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“E se il mondo non imparerà la lezione che queste immagini insegnano, la notte tornerà a cadere.”

[ Bergen Belsen – Aprile 1945 – liberazione del campo ]

BENJAMIN BRITTEN
Requiem Aeternam and Requiescant in Pace
WAR REQUIEM [1962]

 

 

di Orsola Puecher

Ogni anno il ⇨ 27 Gennaio Giorno della Memoria, volenti o nolenti, si presenta una motivazione forte e contingente per scrivere, documentare e ricordare agli smemorati e ai negazionisti di turno 1 la ⇨ Memoria dei Campi, titolo del documentario incompiuto sulla liberazione dei campi di concentramento nazisti, in cui ho vissuto fotogramma per fotogramma quest’ultima settimana, traducendone i sottotitoli:

Nell’Aprile del 1945 alcune troupe televisive con gli eserciti inglese e americano entrarono nei campi di sterminio nazisti e filmarono l’orrore che vi trovarono. Per decenni questo film e’ stato conservato negli archivi dell’Imperial War Museum di Londra. Il documentario e’ rimasto incompiuto, con le tracce audio mancanti. Ma i registi, tra cui Alfred Hitchcock, avevano elaborato un testo per accompagnare le immagini…

Forse non è facile da comprendere, ma per chi ha nella sua famiglia le vittime di questa memoria, ripercorrerla è sempre un’esperienza da cui è difficile uscire indenni. Il passare degli anni, con le sue lontananze, le sue nuove perdite, acuisce questa sofferenza così particolare. Essa non è mai solo un lutto individuale, che ha sempre un suo termine di elaborazione, in cui al dolore vivo si sostituisce piano la dolcezza dei ricordi, ma si estende, si espande in spazi e tempi vasti e sempre più risonanti delle singole voci, delle storie personali che diventano epica e storia. Il corpo di chi non è tornato è tutti quei corpi ammucchiati, anonimi, irriconoscibili nella comune consunzione e diventa un grande corpo comune. Il dolore per uno si moltiplica milioni di volte nel dolore per tutti.
La pietà facile e l’edulcorazione dei fatti, l’approssimazione dei dati storici ad usum letterario, poetico o cinematografico, una certa estetica del dolore e la retorica a cui questo porta, inevitabilmente e forse involontariamente, non devono essere confuse con un’operazione di ricordo oggettivo dei fatti.
Memory of the Camps, montato a caldo a pochissima distanza da avvenimenti di cui ancora si sapeva poco o nulla, non fu portato a termine di sicuro perché avrebbe avuto un impatto molto forte a livello emotivo per la crudezza dei filmati, che perdura ancora anche oggi, che con certe immagini abbiamo un vissuto di già visto, che ne potrebbe stemperare l’atrocità, ma sopratutto a livello politico avrebbe scompigliato un certo clima di ripresa a tutti i costi, di euforia del dopoguerra che indusse per molti anni non voler riprendere in mano le fila di un momento storico tanto cruciale
Le lunghe sequenze silenziose della liberazione del campo di Bergen Belsen, che mostrano le SS costrette per contrappasso al pietoso lavoro di sepoltura, a mani nude, i Borgomastri dei paesi limitrofi e i loro abitanti costretti a capo chino ai bordi delle fosse comuni, le floride SS donne, ben pettinate, nelle divise impeccabili dagli stivali lustri, che ascoltano con visi impenetrabili il discorso in tedesco diffuso dall’altoparlante di un furgone, che le inchioda alle loro responsabilità, non hanno nulla a che vedere con la partecipazione generica al dolore delle vittime, con la pietà indistinta delle commemorazioni.
La convinzione forte che i Tedeschi non potessero non sapere quello che accadeva a pochi chilometri dai frutteti in fiore nella primavera e dalle linde fattorie, e che ne fossero complici, insieme alla definizione del sistema economico di sfruttamento legato ai campi di concentramento, erano sicuramente ai tempi un taglio molte forte, che sconsigliò, anche per motivi di opportunismo diplomatico, la diffusione e l’ultimazione del documentario.
Un dato sorprendente è la scelta, forse consapevole o forse dettata dalla mancanza in quel momento di informazioni precise sulle cifre delle vittime, di non focalizzare lo sterminio sulla Shoah ebraica, ma su tutti i deportati, quasi che universalizzando il male e non attribuendogli precise motivazioni razziali o ideologiche, esso fosse ancora più evidente e riprovevole. Oggi si tende facilmente a dimenticare il sacrificio di oppositori politici, omosessuali, zingari, persone con handicap fisici o mentali.
Questa sensazione di tragedia corale di uomini di tutte la nazionalità, idee politiche e religioni guancia a guancia in una tomba comune, dalla fredda elencazione di numeri ci riporta a una folla di visi, di sguardi, di maschere congelate nel momento del trapasso, di corpi morti per cui finalmente avere pietà e cura nei sette terribili giorni di funerali, ma anche vivi, esausti, barcollanti, nei sorrisi, nella rabbia, nella dignità ritrovata nell’indossare di nuovo vestiti umani. Di corpi che si sciolgono in gioia sotto il miracolo dell’acqua calda.
L’occhio della cinepresa sceglie di non nascondere nulla dei vivi e dei morti, dei sommersi e dei salvati.

