Scrivo per essere capito
una lettera aperta a Gianni Biondillo di Alessandro Perissinotto
Caro Gianni,
questa è una lettera aperta, quindi, in quanto “lettera” avrà qualcosa di privato nei suoi contenuti, e in quanto “aperta”, avrà qualcosa di pubblico. E’ diretta a te, ma ovviamente credo che possa interessare anche gli altri lettori di NI e per questo ti prego di pubblicarla.
Circa tre anni fa, mi chiedesti se avevo voglia di scrivere qualcosa per Nazione Indiana: io nicchiai e, alla fine, non scrissi nulla senza addurre alcuna motivazione. Ora provo a vincere la mia naturale diffidenza verso i blog (specie quelli letterari), proprio per spiegarti quella mia diffidenza, ma anche per parlare della disputa Giglioli – Policastro – Biondillo (ah, già, Biondillo sei tu).
Contro i blog letterari non porterò le motivazioni confuse e criptiche della Policastro (del suo e del tuo intervento parlerò tra un attimo), ma qualcosa di più concreto, di più “alla buona”. Ho seguito in questi giorni il post sul post-noir (il gioco di parole è suo e non mio) di Giampaolo Simi e mi sono trovato d’accordo con lui. Ho provato a scrivere un mio commento su Facebook, ma qualcosa non ha funzionato e il commento è stato mutilato: pazienza. Poi ho seguito la stessa discussione su Nazione Indiana e, come già mi è capitato altre volte, sono rimasto colpito e sinceramente disgustato dalla violenza verbale delle repliche. E’ un fenomeno che gli studiosi di comunicazione in rete hanno definito “Flaming”: un continuo alzare i toni favorito dall’assenza di un’interazione fisica. Se le persone che sono intervenute fossero state chiuse in una stanza, forse sarebbero giunte a prendersi a pugni, ma, più probabilmente, guardandosi negli occhi avrebbero trovato a ristabilire un minimo di rispetto. Ma l’aspetto peggiore del Flaming consiste nello smarrimento del tema della discussione: ci si accapiglia sui toni delle repliche e si perde di vista l’argomento di cui si stava discutendo. Così, i blog letterari diventano spesso delle arene consacrate al nulla, a narcisistici giochi di parole, all’esaltazione di quella che, in “Amici miei”, avrebbero chiamato “La supercazzola prematurata”. Dunque, siamo davvero sicuri che certi interventi su NI o su altri siti e blog letterari siano poi tanto diversi, nello spirito e negli esiti, dagli articoli di Giglioli e della Policastro che tu critichi?
Per spiegare meglio il senso della mia domanda mi prendo un po’ di spazio per dire che mi trovo d’accordo con te. L’idea che una affermazione come “la manifesta, prevaricante superiorità intellettuale (per formazione, consapevolezza teorica, orizzonte comune) dei critici sugli scrittori” possa essere oggetto di riflessione (anche solo per essere confutata), mi riporta indietro di una quindicina d’anni e a un’esperienza personale (te l’avevo detto che sarei andato sul privato). Provo a raccontartela in breve.
Negli anni tra il ’95 e il ’98, io ho seguito il Dottorato di Ricerca in teoria e Analisi del Testo, presso l’università di Bergamo. E’ stata un’esperienza esaltante: per me, con un diploma di Perito Industriale e una Laurea in Lettere presa da non frequentante, era la prima occasione di stare a fianco di docenti straordinari (e non c’è nelle mie parole alcuna piaggeria, quanto, semmai, riconoscenza). Al tempo stesso è stata un’esperienza faticosa, una continua battaglia con il mio senso di inadeguatezza. Tra i miei compagni di corso c’erano Daniele Giglioli e Antonio Scurati. Loro erano intellettuali di razza, io ero il perito industriale diplomato in una scuola confinante con la Fiat Mirafiori. Non che me lo facessero pesare, anzi, penso che non sapessero neppure quali fossero stati i miei (non)studi superiori, ma tra me e loro c’era, credo, lo stesso fossato che divide te (non si adombri, signor Architetto se la comparo a un Perito) e gli articoli che ti hanno tanto indispettito. Una volta feci ridere di gusto i miei compagni dicendo che “Jack Frusciante” di Brizzi era un libro che andava esaminato con attenzione: non insignito dello Strega, ma analizzato per la sua capacità di coinvolgere il pubblico (allora) giovanile. Al suo arrivo nel dottorato (io ero già lì da un anno) Scurati commentò un mio intervento nel quale definivo inutilmente involuto un testo di Derrida con queste parole: “Le affermazioni del collega dimostrano o scarsa onestà intellettuale o una totale ignoranza”.
Scurati aveva ragione: ignoravo e ignoro ancora oggi, deliberatamente, le ragioni dei decostruzionisti, nonché (senza che vi sia alcun rapporto tra le due cose) quelle della “critica militante”. Dunque, se devo scegliere una parte della mia doppia identità, sono costretto a optare per quella di scrittore, sono portato a far pesare di più i miei otto romanzi che i miei studi letterari. L’aver vissuto però dai due lati della barricata (e mai barricata fu più inutile), mi fa però dire, mi si perdoni la semplicità del concetto, che la critica militante alla Giglioli, alla Luperini o alla Policastro (“Giglioli vale Luperini” scrivi tu) non contiene in sé altro errore se non quello di non riuscire a comunicare né con gli scrittori, né con i lettori. Un errore non da poco, mi dirai tu. Sono d’accordo, ma scientificamente la loro posizione è ineccepibile. In quanto scrittori, noi non siamo per loro degli interlocutori, al più siamo degli oggetti di studio: quando mai si è visto un batterio dialogare con il microbiologo che lo osserva dall’altra parte del suo microscopio? Noi produciamo testi che, per loro, hanno una vita del tutto indipendente dalla nostra e da quella dei lettori (empirici) che li leggono o che, nel caso di romanzi come i miei e i tuoi, li “consumano”. All’interno del loro universo di riferimento “tout se tient”.
Come dici? Non vedi l’utilità di una critica letteraria che trascuri scrittori e lettori? Nemmeno io. E ancor meno vedo l’utilità di pubblicare interventi come questi sul “Manifesto”; a meno che lo scopo sia quello di ribadire che la sinistra sta da una parte e la gente, anche quella che, umilmente, legge, sta dall’altra. In “L’altrui mestiere”, Primo Levi si fa beffe dello “Scrivere oscuro”: mi sembra che la sua lezione sia passata inosservata.
