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Cosa c’è di europeo nella letteratura europea?

di Dubravka Ugrešić

La letteratura europea e l’Eurovision Song Contest

La nozione di letteratura europea, così come viene intesa dai politici dell’Unione, da coloro che finanziano la cultura, dagli editori, dai dipartimenti di letteratura, dalle università vecchio stile e molto spesso dagli scrittori stessi, non è poi così diversa da quella di “miglior canzone pop in Europa” che si ha all’Eurovision Song Contest.
L’Eurovision Song Contest è l’esempio più straordinario della fusione spirituale del continente: è una grandiosa (in grandioso stile europeo) sarabanda del kitsch musicale di tutti i paesi europei. Molto più di quello musicale, tuttavia, sono altri gli aspetti del concorso che offrono l’intrattenimento maggiore: le mises (quest’anno gli interpreti ciprioti avevano i vestiti migliori!); la messa in scena (gli irlandesi quest’anno avevano tanto di quel fumo sul palco che hanno quasi scatenato un incendio!); il momento della votazione (Croazia, dieci punti! Belgio, due punti!); le cartoline televisive dai diversi paesi o le brevi visite agli studi di Tallinn e di Dublino; l’intrattenimento “politico” (Scommetto che la Croazia darà un alto punteggio agli sloveni e che gli sloveni daranno il massimo dei voti alla Croazia!); la presenza di nuovi paesi partecipanti (Oh, quest’anno abbiamo anche i bosniaci!); l’assenza di alcuni paesi non-partecipanti (Per me nessun serbo canterà in Europa!). Quanto alla musica, è scontato che i turchi siano presenti con un brano folcloristico dal sapore orientaleggiante, mentre gli svedesi cerchino di replicare i successi da hit parade dei loro ABBA. Il più grande spettacolo europeo ha anche un lato didattico (Il pubblico impara a conoscere nuovi stati: Lettonia, Estonia, Lituania) e uno ideologico (D’accordo, abbiamo fatto entrare gli estoni, ma in nessun caso permetteremo ai turchi di fare altrettanto: il loro modo di cantare ha grossi limiti!). Il tutto, naturalmente, produce grandi profitti. Ci sono momenti in cui s’inarca stupiti il sopracciglio, quando, ad esempio, appare Diva (Viva la diva! ), il travestito israeliano. Ma una certa meraviglia, in un concorso mainstream come questo, non può che rivelarsi rigenerante.

La vita letteraria europea, generalmente, non è poi così diversa dall’Eurovision Song Contest. Anch’essa ha i suoi grandi nomi dietro ai quali c’è sempre (Sempre!) uno Stato. È certo meno spettacolare. Ma la cerimonia del Man Booker Prize, trasmessa ogni anno da qualche canale televisivo, dimostra che anche la letteratura può diventare uno spettacolo holliwoodiano. I vincitori del premio si riuniscono rumorosamente sul palco (Canada, dieci punti!) e ringraziano in modo incredibilmente simile a quello delle pop star. I giudici emettono un giudizio più eloquente, il che non stupisce se si pensa che le parole, più che le note musicali, sono la sostanza della letteratura. Considerando l’impatto commerciale dello show, si conferma la validità del confronto che ho proposto all’inizio, indipendentemente da chi lo reputi ingiusto, malizioso o poco riguardoso.

Il ruolo di Gregor G. Drubnik in tutto questo

Circa trent’anni fa apparve in un numero del New York Times una notizia inventata su Gregor G. Drubnik, uno scrittore bulgaro che, secondo l’articolo, aveva vinto nel 1971 il premio Nobel per la letteratura. L’articolo traboccava di epiteti discriminatori – le davvero stupefacenti qualità del lavoro di Drobnik – che, nelle intenzioni del giornalista, avrebbero dovuto essere divertenti. La sola idea, infatti, che un bulgaro potesse vincere il premio Nobel per la letteratura avrebbe dovuto far sorridere i lettori.

Se mi fossi imbattuta in quell’articolo quando fu pubblicato, anch’io avrei sorriso. A quel tempo studiavo la letteratura comparata ed ero assai preseuntuosa. Leggevo gli scrittori europei e americani, scrivevo tesine su Proust e Joyce, leggevo i russi più e meno noti e studiavo le scuole di teoria letteraria quando la teoria letteraria era al suo apogeo. Pensavo di essere in simbiosi con il grande mondo della letteratura. In Jugoslavia, in quel periodo, c’era stata un’improvvisa ondata di pubblicazioni e un grande incremento delle traduzioni, e io seguivo ogni novità su cui riuscivo a mettere le mani. Quando nei primi anni Ottanta giunsi per la prima volta negli Stati Uniti, ciò che mi colpì, guardando la selezione dei libri in traduzione nelle librerie, fu la loro scarsa scelta. Non potevo dirlo a nessuno, primo perché nessuno mi avrebbe creduto e poi perché, solo pochi anni dopo, la situazione nelle librerie americane – almeno per le traduzioni – era già cambiata drasticamente.