Mio nonno Giorgio Puecher era uno di questi “politici”. Fu ⇨ deportato a Mauthausen dopo la fucilazione del figlio ⇨ Giancarlo, per estensione di colpa, per pura ritorsione e fu tra quelli che non riuscirono a tornare, annientato del tifo, pochi giorni prima della liberazione del campo.
La sua morte è descritta nelle pagine di un piccolo libro, uscito nel 1967, scritto da un suo compagno di prigionia, il militante socialista Mino Micheli, uno dei pochi sopravvissuti. Mi era sempre stato risparmiato di leggerlo. Ma ho vivo il ricordo delle lacrime di mio padre, del suo mutismo per giorni dopo averlo avuto fra le mani. Le lacrime di un adulto per un bambino sono sempre qualcosa di inaspettato e di indelebile. Riordinando le biblioteca l’ho trovato per caso, qualche tempo fa, nascosto dietro ad altri libri. Si è aperto da solo al punto esatto. Le pagine del breve capitolo XIII, da 122 a 128, sono staccate e spiegazzate, sfrangiate ai bordi e segnano una frattura nella rilegatura fragile del libro. Cosi ingiallite da sembrare quelle di un incunabolo. L’odore di fumo delle mille sigarette, misto a smog, cera del parquet di legno dello studio di mio padre, ancora lo impregnano così intensamente che, se chiudo gli occhi, rivedo la stanza nei minimi particolari, con lui seduto alla scrivania, concentrato e inavvicinabile, e ricordo persino la disposizione dei libri sugli scaffali a gruppi tematici.
Micheli scrive per ricordare i compagni, mantenendo una promessa fatta a loro, con una prosa viva e semplice, in certi punti anche molto profonda e apre sui campi una prospettiva inedita di umanità e di solidarietà.

L’educazione politica ha un grande peso nel comportamento dei singoli. Il politico vero, puro, qualunque sia la sua fede, anche nel fango di questa grande miseria, ti stende la sua mano pulita. [pag.28]

Per cercare di sopravvivere e di aiutare i compagni non ha nessuna difficoltà ad affermare di

passare le sue giornate rubando.

Arraffa con rischi enormi tutto quello che può, quando può, approfitta della miopia di chi distribuisce le zuppe per ripassare molte volte con la scodella per i più deboli, come una specie di folletto buono del campo, reagisce e lotta in tutti i modi, con le luminose figure dei medici deportati, che cercano di alleviare come possono, con pochissimi mezzi, le sofferenze dei compagni.

Le sue parole su Giorgio Puecher restituiscono una piccola ma importantissima parte di ciò che è stato tolto per sempre.

Pensai che Puecher fosse più ammalato di quanto sembrava e ne parlai con il professor Vallardi che lo visitò. Fisicamente era come la maggior parte dei deportati, sui quali oscillava la spada di Damocle; ma vi era in lui una sconcertante passività. Nella maggior parte di noi era evidente il desiderio di aggrapparsi tenacemente ad una speranza fatta, magari, di nuvole. Tanto per poter vivere ancora, o almeno per poter sopravvivere il più a lungo possibile. In Puecher invece colpiva soprattutto la sua natura impenetrabile. Vi era qualcosa in quest’uomo che non traspariva, ma che si sentiva, direi quasi si vedeva, tanto era palese il suo sforzo di non volersi esprimere. Tutto ormai gli appariva falso ora, i rapporti umani, le leggi, la morale. Si sentiva spogliato dai valori umani più elementari e più sacri.
Una volta sola si sfogò, d’improvviso, con poche frasi violente. Credo di aver tenuto a mente con una certa fedeltà le parole:
“Il genere umano non vive più la sua vita, qualcosa è scoppiato nel mondo, qualcosa che ne ha infranto lo spirito. La storia dirà che questo nostro tempo fu uno dei più tristi e tribolati che l’umanità abbia vissuto: perché essa è stata investita da un’ondata di pazzia frenetica. Quando la guerra sarà finita, nessuno l’avrà voluta, e pochi avranno interesse a ricordarla. In questo momento i “saggi di dopo” dove sono? Cosa fanno? Sentono oggi l’eco della scarica di piombo che ha fulminato il mio ragazzo? Capiranno cosa v’è qui, qui…”
E battendosi il petto con foga, ci voltò le spalle curve e andò a sfogare, da solo , la sua disperazione.
Questo era il male di Puecher, un’angoscia che non gli dava pace.