Usando una di quelle similitudini calcistiche che ai tempi del dottorato spandevo a piene mani per il più gran sconforto di Scurati (nel già citato dibattito su Derrida arrivai a citargli Arrigo Sacchi), ogni tanto penso che i critici militanti siano come i giornalisti sportivi, come quelli che, pur senza aver mai calzato gli scarpini coi tacchetti, sanno come si vince un campionato.
Mi chiedo, e lo chiedo agli altri scrittori: è possibile capire realmente il romanzo se non ci si cala in tutto il suo processo ideativo e produttivo? E’ possibile per un critico comprendere cosa diventa il tuo testo dopo una giornata di estenuanti trattative con il tuo editor? Certo che è possibile, ma solo a partire da un gesto di umiltà, dal riconoscimento che non esiste la superiorità intellettuale del critico; solo a partire da un incontro.
Daniele Giglioli scrive: “gli scrittori si trovano a fare i conti quasi solo col mercato, il che rende ovviamente difficile sperimentare, anche in forma coperta, e non iconoclasta come le avanguardie.” Non è vero. Non è vero che lo scrittore guarda solo il mercato, concetto anonimo e freddo. Lo scrittore si trova a fare i conti con i lettori, quelli veri, quelli in carne ed ossa (e non con le loro fantasmatiche proiezioni sotto forma di “modello”). E anche qui, avviandomi alle conclusioni, permettimi, caro Gianni, una rievocazione personale. Qualche anno fa, mi trovai a presentare alcuni miei romanzi (allora appena usciti in traduzione francese da Gallimard) in un festival letterario dalle parti di Grenoble. Dopo la prima e canonica presentazione in biblioteca, mi caricarono in macchina e mi portarono in un ospedale (ex-cronicario) abbarbicato sul pendio di una montagna (d’inverno spesso lo si raggiunge solo con l’elicottero e la funivia). Mi ritrovai a parlare dei miei libri nell’atrio dell’ospedale, circondato da pazienti in sedia a rotelle o in lettiga: gente con le flebo al braccio, gente con ingessature da mummia cinematografica. “Questo è un ospedale per lungodegenti. – mi spiegarono – I ricoverati sono quasi tutti reduci da gravi incidenti stradali o da trapianti di organi.” Al termina della presentazione, ovviamente, non furono i lettori a venire da me per l’usuale firma copie, ma fui io a fare il giro. Quando giunsi alla lettiga su cui giaceva, a pancia in giù, una ragazza di colore, questa mi disse: “La ringrazio per le belle ore che mi ha fatto trascorrere qui dentro con i suoi romanzi”. Inutile dire che mi si inumidirono gli occhi: io non pensavo che lì dentro le ore potessero passare, belle o brutte che fossero. E invece alcune di quelle ore, per i miei lettori, erano state belle. Il giorno dopo fu il turno di una casa di riposo e i lettori mi ringraziarono per aver lavorato sulla memoria della Seconda Guerra Mondiale, sulla loro stessa memoria. Vedi caro Daniele? Vedi che hai torto? Non è il mercato il nostro unico interlocutore, sono le persone, quelle che la critica militante cancella dal proprio orizzonte.
Pur privilegiano i lettori (come persone) e non il mercato (come entità), mi sembra poi che, per lo scrittore, il sottoporsi al giudizio di una moltitudine, il rendersi vulnerabile ai commenti di decine di migliaia di lettori, sia un salutare bagno di umiltà. Permettetemi di trovare ridicola e patetica la chiusa di Gilda Policastro: “Ci sono sì o no, questi scrittori? Ci sono, ci sono, Giglioli, ma sono pochissimi (altro che vitalità), sono nascosti, scrivono, come Gabriele Frasca, romanzi su sottoscrizione, mandati in lettura ad interlocutori selezionati accuratamente in ambiti diversi (non solo critici e scrittori, dunque, ma storici, filosofi, sociologi) perché il libro nasca dal dibattito delle idee e non dall’ossessione di essere lo Scrittore, icona pop-chic dei vecchi e nuovi media.” Io non conosco i testi di Gabriele Frasca (poiché non sono un interlocutore selezionato non me li ha mai mandati in lettura) e proprio per questo ne ho, a priori, il massimo rispetto. Anch’io però sono il massimo scrittore del mio condominio (composto da 4 appartamenti), anch’io sono incoronato poeta dai miei pochi e selezionati amici. Già per pubblicare libri non ci vuole molto coraggio, ma per scriverli e non pubblicarli ce ne vuole ancora meno. Il giudizio di un editore non sarà quello della Storia, ma qualcosa più della condiscendenza degli amici vale, il consenso dei lettori non equivarrà a un Nobel, ma conta più della triste compassione dei colleghi per lo “scrittore incompreso”.
Ed eccomi alla fine, caro Gianni. Ho finalmente scritto qualcosa per/su Nazione Indiana. La Policastro dice ancora: ”La categoria che andrebbe proposta ai romanzieri di oggi (…) è quella lacaniana dello “sfiancamento” contro la “scorrevolezza”: “I miei scritti non li ho scritti perché vengano capiti, li ho scritti perché vengano letti. Che non è per niente la stessa cosa” (da Il trionfo della religione).” Io invece scrivo per essere capito (e leggo per provare a capire): se pensi che tutto ciò sia compatibile con lo spirito di Nazione Indiana, sono disposto a scrivere ancora.
Un caro saluto
Alessandro
-);
ma [Alessandro, Gianni, critici ecc.] qui bisogna porsi una domanda:
perché mai “critica” e autori si dovrebbero parlare?
perché la prima avvalli i secondi?
perché i secondi avvallino la prima?
qua, l’impressione, è che non si stia dicendo nulla.
la critica non fa i nomi. se ne fa, ne fa “pochi, pochissimi”.
gli autori fanno i critici, elaborando prospetti letterario-narrativi.
quando la “critica” fa i nomi – e qui c’è forse il vero argomento pregnante – si spertica, omogeneamente su tutto e tutti.
insomma: di che si sta parlando?
qualcuno è in grado di riassumere in cinque righe tutto questo dire-rispondersi-citarsi.
perché – alla fine – sembra che in dieci anni non si sia detto niente, e che finalmente qualcuno ha detto qualcosa: e giù tutti a rispondere.
ma cosa? cosa è stato detto?
