente un giovane sulla trentina. Aspirante mangaka senza successo, ripiega sulla scrittura, perché non disegna abbastanza bene. Apre un canale YouTube mentre è dipendente in un supermercato: la maschera, il costume e la voce alterata gli servono per non farsi riconoscere dai colleghi, verso i quali proverebbe vergogna. Forse per l’atteggiamento clownesco e weird, forse perché il travestimento sottrae dal pregiudizio, il giovane pubblico a cui si rivolge risponde subito con interesse.

In breve tempo accumula milioni di visualizzazioni e in Giappone, dove le persone sotto i quarant’anni non leggono più romanzi, Strani disegni vende oltre un milione e mezzo di copie.
Uketsu non è tuttavia scrittore più di quanto sia attore o regista: si limita a giocare con la forma-libro, allo stesso modo in cui gioca con la produzione video. Il medium è davvero un mezzo: egli crea a partire dal sostrato culturale che lo ha plasmato, con un linguaggio in cui immagini, testo e voce possono avere la stessa rilevanza, lo stesso valore. Poco importa che la gabbia di testo che riempie la pagina, con la purezza della sua linea e i rapporti definiti tra bianco e nero, diventi una cella “tutta lacera e rovinosa” in cui si innestano i disegni: se i giovani giapponesi non leggono, è perché non hanno affezione per l’oggetto-libro con i suoi abiti secolari. Cercano un intrattenimento che non somigli alla mano paterna delle generazioni passate che si allunga minacciosa su di loro. E Strani disegni non lo è: si fa romanzo, ma non è un romanzo in senso stretto. È un video su YouTube, una creepypasta su carta usomano. Proprio per questa ragione funziona, perché è un contenuto puro che s’intreccia a un mezzo.
Più o meno consapevolmente, Einaudi tutto ciò l’ha intuito. Lo si intende dalle scelte comunicative: i post con cui il libro è stato lanciato e promosso sono nello stile dell’autore, non nel canone degli editori. L’equazione è piuttosto immediata: se Uketsu sa rivolgersi ai giovani e ai giovani ci si vuole rivolgere, bisogna trovare i loro luoghi ed esprimersi con il loro stesso linguaggio. Facile a dirsi, bofonchieranno gli addetti ai lavori. Eppure, si consideri questo caso: degli ultimi venti video postati dal profilo TikTok della casa editrice, pochi superano le duemila visualizzazioni, e quelli che lo fanno, raramente arrivano alle cinquemila. Il video per il lancio di Strani disegni (quello menzionato in apertura) ne ha invece totalizzate quattro milioni e seicento mila, circa dieci volte in più rispetto al secondo video più visto sul profilo. Anche supponendo che una parte non sia organica, ma ottenuta tramite campagne a pagamento, è difficile immaginare un risultato più esplicativo.
Un’ultima osservazione. Poche righe più in alto si è usato “intuito”, e “intuito” non è “compreso”.
Oltre a essere il logo di una casa editrice generalista, lo struzzo Einaudi è ancora un simbolo, almeno per i discendenti di quei lettori che gli storici dell’editoria definiscono “pubblico Einaudi”. Se è dunque vero quanto si è detto, l’“aristocrazia intellettuale” einaudiana (con le parole di Gian Carlo Ferretti) non si lascia convincere da maschere e jingle interpretati dall’AI: ha bisogno di spessore, di profondità. Per questo la comunicazione di Strani disegni ha due facce. Da un lato la maschera di cartapesta di Uketsu, che con il suo linguaggio transmediale riesce a parlare ai giovani; dall’altro il volto noto e affidabile di Roberto Saviano, la cui autorevolezza deve convincere gli estimatori delle copertine bianche, deve persuaderli dell’idea che l’autore giapponese sia il nuovo non-volto della letteratura noir psicologica.
L’esito paradossale è che la cartapesta si mostra solida, l’intellettualismo piuttosto fragile. Su Strani disegni Saviano realizza un video (i cui punti salienti sono trascritti in apertura) e un’intervista per il “Corriere della Sera”. L’obiettivo è nobilitare Uketsu, incuriosendo il pubblico. Gli si pone allora sullo sfondo il teatro Nō, il valore culturale della maschera: lo si rende un critico acuto della modernità, con radici ben salde nella tradizione nipponica. Ma la sensazione è che non ci sia in Uketsu più teatro Nō di quanta critica crociana ci sia in questa analisi: se c’è, è mediato infinite volte, fluttuante in sospensione, di certo non “evidente”. Ancora, nessun immaginario consapevole in cui la maschera funge da tramite “tra il mondo dei vivi e il mondo degli spiriti che non trovano pace” (vestire i panni di un senza volto aiuta il processo creativo? Risposta: “Per quel che riguarda la mia professione di scrittore, no. Non l’ho mai percepita come un valore aggiunto.”). Tanto nel video quanto nell’intervista per il Corriere c’è più Saviano che Uketsu, più sovrainterpretazione che intenzione genuina, e la debolezza dell’approccio culturale alla comunicazione di prodotti come questo si mostra senza indugi.
Non serve neppure che lo si smascheri. L’anti-intellettualismo dell’autore giapponese è lì, manifesto:
“Molte persone vengono cresciute sentendosi dire che si deve leggere molto per diventare intelligenti.
[…] Io vorrei semplicemente dire loro che la lettura non è altro che un passatempo, qualcosa a cui dedicarsi in tutta tranquillità, senza pensare ad altro.” Chi ha letto Strani disegni convinto di sentirsi sferzato da un vento d’avanguardia storcerà il naso e svilupperà presto una forma di diffidenza verso i giudizi dei “volti noti”. In un panorama di influenze a pagamento, dei recensori ci si fida sempre meno e scelte come queste esacerbano la malattia.
Strani disegni non è un capolavoro, né fa “pensare” poi molto. Però, mentre gli scaffali s’affollano di libri-simulacri, di volti scintillanti di webstar che si spera vendano qualche migliaio di copie, Einaudi dà spazio a un personaggio per cui il libro non è merchandising, ma l’esito di un conatus produttivo. Uketsu è mediocre, ma scrive. Lunga vita a Uketsu.


Niccolò Vittorio Pasetti (1998) è laureato in Scienze Filosofiche all'Università di Milano e ha frequentato il Master in Editoria dell’Università Cattolica. Ha tradotto il saggio Rivoluzione ed evoluzione di L.I. Mečnikov (Massari Editore, 2025) e collabora con riviste accademiche e culturali.

Napoli, un ritorno

1

di Sara Marinelli

Su una bancarella di Napoli, al corso Umberto, si vendono blatte. Un euro l’una.
Camminando sul marciapiede affollato di turisti e ingombro di tavolini, venditori di cocco, granite di limone e souvenir, mi salta agli occhi un banco ricoperto di scarafaggi, con le antenne dritte e lunghe, i corpi piatti addossati gli uni sugli altri, alcuni capovolti a zampe all’aria, altri disposti nell’atto di arrampicarsi su per le assi del banco di vendita.
Ho distolto immediatamente lo sguardo e accelerato il passo per lasciarmi questo orrore alle spalle.

 

 

 

 

 

 

 

 

Non ho mai visto tante blatte ammucchiate assieme se non nel primo episodio della serie “L’amica geniale”, che ho seguito lontano da Napoli, negli Stati Uniti, dove vivo da molti anni. La scena degli scarafaggi, che a fiotti emergono dai tombini e si riversano per le strade del rione, velocissimi e con una destinazione ben precisa, la casa di Elena, mi aveva riportato a ciò che avevo rimosso. Nell’episodio le blatte avanzano determinate e compatte su per le scale del palazzo, si infilano sotto la porta di ingresso e invadono l’appartamento scorrendo come un fiume nero sul pavimento; poi salgono sul letto dei genitori di Elena, saltando sul corpo della madre addormentata, ed entrano nella sua bocca dischiusa nel sonno. Accompagnata da una musica che imita un ronzio aggressivo, la sequenza sintetizza in un minuto molte pagine del romanzo, nelle quali Elena narratrice ricorda i terrori della sua infanzia e del rione.

La vista delle blatte finte, la mattina dopo il mio arrivo a Napoli nell’afa di luglio, mentre mi recavo alla metro, angosciata dal confronto imminente con il corpo inerme e disfatto di mia madre malata — ha rimestato un terrore antico, e smosso vecchie e nuove tensioni dentro di me riguardo a questo ciclico, ma sempre diverso ritorno a Napoli, che si ripete da più di quindici anni. È stato come un allarme; un indizio che mi allertava su ciò che mi aspettava, su ciò che non avrei voluto vedere.

Nei giorni seguenti ho evitato di guardare attentamente per terra, ho ignorato i rifiuti accostati ai muri, ho scansato tutti i tombini, e non ho messo scarpe aperte. Trovarsi davanti a una blatta vera avrebbe esacerbato il mio disagio in questa visita a Napoli, la mia inquietudine di sentirmi impreparata davanti a una catastrofe.

L’impatto visivo delle blatte rimette in circolo alcune paure della mia infanzia a Napoli, degli anni in cui percepivo il mondo esterno come una minaccia. Una minaccia fatta di elementi intangibili — il terrorismo dei tardi anni ’70, il terremoto dell’80, gli uomini predatori di mia madre giovane vedova, o di me e mia sorella bambine orfane di padre — che credevamo di tenere fuori casa barricando la porta con un palo di ferro. Le blatte invece no. Erano la minaccia dentro casa, annidata negli angoli, sotto i mobili, dietro i battiscopa, nell’antro oscuro del lavello in cucina, il secchio della spazzatura, e — terrore supremo — sotto il letto. Erano la rivelazione che persino le pareti domestiche potevano tenere nascosto un pericolo sempre in agguato. Allora soffocavo qualsiasi bisogno notturno e rimanevo atterrita nel letto, aspettando che facesse giorno per usare il bagno o bere un bicchier d’acqua in cucina.

Mia sorella ed io ci chiedevamo da dove venissero gli scarafaggi se la sera prima ne avevamo trovato qualcuno stecchito dal DDT. Ci dicevano che “gli scarafaggi non si schiacciano”, ma allora non sapevamo esattamente perché. D’altronde, noi non avevamo il coraggio di schiacciarli. Soltanto l’idea di un contatto, seppure con la suola di una pantofola, ci faceva schifo. Il corpo spiaccicato di uno scarafaggio e le sue viscere erano intollerabili alla vista, così quanto lo era il suo corpo vivo, caratterizzato da quel movimento rapidissimo che scatenava tensione al solo colpo d’occhio. La loro velocità o la loro paralisi suscitavano il medesimo disgusto. E anche quando li vedevamo immobili e capovolti con le zampe all’aria, non ci sentivamo mai sicure: sembravano indistruttibili, o che avessero il potere di rinascere. Senza contare che una volta accertata la loro morte, avremmo poi dovuto sbarazzarci di quel corpo spregevole, il che significava avvicinarci, toccare con mano l’abietto. E dall’abietto, si sa, si tende a fuggire — sino a quando non si hanno gli strumenti per affrontarlo.