[…]
Eccolo là. Lo guardo, ha il viso nascosto nelle mani, la schiena sussulta per il singhiozzo. Ma come si potrà dimenticare?
Puecher non vuole che ci si curi di lui, ha il pudore dei suoi sentimenti: non vuole essere confortato; anche il dolore ha diritto alla libertà e lui il suo lo vuole per sé.
E fu passivo in tutto, indifferente a tutto. Senza un lamento. Senza una imprecazione. Più i giorni passavano, più si affievoliva, assieme al suo spirito, anche la resistenza fisica.
Un giorno mi disse: “Qui hanno inventato la morte in serie, non c’e scampo, se qualcuno tornerà e avrà voce per farsi intendere provi a dire, provi a raccontare queste pazzie, queste infamie, queste negazioni, provi. Dubito che possa essere compreso. Io sono certo di non tornare, trovo più ragionevole cedere che resistere.”

Avere letto queste ultime parole, raccolte con fedeltà e affetto, chiude per me un cerchio ideale, aggiunge un’ultima tessera ai lunghi racconti dell’infanzia sulla storia di queste figure della mia famiglia, che non ho mai potuto conoscere. Ascoltati per lunghe ore in braccio a mio padre, che solo in quei momenti ci apriva completmente la sua anima sensibile e tormentata. Il nonno Giorgio ritorna a me nella sua moralità estrema di uomo di legge e di giustizia che non accettò di fuggire dopo la morte del figlio, così dignitoso in quel suo abbandonarsi, nel cedere al rovesciarsi di tutte le sue convinzioni più profonde, allo svanire di quel mondo pulito è morale in cui educò i suoi figli al rigore, di quel mondo tenero della villa di campagna in cui allevava conigli d’angora per farne maglioni ai suoi tre bambini, e del curatissimo frutteto i cui frutti si seccavano al sole per l’inverno, mele, pere albicocche prugne… di quel mondo che tengo nel mio cuore per sempre.

Quando Micheli parla della passività e dell’apatia come cause dell’accelerazione verso il decadimento:

Quando il fisico cede, la coscienza ha un certo oscuramento.

riassume in poche parole il succo di un piccolo ma importante libro di ⇨ Viktor E. Frankl Uno psicologo nei lager ARES [2012], la cui rilettura può ancora dare delle indicazioni preziose sulla capacità dell’uomo di resistere a qualsiasi privazione, sulla forza spirituale e sulla dignità per affrontare qualsiasi dolore, per trovare il senso della vita proprio dove viene negato. Da psicologo, da uomo di scienza, Frankl analizza dall’interno i delicati meccanismi spezzati dalla detenzione. C’è un punto in cui paragona la sensazione di annientamento provocata dalla mancanza di una scadenza precisa alla prigionia, a quella provocata dalla disoccupazione:

Quando i nuovi prigionieri arrivavano in un Lager, di regola non sapevano esattamente quali fossero le condizioni vigenti nel campo di concentramneto. I reduci dovevano tacere e da certi Lager non era ancora tornato nessuno… Tuttavia non appena i neofiti entravano nel Lager, lo scenario interiore mutava: con la fine dell’incertezza giungeva presto anche l’incertezza della fine. Non era possibile prevedere se questa forma di vita sarebbe mai finita e quando ciò sarebbe avvenuto.
Com’è noto la parola latina “finis” ha due significati: fine e scopo. Quando un uomo non è in grado di prevedere la fine di un’esistenza (provvisoria), non può neppure vivere per uno scopo. Non può neppure, come l’uomo nella vita normale, esistere guardando al futuro. Di conseguenza cambia anche tutta la struttura della sua vita interiore. Si arriva a fenomeni di decadimento interiore, sul genere di quelli già noti in altri settori della vita. In una situazione psicologica assai simile, ad esempio, si trova il disoccupato. Anche la sua esistenza è diventata provvisoria; in un certo senso neppure lui può vivere volgendosi al futuro, verso uno scopo situato nel futuro.

[pag. 121]

Un monito agli attuali metodi di annientamento sempre in agguato nelle nostre civili democrazie, che stanno evolvendo verso una dittatura economica tanto più strisciante, tanto più pericolosa.