Che bello!
Sono grato, ma davvero tanto a Perissinotto, per averci detto, parlato, scritto e spiegato,
e chiaro: sì proprio chiaro!
Con esempi, che vivaddio, servono, sì!
MarioB. :-)))
aggiungo: gli scrittori scrivono per essere capiti/letti, i critici per non esserlo [forse – e dico forse – si capiscono fra loro]
giusta la sintesi?
Devo dire che questa missiva, dai toni per altro garbatamente calibrati (e arriva comunque al dunque), riassume tutto quello che penso di questa questione che mi sono trovata a seguire silenziosamente dalle retrovie, ripensandoci più e più volte non tanto per il succo della questione (dopo un po’ si finisce per essere sopraffatti dal veleno più che dal contenuto e questo è sintomo di mancato raggiungimento dell’obiettivo comunicativo) quanto per l’autoreferenzialità di alcuni commenti in certi punti incomprensibili, pomposi, dispersivi e – consentitemelo – noiosi, venati di una saccenteria che si fa ignoranza ed elitarismo di serie Z. E se mi sbaglio chiedo scusa, la sensazione è però quella. Il contatto tra autore e critico (ma un critico e un lettore sono la stessa identica cosa a mio parere solo che il secondo ha la fortuna di poter dedicare gran parte della sua giornata alla lettura e ha, talvolta, buone capacità di scrittura ed è per questo che disprezzo il termine) c’è solo nel momento in cui il critico si pone allo stesso livello dello scrittore se non addirittura sotto. Un critico non è uno che sta a sparare giudizi e a decidere se una cosa è da mandare al macero o no (non ne ha proprio il diritto, chi glielo ha detto che quello è il suo compito?), un critico è uno che aiuta lettori piccoli e grandi a capire perché valga la pena spendere quindici o venti euro per un libro piuttosto che per un altro. Questo è l’obiettivo primo ed è la ragione per cui personalmente preferisco non parlare di un libro pessimo piuttosto che perdere tempo a smontarlo e decostruirlo. Con tutto l’overflow di informazioni che c’è non perderei tempo su qualcosa che tanto NON lascerà il segno. Detto questo trovo squallido insultarsi reciprocamente così come trovo infantile che un autore non voglia mettersi in discussione, che un critico non sappia essere umile e che un lettore parli a vanvera senza avere gli strumenti idonei per dire la sua. Stiamo pur sempre parlando di libri, santo dio, ma dove la trovate tutta questa energia per buttarvi merda addosso salvo poi darvi pacche sulle spalle non appena vi incontrerete de visu? Personalmente instauro quasi sempre (dipende se ne ho la possibilità o meno) un rapporto umano con gli autori che mi trovo a recensire, penso sia fondamentale entrare in sinergia, parliamo di persone dietro alle parole. L’oggetto libro che è vita, respira, ti pulsa tra le mani e dentro gli occhi e l’uomo autore. Due cose inscindibili. Uno che magari ha pure sofferto mentre scriveva, s’è fatto scoppiare la testa, non ci ha dormito la notte e poi pum, catapultato tra le mani dei critici e chissà che sorte avrà. L’arroganza e l’aggressione verbale non pagano MAI, come la gente che urla pensando di farsi sentire di più. Siamo programmati per difenderci da questo tipo di dinamiche, ce l’abbiamo nei geni.
Alessandro Perissinotto, non l’avevo mai letta, ma ancora, ancora, ancora, la prego!
Due esempi tra le molte cose che ha scritto e che mi vedono d’accordo:
“Pur privilegiano i lettori (come persone) e non il mercato (come entità), mi sembra poi che, per lo scrittore, il sottoporsi al giudizio di una moltitudine, il rendersi vulnerabile ai commenti di decine di migliaia di lettori, sia un salutare bagno di umiltà”;
“Come dici? Non vedi l’utilità di una critica letteraria che trascuri scrittori e lettori? Nemmeno io”.
Eh, nemmeno io.
ho un ricordo molto positivo di alessandro perissinotto di cui ho letto con piacere due suoi romanzi (brevemente “rosetta” e “colombano”). venne nel mio liceo nel ’97 e tenne forse la più bella lezione, per chiarezza e semplicità, di un ciclo di tutto rispetto, sulla novella, mi pare di ricordare.
credo che la sua disarmante umiltà sia ciò che convince nel suo discorso. ammette dei presunti limiti nella sua formazione senza il doppiogiochismo di certi scrittori che usano la loro provenienza operaia agricola tecnico-industriale come un maglio per dare dell’imbecille indirettamente a chi ha – immeritatamente – fatto studi classici. mostra con grazia un percorso di grandissimo lavoro per coprire un gap di metodo e contenuti che altri non dovettero compiere (evviva, dico io, quel gap: a volte certe s-conoscenze sono una vera manna). mi preme avviare una riflessione:
se è vero che i critici sono distanti dagli scrittori e dai lettori, soprattutto più da questi che da quelli, che dire della – strana – distanza tra gli scrittori e i lettori? sembra impossibile che gli scrittori non abbiano a cuore il sentire dei lettori, a.p. ci racconta un episodio di estrema e toccante vicinanza tra lui, scrittore, e una parte di pubblico molto speciale. ma molto spesso non è così. “strana” distanza perché proprio la rete, che ha indubbiamente moltiplicato le occasioni di confronto con i lettori, di cui fanno parte anche scrittori di professione e critici di professione, non solo i lettori anonimi, ha messo in luce quanto gli scrittori dialoghino/litighino preferibilmente con i loro pari, per un vizio secondo me diffuso in ogni categoria: si pensa che, condivisibile o meno, l’opinione di un addetto ai lavori sia sicuramente di qualità, mentre quella diciamo, del dilettante, non altrettanto, quando non addirittura da scartare a prescindere. personalmente osservo con una certa frequenza i dibattiti sui lit-blog e devo dire che la cosa si ripete puntualmente. gli addetti ai lavori:
parlano oscuro
parlano tra di loro
dicono anche sonore cavolate
leccano lisciano
picchiano duro
vanno fuori dal seminato
ignorano i non addetti ai lavori anche quelli che:
hanno letto veramente quel dato libro
dicono cose fondate e magari anche piacevolmente
sono dilettanti ma sanno un mucchio di cose.