Adesso che ritorno nella stessa casa per accudire mia madre inferma, persino quei ricordi di bambina timorosa mi inteneriscono, perché allora lei era in piedi sulle sue gambe svelte e abbronzate, cercava suo malgrado di tenere me e mia sorella al sicuro dal mondo predatore esterno, e di trovare il modo di annientare le blatte, con la casa sempre pulita, accogliente, ordinata.

Perché allora mia madre era ancora madre e io figlia, e non viceversa.

E mentre mi muovo per la casa che è stata la mia casa, ma nella quale oggi mi sento fuori posto, vorrei tornare a quei momenti lì, a quelle sere d’estate in guerra con qualche blatta in cucina. Quando esisteva la salute di mia madre e tutto il tempo che lei aveva ancora davanti.

Questa è —forse — la mia unica nostalgia di emigrante, che ha imparato a non pensare tanto al passato, a concedersi una sorta di amnesia.

Ma la memoria involontaria si mette al lavoro senza chiedere permesso. In ogni mio ritorno a Napoli, frammenti del passato irrompono intorno a me. Frammenti ai quali talvolta non so esattamente che posto dare.
Come gli insetti in vendita che mi hanno colto di sorpresa, dai quali sono fuggita affrettando il passo quasi fossero veri, per il timore insensato che lo fossero, e che l’abietto potesse strisciarmi addosso. Che tutto ciò che mi fa male di Napoli potesse assalirmi.

In quel primo incontro sul corso Umberto, non ho osato fermarmi e guardarli in faccia quei simulacri. Poi ho riflettuto sulla mia reazione. E se ne comprassi un paio per appiccicarli sul pavimento della mia cucina a San Francisco in ricordo di ciò che è stato rimosso? Freud e Julia Kristeva ci hanno ben descritto le dinamiche scatenate dal perturbante e dall’abietto e gli espedienti per superarlo.

Così due giorni dopo vado dal venditore di blatte. Mi interessa capire cosa sta succedendo a Napoli e alle memorie che ho della città che trovo stravolta, alterata, intrappolata nella morsa di un turismo sfrenato che rasenta la follia. Fino ad almeno tre anni fa, nei miei ritorni, credevo che soltanto io fossi cambiata, che Napoli “non tanto”. Adesso non più. Adesso sono testimone di una metamorfosi in corso: il volto della città mi appare imbruttito sotto un trucco pesante, e la sua anima messa in vendita. Tutto è in vendita nel centro storico; la città stessa — coi suoi luoghi, i suoi archetipi, le sue culture — è una merce, svilita e trafficata in immagini e statuette ricordo.

Per le strade, noto una produzione smodata di calamite da frigo e oggetti senza valore. Molti turisti indossano la maglietta del Napoli col numero 10 e portano la faccia di Maradona sul petto. I ristoratori mi invitano a gustare la loro pizza, la pasta, lo spritz. Scuoto la testa; sbotto dicendo che non sono una turista. Napoli è riuscita a uniformarsi, a perdere la sua singolarità. Oggi si mostra come una città turistica uguale alle altre, forse con un tocco di follia in più, per il quale, in mezzo a questo suo grande mercato scoperto, si vendono pure le blatte.
Persino di una vecchia paura si è fatto un souvenir da bancarella.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

“Ma come le è venuta in mente quest’idea?” chiedo al venditore di blatte, che reagisce visibilmente seccato. Si allontana attraversando il marciapiede sul quale mi sembra che venda anche qualcos’altro, ma sono troppo presa dal suo rifiuto di parlarmi per notarlo veramente. Le blatte potrebbero essere la sua unica mercanzia.
“Non ci sta niente da dire. Se vuoi fotografare, fotografa”, mi dice burbero dal ciglio della strada.
Per un momento insisto: “Volevo sapere come vi è venuta l’idea.”
Poi la sua espressione contrariata mi dissuade. Scatto tre fotografie sorridendo sotto il suo sguardo perplesso, o meglio spazientito, e vado via.

Soltanto nella foto leggo ciò che ha scritto sulla bancarella: “Per scherzare con amici.”
Forse si tratta semplicemente di questo? Per esempio, infilare una blatta di plastica nella borsa di un’amica per vederla andare fuori di testa e urlare per strada? Da sempre gli uomini scherniscono le paure altrui. Forse si tratta soltanto di riderci sopra? O forse anche lo scarafaggio fa folklore napoletano? È diventato un simbolo di Napoli, “un ricordino” — come la pizza, il corno rosso e Pulcinella.

A pensarci bene, il turismo è una grande festa per le blatte. Che sia anche per questo che le loro colonie sono cresciute fortificate? Non potendole debellare, se ne fa ironicamente un souvenir. Del resto c’è una discrepanza, sempre più accentuata, tra quello che Napoli è per chi ci vive e per chi la visita; tra lo scarafaggio vero — memoria degli anni decadenti della città, quando ad esso si associava sporcizia, spazzatura, o povertà (che ne facevano meta da evitare) — e la sua copia, un memento come un altro. C’è una discrepanza tra ciò che si è e ciò che si vuole esibire; e nell’epoca dell’esibizionismo sfrenato dei social, anche uno scatto fotografico alle blatte di Napoli, che siano vere o da bancarella, desta stupore, attira “Mi piace.”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

I napoletani hanno sempre scherzato sulle blatte.
“Ogni scarrafone è bell’ a mamma soja” — “Ogni scarafaggio è bello per la propria madre,” recita un proverbio che ci ha fatto sempre ridere.
Da ragazzine, io e mia sorella ci raccontavamo questa barzelletta:
Il bambino dice al padre: “Papà, papà, ma le olive nere camminano?”
“No,” risponde il padre.
“Azz! Allora mi sono mangiato uno scarafaggio!”

Molti anni dopo, in un mercato di Oaxaca, Messico, ho mangiato le chapulines. Non si tratta di scarafaggi, ma di un tipo di cavallette che vengono tostate e condite con aglio, succo di limo, e sale di verme d’agave, e comunemente servite come snack. Tuttavia dinanzi alle montagne di insetti neri, somiglianti alle blatte per via delle antenne, zampette, e ali, e la loro abilità di strisciare o saltare, ho provato la stessa ripugnanza. Ma non assaggiarle sarebbe stato privarmi di un’esperienza singolare non soltanto culinaria (sapevo che le chapulines sono croccanti e saporite grazie alle spezie, oltre che ricche di fibre e proteine), ma di una prova di coraggio, di superamento del ribrezzo verso gli insetti scuri con antenne e zampe che provavo sin da bambina. Ho quindi mangiato le cavallette più di una volta in quel viaggio in Messico, e l’ho fatto con leggerezza, divertimento e anche orgoglio. Nel masticare e ingoiare quegli insetti, sentivo che stavo affrontando una mia repulsione e addomesticando una mia paura.

 

 

 

 

 

 

 

 

Ma c’è una differenza.
Non ho mangiato una blatta, come la protagonista del romanzo di Clarice Lispector, La passione secondo G.H., che dopo averne schiacciata una nell’anta dell’armadio, ne assaggia la materia lattiginosa che fuoriesce dal ventre. Né mi sono imbattuta in una colonia di blatte vere sul corso Umberto a Napoli. Come per G. H. nel noto romanzo della scrittrice brasiliana (e per soltanto richiamare alla mente l’allegoria de La metamorfosi senza scomodare troppo Kafka), l’incontro con l’abietto rappresentato dalla blatta è però bastato a insinuarsi nelle mie riflessioni su di me e il mio ritorno, sul rapporto con le memorie, con la casa che ho lasciato e che ritrovo in un’altra fase della vita, quella dolorosa della malattia e del declino di mia madre. Ha portato alla luce il mio malessere nascosto — o che tento di nascondere — in questa visita a Napoli non da turista ma da donna ormai un po’ straniera nei propri “ritorni” sempre più cruciali, più primordiali.
Ritorni più vicini, o più stretti, a chi e da dove è partito tutto.
All’origine che non riconosco più.

L’Événement di Ernaux al cinema: come non tradurre il trauma

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[Sull’ultimo numero della rivista «L’ospite ingrato» è stato pubblicato un dossier dal titolo “Tradurre il trauma”, a cura di Giulia Marcucci e mia, con interventi di Tiphaine Samoyault, Domitilla Cataldi, Matteo Lefèvre, Simona Škrabec, Franca Cavagnoli, Laura Salmon, Renata Morresi, Nicoletta Pesaro, Silvia Pozzi e delle curatrici. Nel giorno di chiusura di questa edizione del Festival del cinema di Venezia, presento due stralci dell’articolo in cui ho analizzato il film che Audrey Diwan aveva tratto da L’Événement di Annie Ernaux e che le era valso il Leone d’oro nel 2021. L’intero numero della rivista è in open access qui. ot]

 

di Ornella Tajani

Introduzione: «Que L’Événement devienne écrit»

«Mon double vœu: que l’événement devienne écrit. Et que l’écrit soit événement»: inizia così L’Événement[1], con questo esergo di Michel Leiris che, come una cometa, traccia una delle cifre interpretative dell’opera di Annie Ernaux. Scrivere significa per lei portare a compimento ciò che si è vissuto, andare fino in fondo alle cose, realizzando inoltre quel salto dal particolare all’universale che caratterizza la sua costellazione di testi autosociobiografici. È uno dei motivi per i quali il racconto dell’aborto clandestino subìto nel 1963, ai tempi in cui l’interruzione di gravidanza era illegale, non si intitola semplicemente «L’aborto»: «“L’Événement”, et non “l’avortement”: entre les deux il y a la distance entre l’universel et le singulier»[2]. Cogliere questo aspetto dell’opera di Ernaux è essenziale: la sua scrittura muove dalla doppia condizione di donna e di transfuge de classe[3], il suo è un «je transpersonnel» che mira sì a raccontare la propria esperienza, ma iscrivendola nella traiettoria storica e sociale di una collettività.

L’episodio dell’aborto è trattato dall’autrice a più riprese: a partire dal suo primo romanzo, Les armoires vides, opera di impianto finzionale, fino a L’Événement, in cui ne ripercorre le tappe ormai senza più filtri, attraverso l’«écriture de la distance»[4] inaugurata con La place; i riferimenti a quelle traumatiche settimane affiorano però anche altrove, ad esempio nel più recente Le jeune homme, in cui la narratrice ormai cinquantenne, travolta dalla relazione passionale con un ragazzo molto più giovane, annota che l’appartamento di Rouen in cui fanno l’amore si trova di fronte all’ospedale in cui era stata all’epoca ricoverata. In effetti, quella di Ernaux è definibile come una «poetica del ritorno»[5]: non solo rispetto ai contenuti (il ritorno alle origini, il ritorno su ciò che è stato), ma anche rispetto alla forma: ripercorrere i medesimi avvenimenti, «mais jamais de la même manière»[6], costituisce per lei uno degli obiettivi della scrittura, unico possibile «accomplissement» del vissuto.

Questa insistenza, questa necessità di affrontare un nodo del passato, testimonia già il carattere traumatico dell’esperienza dell’aborto, qualcosa che per lei era diventata «la mesure de toute chose»[7]: non riuscire a liberarsi di una gravidanza indesiderata rappresentava la fine del suo sogno di emancipazione sociale e di un’esistenza in cui poter ricercare liberamente il proprio piacere. L’asciuttezza della prosa, la crudezza di alcune immagini, unite al consueto metadiscorso attraverso cui l’autrice mostra le difficoltà di scrittura in cui incorre, scuotono chi legge e restituiscono con forza la drammaticità dell’accaduto.