Nelle parole di dolore e di speranza di questa ⇨ canzone della Resistenza tedesca nata nel Campo di concentramento statale prussiano di Börgermoor-Papenburg nel 1934, che si diffuse poi con misterioso passaparola negli altri campi, un ultimo pensiero agli uomini e donne, ai bambini e al loro sacrificio.

DIE MOORSOLDATEN

DIE MOORSOLDATEN
Wohin auch das Auge blicket,
Moor und Heide nur ringsum.
Vogelsang uns nicht erquicket,
Eichen stehen kahl und krumm.
Wir sind die Moorsoldaten
und ziehen mit dem Spaten
ins Moor!
Hier in dieser öden Heide
ist das Lager aufgebaut,
wo wir fern von jeder Freude
hinter Stacheldraht verstaut.
Refrain
Morgens ziehen die Kolonnen
in das Moor zur Arbeit hin.
Graben bei dem Brand der Sonne,
doch zur Heimat steht der Sinn.
Refrain
Heimwärts, heimwärts jeder sehnet,
zu den Eltern, Weib und Kind.
Manche Brust ein Seufzer dehnet,
weil wir hier gefangen sind.
Refrain
Auf und nieder gehn die Posten,
keiner, keiner kann hindurch.
Flucht wird nur das Leben kosten,
vierfach ist umzäunt die Burg.
Refrain
Doch für uns gibt es kein Klagen,
ewig kann’s nicht Winter sein.
Einmal werden froh wir sagen:
Heimat, du bist wieder mein.
Dann ziehn die Moorsoldaten
nicht mehr

I SOLDATI DELLA PALUDE
Dovunque si volga lo sguardo
tutt’intorno vi sono solo lande e paludi.
Il canto dell’uccello non ci rallegra,
le querce sono spoglie e storte.
Siamo i soldati della palude
e partiamo con la vanga
verso la palude!
Qui in questa landa desolata
è costruito il Lager,
qui dove, lontani da ogni gioia,
siamo stipati dietro il filo spinato
Rit.
Ogni mattina in colonna
andiamo nella palude a lavorare.
Scaviamo sotto il sole cocente
ma è alla patria che il pensiero è diretto.
Rit.
A casa, a casa ognuno anela
dai genitori, dalla moglie e dai figli.
Qualche petto è rigonfio di un sospiro
perché siamo qui prigionieri.
Rit.
Su e giù vanno le sentinelle,
nessuno, nessuno può passare.
Fuggire costerà solo la vita,
la fortezza è quattro volte cintata.
Rit.
Ma da noi non viene nessun lamento,
l’inverno non può durare in eterno.
Un giorno diremo felici:
patria, sei di nuovo mia.
Allora i soldati della palude
non partiranno più con la vanga
verso la palude!

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NOTE
  1. – Con i professori a scuola se tu dici una cosa del genere, pure a livello didattico…
    Pure per te, una cosa personale, i voti.

    Perché io pure sono d’accordo che non sono mai esistite le camere a gas e non c’e’ mai stata nessuna deportazione, sono il primo a dirtelo…
    Però in questo caso davanti a un professore, davanti a un giornalista…

     

    – Da me in facoltà ci sta una che non la tocca nessuno, non la guarda nessuno perché non so di quale tribù fa parte. Tribù ebraica.
    – Se tu vedi, questa passa e tu vedi tutti gli israeliani, pure i palestinesi, cioè i palestinesi…
    Gli arabi che la salutano con rispetto proprio…
    La cosa infatti mi sta facendo stizzire troppo. Infatti io a questa la devo vattere.
    O la picchio o me la chiavo e gli faccio uscire il sangue dal c…
    Però davanti a tutta la facoltà.

    [ dalle ⇨ intercettazioni ambientali
    fascia d’età under ’85
    nel corso della recente inchiesta
    sugli ambienti neofascisti ]

    [ consiglio a chi ha pronunciato – con volgarità d’animo e ritardo storico assoluto – le disgustose frasi e minacce – rimaste per fortuna senza esecuzione – per avere voti migliori a scuola e salvezza in Cielo e in Terra – la visione ripetuta di questo documentario – per natura credo possibile ogni ravvedimento umano – o disumano che sia ]

22 Commenti

  1. Quello che successe allora fu una follia totale della mente di alcuni psicopatici che grazie alle debolezze insite nella democrazia furono democraticamente eletti e una volta al potere la malvagità insita in loro si manifestò in un orrore senza fine.
    germania e italia si sono macchiate di una infamia che sarà ricordata per sempre dall’umanità e alla fine molti(ma non tutti purtroppo) ebbero ciò che si meritavano e comunque non sarà mai abbastanza per simili responsabilità.
    Ricordare coloro che subirono atroci torture e furono massacrati senza pietà dal nazi-fascismo è un dovere che bisogna sempre adempiere.