questo non me lo spiego. ovvero me lo spiego in perfetta solitudine in modo cattivo, sarcastico, penoso che, essendo io lettrice, una dei tanti, mi si ritorcerebbe sicuramente contro appena ne parlassi. non vale la pena alimentare il fuoco.
l’unica cosa che non condivido del post di alessandro perissinotto è l’affermazione “Già per pubblicare libri non ci vuole molto coraggio, ma per scriverli e non pubblicarli ce ne vuole ancora meno.” qui si innescherebbe una diatriba infinita sul reale valore di ciò che arriva a stampa “oggi”, sul perché uno possa scrivere e non sognarsi di pubblicare… sul coraggio, infine, nel senso di mancanza di vergogna di scrittori ed editori nello scrivere e pubblicare sonore schifezze elogiate premiate (dai pari -obtorto collo -) comprate e stramaledette (dai lettori, che vorrebbero indietro i soldi). dove per lettori intendo non proprio lettori inconsapevoli, ma lettori consapevolissimi e capaci di stilare una critica motivata. lettori vigliacchi? lettori scrittori-mancati? no, molto spesso lettori voraci per vocazione, mestiere, che hanno un senso di umiltà e rispetto per la scrittura per cui avrebbero bisogno di molto tempo che non hanno per azzardare alcunché. io credo che in rete, alle presentazioni dei libri, gli scrittori sgamino presto il lettore che fa domande o formula interpretazioni di spessore. penso che talora non siano all’altezza o non abbiano voglia di rispondere. così preferiscono rispondere, magari litigando, in rete o di persona, all'”amico” scrittore, al prof. universitario, al critico del quotidiano x. che magari ha evidenziato aspetti evidenti, criticato passi con un lessico critico, cioè sul punto di collassare, sottolineato espressioni che francamente era meglio non ci venissero ricordate.
da fuori non è un bello spettacolo e, soprattutto, mette voglia di mandare tutti a quel paese. voglio vederli, gli scrittori, senza lettori: anche, se non soprattutto, nel senso monetario della questione.
lucia tosi, venezia.
Concordo infinitamente con Perissinotto e ringrazio sentitamente, per il tono, lo stile, le argomentazioni.
un piacere leggerla (e capire… finalmente!), alla prossima, spero.
[…] Continua la lettura con la fonte di questo articolo: Scrivo per essere capito – Nazione Indiana […]
Tutto bene, tutto chiaro.
In un libro di Hawking che ha intenti divulgativi, Dal bing bang ai buchi neri, c’è scritto (prendo a caso):
L’energia positiva della radiazione in uscita sarebbe controbilanciata da un flusso di particelle di energia negativa che cadono nel buco nero. Per l’equazione di Einstein E=mc2 (dove E è l’energia, m la massa e c la velocità della luce), l’energia è proporzionale alla massa. Un flusso di energia negativa nel buco nero ne riduce perciò la massa. Man mano che il buco nero perde massa, l’aerea dell’orizzonte degli eventi si rimpicciolisce, ma questa diminuzione dell’entropia del buco nero è più che compensata dall’entropia della radiazione emessa, così che la seconda legge non è mai violata”
Benché io riconosca l’ordine convincente delle parole, benché il libro sia divulgativo, non ne ricavo gran profitto, perché la mia ignoranza in materia di fisica è enorme.
Non do a Hawking una responsabilità che è totalmente mia, ma non colpevolizzo neppure me stessa, perché ho altri interessi e poco tempo.
Questo disprezzo per competenze che sono ormai diventate estremamente specializzate io davvero non lo capisco, mentre capisco e non mi scandalizza il desiderio di leggere senza dover passare attraverso una lettura specialistica. Ma se si decide di leggere “ingenuamente”, di far entrare nel proprio orizzonte soltanto testi “chiari”, immediatamente fruibili, perché non lo si decide senza questa incrostazione di sentimenti di inferiorità/superiorità, ribellione/frustrazione, desiderio/rifiuto?
Che i critici che vogliono uscire dal territorio della specializzazione e farsi leggere da un pubblico più ampio abbiano qualche problemino, ovunque, non solo in Italia, è un fatto, che alcuni siano arroganti (e non sono mai i migliori) è un fatto, ma anche questo appello alla chiarezza in sé salvifica e migliore fa un po’ ridere.
area, non aerea
Alcor, ma tu hai letto “salvifica” lassù, appiccicato a “chiarezza”?
Io no.
MarioB.