[…]

 

Dal racconto al film di Audrey Diwan

Nel 2021 il film eponimo L’Événement di Audrey Diwan vince il Leone d’oro alla 78esima edizione della Mostra di Venezia, un successo celebrato dalla stessa Ernaux, che con la regista ha dialogato durante la stesura del progetto e insieme a lei ha preso parte a occasioni pubbliche di presentazione[8]. La critica ha complessivamente lodato l’aderenza del prodotto cinematografico al testo letterario, esaltando ad esempio il modo di trasporre su schermo l’asciuttezza della prosa ernausiana, o apprezzando l’insistenza della telecamera sul corpo dell’attrice protagonista (Anamaria Vartolomei), che ben tradurrebbe la sofferenza patita dalla narratrice[9]. La tesi esposta in questo articolo va però in un’altra direzione: la visione del film sembra infatti produrre un effetto[10] consistentemente diverso dalla lettura del libro, in particolare rispetto alla traumaticità dell’evento raccontato, che ne risulta indebolita; alcune scelte della regista, inoltre, espungono elementi del récit che, lungi dal costituire piccoli dettagli, condensano in sé aspetti rilevanti della poetica di Ernaux.

Nel racconto l’agenda tenuta a quel tempo – così come, altrove, i fondamentali diari, che spesso servono all’autrice come documento della memoria, e che di frequente si innestano nella scrittura prettamente letteraria – fornisce degli appunti essenziali, che Ernaux commenta nel testo, producendo il metadiscorso già menzionato. Nell’agenda la gravidanza non è mai nominata come tale: le espressioni generiche che in L’Événement l’autrice usa per farvi riferimento tradiscono la voglia di tenere a distanza quanto sta accadendo («ça», «cette chose-là»). L’unico momento in cui compare il termine «incinta» è sintomatico: dopo che il medico mette al corrente la ragazza del suo stato, lei torna a casa e annota «Je suis enceinte. C’est l’horreur»[11].

Che cosa succede dopo? La protagonista racconta il tempo che si ferma su quella che è un’unica ossessione: trovare il modo di abortire. Chiede aiuto a un compagno di corso, il quale promette di metterla in contatto con un’amica che ha il nome di una faiseuse d’anges, di una mammana; intanto la protagonista si rivolge a dei medici, chiedendo aiuto e non ricevendone mai. Non riesce più a scrivere, a lavorare alla tesi. La sua percezione del tempo è descritta così: «l’interminable lenteur d’un temps qui s’épaississait sans avancer, comme celui des rêves»[12]. Una sera racconta di essere uscita:

Lors d’une soirée à la Faluche où je m’étais rendue avec des filles de la cité, j’ai éprouvé du désir pour le garçon, blond et doux, avec qui je dansais continuellement depuis le début. C’était la première fois depuis que je me savais enceinte. Rien n’empêchait donc un sexe de se tendre et de s’ouvrir, même quand il y avait déjà dans le ventre un embryon qui recevrait sans broncher une giclée de sperme inconnu. Dans l’agenda, «Dansé avec un garçon romantique, mais je n’ai pas pu faire quoi que ce soit».[13]

La sottolineatura è dell’autrice: presente nell’agenda, viene riportata nel testo. Non è un dettaglio di poco conto; alcune pagine prima la protagonista ha rifiutato l’avance dell’amico a cui ha chiesto aiuto, attribuendo a lui l’idea che ormai si potesse “approfittare” del suo stato, essendo il danno già fatto.

Nell’estratto citato sembrerebbe che questo pensiero si sia fatto strada dentro di sé, ma poi, davanti alla possibilità di un rapporto con il ragazzo biondo e gentile che le piace, la narratrice annota nell’agenda «je n’ai pas pu». Il corpo, ormai posseduto da una gravidanza non voluta, traumatizzato dalla prigionia che sta vivendo, non può più rispondere al desiderio.

Che cosa accade nel film? Questa incapacità del corpo di godere non è rappresentata. Fra i vari elementi e personaggi introdotti ex novo dalla regista, c’è la figura di un pompiere biondo, che Anne incontra più volte, e con il quale sceglie di fare l’amore appena uscita dal locale che corrisponde in tutto alla Faluche nominata da Ernaux. Nel film la scena dell’abbordaggio dura più di 2 minuti, all’interno dei quali oltre un minuto è riservato esclusivamente all’amplesso[14], consumato in piedi contro una parete: la mimica facciale e i gemiti della protagonista non lasciano spazio ad alcuna ambiguità sul godimento che il rapporto le provoca. L’erotismo complessivo della scena, inoltre, non può che essere una scelta deliberata della regista. Eccone due fotogrammi nell’intervallo 1.08.30-1.09.40.

È chiaro che non si tratta del medesimo episodio narrato da Ernaux: come già detto, la figura del pompiere nel libro non esiste. Pur tuttavia la comparazione è inevitabile, perché laddove nel libro è evocata l’assenza di un rapporto sessuale desiderato, cioè l’incapacità del corpo traumatizzato di sbrigliarsi dalla coscienza, parafrasando un titolo di Susan Sontag, per poter godere, una incapacità addirittura sottolineata tipograficamente dall’autrice, nel film vediamo invece la protagonista del tutto padrona del proprio desiderio, addirittura in grado di indirizzarlo verbalmente nell’atto dell’amplesso, tramite piccole indicazioni proferite al ragazzo sulle sue preferenze. L’esperienza traumatica che sta vivendo, e di cui l’autrice nel libro constata e registra le tracce, nel film viene obliterata. Sembrerebbe che nella trasposizione di Diwan sia appunto il corpo a non essere ascoltato, benché continuamente esibito.

Nel racconto è peraltro indicativo il modo in cui Ernaux evoca invece il rapporto realmente avvenuto con l’uomo che l’ha messa incinta e che lei raggiunge in una località di mare, trattenendosi qualche giorno:

Nous faisions peu l’amour, et rapidement, ne profitant pas de l’avantage que procurait mon état – le mal était fait – pas plus sans doute que le chômeur ne profite du temps et de la liberté que lui accorde l’absence de travail, ou le malade perdu de la permission de manger et boire de tout.[15]

L’amore fisico è evocato come un atto sbrigativo e privo di coinvolgimento, ben lontano cioè dal godimento cui si assiste su schermo. Un godimento che, nella cornice temporale del racconto, resta impossibile persino nelle ultime pagine, dopo che il raschiamento è stato completato:

Un après-midi, j’ai suivi un étudiant en médecine, Gérard H., dans sa chambre de la rue Bouquet. Il a enlevé mon pull et mon soutien-gorge, je voyais mes seins menus et affaissés – ils avaient été pleins de lait deux semaines avant. J’aurais voulu lui parler de cela et de Mme P.-R. Je n’ai plus rien désiré avec ce garçon. Nous avons seulement mangé du cake que sa mère lui avait confectionné.[16]

L’atto sessuale, ancora ingestibile dopo il trauma, è sostituito dalla merenda pomeridiana preparata dalla madre del compagno d’università, quasi seguendo un moto di regressione all’infanzia.

Come mai Diwan ha voluto introdurre la scena sopra descritta, a fronte di una così flagrante assenza nel libro di Ernaux? Non può trattarsi di una disattenzione – è, piuttosto, una deliberata risignificazione[17]. Una risignificazione che si riallaccia all’idea di fare un film politico non solo sul diritto all’aborto, ma anche sulla ricerca del piacere, come la regista ha dichiarato: «il y a deux choses qui m’intéressaient particulièrement. L’avortement bien sûr, mais je ne voulais pas que le sujet englobe le film. L’autre dimension à traiter c’est celle du plaisir»[18]; lo intuiamo anche dall’aggiunta di una scena di masturbazione condivisa fra amiche. Per quanto la rivendicazione del piacere femminile sia una costante nell’opera di Ernaux (Diwan dice di aver introdotto nel film elementi ispirati anche da altri libri dell’autrice)[19], l’aggiunta della compiuta scena di sesso, a fronte dell’incompiutezza, dell’impossibilità registrata nel libro, indebolisce consistentemente il carattere traumatico del racconto. E, se è vero che Ernaux parla di masturbazione nella sua opera, lo fa in maniera lapidaria, scrivendo ad esempio, in Les années: «Monter en ville, rêver, se faire jouir et attendre, résumé possible d’une adolescence de province»[20]. La dimensione del piacere è sempre privata, segreta, perché condannata dalla morale comune; non è mai condivisa, come invece, più “modernamente”, vediamo nel film. Peraltro, in interviste e recensioni al film[21] si cita la traumatica solitudine in cui affonda la protagonista, com’è verissimo nel libro[22], ma nell’adattamento cinematografico questa dimensione solitaria, seppur rivendicata dalla regista, non traspare: c’è spazio persino per una scena di complicità ridanciana insieme ai genitori.

È forse questo intento più o meno esplicitato di “modernizzazione”, o di occultata contestualizzazione[23], che porta la regista a espungere qualche dettaglio non solo storico[24], ma anche sociale; e, come accennavo prima, senza la componente autosociobiografica l’opera di Ernaux risulta snaturata[25].

[Continua qui]

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Note

[1] A. Ernaux, L’Événement, in Écrire la vie, Paris, Gallimard, «Quarto», 2011, p. 270.

[2] A. Ernaux, Sur L’Événement, 2000, in P.-L. Fort (a cura di), Annie Ernaux, Paris, L’Herne, 2022, p. 98.

[3] A. Ernaux, L’écriture comme un couteau. Entretien avec Frédéric-Yves Jeannet, Paris, Gallimard, «Folio», 2011, p. 95.

[4] È con questa definizione che l’autrice ha sostituito in tempi recenti la formula inizialmente impiegata, e tuttora più diffusa, di écriture plate: A. Ernaux, Raisons d’écrire, in J. Dubois, P. Durand, Y. Winkin (a cura di), Le symbolique et le social. La réception internationale de la pensée de Pierre Bourdieu, Liège, Presses universitaires de Liège, 2015, p. 363.

[5] Approfondisco questa questione nel volume Scrivere la distanza. Forme autobiografiche nell’opera di Annie Ernaux, Venezia, Marsilio, 2025

[6] A. Ernaux, L’écriture comme un couteau, cit., p. 45.

[7] A. Ernaux, Sur L’Événement, 2000, cit., p. 98. Già un appunto nel diario del 1989 palesava il carattere traumatico dell’episodio vissuto: «Rêvé que j’avais un enfant, je le tenais dans mes bras, le montrais à la Châtaigneraie à tous les kinés. Puis je le laissais sur une table quelques secondes. Hurlement. Je le découvre le cou cassé et il est alors plus petit qu’une main. Je sais qu’il va mourir. En écrivant cela, je pleure et je sais que je “revis” mon avortement, et c’est l’insoutenable à nouveau», cfr. Se perdre, in A. Ernaux, Écrire la vie, cit., p. 744. Sull’importanza dei sogni rispetto all’aborto subìto ritornerò più avanti.