Nei primi anni Novanta la situazione mutò anche “a casa mia”: le locali librerie erano desolatamente vuote e per me era assai difficile convincere qualcuno che solo pochi anni prima le cose erano ben differenti. In quello stesso periodo i miei libri cominciavano a farsi strada nel mondo e io, non molto dopo, li seguii. Convinta com’ero di essere in piena comunicazione con il grande mondo letterario (qualunque cosa questo significhi), mi ero dimenticata della possibilità che forse il grande mondo non stava comunicando con me.

Allorché il mio primo romanzo fu pubblicato in Inghilterra, un critico concluse la sua recensione con una domanda: Siamo sicuri che è questo quello che ci serve? Solo più tardi compresi che cosa aveva voluto dire. Non mi ero accorta che nel corso dei miei viaggi un’etichetta continuava a rincorrermi: Made in Balkans. Quando qualcuno viene dai Balcani, non ci si aspetta da lui o da lei che produca libri di autentico valore letterario, ma che dia vita allo stereotipo che NOI abbiamo di LORO, gli abitanti dei Balcani, o dei luoghi da dove tutti LORO provengono. Avevo, perciò, completamente dimenticato da dove venivo e dove stavo andando o, in altre parole, ignoravo i codici di comunicazione stabiliti da tempo tra il centro culturale e la periferia. In tutto questo le mie capacità letterarie non c’entravano nulla.

Saltò fuori che, dopo trent’anni, l’ombra della guerra fredda di Drubnik stava ancora in agguato ai margini della periferia. Il numero di etichette che gli altri affibbiavano a me e ai miei libri continuava a crescere. Altre apparvero accanto a Made in Balkans: il collasso della Jugoslavia, la caduta del comunismo, la guerra, il nazionalismo, i nuovi stati, le nuove identità… Le mie opere comunicavano con il lettore straniero portandosi sulle spalle un grosso fardello. Sembravo una viaggiatrice con più valigie per mano che cercava di mantenere un’aria aggraziata. I miei colleghi dell’Europa occidentale, al contrario di me, viaggiavano leggeri e senza bagagli: tutto ciò che i lettori vedevano era rappresentato dalle loro persone e dai loro libri. Nel mio caso, il bagaglio stava seppellendo sia me che i miei libri. La situazione era cambiata drasticamente anche “a casa mia”. Le etichette cominciavano a prolificare anche laggiù. Improvvisamente, per comprendere i miei libri diventò importante sapere se fossi una croata o una serba, e chi fossero i miei genitori.

Dieci anni fa avevo un passaporto jugoslavo, con la sua morbida e flessibile copertina rosso scuro. Ero una scrittice jugoslava. Poi arrivò la guerra e i croati, senza neanche chiedermi il permesso, mi mostrarono un passaporto croato blu. Il governo croato si aspettava dai suoi cittadini una metamorfosi istantanea, come se il passaporto fosse stato una sorta di pillola magica. Dato che nel mio caso specifico le cose non filarono per niente lisce, mi esclusero dalla loro letteratura e da altre cariche. Con il passaporto croato in mano abbandonai la mia terra natale, quella appena acquisita e quella precedentemente demolita, e cominciai a viaggiare per il mondo. Con un entusiasmo da Eurosong il resto del mondo prese a considerarmi una scrittrice croata: diventai la rappresentante letteraria di un paese che non mi voleva. Cominciai così anch’io a non desiderare più il luogo che non mi desiderava. Non sono una fan dell’amore non corrisposto. Ancor oggi, comunque, non mi sono liberata delle etichette.

Ho di nuovo in mano un passaporto con una morbida e flessibile copertina rosso scuro, un passaporto olandese. Questo nuovo passaporto fa di me una scrittice olandese? Potrebbe, ma ne dubito. Ora che ho un passaporto olandese sarò in grado di “reintegrarmi” nei ranghi degli scrittori croati? Forse sì, ma ne dubito. Qual è il mio vero problema? Forse mi vergogno della mia etichetta di scrittrice croata che ancora mi perseguita? No. Mi sentirei meglio con un marchio Gucci o Armani? Sicuramente sì, ma non è questo il punto. Allora cos’è che voglio? Perché sono così allergica alle etichette?

Perché? Perché la ricezione delle opere letterarie ha mostrato che il fardello dell’identità finisce per impantanare l’opera. Perché è stato dimostrato chiaramente che le etichette alterano la sostanza di un’opera e il suo significato. Perché l’etichetta è, in effetti, un’interpretazione testuale semplificatrice, quasi sempre fuorviante. Perché un’etichetta fa sì che si legga in un’opera qualcosa che non c’è. E infine perché l’etichetta discrimina l’opera. Acconsentire supinamente a essere marchiati da un’identità nazionale significa sostenere e promuovere la letteratura come una nozione geopolitica, la qual cosa, in effetti, vista la realtà, potrebbe anche essere vera. Ma perché mai dovrei abbracciare la “realtà” solo perché è una “realtà”?