Ciao Alessandro,
di Brizzi mi ricordo (ma fu una bella serata, no?), di Derrida no. Comunque vedi i casi della vita, a me tu all’epoca parevi un semiologo ipertecnologico che maneggiava formule esoteriche. Altro che Perito! Quanto al merito del discorso: premesso che continuo a maledirmi per aver scrittoquel pezzo, visto il can can che ne è seguito, sai dirmi che costrutto c’è a impostare la faccenda sulla base di una specie di derby tra gli Universali (I Critici, Gli Scrittori, I Blogger, I Lettori, La Sinistra, La Gente)? Non ti sembra astratto, sterile, fuorviante? Nel mio articolo c’era un tentativo di ragionamento molto generale, fatto da un critico che rappresenta solo se stesso (e nemmeno granché militante, visto che di solito mi occupo d’altro), le cui conclusioni possono essere giuste o sbagliate. Tu poni giustamente il tema del lettore (e dello scrittore) in carne e ossa. Io ammetto volentieri che i critici, per formazione e abitudine, sono abituati a considerare i testi come se fossero scritti tutti da autori morti come Dante o Proust, e i lettori come un’entità anonima e un po’ astratta. Ma non è questa – il fatto che l’autore sia morto al suo testo una volta lo ha scritto – la condizione indispensabile perché un testo diventi non diciamo classico ma autorevole, capace di sopravvivere, di continuare a farsi leggere magari per secoli, incontrando sempre nuovi lettori di cui l’autore non saprà mai nulla? Ed è proprio qui, in questo incontro necessariamente differito (a volte di millenni), che entra in gioco il mercato. Il mercato non è la cosa astratta e fredda che tu dici: è la realtà fin troppo scottante contro cui quotidianamente si rompono la faccia e le mani e l’immaginazione la stragrande maggioranza degli esseri umani in tutto il mondo. Il mercato ha fame di concreto, del denaro, dell’attenzione, del tempo e del desiderio di quei lettori concreti che tu sembra figurarti come tanti Robinson, mentre invece sono (siamo) costantemente modellati, preformati e prefigurati minuziosamente nei gusti, nelle aspettative, nel si può e non si può fare (ti sarai visto qualche volta con i commerciali del tuo editore, no? e fossero solo loro…). Non sono mai degli individui isolati quelli che tu incontri alle presentazioni dei tuoi libri, sono (siamo) uno sciame di rappresentazioni collettive, clichés ideologici, abitudini formali, strutture mentali. Non si è mai da soli a dire “mi piace/non mi piace” – e per fortuna. In ogni gusto, anche il più idiosincratico, è presente sempre la voce del Comune (Kant diceva appunto: il senso comune). E dunque: ammetti o no che oggi quel comune è quasi interamente egemonizzato dal mercato? E se è così, ti sta bene? E se non ti sta bene, non pensi che i critici, piuttosto che continuare stancamente il rito ormai defunto della critica militante (bello ‘sto libro, quest’altro invece mi ha deluso; meglio allora il gambero rosso o la guida michelin), debbano in primo luogo preoccuparsi di rendere chiare e visibili a se stessi e agli altri le strutture di questo comune, individuandone le linee di forza, e se possibile anche le linee di frattura? Questo non significa affatto mancare di rispetto agli scrittori e ai lettori in carne e ossa. Significa invece tentare di trovare un terreno condiviso su cui possa avvenire, ma in modo consapevole, e non falsamente “immediato”, l’incontro che auspichi. Quanto dire, in altre parole, che un critico degno di questo nome non dovrebbe avere altra ragion d’essere (non dico aspirazione, perché poi di persona siamo tutti un po’ narcisi) che quella di prefigurare col suo lavoro una condizione ideale in cui siano tutti critici, e dunque il critico di professione non serva più. Lo diceva ancora Kant, e anche un po’ Marx. Altrimenti restano solo gli insulti, le chiacchiere e i pettegolezzi.
alcor: infatti c’è chi sta nella torre d’avorio e ride di chi ruzza nei campi sottostanti e chi dai campi spernacchia i turriseburnei. i testi “scuri”, per la reciproca, sarebbero dunque migliori, più pregevoli? leggere un testo chiaro è operazione di basso rango? chiarezza=ingenuità, massima fruibilità, scarsa levatura? a me sembra ingenua questa posizione. e un ottimo espediente di mascheratura per chi, sul fronte critico e/o su quello creativo, ha pochetto da dire. infatti oggi gira tanta aria fritta.
Bella. La citazione, Alcor.
Davvero.
@ mario
la chiarezza, in queste discussioni è salvifica per eccellenza, e sempre si trova la stucchevole contrapposizione Levi / Manganelli, e sempre si trova chi dice tu sì che ti fai capire
farsi capire è una bellissima cosa, è una bellissima cosa però anche cercare di capire
@lucy
ho detto che lo scuro è meglio del chiaro? dimmi dove, non stilo classifiche
Questione di gusti. Francamente non so cosa sia peggio, se le contrapposizioni e gli insulti o gli autobiografismi pii e omiletici conditi di ricordi deamicisiani. Forse non c’è differenza, i secondi sono a loro modo degli insulti, degli insulti all’intelligenza. Però so con certezza qual è la letteratura che mi piace: è quella – per dirla con Kafka – che ti urta, che ti scuote, che agisce come “un’ascia nel mare gelato dentro di noi”; non certo un passatempo, un trastullo, un’evasione. Per quello c’è la settimana enigmistica, che è molto più divertente.
l’argomento del Perissinotto di un popolo dei lettori,autentico e caldo,contrapposto alla fredda astrattezza dei critici non mi convince,inclina pericolosamente verso il poulismo.
quindi benissimo l’appello perchè la letteratura parli alle persone concrete,ma lo scopo della Vera Letteratura non dovrebbe essere forse quello di porre l’arma della critica nelle mani del popolo?
o Sergio Garufi,
guarda che io ti dico e credo che la narrativa sia sempre un passatempo,
anche un trastullo, (magari non un’evasione) e ciò non sminuisce affatto il valore di grandi testi, di ottime storie, di grandi musiche, scritte, specie in passato, per esser da passatempo o intrattenimento per nobili, ricchi borghesi, alla ricerca di come meglio passare il tempo libero dagli affanni del lavoro o dal tedio della corte.
Il cuore della faccenda è come riuscire a creare un opera d’arte per far passare “bene” il tempo.
C’è chi ha bisogno di vedersi un thriller splatteroso alla tibbù,
co’ rivoli di sangue che sgorgano qua e là,
c’è chi se ne va ad un concerto al conservatorio ad ascoltare una giapponese che suona il koto.
Chi è stanco da morire, chi lavora 12 ore al giorno,
non vede l’ora di andare a dormire
e manco sa che sia il passatempo,
o magari è solo una partita a carte al bar.
MarioB.
alcor: veramente se uno fa delle domande è per ricevere delle risposte, o un tentativo di risposta. ho fatto delle domande, per capire.
come sempre, nei blog, anche qui: le antenne (e le creste) si rizzano, si prende parte ad una discussione per finta. si dice a me piace questo, o quest’altro, so solo questo o quest’altro, pensando in reltà che è l’unica cosa buona da pensare, che tutti dovrebbero pensare. si fa un giro, si entra, o si sta a guardare. si entra, si esce, esattamente con le stesse idee.
ho detto chiarezza sapendo bene che è ritenuta una povera cosa, una cosa per lettoruccoli. in automatico ciò che sa di chiaro e di buono e di scorrevole, di comprensibile, diventa facile, buonista, deamicisiano, dice garufi, un passatempo, un trastullo, un’evasione. chiedevo se, appunto, l’oscurità sia, per contro, un valore, chiedevo. pare di sì. ne so quanto prima. e pazienza.