[8] Per esempio O. Gesbert, Annie Ernaux et Audrey Diwan font l’événement, «La grande table culture», 22 novembre 2021, https://www.radiofrance.fr/franceculture/podcasts/la-grande-table-culture/annie-ernaux-et-audrey-diwan-font-l-evenement-3153062.

[9] A titolo di esempio, si vedano: S. Grassin, «L’Evénement», mon corps, mon choix, «Le Nouvel Obs», 30 agosto 2022, https://www.nouvelobs.com/ce-soir-a-la-tv/20220830.OBS62548/l-evenement-mon-corps-mon-choix.html; R. Manassero, La scelta di Anne – L’événement, un film bello, durissimo, giusto, «Repubblica», 2 gennaio 2024, https://www.repubblica.it/spettacoli/mymovies-one/2024/01/02/news/la_scelta_di_anne_-_levenement_in_streaming_su_mymovies_one-421795877/; M. A. Bertuna, Audrey Diwan, La scelta di Anne – L’Événement, «Arabeschi», n. 18, luglio-dicembre 2021, http://www.arabeschi.it/audrey-diwan-la-scelta-di-anne–lvcnement/. Non sono mancate, tuttavia, voci fuori dal coro: A. Moussa, Sans voix, sans regard, «Critikat», 23 novembre 2021, https://www.critikat.com/actualite-cine/critique/levenement/.

[10] Utilizzo per ora un termine chiave della traduttologia di Jean-René Ladmiral, incentrata sulla traduzione letteraria interlinguistica; più avanti lo ricollegherò a categorie specifiche della traduzione intersemiotica.

[11] A. Ernaux, L’Événement, cit., p. 276.

[12] Ivi, p. 287.

[13] Ivi, p. 289.

[14] Una durata non irrisoria in un film di 100 minuti complessivi.

[15] A. Ernaux, L’Événement, cit., p. 296.

[16] Ivi, p. 316-7.

[17] Umberto Eco avrebbe forse parlato di «manipolazione»: U. Eco, Dire quasi la stessa cosa, Milano, Bompiani, 2003, pp. 325-326.

[18] G. Coutaut, Entretien avec Audrey Diwan, «Le Polyester», 14 ottobre 2021, https://lepolyester.com/entretien-avec-audrey-diwan/; sottolineatura mia.

[19] Ibid.

[20] A. Ernaux, Les années, in Écrire la vie, cit., p. 958.

[21] Ad esempio in J. Dougherty, L’événement from Page to Screen: Annie Ernaux, Audrey Diwan and the Subversion of Patriarchal Authority, «Imaginaries. Films, Fictions, and Other Representations of French-Speaking Worlds», https://h-france.net/imaginaries/all-issues/volume-13-issue-1-spring-2023/levenement-from-page-to-screen-annie-ernaux-audrey-diwan-and-the-subversion-of-patriarchal-authority/.

[22] «Dans le milieu universitaire, les deux filles que je considérais comme mes amies n’étaient plus là. L’une se trouvait au sanatorium des étudiants de Saint-Hilaire-du-Touvet, l’autre préparait un diplôme de psychologue scolaire à Paris». A. Ernaux, L’Événement, cit., p. 292.

[23] È una scelta rivendicata dalla regista, si veda O. Gesbert, Annie Ernaux et Audrey Diwan font l’événement, cit.

[24] Il riferimento all’assassinio di Kennedy, ad esempio: A. Ernaux, L’Événement, cit., p. 277.

[25] «Les différents aspects de mon travail ne peuvent pas être dépouillés de cette dimension politique»: A. Ernaux, L’écriture comme un couteau, cit., p. 74.

Il 6 settembre in piazza per Gaza

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Domani, sabato 6 settembre, si tiene una giornata di mobilitazione convocata dalla Cgil in numerose piazze italiane per chiedere lo stop al massacro di civili a Gaza e nei territori occupati della Palestina. Qui l’elenco di tutti gli appuntamenti. “Il governo italiano deve schierarsi dalla parte della pace, della giustizia e del diritto internazionale”, sostiene la confederazione, denunciando la “barbarie in corso” e chiedendo un intervento immediato della comunità internazionale.

A Reggio Emilia, nell’ambito del Festival nazionale di Emergency, un corteo, con la partecipazione di Maurizio Landini, partirà alle 16.30 da via Roma e arriverà in piazza Martiri del 7 luglio. A Roma la manifestazione si terrà in piazza del Campidoglio alle 18.

“Violazioni gravissime del diritto umanitario”

La Cgil denuncia che a Gaza e in Cisgiordania si sta consumando “una delle più gravi negazioni del diritto umanitario e internazionale”. “Non possiamo più accettare che vengano uccisi impunemente bambini, donne, operatori umanitari, sanitari e giornalisti e che continui la distruzione delle infrastrutture civili rimaste, a partire da ospedali e scuole”, afferma il sindacato. Secondo la Confederazione, il protrarsi dell’assedio e la nuova escalation militare rischiano di trasformarsi in un piano di deportazione: “Lo sfollamento della popolazione palestinese in campi profughi privi di sicurezza, cibo e cure” al fine di “poi rioccupare il territorio”.

L’appello internazionale

Da qui l’appello rivolto alla comunità internazionale: “Non possiamo rimanere in silenzio. Non possiamo permettere che ciò avvenga sotto i nostri occhi. Non è più il tempo delle parole”. Ai governi democratici, agli Stati membri delle Nazioni Unite e ai firmatari delle convenzioni sui diritti umani, la Cgil chiede un intervento immediato per fermare quella che definisce “una barbarie”. Tra le rivendicazioni: stop alla fornitura di armi, cessate il fuoco immediato, ingresso senza restrizioni degli aiuti umanitari, liberazione degli ostaggi e dei prigionieri politici, riconoscimento dello Stato di Palestina, fine dell’occupazione, interruzione del commercio con gli insediamenti illegali e rafforzamento delle istituzioni democratiche come base per una pace duratura.

L’impegno umanitario

La Cgil esprime pieno sostegno all’azione umanitaria e nonviolenta promossa dalla Global Sumud Flotilla, nata dal basso per spezzare l’embargo e l’isolamento che soffocano la popolazione palestinese. “Abbiamo inviato due container di beni di prima necessità, finanziato la produzione di verdure coltivate a Gaza da associazioni di donne palestinesi e distribuite nel campo profughi Al Amal Al Taawony”, spiega il sindacato. Inoltre, grazie alla collaborazione con l’Associazione delle Ong Italiane e il Ciss di Palermo, saranno acquistati e distribuiti “pacchi famiglia e pasti caldi per circa mille nuclei”.

Per aderire alla raccolta fondi:
Cgil – Confederazione Generale Italiana del Lavoro
IBAN: IT42S0103003201000002774730
Causale: Aiuti umanitari Gaza

Lettera a un giovane poeta (reload)

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Lettera a un giovane poeta

di

Giampiero Spinelli

Egregio quasi dott. Carrieri, chiuso l’egregio, ti do del tu, ché sei più piccolo di mia figlia. Ma altrettanto ti chiedo di fare con me, perché non so se abbia ancora un senso fondare il rispetto tra esseri umani sull’età, come facevano gli antichi. Io ne dubito, oramai. Tu, poi, sembra proprio che abbia fatto quello che avremmo dovuto fare tutti: studiare prima, negli anni di scuola, per spenderselo dopo. E non, invece, come ha fatto la gran parte di noi, all’incirca la generazione del padre di Libero, il tuo io narrante: grattarsi al bar per anni e non studiare davvero mai più, ma allenarsi professionalmente a come si finge di sapere, magari sorridendo con una bella faccia alle interviste. E regalarvi ’sto schifo di mondo, noi che dovevamo cambiarlo, o almeno così mi era sembrato che si dicesse in piazza, quand’ero ragazzo. Per questo mi interesserebbe moltissimo scambiare pareri su alcune tue intuizioni che ho trovato ammirevoli, e ti ho “chiesto l’amicizia”.

Ho appena finito di leggere il tuo stupefacente “Poveri a noi”, regalatomi dal mio amico torinese Andrea, che troverai tra i tuoi contatti. Ci conoscemmo al mio primo concerto di blues, quasi cinquant’anni fa. Avevo appena finito gli esami di Stato con una figuraccia. Litigai con la mia ragazza che mi disse che si chiedeva perché stesse con un simile somaro imbecille e massacratore del divino Leopardi. Aveva ragione e me ne andai con amici in vespa ad ascoltare Buddy Guy e Junior Wells a Umbria Jazz, a Gubbio. Avevo il culo perfettamente quadrato quando incontrai Andrea.

Siamo rimasti amici per tutta la vita e abbiamo fatto entrambi i professori di Materie letterarie. Lui docente vero, laureato in letteratura e competente; io un po’ a caricatura, laureato in storia dell’America spagnola, che a scuola a nulla serve. Lui è anche un ottimo armonicista; io cercai di imitarlo ma ero come sempre un priso e rinunciai.

Il tuo libro… sto per ricominciarlo. La rilettura immediata di un libro non mi capitava dal 1967, credo, ossia da quando avevo sette anni e rilessi la trilogia de “I tre moschettieri”, ovviamente in versione abbreviata per ragazzi, Casa Editrice Boschi. Pinze ’nu picche. Ma il tuo libro contiene osservazioni, deduzioni, induzioni, drammatizzazioni, ridicolizzazioni, nobilitazioni, nuovi sguardi, vecchie eredità e pregiudizi, che da più di mezzo secolo io aspettavo fossero scritte per questa cazza di città. Mocc’a te, finalmente. Ed è scritto benissimo. Ora, però, lo rileggo per controllare se non mi sia fatto prendere dalla sindrome della Seconda Venuta, ché io sono esagerato, con gli entusiasmi, mi dicono. Tutto ciò perché hai innescato in me l’“effetto Cassano”. Mi spiego. Ho chiuso con il calcio dal 1988 ma mio padre mi aveva portato allo stadio “Della Vittoria” che avevo tre anni ed educato all’amore totale per la Bari. Per cui per tutta la vita, quando nei vicoli guardavo estasiato la nostra migliore ragazzaglia esibirsi in un numeri alla Messi in totale nonchalance, mi ero chiesto quando sarebbe nato da vergine – in una mangiatora frecata al ciuccio di casa, a Barivecchia – Colui il quale avrebbe insegnato al mondo come si può giocare a pallone piroettando con i mocassini di cuoio con le nappine e il tacco basso sulle scivolosissime chianche appena appena bagnate dell’umido di mare, leggeri come un hovercraft; come si fa la scarriola con la mano a terra; come si dribbla l’avversario facendo la finta con la voce… Colui che avrebbe raccontato Bari (quella che piaceva a me, non quella delle permute) attraverso la sua antica lingua pedestre: povera, eternamente sconfitta ma inimitabile e amata sempre. Purtroppo Cassano tutto ciò sapeva farlo ma portava con sé un troppo pesante fardello di vastasaggine, e non seppe scaricarlo.