  2. Per ricordare e capire serve accettare di vedere,senza risparmiarsi anche se, oggi, dopo tutto quanto viene messo in rete di orrore e violenza pare che niente riesca a scuotere le persone, niente riesca a fermare la loro attenzione su quanto è accaduto e continua a mettere le sue radici nell’ignoranza, nel voler ignorare quanto ha mosso quei gesti criminali e orribili.Ringrazio per questo documento e per le riflessioni che propone.fernanda ferraresso

  3. la disoccupazione: produce prigionia e disbonibilità ad accettare qualsiasi risoluzione,serve a produrre schiavi che per “fame”, è disposto ad accettare lavori anche sotto il limite di retribuzione, senza diritti.Insomma quanto sta accadendo con lo smantellamento della nostra società, del pensiero critico, dell’umanità alla radice del pensiero, sostituite da false illusioni e vacuità consumabili alla pari di ogni merce di cui si infiammano per poco.

  4. La parola si ascolta nella parte più scura di sé.

    Quando ho iniziato la lettura delle testimonianze della Shoah, ho provato desesperanza, angoscia, paura. Ero in preda alla paura arcaica, alla fame, alla tortura, all’asfissia. Ero costretta da sospendere la lettura. Ma anche il pianto mi veniva. Sentivo la morte in ogni parte del mio corpo, in ogni angolo della mente.

    Ho capito il potere della parola. Non era una ricerca della bellezza: era sopravvivenza.

    Dalle tenebre veniva la musica dell’anima, dal dialogo permanente con i fantasmi veniva la lingua ritrovata, la ragione di dare una memoria ai figli.

    Ringrazio Orsola per la sua testimonianza.
    Mantenere viva la memoria.

  5. *(Ho visto questo mese a Pirna un KZ in marcia : donne ebree e i loro bimbi, tutti tremendamente magri, con occhi scuri di grandezza assurda, lì vicino imprecanti carnefici SS a cavallo, gote rubizze, in spessi cappotti grigioverdi, alla malora !)*

    questo è in assoluto nella letteratura tedesca il primo accenno ai KZ (campi di concentramento). è tratto dal leviatano di arno schmidt. sia detto oggi alla memoria.

  6. cara Orsola, ho letto col cuore stretto le parole che Micheli ricorda dette da Giorgio Puecher. Mi colpisce più di altro la domanda “In questo momento i “saggi di dopo” dove sono? Cosa fanno?”, perché è una domanda che anche oggi tutti possiamo farci, riferita a varie situazioni, tutte ugualmente tragiche. Dove sono essi?
    Grazie comunque di quest’intensità senza retorica che riesci a suscitare ogni volta.

  7. mi ha colpito la parte della “variante di Lüneburg”,il un romanzo di Paolo Maurensig,in cui il narratore internato è costretto a giocare a scacchi con un suo avversario talentuoso quanto lui ma destinato a una carriera di SS,ufficiale di quel campo di concentramento,che per non annoiarsi e trovare finalmente all’altezza lo convince a ciò usando come posta la salvezza o la morte dei deportati.IL resoconto di quella tremenda sfida è un distillato di una tale intensità che si capisce quanto poi,a guerra finita non abbia mai più stato in grado di concepire un gioco fine a se stesso.E torna da pensare a quanto affermato forse da Vonnegut,per cui solo i sopravvissuti sono morti

  8. mi ha colpito la parte della “variante di Lüneburg”,il un romanzo di Paolo Maurensig,in cui il narratore internato è costretto a giocare a scacchi con un suo avversario talentuoso quanto lui ma destinato a una carriera di SS,ufficiale di quel campo di concentramento,che per non annoiarsi e trovare finalmente un avversario all’altezza lo convince a ciò usando come posta la salvezza o la morte dei deportati.IL resoconto di quella tremenda sfida è un distillato di una tale intensità che si capisce quanto poi,a guerra finita non sia mai più stato in grado di concepire un gioco fine a se stesso.E torna da pensare a quanto affermato forse da Vonnegut,per cui solo i sopravvissuti sono morti.Agli altri forse resta il compito di sentire la campana quando questa suona per loro

  9. avevo già visto questo documentario ma, rivederlo, fa tristezza infinita.. dico, semplicemente, che a napoli, qualche giorno fa, un idiota fascistello voleva violare una ragazza rea di essere donna ed ebrea.. che altro dire dott.ssa Orsola Puecher??? barbarie semina odio anche a tanti anni di distanza.. con stima
    r.m.