@lucy
bisogna però anche saper leggere le risposte, poiché non ho mai detto che lo scuro è meglio del chiaro o che il chiaro è meglio dello scuro e ho detto anche che non stilo classifiche, la mia posizione è abbastanza chiara, mi pare, IO non faccio differenza tra chiaro e scuro, mentre sia il post che il thread la fanno, e a vantaggio del chiaro e comprensibile
PS puoi dirmi esattamente dove ho alzato la cresta?
quando associ a “testi chiari”–>”immediatamente fruibili” produci una implicita classifica della serie chiaro=facile, cioè per ingenui
quando dici che fa un po’ ridere l’appello alla chiarezza salvifica, non c’è un po’ di superiorità, no?
e dai!
io, però, mo’ mi ritiro in buon ordine perché ho due o tre matasse che mi si stanno imbrogliando un po’ troppo, ultimamente, e vorrei ritrovare almeno un filo.
deamicisiana non è la chiarezza, è il ricordo, mi sembrava di essere stato “chiaro”. l’aneddoto sull’ospedale dei “lungodegenti”, le parole di ringraziamento della “ragazza di colore che giaceva sulla lettiga a pancia in giù e che fanno inumidire gli occhi”, “i pazienti in sedia a rotelle”, “le flebo”, “le ingessature da mummia dei reduci da gravi incidenti stradali o da trapianti di organi”, per finire con “la visita alla casa di riposo”… come si fa a non provare simpatia per franti leggendo queste cose? questa non è chiarezza, al contrario, come diceva primo levi in quella nota disputa con manganelli, “oscuro è il linguaggio del cuore”. si potrebbe obiettare, nel merito, che la chiarezza espressiva è data dall’incontro fra le parole e i concetti, non dalla semplicità del lessico adoperato, ma quello che irrita davvero, oltre alla riproposizione di polemiche letterarie trite e ritrite, è la canonizzazione di uno stile, l’omologazione al basso. come diceva l’oscuro gadda: “le genti sazie ebefatte dimandano con ogni ragione delle buone e intelligibili scritture: legittima cosa, che il fratello attenda dal fratello una parola fraterna. ma questa prepotenza del voler canonizzare l’uso-cesira scopre di troppo il desiderio, e quasi l’intento, della cesira medesima: il desiderio di avere tutti inginocchiati al livello della sua zucca”
garufi: non intendevo affatto l’uso-cesira. il nodo che tiene al di qua del problema è proprio l’equazione chiaro=uso-cesira. ma forse, non sono abbastanza chiara, a dispetto del mio nome.
@Garufi: non riesco a capire per quale motivo l’ascia che spacca il mare ghiacciato non potrebbe essere del peso di una piuma. Non sono le cose complicate a cambiare percezioni e pensieri o a rendere l’esistenza più profonda. Non necessariamente, non sempre. Voglio dire… la semplicità, la godibilità, la fruibilità non sono sinonimo di trastullo. Trovo questa idea pazzescamente limitante. La lettura è evasione per natura. Nasce anche per quello. Non solo per erudirsi, acculturarsi, informarsi ma per divertirsi, per far girare l’immaginazione, per trarne godimento. Vivaddio, la letteratura non si porta addosso come un cilicio. Ho forse frainteso il suo pensiero?
Io comunque faccio sempre un distinguo,
che sarà anche solo mio, ma mi va così, e già l’ho scritto come commento, giorni fa ad un post assai confuso ed oscuro di Rizzante:
Quando si scrive narrativa si è liberi di scrivere nelo stile che ci par buono, adatto ad un target d’èlite, ar bidello, a mia zia Ersilia…
( a me personalmente Gadda piace moltissimo, tanto per dire)
Qui, invece, Perissinotto ha scritto una lettera aperta, una forma di comunicazione collettiva, ed essa aperta è davvero perché, pur usando un linguaggio non da tutti giorni, è riuscito ad essere molto chiaro.
Ribadisco che la chiarezza nella comunicazione scritta non narrativa, spesso, (ho scritto spesso o sovente), è molto difficile da conseguire,
l’oscurità é sovente specchio di una confusione interiore, (per me).
MarioB.
@lucy & in genere
“quando associ a “testi chiari”–>”immediatamente fruibili” produci una implicita classifica della serie chiaro=facile, cioè per ingenui”
che chiaro sia in genere più facilmente fruibile, o almeno che dia l’illusione di esserlo, è un fatto, ma non sono stata io a fare l’equazione chiaro=facile=per ingenui, leggo con diverso ma altrettanto intenso piacere Penna e Blotto, tanto per fare due nomi che per chiarezza sono agli antipodi
il mio dichiarare la chiarezza “salvifica” è un modo sintetico per indicare come si sono svolte le cose qui, nel post – con l’esperienza (alla quale umanamente aderisco e che trovo bella) della lettura ai malati (vorrei ricordare però che lo stesso effetto lo avrebbe fatto, che ne so, la musica, la terapia del sorriso ecc.)
che commuove lo scrittore e lo gratifica, tanto da spingerlo a dirsi, questo voglio, emozionare i lettori – e nei commenti.
Devo essere io a ricordarvi che di emozioni, come di scrittori ce ne sono di tanti tipi? Ci sono anche grandissime emozioni intellettuali, oltre che di cuore o di pancia.
E ovviamente non posso concordare con @Carlotta Vissani, quando dice “La lettura è evasione per natura”
La lettura è anche desiderio di conoscenza per natura, anch’io evado leggendo, quando devo addormentarmi la sera, in treno, sotto l’ombrellone, ma se dovessi solo evadere non vedo perché leggere e non sedermi più comodamente (passivamente) davanti alla televisione.
Ma voglio essere ancora più chiara, poi non interverrò più, la lettura complessa non si fa per “erudirsi” “acculturarsi” “informarsi”, queste sono attività alle quali sono obbligati quelli che fare passare un concorso, la lettura complessa è il modo in cui una mente complessa esperisce il mondo.
La mente complessa è superiore alla mente semplice? in quanto mente ovviamente sì, ma in quanto mente di una persona no, ci sono persone con menti semplici infinitamente migliori delle persone con menti complesse (mi sembra di essere il signor di Lapalisse e mi vergogno di me, scusatemi, ma voglio essere chiara) e ci sono artisti che hanno una fortissima antipatia per il linguaggio verbale ed esibiscono menti semplici essendo allo stesso tempo grandissimi artisti.
Perciò qui non è questione di zompare uno sulla testa dell’altro e dire sto più in alto, ma se Derrida non vi dice niente, o peggio, lasciate perdere e però rendetevi conto che c’è gente alla quale dice.