E così, con il calciatore si aspettava lo scrittore, adesso, ma con poca convinzione. Ne è venuta addirittura un’onda. Con la buonanima di Beppe Lopez, o negli ultimi suoi anni. Lui era nato… morto di fame, a Libertà, che è stato il migliore, l’autore del bellissimo “Capatosta”, ebbi la fortuna di diventare amico\ poi era diventato un autodidatta espatriato; io, «Giampieeeero, con quel nome fifì e quella faccia da Corso Vittorio Emanueeeele» come diceva lui di me, ci scrivevamo, di notte, in barese antico. Avevamo in comune l’idea che Bari non ci piaceva, è brutta, è figlia di permute squallide e agrumeti scomparsi, geometri ciucci cui ingegneri lordi hanno messo la firma; ma sotto, da qualche parte, sepolto o nascosto, qualcosa di unico c’è, come la pentola alla fine dell’arcobaleno. E io vorrei trovarlo prima di rimbambire. Per cui ti farò delle domande, se vorrai rispondermi e dialogare. Ho sessantacinque anni e sono metà barese e metà paesano, per cui riesco a seguire tutte le tue dissertazioni sui due mondi. Ma mio nonno non resistette a vendere il palazzo ottocentesco fino al 1971 come il tuo: nel 1950 fu ricoverato in una clinica per malati di mente e un avvocato baresemente lo truffò. Quando nacqui erano ormai anni che l’enorme casa bella e perduta era stata venduta, per quattro soldi, a una banca. Non l’ho mai conosciuta. Non credo che fosse un capolavoro, come tutto l’Ottocento barese e poi, sin dalle prime letture cavalleresche di bambino, decisi che un gentiluomo non doveva avere a che fare con l’esercizio della mercatura (anche se qualcosa delle famiglie “perbene” me l’hanno trasmessa, come il classico «Non c’è mondo al di là della…stazione»). Per questo mi interessa solo il lato storico-antropologico e modestamente romantico della questione. Questione che con notevole classe hai descritto.

Io in letteratura ero un vero priso. Al liceo sceglievo i temi “di fantasia”, beccavo sempre otto e nove e così me la cavavo e la letteratura non l’avevo studiata da cristiani.

Ma la Fortuna mi ha donato una vita professionale meravigliosa, perché alla fine ho fatto soprattutto l’educatore, senza così offendere troppo la letteratura italiana, e con un successo di cui mia moglie, ogni santa sera, mi dice che devo farmi una ragione. Fino a quando il Morbo di Parkinson non ha deciso che la baldoria era finita, mi ha stroncato la carriera e rovinato la vita. Tuttavia non è una forma grave; riesco ancora a fare molte cose e vivo in contatto quotidiano con i miei (ex) alunni, che vanno da un’età di poco più di venti a poco più di… cinquant’anni. Sono riuscito a estirpargli il “prof” alla milanese e mi chiamano «pesso’». (Ti anticipo che mi ha stupito che il tuo personaggio fosse anche lui chiamato «Prfssò» come… me, e che la sua amica Letizia fosse detta dai pugliesi «Leti’» e dai milanesi «Leti», che tu avessi voluto sottolineare la differenza. Perché nella realtà non c’è più differenza, ormai: devo purtroppo dire che, miei alunni a parte, e neanche tutti, nella realtà l’anglomeneghino ha stravinto e, in Italia, anche a Lampedusa, sono tutti Fede, Francy, Cetty, Simo, raga e simpa della compa. Si attendono il presy della Repu, l’arcangelo Micky, san Giupy e la Mady). Spero tu voglia parlarne. Di questo e della pentola alla fine di qualche arcobaleno alla Lama Balice.

Spero che in te sorga il desiderio di realizzare quel lavoro titanico che aveva intrapreso il grande Beppe Lopez: far capire agli stranei la scala della nostra Lilliput di fetenti. Mado’, com’è difficile, Mado’.

Altrimenti, comunque, per quello che valgono, i miei più gioiosamente increduli e sentiti complimenti.

Quattro modi per negare un genocidio: Gaza e la guerra delle parole

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di Riccardo Capoferro

  1. Introduzione

Quando, sia pure di sfuggita, la nostra premier ha chiamato quel che si sta consumando a Gaza “genocidio”– unendosi così ai molti italiani che lo considerano tale (secondo YouTrend il 63%)[1] – l’evidenza è parsa così flagrante da prevalere sulla Realpolitik[2].

Ma l’evidenza non è incontestata. Dal giorno in cui la parola “genocidio” è stata associata ai fatti di Gaza, si è messa in moto una specie di polizia terminologica, che molto alacremente (mentre le bombe continuavano a cadere e i palestinesi a morire) ha inchiodato gli accusatori di Israele alle loro responsabilità semantiche.

“Genocidio”, ci è stato detto, non è la parola giusta, non c’è certezza che di questo si tratti. “Genocidio” è, infatti, una parola politicizzata, polarizzata, permeata di narcisismo etico e ansia di demonizzazione, se non di un vero e proprio sentimento antisemita; spesso, infatti, esprimerebbe la volontà perversa di azzerare la memoria della Shoah accusando lo stato ebraico del crimine dei crimini; sarebbe, dunque, una parola carica di aggressività, che fa degenerare il dibattito, fomentando un muro contro muro politicamente sterile.

Ragionare su questi argomenti, le loro logiche di fondo e i loro aspetti problematici – a cominciare dalla loro inconsistenza giuridica – può essere utile: può servire a chiarire importanti sfumature dell’idea di “genocidio”, a risalire alle sue radici storiche, e a identificare con più chiarezza le situazioni in cui è indispensabile chiamarla in causa. Può offrici, in particolare, l’opportunità di evidenziare un fattore chiave dei processi genocidari: il fattore tempo (la cui importanza è tanto ovvia quanto trascurata).

Quali sono state, dunque, le logiche della negazione? Ne identificherò quattro tipi – che spesso si intrecciano – e di ciascuno mostrerò i risvolti problematici. Prima di iniziare, però, sono necessarie due note di metodo: 1) l’elenco potrebbe essere più lungo, perché idee legate a un certo argomento sono spesso sviluppate e sostenute indipendentemente, ma ho cercato di puntare all’essenziale; 2) le mie considerazioni non si addentreranno nel fondo oscuro della psiche individuale e collettiva, tra le radici profonde della negazione. Dietro al discorso sul “genocidio” a Gaza c’è stato a volte l’onesto desiderio di far ordine; ma il tono più distaccato può nascondere pulsioni viscerali: islamofobia, manie istrioniche da bastian contrario, nazionalismo di ritorno, oppure, più semplicemente, memorie familiari e legami affettivi, se non – e questo merita il più grande rispetto – traumi terribili. Ogni posizione lascia trasparire molto altro, ma va valutata di per sé.

Cominciamo dunque con la prima tipologia, quella giuridicamente più avveduta: i letteralisti.

 

  1. I letteralisti

Secondo alcuni, i fatti di Gaza costituirebbero un crimine di guerra, non, in senso stretto, un genocidio. Mancherebbe, infatti, un intento dichiarato. Non bastano le parole cariche di odio di politici, militari e civili israeliani, a cominciare dalla famosa dichiarazione in cui Netanyahu allude minacciosamente a un passo del Deuteronomio: parole con cui si annuncia una violenza sterminatrice e con cui i palestinesi vengono sviliti e deumanizzati secondo una logica di matrice razzista. Tutto questo non basta: i fatti di Gaza difetterebbero infatti di una caratteristica essenziale inclusa nella convenzione dell’ONU del 1948. A mancare sarebbe un “intento” esplicito: un “dolus specialis” affidato a documenti ufficiali, che possa essere ben accertato in sede legale. Questa posizione fa riferimento letterale alla definizione del ’48: “genocide means any of the following acts committed with intent to destroy, in whole or in part, a national, ethnical, racial or religious group”[3].

Il problema dell’intento è stato in effetti sollevato da più parti, anche da esperti di diritto internazionale, che in vista di una sentenza hanno ribadito l’importanza di prove certe. Dato che, come ha ricordato lo storico Omer Bartov, le caratteristiche dei genocidi elencate dalla convenzione sono effettivamente riscontrabili a Gaza, l’accertamento dell’intento sembrerebbe, secondo questo punto di vista, configurarsi come una prova regina[4].

Ma è proprio sul piano giuridico che la posizione letteralista è problematica. Nell’invocare la definizione del ’48 c’è il rischio di dimenticarne la storia e di svincolarla dalle sue applicazioni, che hanno avuto cospicue ricadute sul suo significato, perché il senso di una legge deriva anche dalle interpretazioni e le sentenze che ne hanno rinegoziato i margini. Richiamando le sentenze della Corte internazionale di giustizia, B’Tselem – l’organizzazione israeliana che documenta la violazione dei diritti umani nei territori occupati – ci ha tenuto, non a caso, a evidenziare che l’intento può essere inferito dalla condotta dello stato o delle forze che commettono l’atto criminoso, e non necessariamente deve essere veicolato da un ordine scritto[5]. È poco realistico, del resto, pensare che nel XXI secolo, dopo i lager nazisti, un governo protocolli e pubblicizzi i suoi piani genocidari, riempiendo circolari e veline e distribuendo direttive agli esecutori materiali del massacro.

Se l’intento genocidario c’è si può inferire dai fatti[6]. Si può inferire, per quanto riguarda Gaza, a partire dai dati compatibili con la convenzione del ’48. Non solo dal numero esorbitante di vittime civili tra cui molti bambini; non solo dall’identificazione, permeata di odio simile a quello razziale, dei palestinesi di Gaza in quanto gruppo da annientare; non solo dall’occupazione di Gaza, che gli esponenti della destra messianica vorrebbero ricolonizzare; anche dalla “distruzione sistematica a Gaza delle abitazioni come pure di altre infrastrutture – edifici governativi, ospedali, università, scuole, moschee, siti del patrimonio culturale, impianti di trattamento delle acque, aree agricole e parchi”[7], che rende improbabile la ripresa della vita dei Gazawi sul territorio.

Il caso di Gaza non è assimilabile, certo, a contesti in cui l’intento genocidario è stato espresso più o meno chiaramente (anche se i nazisti, con le loro Endlösung der Judenfrage, Evakuierung nach Osten e Sonderbehandlung erano maestri dell’eufemismo). Richiede un modello di comprensione delle azioni e delle decisioni più flessibile; più adatto, cioè, alle apparenze giuridiche che, dopo il 1945, ogni stato che voglia dirsi “occidentale” è portato a rispettare.

Questo modello si può trovare, più che nella convenzione ONU, nel lavoro che l’ha preparata e di cui essa è in parte il precipitato; lavoro che la riflessione giuridica sul genocidio non ha mancato di elaborare. Si può trovare, cioè, negli scritti del giurista ebreo polacco Raphael Lemkin, colui che ha coniato la categoria di “genocidio”.

Lemkin dedicò molte energie alla storia dei genocidi. Riteneva infatti che ci fosse un nesso tra l’Olocausto e gli eccidi coloniali e riteneva, soprattutto, che le casistiche genocidarie fossero molteplici. Le sue riflessioni sull’intento sono molto utili. Lemkin pensava che l’intento non dovesse necessariamente essere esplicito, e che potesse anche non tradursi in un’azione diretta.