  10. (..)con la fine dell’incertezza giungeva presto anche l’incertezza della fine. Non era possibile prevedere se questa forma di vita sarebbe mai finita e quando ciò sarebbe avvenuto.
    (..) Quando un uomo non è in grado di prevedere la fine di un’esistenza (provvisoria), non può neppure vivere per uno scopo. Non può neppure, come l’uomo nella vita normale, esistere guardando al futuro. Di conseguenza cambia anche tutta la struttura della sua vita interiore.
    ..
    Qualcuno nei campi non è mai uscito e qualcuno ci entra, non appena nasce.

  11. Tutta la mia solidarietà ai nostri fratelli torturati in questo modo…ma mi chiedo, tanta attenzione sulle vittime, non è fuorviante ai fini di chi ha perpetrato quelle violenze? Mi spiego meglio: i tedeschi, gli italiani, non sono stati puniti abbastanza per quel che hanno fatto…Per ragioni di opportunità, leggo, i terribili film effettuati anche da registi come Hitchock non sono stati divulgati subito dopo la guerra e addirittura, negli anni Sessanta, quando c’era il boom, il governo italiano, d’accordo con quello tedesco e belga, mandava contadini poveri a fare i minatori in cambio di carbone e quegli emigrati nostri, meridionali, venivano alloggiati nelle baracche dei campi…ma ci rendiamo conto? Nelle fabbriche forse avranno trovato dei sorveglianti nazisti e un certo fascismo serpeggia ancora in Italia, in universi concentrazionari come le scuole….vedere questi poveri carcerati nei campi inerti, deboli, pelle e ossa, fa pensare anche che in precedenza non c’è stata opposizione e non c’è stata opposizione perché, come fa vedere bene il film “La chiave di Sara” e altri, quei “cari” vicini si sono subito impossessati dei beni espropriati senza diritto alcuno…Bisogna vigilare! Vigilare, è un mondo orrendo, non ci si può salvare dopo che è successo questo! Bisogna vigilare sempre! Contro i capetti,, contro la burocrazia, contro i furti, contro lo squadrismo mentale!!!Un abbraccio a Orsola Puecher!
    Mariateresa

  12. Ricordo. M’arricordo.
    Ricordare non è mai dimenticare. Dimenticare è tradire. Anche se qualche volta mi sono esercitato a dimenticare. Ci ho provato, ma è stato peggio. Tradivo me e l’intera umanità.

    Ricordo. M’arricordo.
    Io, sapete, non sono uno soltanto. Ho la mia faccia di tante altre. Io, anzi noi, siamo vite a non finire. I nazisti e i fascisti d’ogni nazione si sono messi insieme e come obbiettivo, da allora a oggi, hanno come obbiettivo volerci finire nel forno, in polvere, del campo di concentramento. In polvere.

    Ricordo. M’arricordo.
    Io e la mia sorellina avevamo sette mesi nella pancia di mamma, ma per fortuna lei non ci ha mai lasciati. Ci accarezzava e ci parlava con voce dolce, allegra e sommessa, anche quando il caldo divenne insopportabile. Io sono Michele il pazzo, e forse, la malattia mi ha aiutato a vedere molto prima ciò che ci aspettava e così di notte, nudo e al freddo sono volato in cielo. Io sono Tatiana la prostituta, anche qui dentro il mio mestiere non mi ha lasciata disoccupata. Racimolo sempre del cibo. Il popolo qui è morto. A modo mio cerco di vivere. Ero l’ingegnere fuori di qui, mia moglie e i miei figli sono morti e adesso io sono soltanto uno spaventapasseri pelle e ossa.

    Ricordo. M’arricordo.
    Ho trent’anni e l’essere un ebreo di umile condizione non mi ha salvato. Mi hanno detto che sono l’ebreo più conosciuto del quartiere. E poi mi hanno rinfacciato che faccio schifo perché sono omosessuale. Nessuno crederà alle mie parole ormai nel vento e nell’oscurità del silenzio, i soldati, anche quelli alti in grado, hanno abusato di me perché bellissimo. Ma sempre schifoso. Ho i capelli lunghi e rossi, invece mia sorella Tatiana corti e neri, mentre mio fratello Sigfrido è biondo e ha gli occhi azzurri come quelli di qui. Una sera ci hanno portato dove alloggiavano i soldati, spalleggiati anche da uomini in abiti civili. C’era una grande tavolo e sopra ogni ben di Dio. Ci hanno detto che quella roba era anche per noi. Prima di farci sedere ci hanno due donne del campo hanno portato dei vestiti nuovi e puliti.

    – Spogliatevi. – ha detto una delle due donne.