Perché la grande maggioranza dei miei colleghi sente la necessità di aggrapparsi a questa etichetta? Perché l’identità nazionale di uno scrittore, l’appartenere a un preciso paese, permette di affermarsi all’interno del mercato letterario e della comunicazione. Perché in questo modo è molto più facile e molto più rapido spostarsi dalla periferia al centro. Perché per molti scrittori l’etichetta dell’identità nazionale è il solo modo di comunicare contemporaneamente in un contesto locale e in un contesto globale, facendosi accettare e riconoscere come scrittori bosniaci, sloveni o bulgari. L’etichetta dell’identità nazionale è il presupposto fondamentale delle vecchie istituzioni letterarie nazionali, ma anche del moderno mercato letterario. Perché si tratta di un presupposto etnico, una vera e propria formula pubblicitaria che ha proiettato, per ragioni letterarie buone o cattive, molti scrittori dalla periferia al mercato letterario globale. Il mercato ha sempre bisogno di uno scrittore bulgaro, serbo o albanese. Di uno, al massimo due. Una certa sovrabbondanza, naturalmente, sarebbe fonte di confusione.

L’Europa giù fino all’India

La burocrazia culturale dell’Unione Europea, i numerosi managers, gli addetti e i “supporters” (burocrati che ‘supportano le questioni culturali’) – tutti costoro fanno ciò che possono per prendere una posizione. La globalizzazione, un’altra parola cara all’imperialismo culturale statunitense, preoccupa la cultura dell’Unione Europea. Mentre i critici americani usano il termine imperialismo senza rimorsi, gli europei rabbrividiscono solo a sentirlo nominare. Hanno paura di essere tacciati di antiamericanismo, come lo sono i francesi – i quali protestano per proteggere i loro prodotti culturali, nonché per quello che gli è stato sottratto: il loro perduto primato culturale. È stato dimostrato che l’antiamericanismo non è né culturalmente, né politicamente, né strategicamente, né finanziariamente produttivo: non sono solo gli uomini d’affari americani a far soldi nell’industria culturale statunitense, ma anche gli intermediari europei.

L’“identità culturale” europea (qualunque cosa ciò significhi) è “minacciata” dalle pervasive produzioni culturali di massa americane; e dagli abitanti dell’Europa dell’Est che attendono di essere ammessi, ciascuno trascinando il suo fardello culturale; dagli emigrati del circuito culturale non-europeo (il punto più doloroso, tra l’altro, del subconscio culturale europeo) i cui numeri crescono minacciosamente di ora in ora. A quale luogo appartengono tutti questi marocchini, algerini, cinesi, arabi? Chi riuscirebbe a registrarne il numero esatto in Europa? Quali categorie usare? Il loro passaporto? La lingua? La sfera culturale a cui si suppone appartengano?

Fiera della sua ideologia e della sua pratica del multiculturalismo, la burocrazia culturale dell’Unione Europea perpetua, per adesso, un collaudato e sicuro approccio – io Tarzan, tu Jane – una formula questa che riconosce le più varie identità culturali e che incoraggia il mantenimento delle specificità regionali (o di altro tipo) e, ovviamente, l’integrazione, sebbene nessuno sappia cosa voglia dire davvero questa parola. Così a ciascuno la sua fede, a ciascuna il suo burka. Fin tanto che un marocchino mette nel carrello della spesa qualcosa di marocchino, qualsiasi cosa ciò significhi, e noi invece ci mettiamo qualcosa di europeo, qualsiasi cosa ciò voglia dire, nel mondo tutto va per il meglio. È così che per lo più si scambiano i prodotti culturali, è questo il modo in cui il mercato procede, e le dinamiche della vita letteraria si sviluppano in base allo stesso radicato meccanismo.

Nel mondo tutto potrebbe andare per il meglio… se non ci fossero individui che cantano fuori dal coro, pezzi non funzionanti dell’ingranaggio, persone che erodono gli stereotipi culturali, ponendosi domande su chi sono e su chi dovrebbero essere. Individui così crescono più in fretta dei promoter culturali, dei manager, della burocrazia culturale dell’Unione Europea che si batte per l’identità culturale europea. Crescono più in fretta dei loro critici e interpreti, professori universitari e lettori. In altre parole: nessuno sa che cosa fare di loro.