Il genocidio poteva essere messo in atto anche creando le condizioni affinché si realizzasse. Discutendo le caratteristiche del regime genocidario dei lager, Lemkin scrive che la responsabilità del comandante di un lager per la morte dei prigionieri esisteva anche qualora essa non fosse decretata, ma fosse resa altamente probabile, quindi chiaramente prevedibile, dalle condizioni di vita a cui i prigionieri erano sottoposti. In quel caso, il comandante di un lager era colpevole in quanto “[he] does not object in his mind and agrees with the eventuality of such destruction. In the criminal law of civil law countries such an intent is called ‘dolus eventualis’”[8]. Secondo Lemkin, dunque, l’intento si esplicherebbe non solo nell’eliminazione diretta di un gruppo, ma anche nel “dolus eventualis”; nella creazione di condizioni che possano portare a tale eliminazione.

Concordando con Lemkin[9], molti giuristi contemporanei hanno ripreso la nozione di “dolus eventualis”. Il giurista William A. Schabas – un’autorità in materia – non la chiama direttamente in causa, ma teorizza una casistica equivalente. Per provare le responsabilità di un genocidio, scrive Schabas, “it might be sufficient for the prosecution to demonstrate that the accused was reckless as to the consequences”[10]. Tante singole operazioni militari dalle prevedibili conseguenze genocidarie implicano, di fatto, la consapevolezza dei propri atti.

 

  1. I puristi

I puristi sono coloro che vedono nel genocidio un fine a sé stante, non inquinato da altri fini. Spesso la prospettiva purista è un corollario di quella letteralista e le due sono quasi intercambiabili. Rifacendosi alla convenzione, i puristi sostengono che, oltre a essere esplicito, l’intento debba avere come fine il genocidio stesso.

Mettiamo un caso immaginario. Un malvagio imperatore galattico non tollera più il pianeta X perché pullula di ribelli che danno all’impero filo da torcere; dà quindi ordine di spazzarne via con un gigantesco cannone di antimateria quasi tutta la popolazione e le infrastrutture – case, ospedali, università e templi inclusi. L’ordine, trasmesso oralmente al grande ammiraglio delle forze imperiali di stanza nello spazio prospiciente a X, è “spazzare via il focolaio di ribellione”: sottintende dunque che anche gli innocenti debbano essere eliminati e che occorra fare più vittime possibile dato che X potrebbe produrre nuovi ribelli. Insomma, l’intera popolazione di X, presente e futura, è chiamata in causa, perché evidentemente la “cultura della ribellione” di X dà più di un grattacapo all’impero. Ma secondo il purista l’imperatore e i suoi sottoposti non hanno commesso un genocidio. Dovevano avere come fine il genocidio in sé e dichiararlo a chiare lettere su un comunicato imperiale indirizzato agli operatori del cannone di antimateria.

Questa posizione porta in luce un elemento che spesso sfugge ai dibattiti riguardanti il genocidio: il movente. Non di rado si parla del genocidio come di un gigantesco ingranaggio pluriomicida svincolato da atti pregressi e finalità pratiche, motivato solo da una differenza etnica o razziale. La nazione o il gruppo genocida punterebbe al genocidio stesso.

Ma come la maggior parte dei crimini, il genocidio ha un movente. Anzi, i fatti ci insegnano che nel perpetrare un genocidio si persegue un vantaggio, nonostante questo dato sia spesso stato occultato dalle stesse ideologie usate a sua giustificazione, come le ideologie naziste e coloniali, incentrate sulla difesa della purezza razziale.

Per esempio, tra il 1915 e il 1917, mentre gli armeni venivano sterminati, le loro abitazioni, le loro attività agricole e commerciali, le loro chiese e gli altri loro beni venivano requisiti. Queste proprietà venivano spesso redistribuite a turchi musulmani, alleati curdi o ad altre popolazioni musulmane. Il tutto rientrava in una politica di “turchizzazione” delle province orientali, dove gli armeni avevano vissuto per secoli.

Sebbene tragga linfa da, e si ammanti di giustificazioni ideologiche che esprimono il bisogno di imporre con la violenza un’omogeneità etnica e razziale, il genocidio è stato quasi sempre funzionale all’occupazione di territorio. E nei casi in cui lo “spazio vitale” non sia stato dichiaratamente in gioco, la condotta genocidaria, con tutto il suo apparato di demarcazioni, ha comunque assolto a una funzione. È servita a eliminare o indebolire un gruppo storicamente percepito come antagonistico e in tal modo a rinforzare la coesione materiale e morale del gruppo che l’ha messa in atto e, inscindibilmente, il suo radicamento territoriale. Quest’aspetto si riscontra anche nelle persecuzioni razziali naziste, che come si sa furono in larga misura un fattore di coesione, funzionale a una mobilitazione di massa[11].

L’intento si desume, quindi, non solo dai danni biologici, culturali e infrastrutturali inflitti a una comunità; si desume anche dalla presenza di un movente[12]. Non importa quanto folle tale movente paia: nella follia può esserci del metodo. Le affermazioni deliranti di Hitler nel Mein Kampf e della propaganda nazista descrivono una necessità precisa, anche se non ancora sfociata in un piano di annientamento, e lasciano trasparire una comprensione profonda di cosa muoveva (e muove) le masse, influenzata dalla lettura attenta che Hitler fece di Gustave Le Bon[13].

Come ricorda William A. Schabas, la redazione della convenzione del ’48 fu preceduta da un’intensa riflessione sul movente. Molti stati volevano che il testo della convenzione lo menzionasse esplicitamente. E il movente figura nella definizione di uno dei crimini più vicini al genocidio, la persecuzione, le cui caratteristiche sono descritte nello Statuto di Roma (1998) nel paragrafo successivo a quello dedicato al genocidio[14]. E c’è di più. Sia nelle discussioni che condussero alla convenzione sia nelle riflessioni successive il movente è stato considerato un elemento da includere tra le prove, poiché consente di inferire l’intento genocidario. Scrive Schabas: “evidence of hateful motive will constitute an integral part of the proof of existence of a genocidal policy and therefore of a genocidal intent”[15]. La prova dell’esistenza di un movente che si accompagna a odio costituisce parte integrante della prova dell’esistenza di una politica genocidaria, quindi di un intento genocida.

Insomma, la mens rea e/o il dolus specialis, spesso non manifestati, si desumono dal contesto. Ma secondo i puristi le prove sono irrilevanti: bisogna solo cercare il documento dell’intento genocidario – un documento che ovviamente è impossibile trovare.

 

  1. I decontestualisti

L’importanza del movente ci porta a mettere a fuoco un’ulteriore categoria. Anche questa si sovrappone ai puristi e i letteralisti, ma non si produce in argomenti giuridici, limitandosi a dire che non c’è genocidio in atto, che Israele si sta solo difendendo con il fine del tutto ammissibile di disarmare Hamas, e – a volte – che l’IDF sta facendo tutto ciò che è in suo potere per contenere le vittime civili. Chiameremo i suoi rappresentanti “decontestualisti”.

Allontanando lo sguardo dal contesto in cui gli atti di Israele hanno preso forma, come pure da aspetti macroscopici dello specifico contesto di Gaza, il decontestualista ha creato a proprio uso e consumo un Israele immaginario: attento, professionale, chirurgico, protocollare, asettico, molto “occidentale”, che si limita a esercitare il suo diritto a difendersi. Ha sposato lo slogan israeliano secondo cui l’IDF è l’esercito più morale del mondo. Di fronte all’evidenza i decontestualisti hanno ammesso, in alcuni casi, che Israele ha esagerato, ma per solo colpa dei brutti ceffi al governo e in particolare di Netanyahu (le cui tendenze da autocrate faranno buon gioco quando ci sarà da trovare un capro espiatorio).

I decontestualisti possono essere divisi a loro volta in sottocategorie. C’è il decontestualista che se ne infischia della Storia e valuta gli eventi come se stesse commentando una partita di Champions League (“Hamas ha attaccato e bisogna contrattaccare!”) e quello che conosce la storia, a volte anche molto a fondo, ma ne seleziona larvatamente i dati, assecondando le sue pulsioni e i suoi preconcetti. Questo tipo di decontestualista produce una finta visione d’insieme, perché non lega un processo all’altro e così facendo oscura i pattern criminosi che hanno preparato il terreno per il massacro in atto.

Quali siano i pattern criminosi è quasi superfluo dirlo, perché chiunque si sia interessato alla faccenda ha presente la situazione abominevole dei territori occupati e la traiettoria che se ne evince.

Si tratta – repetita iuvant – di una traiettoria dal marcato carattere coloniale, benché molti decontestualisti lo neghino. In Cisgiordania, infatti, ci sono “i coloni” e gli “insediamenti”, c’è una popolazione locale ridotta a uno stato di subordinazione, e Israele è nato da una migrazione collettiva che ha portato unilateralmente alla nascita di un nuovo stato, all’inizio sponsorizzata – guarda un po’– dalla più grande potenza coloniale del tempo (la Gran Bretagna). Se poi si guarda ai lavori degli studiosi che inquadrano Israele come un’espressione tarda e peculiare di “settler colonialism” (Martin Shaw, Patrick Wolfe, Lorenzo Veracini, Ronit Lentin e altri) emergono altre analogie con il colonialismo da insediamento statunitense o australiano – al quale, va da sé, il caso israeliano non è del tutto assimilabile.

Questa traiettoria si è espressa in un processo di pulizia etnica, una categoria che non ha valore giuridico, ma che descrive efficacemente i processi di occupazione del territorio e le sue derive genocidarie. Per distinguerla bisogna guardare, oltre che alle espulsioni di massa del ’48, a quel che si verifica dal ’67 nei territori occupati.

Come si sa, in Cisgiordania, occupata ma non annessa, è stata messa in atto una distruzione graduale – e per molti versi sadica – della società palestinese, con confische di terreno, vessazioni amministrative, demolizioni, esecuzioni extragiudiziali da parte di soldati dell’IDF, sequestri di persona etichettati come “detenzioni amministrative”, crimini militari non sanzionati, tortura, assalti ai villaggi palestinesi da parte dei coloni, i cui crimini (tra cui l’omicidio) restano per la maggior parte impuniti[16], discriminazioni che negano l’accesso a risorse essenziali come quelle idriche, la costruzione di muri, strade e posti di blocco che ostacolano la vita quotidiana palestinese e strangolano le comunità e, soprattutto, l’aumento e lo sviluppo di insediamenti israeliani. Il paradosso di un’occupazione senza annessione deriva, ovviamente, dalla base etno-nazionalistica dello stato di Israele: dalla concezione dei palestinesi come di un gruppo che non può essere assimilato come tale all’interno della comunità nazionale, quindi deve essere relegato all’interno di un bantustan, rimosso, o eliminato.

Questa traiettoria ha un vettore ideologico e demografico. La destra messianica israeliana sogna da tempo un “grande Israele”, è in crescita demografica e nutre il sogno di ricolonizzare Gaza[17]. Secondo un sondaggio di luglio, il 38.9% degli elettori israeliani sarebbero a favore dell’annessione e della ricolonizzazione di Gaza[18]. Sempre a luglio (il 24) la Knesset ha votato (71 a 13) una risoluzione (non vincolante) per l’annessione della Cisgiordania e una commissione del ministero della difesa ha da poco deliberato l’attuazione del progetto E1, stanziando fondi per la costruzione di nuovi insediamenti che dovrebbero spaccare in due la Cisgiordania e congiungersi a Gerusalemme Est[19]. Nelle ultime settimane, nonostante le proteste delle alte sfere militari e di una parte della società israeliana, Netanyahu ha deciso di occupare Gaza ed è circolata la notizia che stesse cercando paesi disposti ad accoglierne la popolazione.