    Noi non volevamo, ma l’altra donna ci minacciati con lo sguardo.
    I vestiti erano come quelli dei grandi, ma le taglie andavano bene. Ci hanno fatto mangiare e anche bere vino e nel vino c’era qualcosa, perché abbiamo iniziato a ridere e a fare ciò che volevano, ma stranamente eravamo noi a fare quello che loro desideravano. Era l’alba quando ci siamo svegliati pieni di sangue. E avevamo male in ogni parte del corpo. I soldati dormivano. Noi ci siamo messi a piangere e così ho visto una pistola appoggiata sul tavola e l’ho scaricata su noi tre. Avevo messo fine a una sofferenza che sarebbe continuata ogni notte.

    Ricordo. M’arricordo.
    Io sono la tenutaria della casa di appuntamenti. Non posso crederci che anche io sia qui. Conosco anche qualcuno qui nel campo. Erano anche loro tra i mie clienti. Eccoli laggiù i Spilberg padre e figlio. Il padre del ragazzo veniva da Gina perché le ricordava la moglie quand’era ancora viva. Il ragazzo, un ventenne brufoloso e timido come l’acqua ghiacciata, aspettava che suo padre finisse, perché anche lui preferiva Gina. E poi c’era Federico, lo sbandato del vicolo Speranzella, tra un furto e l’altro voleva soltanto Elena, di cui una volta era innamorato.

    Ricordo. M’arricordo.
    Dovete aver pazienza quando scrivo m’arricordo: è un termine del mio dialetto; parte del mio corpo. sono cresciuto con il latte della lingua madre: il dolore. E perciò parlata internazionale.

    Ricordo. M’arricordo.
    Ci presero e ci portarono via in un treno dai freddi vagoni. Il gelo nel sangue. Eravamo venti. E tutti piccoli. Tra il primo e l’ultimo ci differenziano quattro anni. Siamo una piccola gamma.

    Ricordo. M’arricordo.
    Mi chiamo Sergio. Io sono Anna. Mi chiamo David. Io sono Ester. Mi chiamo Giuseppe. Io sono Sara. Mi chiamo Igor. Io sono Cecilia. Mi chiamo Giacobbe. Io sono Ciro. Mi chiamo Simone. Io sono Maddalena. Mi chiamo Spartaco. Io sono Anastasia. Mi chiamo Giovanni. Io sono Isabella. Mi chiamo Sebastiano. Io sono Ipazia. Mi chiamo Alessandro. Io sono Maria. Ci seviziano. Ci fanno del male usando strumenti chirurgici per studiare come reagiamo. Ci offendono. Ci violentano a turno o insieme. Ci ammutoliscono nella polvere.

    Ricordo. M’arricordo.
    Ma i ricordi emergono non appena splende il sole o quando la notte scura cala nell’anima e nel corpo. Nonostante la lotta con l’oblio, nulla è assente. La goccia che cade dalla grondai. Il fruscio di una foglia. I passi sull’acciottolato. Il mare I nostri ricordi sono il dolore che come gobbe spuntano dentro e fuori di noi, ma che nessuno vuole vedere e toccare. Non ricordateci solo per ciò che siamo stati, ma per le vite che non abbiamo vissute e amate.

    Ricordo. M’arricordo.
    Il tempo del dolore che in voi sopravvissuti non passa mai. Quel tempo di allora e di oggi che ci tiene in pensieri di catene. E che non libera nemmeno noi. Qui, però, ognuno è noi tutti. Sempre.

  13. e ricordiamo anche le diverse amnistie che permisero a fascisti e nazisti di farla franca?
    Leggi TOGLIATTI…

  14. http://postnarrativa.org/2013/01/22/el-perro-autoriquestaelunionesovietica/

    Mio nonno e mio padre, un lungo viaggio in macchina, la strada stesa, l’andatura lentissima, le sterpaglie, ricordo da dietro e dal mezzo assistere all’abituarsi con le curve, l’assestarsi, le linee, la delimitazione, il limite, sapere dov’era il mare e dove il cielo, in tutto quel ammasso di cose.

    Molto tempo dopo avrei imparato quanto vantaggioso e quanto benefico fosse spostare l’asticella a proprio piacimento.
    La ragione: avrei pure imparato a riconoscere, ed amare il sapore del sangue e l’odore del fumo.
    “Non esiste il mi piace e il non mi piace”, diceva sempre mio padre, “esiste ciò che si deve fare e ciò che non si deve fare!”.

    Sempre gli stessi pantaloni mio padre, sempre la stessa camicia a righe, eppure ne comprava due per ognuna, ogni sabato, mio nonno forte e tenero, aveva ancora la forza di battermi a braccio i ferro.