Che cosa dovrebbero fare gli olandesi con Moses Isegawa, uno scrittore africano che vive in Olanda e scrive in inglese? Che cosa dovrebbero fare con me? Vivo ad Amsterdam, eppure non scrivo in olandese. Che cosa dovrebbero fare i croati con me? Scrivo in croato, ma ho una «cattiva reputazione» e torno a casa solo per le vacanze di Natale. Che cosa dovrebbero fare con me i serbi e i bosniaci? Possono leggermi nella lingua in cui scrivo – SBC (serbo-croato-bosniaco)? Come trattano gli olandesi uno scrittore marocchino il quale, anziché scrivere testi sulle differenze culturali tra marocchini e olandesi che chiunque potrebbe comprendere facilmente, si è impegnato nella ricostruzione dell’olandese del XVIII secolo? Che cosa dovrebbero fare i francesi con un arabo che ha iniziato una nuova versione della Recherche o i tedeschi con uno scrittore turco che sta scrivendo un nuovo I dolori del giovane Werther?

Fra le numerose disfunzioni del sistema letterario esistente, ho il mio esempio preferito. Joydeep Roy Bhattacharaya è nato a Calcutta. Ha lasciato l’India quando aveva vent’anni, conseguendo una laurea in Filosofia negli Stati Uniti. Vive a New York. Joydeep ha scritto un romanzo. Il tema del suo romanzo è l’Ungheria e un circolo di intellettuali ungheresi degli anni Sessanta. Gli ungheresi hanno subito tradotto il libro. Un intellettuale ungherese si è lamentato con me affermando che il romanzo parla dell’Ungheria, ma all’indiana. «Avrebbe fatto meglio a scrivere sull’India», ha commentato.

Joydeep è un uomo carino e fotogenico. L’editore inglese ha pubblicato il suo romanzo con la segreta speranza che Joydeep cambi idea e scriva qualcosa sull’India. Qualcosa tipo Il dio delle piccole cose, ma da una prospettiva maschile. Mia madre, a cui ho mostrato il libro di Joydeep con la sua fotografia in quarta di copertina, ha istintivamente concordato con l’editore inglese: «Perché non scrive sull’India?», ha sospirato. «È addirittura più carino di Sandokan…».

In un mondo in cui il «kit-identità» è diventato come lo spazzolino da denti – qualcosa di cui non si può fare a meno – Joydeep ha scelto il sentiero più arduo. Ha gettato nelle immondizie il suo «kit-identità», consapevole che gli avrebbe potuto garantire buoni profitti, e ha preferito il diritto a una libera scelta letteraria, a una letteratura libera. Joydeep conosce bene le conseguenze del suo suicidio simbolico. “A casa sua”, in India, non credo che abbiano un debole per lui. I paesi di cui scrive si lamentano poiché sono convinti di essere gli unici depositari del copyright sui loro temi. Il suo editore inglese tollera Joydeep e il suo “virus” europeo solo perché spera che ne guarirà e che arriverà il momento in cui tornerà tematicamente al “luogo a cui appartiene”: l’India. Perciò, alla domanda “che cosa c’è di ‘europeo’ nelle letterature europee?”, io rispondo: c’è il signor Bhattacharaya, un indiano nato a Calcutta che vive a New York e scrive sull’Europa.

La zona grigia della letteratura

È così che va il mondo. I croati pubblicano scrittori “croati autentici” con lo slogan pubblicitario «Leggete croato!» (come se i lettori fossero ansiosi di leggere tutto ciò che non sia scritto in croato!); serbi, lituani, estoni, lettoni, macedoni, sloveni e gli altri si sono stipati nel concetto ottocentesco di una letteratura suddivisa per gruppo sanguigno; i catalogatori letterari dell’Europa occidentale, totalmente disorientati dall’ampia penetrazione di scrittori migranti nel tessuto letterario nazionale, lottano per mantenere ben netti i confini tra letteratura “autoctona” ed “alloctona”, “nazionale” ed “émigrée”, e il risultato sembra una modesta revisione dello slogan croato (che, rivisto secondo gli standard politicamente corretti dell’Europa, suona all’incirca così: “Leggete croato, ma anche marocchino!”). Mentre ci si occupa ossessivamente dei problemi dell’identità letteraria, storica, nazionale, etnica ed europea, una vasta zona grigia di letteratura non territoriale cresce negli interstizi letterari europei (e non solo). Questa zona è abitata da autori “etnicamente inautentici”, émigrés, migranti, scrittori in esilio, scrittori che appartengono simultaneamente a due culture, autori bilingui che scrivono “né da qui né da lì”, in ogni caso oltre i confini delle loro letterature nazionali. La letteratura della zona grigia è composta da autori che scrivono nella loro lingua materna vivendo nel contesto linguistico del paese che li ospita e da altri che scelgono la lingua del loro paese ospitante. Ci sono scrittori che erodono progressivamente le convenzioni linguistiche e si muovono liberamente tra le lingue e le culture, traducendo significati: ci sono scrittori che stanno creando una nuova lingua e una nuova cultura attraverso incroci linguistici e culturali.