Inoltre, si distingue una traiettoria dal marcato potenziale genocidario nel modo in cui Israele (potenza occupante) ha gestito, dal 2005, l’assedio di Gaza (territorio occupato): un processo in cui fanno spicco atteggiamenti riconducibili all’odio etnico e razziale – cose su cui i decontestualisti sorvolano o che giustificano. Dopo l’uscita da Gaza Israele ha risposto con ferocia crescente agli attacchi di Hamas, provocati anche da azioni israeliane, rifacendosi sulla popolazione civile, sull’economia e sulle infrastrutture di Gaza.

È uno snodo cruciale di questo processo l’operazione “Piombo fuso” del 2008/2009 – preceduta da “Prime piogge”, “Piogge estive” e “Nuvole d’autunno” e seguita da “Pilastro di difesa” e varie altre. “Piombo fuso” ha reso palpabile la tendenza di Israele all’eccidio su larga scala e il disprezzo istituzionalizzato della vita dei civili, ben rappresentato dall’espressione “falciare il prato”, divenuta comune tra i militari israeliani.

Per giunta, negli stessi anni c’è chi ha cominciato a considerare i civili di Gaza, minorenni e coltivatori di fragole inclusi, come terroristi tout court: l’identificazione è stata promossa, per esempio, da rabbini ultra-nazionalisti, mentre dei civili israeliani guardavano le esplosioni dalle alture come se si trattasse di una partita di cricket[20]. Il ricorso a rappresaglie sproporzionate fece già allora parlare molti osservatori di “genocidio”. (Tra loro c’è l’allora presidente dell’assemblea generale dell’ONU)[21].

A fronte di questi presupposti, e di un bombardamento a tappeto che falcidiava la popolazione civile, non bisognava essere Auguste Dupin per capire a cosa stesse tendendo Israele alla fine del 2023[22]. Ma il decontestualista ci invita, non di rado con tono pacato, a non trarre conclusioni affrettate. “Fermi tutti!” – dice – “non si usi a sproposito il termine genocidio, perché il discorso pubblico va mantenuto a un certo livello”. Anzi, ci rimprovera per la nostra indignazione, per la nostra rabbia, per il nostro moralismo, per la nostra ostentazione di santità, invitandoci, come fa lui, a guardare i fatti – mentre i fatti, purtroppo, lo contraddicono.

 

5.

E poi c’è l’eccezionalista. A questa posizione sono spesso riconducibili commentatori legati in vario modo al mondo ebraico, contrari all’idea che il massacro di Gaza possa essere definito “genocidio”. Benché corredate di dati storici, le idee dell’eccezionalista implicano una visione tendenzialmente antistorica e, molto spesso, una forte preoccupazione identitaria. L’eccezionalista è in genere impermeabile alle istanze progressive del diritto internazionale. Nella speranza di un confronto produttivo può però essere utile portare alla luce le sue logiche e il contesto più ampio del quale sono espressione.

L’eccezionalista ritiene che l’Olocausto sia stato un evento irriducibilmente unico. Non di rado, rifiuta l’idea che possa essere usato come termine di comparazione e possa essere inserito in una famiglia di fenomeni accomunati da presupposti culturali e materiali comprensibili storicamente. Ritiene che solo pochissimi eccidi di massa possano essere definiti genocidi. Tra gli eccezionalisti c’è chi reagisce all’uso anche solo metaforico dell’Olocausto come a un’aggressione antisemita o a una negazione delle sofferenze che il nazismo ha inflitto al popolo ebraico.

Giova ricordare che lo stesso mondo ebraico ha espresso opinioni molto diverse: per esempio il Laboratorio Ebraico Antirazzista, Jewish Voice for Peace e vari altri collettivi stanno denunciando il genocidio a Gaza. E in ambito accademico c’è stata negli ultimi anni una sempre maggiore attenzione al retroterra culturale che accomuna l’Olocausto e i massacri coloniali. L’idea di “memoria multidirezionale”, proposta nel 2009 dal teorico culturale Michael Rothberg (ebreo) mette in rilievo i momenti di memoria congiunta che abbracciano sia l’Olocausto che l’esperienza coloniale, e ha attecchito sia negli studi postcoloniali che nei memory studies[23]. Il lavoro di Rothberg ha del resto preso le mosse da quello di Arendt come da quello dei pionieri del pensiero postcoloniale, che avevano visto con chiarezza le radici coloniali dell’Olocausto[24].

L’eccezionalista tende invece a stabilire una distinzione netta tra l’Olocausto e eccidi dilazionati come quelli coloniali, tenendo ben separate le culture della memoria che li riguardano. Spesso interpreta l’uso comparativo dell’Olocausto come un atto di negazionismo. Insiste sulla scala impressionante del fenomeno, sulla sua estensione territoriale, sulla pianificazione che ha richiesto, sull’uso di un sistema industriale per la sua messa in atto, e sul fatto che il suo esito sia stato lo sterminio di massa più che lo sfruttamento.

La posizione eccezionalista presenta forti analogie con i dibattiti storiografici nordamericani degli anni ’90 relativi all’unicità dell’Olocausto, influenzati anche dalla politica delle identità nordamericana. In uno studio del 1993 sul negazionismo, la storica e attivista Deborah Lipstadt – in seguito divenuta United States Special Envoy for Monitoring and Combating Antisemitism – ha sostenuto vigorosamente l’unicità dell’Olocausto. Ci ha tenuto a precisare che il massacro degli armeni, insieme a vari altri – per esempio il genocidio perpetrato da Pol Pot in Cambogia – è stato un fenomeno diverso[25]. (In varie dichiarazioni degli anni successivi ha poi cambiato linea e lo ha senza esitazioni definito un “genocidio”)[26].

Lipstadt è stata a sua volta aspramente criticata[27]. I risvolti problematici della sua posizione emergono con forza nel momento in cui condanna i “relativisti”, cioè chi usa l’Olocausto come termine di paragone, sostenendo che ogni opera di comparazione avrebbe l’effetto di nutrire i sentimenti antisemiti. Comparare l’Olocausto andrebbe di pari passo, secondo Lipstadt, col minimizzarne l’impatto; solleverebbe – a suo dire “logicamente” – una domanda: “Why, then, do we ‘only’ hear about the Holocaust?”, domanda a cui molti, come nella Germania del’33, sarebbero portati a rispondere: “because of the power of the Jews”[28]. In sintesi, la comparazione soffierebbe sul fuoco di un mai sopito antisemitismo.

Ma l’anno in cui lo studio di Lipstadt veniva pubblicato era lo stesso in cui veniva inaugurato lo United States Holocaust Memorial Museum e si compiva il processo che Pankaj Mishra ha definito “americanizzazione” dell’Olocausto. Il quadro è ormai noto. Fino alla fine degli anni ’60, la memoria dell’Olocausto non ha avuto un grosso peso nella vita pubblica americana, anche tra gli stessi ebrei. Ma dopo il 1967 e il 1973 – dopo, cioè, la Guerra dei sei giorni e la Guerra dello Yom Kippur – le cose cambiarono: “la Shoah cominciò a essere ampiamente concepita, sia in Israele che negli Stati Uniti, come l’emblema della vulnerabilità ebraica in un mondo eternamente ostile”[29]. Molti ebrei americani fecero dell’Olocausto un pilastro della propria identità comune, e trovarono nell’etno-nazionalismo israeliano un imprescindibile punto di riferimento. Di pari passo, l’Olocausto si radicò saldamente nella cultura dell’intrattenimento di massa, e la sua memorializzazione cominciò a trovare ampio sostegno politico e istituzionale.

Il caso di Lipstadt esemplifica l’idealizzazione dell’Olocausto come fenomeno al di là della storia. Questa percezione può sfociare in un sentimento tra il difensivo, l’agonistico e il paranoico, oltre che nella tendenza a negare ad altri eccidi di massa, come quello di Gaza, lo status di genocidi. C’è insomma un punto paradossale oltre il quale la difesa strenua dell’unicità dell’Olocausto può segnare la perdita del suo valore in quanto oggetto di conoscenza, evento paradigmatico e agente di cambiamento civile: la perdita delle sue preziose potenzialità memoriali[30].

La posizione eccezionalista nasce in molti casi dall’ansia identitaria – ormai non solo statunitense – di veder riconosciuta la condizione, intergenerazionale e storicamente accertata, di vittima, e si è spesso accompagnata alla difesa a oltranza di Israele. Ma la condizione di vittima non è metastorica. Ogni fatto umano è transitorio, anche se dura da secoli. L’antisemitismo persiste – si vede da certe frasi ripugnanti sui social media – ma è meno diffuso e minaccioso di un tempo. Non c’è presidente americano che non renda conto al suo elettorato ebraico, tanto più perché i fini di buona parte di quell’elettorato sono compatibili con la politica statunitense in medio oriente, della quale Israele è una pedina fondamentale[31].

Nel corso delle piccole guerre per Gaza che hanno attraversato i media e i social media, l’atteggiamento difensivo degli eccezionalisti li ha portati a censurare i cosiddetti “pro-pal” più che lo stato di Israele. Nell’insistenza sul genocidio palestinese hanno visto un rigurgito antisemita, nella condanna di Israele una generalizzazione che polarizza il dibattito e fomenta odio. In parte, la loro risposta è stata esacerbata dalla tendenza di alcune frange pro-Palestina a replicare il lessico politico di Hamas (mossa non produttiva e di fatto inutile). Ma la tendenza degli eccezionalisti a concentrarsi sui “pro-pal” resta espressione di un vizio prospettico: nell’ultimo anno e mezzo è stata Gaza, non Israele, a subire una “minaccia esistenziale”. E se i palestinesi non morissero come mosche e Israele non usasse l’Olocausto per giustificare un eccidio la maggior parte di chi denuncia gli orrori di Gaza si dedicherebbe volentieri ad altro.

 

  1. Il fattore tempo

Nell’enfasi sulle sorti di Gaza e nel silenzio sul 7 ottobre l’eccezionalista avverte un’ostilità preconcetta a Israele, dalla larvata matrice antisemita. Ma il grido di allarme per Gaza ha nella maggior parte dei casi una spiegazione più semplice: gli orrendi fatti del 7 ottobre si sono già consumati, mentre quelli di Gaza sono tuttora in corso.

Le critiche all’uso ampio del concetto di genocidio trascurano il fattore tempo[32]. Negli anni necessari ad accertare legalmente se si sia verificato un genocidio, dei crimini di guerra possono effettivamente sfociare in genocidio, o la scala di un evento genocidario può aumentare in modo vertiginoso. Il genocidio è, infatti, un fenomeno ricorsivo e incrementale. Comporta l’emersione di schemi che tendono a ripetersi, a diffondersi e a rafforzarsi, e comporta un progressivo aumento di scala. Esige, pertanto, una risposta nel momento in cui sta iniziando. Può, in altri termini, delinearsi una fase liminale in cui la condanna e la prevenzione del fenomeno sembrano rendersi urgenti, ma che può al tempo stesso presentare incertezze.