Ma insomma, se non scio, perché devo odiare gli sciatori? magari nuoto
“quelli che fare passare un concorso” sta per “quelli che devono passare un concorso”
@Alcor: evadere: andare fuori, fuggire, scampare (magari dall’appiattimento). Significato letterale ma anche metaforico. Quando evado posso intendere l’uscita da me stesso per entrare nel libro e il ritorno a me stesso con un pensiero in più, la lettura per l’appunto. evasione come ricerca, come conoscenza, è ovvio. Forse non mi sono spiegata: ci sono moltissime persone che pensano di poter imparare o di acculturarsi leggendo solo libri DIFFICILI. Proprio come se leggere un libro difficile fosse più costruttivo che leggerne uno diretto e immediato. Mi sovviene un esempio… la versione di barney. ha impazzato, diventando sinonimo di una elite furba e intelligente che lo ha elogiato in ogni modo tanto che se non lo hai letto sei un coglione. Un giorno un mio amico mi ha detto: “cioè, io non posso pensare di parlare con uno che non ha letto la versione di barney!” dunque con me non poteva parlare. non lo avevo ancora letto. Ho rimediato, l’ho trovato PESANTE, non mi sono sentita una cogliona e mi sono resa conto che leggerlo mi creava disagio. sentivo di non trarre niente di fondamentale, niente di utile, niente che potesse darmi qualcosa in più. IO. La lettura deve svolgere tutte le funzioni di cui sopra: informare, arricchire, acculturale, mettere in moto il cervello, creare connessioni, rendere migliori, allargare gli orizzonti, istruire… lo si sa da sempre, ma deve anche essere PIACERE. Per il resto mi pare che i pensieri combacino.
Mi associo toto corde all’ultima frase di Mario Bianco.
Posso leggere solo di fretta perché sto partendo, replicherò appena possibile. ”Patetico” è chi dice di non aver potuto leggere certi libri perché l’autore non glieli ha mandati. Lo sapeva che esistono le librerie? O la possibilità di ordinare i libri in rete? O gli amici lettori, da cui farsi prestare i libri che non si trovano più, perché non hanno mercato? Ma che noia, sempre appiccicare etichette, attribuire demeriti. Si è accorto Perissinotto che al di là del ”patetismo” quegli articoli hanno avviato una discussione come non se ne leggevano da mesi, e hanno fatto circolare delle idee?
Ma perché non si discute e non si argomenta senza attribuire ogni volta patenti? Nazione Indiana (perlomeno lo spazio di alcuni redattori) dovrebbe decidersi ad istituzionalizzare la rubrica: ”come t’insulto oggi il critico”, data la periodicità con cui questo avviene. A pensarci bene, non mi pare nemmeno degno di una risposta, quello che ha scritto Perissinotto. Mi pare infertile continuare a perder tempo così. Piuttosto, vado in libreria.
Son sicuro che Hawking, fra sue astrazioni irraggiungibili, si fa guidare proprio dall'”emozione intellettuale”. Se tuttavia queste sue emozioni non si traducessero in equazioni che per altri hanno una valenza “oggettiva”, e non soltanto emotiva, allora sarebbe un soltanto un mistico. Ognuno è ovviamente libero di “crescere” attraverso gli strumenti che preferisce, il problema nasce quando ci si va a comparare. E’ più degno di considerazione (che poi di questo si tratta) l’umano che comprende Derrida oppure quello che comprende Hawking (non in versione divulgativa, s’intende) oppure ancora, quello che va semplicemente a far compagnia agli ammalati negli ospedali?
Però, se la semiotica (a quanto ricorda Giglioli) non gli interessa più, inviterei Perissinotto a rispettare almeno un minimo di filologia. Non di “supercazzola prematurata” ma di “Supercazzora brematurata” parla l’immortale Mascetti di Tognazzi (cfr. L. Benvenuti-P. De Bernardi-T. Pinelli, “Amici miei”, Milano, B.U.R., 1976, p. 18).
“quegli articoli hanno avviato una discussione come non se ne leggevano da mesi”
Bum!
Ha avviato una discussione come se ne leggevano da mesi, anzi, da anni. Cioè: ha semplicemente gettato altra benzina sul fuoco della sempre-solita discussione sui critici, gli scrittori, il web, i commenti e uff… Policastro, si renda conto che questa precisa discussione va avanti ormai dal 2004-2005, senza pausa. Lei è solo l’ultimissima arrivata che ha fatto ricominciare il discorso daccapo.
de’ Baciaculi vs de’ Fiutapeti
Cortellessa è un fottuto genio!
Io però resto convinto che di supercazzoLa si tratti, Andrea :)
Sottoscrivo – parola per parola – Sbuffo Garuffo: ma come si fa a scrivere “ho dato il via a una discussione come non se ne vedevano da ecc.”.
Specie poi quando si è ripetuto, per tutto il tempo: che schifo ‘sti commenti e ‘sti commentatori. e: non vi rispondo ecc.
chi[u]do…
Non mi convince il parallelo tra la fisica di Hawking e i cosiddetti “saperi specialistici” nel campo della critica letteraria. Nel secondo caso mi capita facilmente di pensare, e senza nessun senso di colpa, che può trattarsi di “aria fritta”, o comunque di questioni sostanzialmente irrilevanti. Non mi verrebbe mai in mente una cosa del genere, invece, per quanto concerne la fisica…
Mi occupo di software. Se parlo con un collega e gli spiego che ho fatto il deploy della webapp su Tomcat, mi aspetto che capisca. Se per qualunque motivo dovessi comunicare la stessa informazione a una persona non tecnica, dovrei sforzarmi di spiegare nel modo più semplice possibile cosa stia dietro quelle tre parole, e non è detto che sia possibile – proprio come nel caso del brano di Hawking, la cui comprensione richiede un insieme di conoscenze minime – e comunque il risultato potrebbe essere chiaro ma noioso ed eccessivamente lungo per gli addetti ai lavori.
Un primo punto da dirimere è quindi determinare i contesti nei quali un critico possa legittimamente aspettarsi di dialogare con altri critici e possa dunque evitare lo sforzo – perchè di sforzo si tratta – di decodificare quello che potrebbe risultare oscuro.