Queste “nuove lingue”, e di conseguenza le lingue della letteratura, sono caratterizzate da un’interazione tra diverse lingue, o deviazioni dalla lingua standard (per esempio, il Black english, lo spanglish, il newyoricano e molti altri). Lo slang degli adolescenti olandesi, ad esempio, è chiamato smurfentaal, ossia “lingua dei puffi”, dal nome dei piccoli personaggi blu, ed è un olandese “basso” attraversato dal marocchino, dal turco, dall’antillano, dall’inglese e da altre lingue. Nuovi dialetti stanno nascendo, che gradualmente diventano lingue letterarie: lo spagnolo-chicano, il turco-tedesco, il francese-algerino, il russo-americano. Le combinazioni sono infinite. Nella costellazione linguistica del dopo-Jugoslavia – nella quale la lingua comune, il serbo-croato, è stata abolita e suddivisa ufficialmente in lingua croata, lingua serba e lingua bosniaca – la variante sovversiva dell’uso linguistico è di fatto una retro-variante: la lingua SCB (un’abbreviazione per lingua serbo-bosniaco-croata usata dai pubblici ministeri del Tribunale dell’Aia).

Quasi tutti gli scrittori che stanno dando vita alle nuove letterature si sono sradicati dai loro contesti originari. Non si sentono “a casa loro” nei paesi dove vivono, né sognano di ritornare nei paesi da cui sono fuggiti. Questi nuovi scrittori si stanno costruendo il loro spazio, una terza zona culturale, una «terza geografia». La nuova letteratura è pubblicata ancora sotto categorie spesso discriminatorie, iniquamente coercitive, imposte dal di fuori, come letteratura dell’esilio, letteratura etnica, letteratura migrante, letteratura dell’emigrazione, letteratura della diaspora – in parte perché i critici letterari sono impreparati. Un codice interpretativo adeguato alla nuova realtà letteraria non è ancora stato trovato. Arjun Appadurai, ad esempio, avverte che le «formazioni postnazionali» non possono essere definite con il vocabolario politico esistente. Non c’è ancora una terminologia in grado di descrivere gli interessi sovrapposti di numerosi gruppi, solidarietà translocali, mobilitazioni transnazionali e identità postnazionali.

Non è ancora stato dato un nome a questa nuova zona letteraria. Se si guarda al crescente numero di corsi presenti nelle università americane si potrebbe scegliere il termine «letteratura transnazionale». Azade Seyhan scrive: «Intendo per letteratura transnazionale un genere di scrittura che opera al di fuori del canone nazionale, che affronta i problemi tenendo conto delle culture prive di un territorio e che parla per esse in quelle che chiamo comunità e alleanze paranazionali. Queste ultime sono comunità che si creano entro i confini nazionali o tra i cittadini del paese ospitante, ma che rimangono culturalmente e linguisticamente a distanza da essi e che, in alcuni casi, sono separate sia dalla nazione d’origine che da quella che li ospita». Franz Kafka, praghese che scriveva in tedesco, è una figura simbolo della letteratura priva di un territorio. Una ben nota definizione di Deleuze e Guattari, quella di «letteratura minore», potrebbe essere una fertile formula teorica per articolare in futuro la letteratura transnazionale. La cultura contemporanea senza territorio o transnazionale è un processo dinamico e insolitamente complesso. I suoi concetti-chiave e i suoi temi privilegiati – l’archiviazione della memoria etnica, linguistica e nazionale; la dislocazione e lo spostamento; gli scambi culturali e il trapianto o la traduzione della cultura; le narrative del ricordo; il bilinguismo o il multilinguismo; l’esilio, ecc.) mutano costantemente, subiscono modificazioni, si moltiplicano e sovrappongono i significati in un ininterrotto processo d’interazione.

Mentre i pensatori europei – imbarazzati dal numero di scrittori sempre più famosi che non appartengono “né a qui né a lì” – cercano di definire i turbolenti processi delle migrazioni letterarie, facendo ricorso, in mancanza di nozioni migliori, al vecchio termine goethiano di «letteratura mondiale», molti scrittori europei “etnicamente puri” si coccolano il loro polveroso concetto di letteratura nazionale, godendo come topi nel formaggio. I buchi nel formaggio, però, stanno diventando sempre più grandi, di formaggio ce n’è sempre meno e la babelica cacofonia dei nuovi, incomprensibili e terribili concetti che si fa strada (unità post-nazionali, unità transnazionali, mobilitazioni di confine, unità paranazionali…) diventa sempre più rumorosa. Chi poteva prevedere che questo mondo invisibile, alternativo e discriminato avrebbe avuto una crescita più rapida di quello precedente? Chi avrebbe anche solo sognato che Lolita si sarebbe svegliata un giorno a Teheran? Che Raskol’nikov avrebbe percosso nonne a Shangai? Che il figlio di quel bulgaro, Gregor G. Drubnik, che vive nelle isole Faer Oer e scrive in una lingua mista di bulgaro, farsi e ladino, sarebbe diventato il più credibile candidato per il premio Nobel?