    “Li abbiamo massacrati agli alleati. Loro si sono vendicati liberandoci”, diceva sempre mio nonno, e poi si commuoveva, e rivolgeva a mio padre sguardi che puntualmente non venivano ricambiati da quegli occhi bassi e piccoli, mai ricambiati.
    “Gli alleati si sono proprio vendicati.”

    Il porto era interamente un tanfo. Il porto militare era anche peggio. La diaspora fra quelle uniformi bianche, i pantaloni diritti e con la piega in mezzo, si scarnificava dolorosamente con il luridume di quel posto e del mondo in cui ora cominciavo a metter piede.

    In questo mondo dove il racconto si è interrotto, nel rifiuto di quelle divise da coglioni.

    Un sottomarino, gigantesco, nero come la pece, macchiato solo da muffe ed alghe, lungo almeno 80 metri, come un campo da calcio, me lo indicava mio nonno, blaterando continuamente, “c’ho perso l’udito là dentro, l’ho perso, è la pressione, è tutta colpa della pressione.”

    Mio padre che ancora fumava, allora fumava.

    “Quel terribile giorno,” – SI ERA RIMESSO A PIANGERE – “che tragedia, ho provato a rifiutare la medaglia e la nomina a cavaliere del lavoro, ho riferito ai miei superiori, l’accaduto, mi hanno detto di starmene zitto, mi dicevano sempre lei è un eroe, joseph.”

    “Beata la terra che non ha bisogno d’eroi”, mi diceva sempre infatti, e ci credeva e la sua storia era il modo in cui guardava le acque calme e viscose. “Beata la terra che non ha bisogno di eroi”, il sole era calato sulle nostre facce fortunatamente, SU UNA SCENA PIETOSA DI UN GIORNO NOIOSO.

    Anche allora avevo la sana abitudine di combattere la forte luce con gli occhiali da sole, calati sugli occhi, ad un bambino danno un tocco da malato.

    Poi irruppe qualcosa, tolti gli occhiali, fissai quella sfera, fermai la considerazione eludendo dal ritenerla scontata, e la guardai, senza indugi, in completa solitudine.

    Successe l’inaspettato, ebbene, girandomi di scatto, dovetti trattenermi dal non svenire o urlare di dolore, il marchio era marchio di fuoco, quel destino si impresse da lì ad innumerevoli stagioni, si scagliò contro di me, piccolo e indifeso, le visioni delle bombe, di quella guerra che io non ebbi combattuto e di quella che fui costretto a combattere, due volte uscito sconfitto, il rumore di vetri infranti, ed il sussulto.

    Qualcuno spense qualcosa.

    Qualcuno spense il rosso e l’arancione e il giallo. Qualcuno portò via l’acqua e rimase solo la luce. Quella luce inservibile, indifferente nel nero del sottomarino, nel bianco della banchina.
    La situazione già drammatica di per sé, divenne malamente mortifera, insieme al colore se ne era andata pure, la.. io la definirei la mia ombra, insomma nonostante la luce, non facevo più ombra o meglio avvertivo l’indistinguibilità della stessa.

    “Divenni corpo ed ombra, quindi non fottetemi”, raccontavo solitamente, nell’estasi adulta, ai miei sottoposti.

    Cercai disperato di appendermi a mio padre, mi misi a correre nella sua direzione, ma l’uniformità delle percezioni mi confondeva, mi faceva inciampare, e piangere, e cadere. Arrivato gli strinsi forte la mano, di cui vedevo ogni singolo dettaglio, ora, le pieghe, le escoriazioni, la peluria, era una perfetta, minuziosa e fredda mano, in contrasto.

    E poi venne l’accettazione, la comprensione e fu senza travagli e senza gioie. In questo primo capitolo marmoreo e languido, questo è l’inizio di: la logica dell’amico-nemico, la traslazione indomabile ma con impeccabile precisione, lo spostamento nella zona grigia, smascherando la coltre di menzogna avvolta attorno a qualcosa non differenziata ideologicamente da qualcos’altro.

    Nessun meccanismo difensivo. Nessuna resistenza. Facile.

    Ero solo un bambino, e mio nonno quel giorno scivolò dalla banchina. Nessuno poté dare la colpa a nessuno e il caso fu archiviato come comune incidente.
    Lo ripescarono poco dopo, ripescarono il suo corpo e non il suo fiato, quello non lo trovarono.

    Ero solo un bambino, e la scena mi lasciò immensamente, indifferente.

  15. Grazie mille, davvero, per condividere con noi questa tua storia, così personale e intima. Mi ha fatto avere i brividi.

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