Di fronte a un sospetto, per giunta sancito da un’indagine della corte internazionale di giustizia e dagli organi consultivi dell’ONU, alimentare il dubbio può essere controproducente. Tanto più perché per contrastare un genocidio non si chiama il 113, si chiede ascolto ai governi, non sempre inclini ad ascoltare. L’uso emergenziale della categoria di “genocidio” è inevitabilmente politico, esige una mobilitazione di massa e un innalzamento dei toni. Nei primi mesi dall’inizio della guerra a Gaza, chi ha adottato il termine lo ha usato come una metafora ad alto tasso emotivo, con l’intenzione di lanciare un allarme e denunciare un forte rischio genocidario. Aveva ragione. Mesi dopo, la dinamica genocidaria si è consolidata, diventando chiara per molti altri dei suoi spettatori.

Ma chi più di ogni altro ha avuto le idee chiare sono stati e sono i testimoni del massacro: chi vive sulla sua pelle l’assedio quotidiano di Israele e lo strangolamento dei territori occupati. In un’intervista, il poeta palestinese Mosab Abu Toha, di Gaza, ha ricordato di aver usato la parola “genocidio” già il quinto giorno dall’inizio dei bombardamenti:

I named it a genocide from the first day. I didn’t wait for Amnesty International to call it a genocide, I didn’t wait for B’Tselem […] I knew what a genocide is because I knew what Israel was capable of doing, and they are doing it. When they said we are going to cut off food, medicine, water, these are human animals, you should leave – Netanyahu said on October 12 […] “people of Gaza, you should leave”: you understand that if you don’t leave they are going to say “you see, we told them to leave. We are going to kill them. It means that they are Hamas”.[33]

Mosab Abu Toha sa di cosa parla. Ha perso molti amici e parenti stretti: famiglie intere di più generazioni spazzate via, di cui ha ricostruito gli alberi genealogici. Conosce bene l’odio di un gruppo verso un altro, è stato imprigionato e percosso senza ragione e soggetto a vessazioni amministrative di vario tipo. Sapeva chiaramente quello che sarebbe successo, e il suo allarme è rimasto inascoltato.

Il fattore tempo ha implicazioni anche sul piano della memoria. Accogliere, come fanno molti storici, l’idea che un genocidio sia un fenomeno incrementale, derivante da condizioni strutturali, dalla ricorrenza di determinati pattern in un arco di tempo che può essere protratto, e da uno o più moventi – in particolare l’occupazione di territorio – può nutrire una coscienza più viva del passato e dei suoi tanti orrori. Impone di rendere il tributo della memoria anche ai genocidi coloniali, commessi attraverso guerre a bassa intensità e, come molti storici hanno dimostrato, imparentati all’Olocausto.

Quest’idea ha il pregio di dirci da dove veniamo e dove potremmo dirigerci. Inquadra i genocidi come il grande scheletro nell’armadio dell’umanità, come un orrore pervasivo che solo dopo l’Olocausto è diventato il crimine più terribile, anche se non ancora compreso a fondo, e la cui criminalizzazione fa tutt’uno con la consapevolezza che la civiltà moderna possa lasciar riemergere le micidiali pulsioni del passato e tradurle in azioni ancora più distruttive.

Non va dimenticato, del resto, che la categoria di genocidio è stata anche il prodotto di circostanze storiche, politiche e culturali. È stata frutto di un consenso, legato a una volontà di progresso. In quanto tale, è suscettibile di revisioni, dettate da una nuova consapevolezza. Con ogni probabilità, Gaza cambierà il modo in cui guardiamo al passato. Ed è auspicabile che la sua lezione non debba applicarsi al futuro.

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Note

[1] https://www.repubblica.it/politica/2025/07/26/news/sondaggio_antisemitismo_guerra_israele_palestina-424753192/.

[2] https://www.youtube.com/watch?v=dsWuiP7V8tc.

[3] https://www.un.org/en/genocideprevention/documents/atrocity-crimes/Doc.1_Convention on the Prevention and Punishment of the Crime of Genocide.pdf.

[4] https://www.nytimes.com/2025/07/15/opinion/israel-gaza-holocaust-genocide-palestinians.html.

[5] https://www.btselem.org/sites/default/files/publications/202507_our_genocide_eng.pdf , p.12.

[6] Il problema dell’intento è ovviamente affrontato anche nei rapporti redatti da Francesca Albanese, Relatrice speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi occupati. Si veda in particolare “Situation of human rights in the Palestinian territories occupied since 1967”, che oltre a fornire evidenza documentata della presenza di un genocidio definisce la cornice legale del problema. Sull’intento, si vedano in particolare i par. 39-61; https://digitallibrary.un.org/record/4064517?v=pdf#files.

[7] https://www.nytimes.com/2025/07/15/opinion/israel-gaza-holocaust-genocide-palestinians.html.

[8] Raphael Lemkin, “The Concept of Genocide in Sociology”, Raphael Lemkin papers, NYPL, box 2, folder 2. Citato in A. Dirk Moses, “Empire, Colony, Genocide: Keywords and the Philosophy of History”, in A. Dirk Moses (ed.), Empire, Colony, Genocide: Conquest, Occupation and Subaltern Resistance in Word History, Berghan Books, New York, 2009, p. 19.

[9] Sul dibattito relativo al dolus eventualis, si veda Kai Ambos, Treatise on International Criminal Law, Volume II: The Crimes and Sentencing, Oxford University Press, Oxford, 2014, cap. 1.

[10] William A. Schabas, Genocide in International Law: The Crime of Crimes. Third Edition (Cambridge: Cambridge University Press, 2025), p. 215.

[11] “Antisemitic slogans proved the most effective means of inspiring and organizing great masses of people”, scrive Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo.

[12] Al movente dedica ampie considerazioni Francesca Albanese in “Situation of human rights…”: par. 53(a), 68-69, 84.

[13] “La mescolanza del sangue e l’abbassamento del livello razziale che lo accompagna”, leggiamo nel Mein Kampf, “è l’unica e la sola ragione per cui le antiche civiltà scompaiono. Non sono le guerre che vengono perse a rovinare il genere umano, ma la perdita del potere di resistenza, che appartiene soltanto al sangue puro […] se rivediamo tutte le cause del collasso tedesco, quella finale e decisiva è il fallimento nel rendersi conto del problema razziale e, in particolare, la minaccia Ebraica […] La perdita della purezza razziale rovina per sempre le fortune di una razza”. Quando Hitler scrisse queste parole, la “soluzione finale” era di là da venire. Ma delineano sia la logica esplicita sia quella implicita che contribuì, agli occhi della società nazista, a caratterizzare la scomparsa di milioni di persone come un fatto desiderabile.

[14] “Persecution against any identifiable group or collectivity on political, racial, national, ethnic, cultural, religious, gender as defined in paragraph 3, or other grounds that are universally recognized as impermissible under international law”, https://www.icc-cpi.int/sites/default/files/2024-05/Rome-Statute-eng.pdf, p. 4.

[15] William A. Schabas, Genocide in International Law, p. 277.

[16]https://www.timesofisrael.com/ngo-says-only-6-of-police-probes-of-settler-violence-it-was-party-to-ended-in-chargeshttps://www.icj.org/israel-palestine-authorities-must-end-impunity-for-israeli-settler-violence.

[17] https://www.lastampa.it/esteri/2025/08/07/news/smotrich_repubblica_ebraica_di_israele-15261649/amp/.

[18] https://www.timesofisrael.com/times-of-israel-poll-majority-of-israelis-oppose-annexation-of-gaza-territory.

[19] https://www.theguardian.com/world/2025/aug/14/israel-appears-set-to-approve-controversial-settlement-of-3400-homes-in-west-bank; https://www.timesofisrael.com/e1-settlement-project-widely-condemned-but-is-it-fatal-to-two-state-solution-idea/.

[20] Noam Chomsky, “‘Sterminate tutti i Bruti’: Gaza 2009”, in Noam Chomsky, Ilan Pappé, Ultima fermata Gaza: la guerra senza fine tra Israele e Palestina, Ponte alle Grazie, Milano, 2010, pp. 115-116.

[21] Ilan Pappé, “I campi di sterminio di Gaza (2004-2009)”, in Noam Chomsky, Ilan Pappé, Ultima fermata Gaza, pp. 217-220.

[22] Nell’aprile del 2025 lo storico Paul Rogers ha rilevato che le bombe sganciate su Gaza fino a quel punto equivalevano, in kilotoni, a sei Hiroshima. https://www.bradford.ac.uk/news/archive/2025/gaza-bombing-equivalent-to-six-hiroshimas-says-bradford-world-affairs-expert.php

[23] Michael Rothberg, Multidirectional Memory: Remembering the Holocaust in the Age of Decolonization, Stanford University Press, Stanford, 2009.

[24] Può essere utile ricordare che la parola Konzentrationslager entrò in uso in Germania già intorno al 1900 per descrivere i modi di attuazione del genocidio degli Herero e Nama in Africa Tedesca del Sud-Ovest (oggi Namibia).

[25] Nel suo studio infatti lo chiama “massacro”, non genocidio. Le parole di Lipstadt, che hanno suscitato più di una critica, assomigliano a frasi che abbiamo sentito negli ultimi mesi: “The brutal Armenian tragedy, which the perpetrators still refuse to acknowledge adequately, was conducted within the context of a ruthless Turkish policy of expulsion and resettlement. It was terrible and caused horrendous suffering but it was not part of a process of total annihilation of an entire people”, Deborah Lipstadt, Denying the Holocaust: The Growing Assault on Truth and Memory, Free Press, New York, 1993, p. 212.

[26] https://www.historynewsnetwork.org/article/holocaust-scholar-deborah-lipstadt-opposes-genocid; https://x.com/deborahlipstadt/status/1386323965434646528

[27] Si veda per esempio Ward Churchill, A Little Matter of Genocide: Holocaust and Denial in the Americas, 1492 to the Present, City Light Books, San Francisco, 1997, pp. 29-36.

[28] Deborah Lipstadt, Denying the Holocaust, p. 215.

[29] Pankaj Mishra, Il mondo dopo Gaza, Guanda, Milano, 2024, p. 176. Sull’americanizzazione dell’Olocausto vedi, oltre a Mishra, Norman Finkelstein, L’industria dell’Olocausto. Lo sfruttamento della sofferenza degli ebrei, Meltemi, Roma, 2024.

[30] A questo si unisce l’uso perverso della memoria dell’Olocausto come strumento per la giustificazione delle violenze israeliane. Si veda, in proposito, l’intervento recente di Amos Goldberg: https://zeteo.com/p/holocaust-memory-in-a-time-of-genocide.

[31] La situazione italiana degli ultimi anni ha molti aspetti in comune con quella statunitense: si veda https://www.internazionale.it/notizie/leonardo-bianchi/2025/07/28/alleanza-comunita-ebraiche-estrema-destra.

[32] Evidenziato anche da Francesca Albanese in “Situation of Human Rights”, par. 49 (“Early identification of genocide is crucial to prevent genocide, ensuring that a central tenet of the post-Second World War international legal system is not a dead letter”), 75, 86.

[33] https://www.youtube.com/watch?v=XmVot3SwqBE&t=2835s