(traduzione di Carlo Tirinanzi)

Nota
Il saggio fa parte del volume Al di là del genere (di prossima pubblicazione) che contiene gli interventi dei partecipanti alla seconda edizione del “Seminario Internazionale sul Romanzo” (2007-2008) che si è svolta alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento.

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25 Commenti

  1. Ho trovato interessantissimo questo articolo, trovandomi nella situazione di italiano all’estero (Francia) che canta nel proprio dialetto (brindisino) e che ama leggere opere di émigrés, migranti, trapiantati. Ma mi sento di fare una piccola obiezione: va bene il trans-nazionalismo (non amo affatto d’altronde il concetto di nazione), ma nell’identità ci credo. Soprattutto in quella culturale. Non si può annientarla in nome dell’universalizzazione dell’arte, della cultura e del sapere…

  2. Gli scrittori che non hanno casa da nessuna parte, capita che si sentano così a casa che più a casa di così non ci riesce manco Barilla…per esempio, leggendo questo saggio!
    Battute dettate dall’entusiasmo a parte: questo è un saggio importantissimo che, a prenderlo sul serio, fa saltare non solo i nazionalismi letterari, ma pure quel loro evolvere e in parte camuffarsi in un multiculturalismo allegro United Colors of Benetton, in cui ci si bea del variopinto parco delle creature esotiche che lo popolano, senza capire (o peggio, capendolo, ma in fondo volendo proprio questo) che esotiche non sono affatto e che la cosa di cui meno hanno bisogno è uno zoo, ossia un ghetto. Almeno in Italia, vedo molto lontano il tempo in cui chi scrive in italiano pur non essendo italiano o non di origini italiane, possa essere considerato alla pari. Ossia: capace di scrivere libri buoni o meno buoni a prescindere da ciò di cui essi trattano. Capace di gestire consapevolmente la lingua in cui scrive. Capace di operare scelte fra i modelli narrativi che elabora che appartengono verosimilmente al suo luogo d’origine e a quello dove è approdato, ma non solo..

  3. Helena, lei mi sta deprimendo l’articolo, non faccia così, non pensi all’Italia;-)

    L’articolo invece è una rivendicazione di superficie, smuove continenti e identità presunte o mancate, senza però soffermarsi sul fatto che si può essere “al di là del genere” pur non essendo “transnazionali”.
    E, ohibò, Bhattacharaya indiano-americano che scrive d’Ungheria non è forse tornato ad un luogo? Non è pure questa un’operazione che sfrutta il Danubio e i suoi trascorsi letterari? Perché gridare al miracolo o alla stranezza. Non è statica una visione che distingue buoni e cattivi sulla base del tasso di “migranza”?

  4. Cosa vorrebbe dire “al dilà del genere”? Del gender? Dei generi letterari?

    Su Bhattacharaya: non penso proprio che – detto con una battuta- dalle parti dove pubblica leggano Claudio Magris o i libri Adelphi. Ossia: la fascinazione per la “Mitteleuropa” è fenomeno (tra l’altro parecchio tramontato) piuttosto tipicamente italiano. Inoltre, il romanzo ambientato in Ungheria è uno solo. Magari il prossimo sarà ambientato nel Missisippi. O a Samoa. O sulla Luna. O in India. Sono tutti luoghi, no? Difficile fare un romanzo senza un luogo, foss’anche inventato.
    Non credo che l’intento di questo pezzo sia quello di sostenere che uno di Calcutta non possa scrivere buoni romanzi su Calcutta come uno di Canicattì può scrivere buoni librì ambientati a Canicattì. Ma vuole cominciare a criticare che venga visto male chi NON scrive del luogo da cui provviene. O – aggiungo io- che, nel bene o nel male, sembri strano che una donna NON scriva di donne o che un uomo si inventi una voce femminile. Come se Marguerite Yourcenar non avvesse scritto come niente fosse Memorie di Adriano, e un po’ prima Gustave Flaubert Madame Bovary (c’est moi, disse).

  5. “sembri strano che una donna NON scriva di donne o che un uomo si inventi una voce femminile” (mi sono fischiate le orecchie!)

    Comunque Helena inutile imbrogliare: tu sei TERRONA! ;-)

  6. Voglio proprio dire al di là del “macrogenere”, al di là di questo bisogno identitario di sottolineatura della “migranza”; mentre l’identità non corre per le linee di superficie tuttalpiù buone per i cartografi; cioè a dire, per esempio, scrivere dell’Ungheria, tematizzando, fra l’altro, “I detective selvaggi” di Bolano, potrebbe anche essere esotismo all’incontrario, rimpinguamento di una esangue esistenza assai letteraria. E dunque il ritorno ad un luogo, ma un luogo letterario, una mappa del cuore.

    Scrivi: “Ma vuole cominciare a criticare che venga visto male chi NON scrive del luogo da cui provviene”.

    Beh, le linee guida le dettano le case editrici a questo riguardo. Mi viene in mente il filone aurifero che ne so per dirne uno/due della “sicilitudine” o del “realismo camorristico”. Parliamo di costume.

    Se parliamo di costume o di etichette, allora, non si può che acconsentire, ma è ben poca cosa farlo. Si sfondano porte aperte o forse si parla fra addetti ai lavori, come nel post di Simi in reazione all’etichetta “postnoir” montanariana.

    E infine, non sia razzista, con Canicattì, quando l’ha imparato?!

  7. Cosa dice?Ah, si è attaccata all’ultima riga, ho capito, mi spiego, discutevo l’infelice scelta, dozzinale e molto borghese e anche tanto razzista sullo scrittore di Canicattì. Tutta colpa di Arbasino!

  8. Mi crede se le dico che mi è venuta fuori per assonanza? Calcutta/Canicattì mi suonava bene. Mi spiace se l’ha infastdita come mi sono infastidita io per quella sua domanda, che a mia volta, potrei interpretare come vagamente razzista.
    Comunque lasciamo stare, sono stupidaggini: ossia irriabilità create dalla comunicazione in rete.
    Ovviamente potrebbe darsi che il romanzo ambientato in Ungheria sia collocato lì seguendo l’attrazione di un luogo letterario. Il che dice ancora niente su com’è fatto. Magari è prezioso e manierista (la metto così esagerando al fine di esemplificare), magari no e il fatto che sia ambientato in un periodo come gli anni sessanta rende abbastanza facile pensarlo. Ma se è un buon libro – se- evidentemente quell’Ungheria deve corrispondere a qualcosa come “una mappa del cuore”, avere qualche motivo profondo per essere stato scelto da un suo autore. Un motivo che non c’entra né con un’identità nazionale, né con quella di “migrante”.
    E credo che Dubravka Ugresic ritenga questo libro tanto emblematico proprio perché mostra i limiti di entrambe le logiche identitarie.
    Poi è vero che sottolinea l’aspetto della transnazionalità, ma non per sostituire delle etichette sbagliate con una nuova e giusta. “Transnazionale” è una parola per cercare di dare un nome orientativo a una cosa che può assumere aspetti diversissimi.
    Certo che esiste pure la questione del mercato, dei trend, delle mode. Ma non è tutto. Perché se da un lato ci sono – riprendo una dei suoi esempi- moltissimi libri che propongono una Sicilia da cliché, Tommasi di Lampedusa, Gesualdo Bufalino, Leonardo Sciascia, Vincenzo Consolo e il lavoro di tanti autori che per tema, ambientazione, ricerca stilistica sono sicilianissimi, vengono percepepiti per quel che sono: scrittori. Poi magari può esserci da alcune parti il compiacimento di attribuirli alla sicilianità, considerarli scrittori siciliani, ma principalmente scrittori, autori letterari, restano.
    Poter concorrere a un simile riconoscimento, soltanto attraverso il valore dei propri libri, ovunque essi siano ambientati, questo per uno scrittore “transnazionale” in molti paesi -Italia in testa- è assai più difficile che per uno che si colloca all’interno di una tradizione locale. E se uno scrittore ha un’identità non cartografica questa si esprime nel desiderio di essere riconosciuto soprattutto come tale.
    Poi magari non esiste ancora un Bufalino o un Ishiguro. Probabile. Ma io saprei citarle dei libri di tutto rispetto dal punto di vista letterario che, a differenza di altri, più facili e più “folk” nessuno ha notato. Nessuno: vale a dire- non solo il mercato che mastica roba facile, ma neppure quel poco che resta di critica o di passaparola dell'”ambiente”.

  9. Tenendo conto che viviamo un’epoca nella quale s’è perso senso e cognizione – lei infatti scrive: “saprei citarle dei libri di tutto rispetto dal punto di vista letterario che, a differenza di altri, più facili e più “folk” nessuno ha notato. Nessuno: vale a dire- non solo il mercato che mastica roba facile, ma neppure quel poco che resta di critica o di passaparola dell’”ambiente” – come possiamo non pensare che si faccia revival, in fondo si tratta di “miti” occidentali che stanno dislocandosi altrove, ce ne danno conferma le ultime 5 righe del saggetto. Inoltre la letteratura per la letteratura non può che fare buchi nell’acqua o buchi nel formaggio finito…mica parliamo di autori samizdat, la stessa Ugresic, gli autori presi ad esempio…

  10. grandioso
    da proporre ai vari premi letterari italiani e alle scuole cosidette di scrittura.
    esemplare come analisi ed esempio
    di tutto quello che non c’è nella nostra scrittura
    grazie
    c.

  11. Mi piace moltissimo l’immagine dei buchi nel formaggio finito. Poi non so da dove venga fuori la “letteratura per la letteratura”. Un libro come quello di Bhattacharaya – ( questo: ho avuto la curiosità di vedere un po’ meglio di che si tratta http://www.neripozza.it/collane_dett.php?id_coll=9&id_lib=38) – che ricostruisce la ribellione di un gruppo di ragazzi a un regime non dovrebbe esserlo esattamente. Poi se sia un libro davvero riuscito non lo so, non avendolo letto. Conosco invece quelli della stessa Ugresic e di Isegawa e tanti altri che fanno i conti molto duramente con l’esilio e/o con la storia dei loro luoghi di origine. Insomma libri ai quali la definizione della “letteratura per la lettertura” si attaglia pochissimo, ma che sono opere letterarie, non atti di denuncia messi in prosa.
    Ci sarebbe da chiedersi piuttosto come funzionano i meccanismi di emarginazione, ossia censura qualitativa, nel nostro mondo e mercato libero. Il mercato, appunto. Dove l’Africa nera non ha mai funzionato e i Balcani, se mai hanno avuto qualche chance, adesso però ci hanno stufato. Specie se la loro rappresentazione non è edulcorata, se non si odono musichette zigane alla Bregovic, o si vedono grandi tramonti sulla savana. E questo potrebbe pure valere per chi parla della sicilia senza coppole e cannoli, senza mafia vecchio stile ecc.
    Il problema per come lo vedo io è che da altre parti esiste ancora un minimo di contrappeso. In Francia o in Germania può succedere che uno scrittore di qualche oscura parte del mondo, neanche facile da leggere, venga segnalato dalla critica con tale attenzione unanime che alla fine un po’ pure si vende, innescando un circolo per cui quell’autore comincia ad esistere. Da noi è quasi impossibile. Ripeto non è solo censura del mercato, ma pure ignavia, provincialismo, l’essere sempre più assorbiti nei giochini autoreferenziali dell'”ambiente” (vedesi la vicenda del postnoir, ad esempio).

    In ogni caso il formaggio resta sempre fatto più di buchi che di latte stagionato.

  12. La letteratura per la letteratura è la letteratura che una volta nata pasce nel campo dell’alfabetizzazione pedagogica e cerca di mettere ordine in forma istituzionale, affidandosi al viluppo romanzesco. Ora, l’intrico, il tessuto, la trama, la memoria andrebbero piuttosto riqualificate, tornando alla materia prima, al possessore della materia prima, la pecora.
    Il libro di Bhattacaraya è un libro “innamorato”, con forti punti di contatto, scrivevo sopra, con “I detective selvaggi” di Bolano.
    E a questo punto le chiedo come mai in Italia manca il contrappeso che vi è in Francia e Germania? Come stroncare ignavia e provincialismo?

  13. Tipo discorrendo su un blog con una persona che raffronta Bhattacaraya e Bolano?:-))
    Le dispiace spiegarmi un po’ meglio la sua visione della pecora ecc…? (dico sul serio)

  14. Della prima frase ho sentito solo che si è scompisciata, non ha capito altro? Eppure fra i due romanzi vi è una vicinanza, nell’aria romantica che avvolge le consimili trame.
    Dalla pecora poi ricaviamo lana, dalla lana trama. La pecora… come a dire… reclama il silenzio dei campi e il brucare eterno. ;-)

  15. Scusi. Ha ragione. Intendevo dire che saper citare e raffrontare questi due libri – come fa lei- rappresenta un varco nel provincialismo. Insomma le persone curiose e dotate degli strumenti critici per guardare oltre lo stagno patrio più un po’ di roba americana ci sarebbero. Ma non contano, non hanno voce.
    Per quell’incrocio malefico fra baronie chiuse e spesso ignoranti e l’adeguamento anche della mediazione culturale ai meccanismi del “diamo al popolo ciò che vuole”. Dove l’immagine del popolo-bue è di comodo, ideologico, in parte funzionale a lasciar spazio ai minipotenziari culturali. Non ho davvero che cosa ci si possa fare al di fuori da spazi come questi che sono marginali o dalla -ahimé- buona volontà di ogni singola persona che cerca di fare bene il suo lavoro in ambito culturale.
    Anche la pecora con la lana da cui si dipana la trama è notevole. E sì: personalmente condivido totalamente l’idea di: più lana, meno trama. (o meglio: proviamo a farla vedere questa pecora lanosa senza la quale non saremmo nulla)

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