Va però anche detto che non è solo questione di termini, e che è comunque abbastanza facile stabilire, nel modo in cui qualcuno scrive e argomenta, e indipendentemente da quanto se ne capisca, se ci sia il tentativo di essere chiari o invece il compiacimento per l’erudizione.
@ paolod
ecco un link di base per l’aria fritta
http://it.wikipedia.org/wiki/Ermeneutica
per non aggiungere confusione a confusione in questo sequel annoso, dico subito che non credo che uno scrittore debba occuparsene, a meno che non abbia una vocazione in questo senso
Mi pare che, al di là di tutto, e su posizioni comunque discutibili, Perissinotto abbia argomentato con tutta onestà. Mi rendo conto che onestà non sia una categoria critica. ma chi se ne frega. Qui di sterile c’è solo l’atteggiamento supponente altezzoso e troppo sicuro di sé della Policastro. Anche questo fatto di trincerarsi sempre, di sentirsi attaccati e di difendere corporativisticamente la propria parte, la dice lunga sulla sterilità di certe logiche.
sulla SUPERCAZZOLA: E A PROPOSITO DI FILOLOGIA: ricordo molto bene la frase pronunciata da Tognazzi: supercazzola con scappellamento a destra: ma questa critica barbuta autoreferenziale e autarchica è stata sorpassata a sinistra da tempo immemorabile.
@ chiedo… e Manuel Cohen
mi spiace, ma “supercazzola” è, come si dice appunto in filologia, lectio facilior rispetto al corretto “supercazzora” (così come “prematurata” rispetto a “brematurata”); ho pur dato il riferimento testuale alla sceneggiatura originale (nella quale il nonsense è integrale, burchiellesco): ad locum. Ma si vede che solo nelle scienze “hard” vale essere precisi. Nonché, s’intende, autoreferenziali e autarchici.
“barbuto”, poi, effettivamente non posso negarlo… ma forse s’intendeva, con lieve metonimia, “barboso”.
Non avrei mai pensato si potesse discutere pure sulla supercazzola/supercazzora come fosse antani.
Cari amici,
grazie per tutti quelli che hanno ritenuto opportuno rispondere al mio testo, sia a chi elogia, sia a chi critica. Come ho già detto, intervenendo in dibattiti di questo tipo ho sempre il timore di assomigliare a quelli che, alla fine di una conferenza, alzano dieci volte la mano per fare domande che, in realtà, sono delle “contro-conferenze”. Nondimeno, credo che sarebbe poco cortese non rispondere a qualcuno dei post giunti fino ad ora (per la verità avrei voglia di rispondere a tutti, ma sarei imperdonabilmente prolisso. Mi perdonerete dunque i quattro post successivi.
1) A DANIELE GIGLIOLI. Quello che hai scritto nella tua replica sul concetto di mercato mi convince pienamente. Leggendo il tuo articolo io avevo pensato che ti riferissi solamente al mercato editoriale come insieme di vendite, classifiche e procedure di marketing. La tua specificazione ulteriore, la tua idea che il lettore empirico incarni il mercato nella sua accezione più ampia conferisce al tutto una luce diversa. Tu scrivi “E dunque: ammetti o no che oggi quel comune è quasi interamente egemonizzato dal mercato?” Lo ammetto e se mi dici che il ruolo del critico è:. “Rendere chiare le strutture di questo comune” mi trovo nuovamente d’accordo con te. Renderle chiare a chi? Allo scrittore? Sì, lo scrittore ne ha un gran bisogno, perché è spesso troppo invischiato (o, quantomeno, parlo per me stesso) nella materia narrativa per rendersi conto di quanto il suo lavorare questa non aiuti a porsi in modo critico verso il mercato. Ma perché questo avvenga, scrittori e studiosi della letteratura si devono incontrare, devono dialogare, devono superare il solco scavato dall’idea che lo scrittore sia morto per definizione (io, incrociando le dita, non ho fatto neppure l’influenza). E poi le strutture del comune devono essere chiarite anche ai lettori; ma allora l’invito ad abbandonare linguaggi e riferimenti per addetti ai lavori si fa pleonastico. Ecco, in conclusione, mi sembra che nel tuo intervento ci siano molti spunti per avviare un dialogo: grazie.
Infine una doverosa precisazione: mi scuso per aver tirato in ballo la dimensione (inter)personale dei nostri discorsi ai tempi del dottorato, ma è difficile mettere un freno alla deriva memorialista dello scrittore. Quanto all’episodio di Derrida, non mi stupisce che tu non ne abbia ricordo: si è svolto l’anno prima del tuo arrivo in dottorato: anche la memoria dello scrittore che deriva memorialista ha qualche lacuna; sorry. Però ricordo perfettamente che tutte le nostre serate di discussioni davanti a una birra, con il gruppo dei dottorandi, sono state bellissime. Malgrado i miei appelli alla chiarezza, alla concretezza del vivere, cerco di spiegare ai miei studenti quanto possa essere stimolante trascorrere ore e ore a parlare di ciò che si ama (nel nostro caso i libri) e quanto sia sconfortante la pragmatica rinuncia alle passioni in nome dell’efficienza.
2) A LUCY. Scusa se ti sono parso un po’ sentenzioso quando ho scritto; “Già per pubblicare libri non ci vuole molto coraggio, ma per scriverli e non pubblicarli ce ne vuole ancora meno.” Volevo solo dire che, ogni tanto, specie noi giallisti, ci sentiamo molto coraggiosi quando pubblichiamo libri che parlano di questioni “scottanti” (criminalità dei colletti bianchi, intrighi del potere..), ma in realtà pubblicare non è un atto così eroico. Trovo però un po’ triste l’atteggiamento di coloro che dicono: “Io scrivo e non pubblico per non farmi condizionare dai meccanismi dell’industria culturale”. Io credo che se costoro si trovassero di fronte un contratto con Mondadori, Feltrinelli, Einaudi, Bompiani, Rizzoli, Guanda, ecc., magari farebbero delle scelte di tipo ideologico, ma almeno uno di questi lo firmerebbero. Detto questo, io continuo a ritenermi fortunato per aver avuto accesso al mondo dell’editoria e ho grande rispetto per chi cerca con nuovi e vecchi mezzi (dalle fotocopie, ai blog, fino al diario personale), delle alternative a queste forme classiche.
A SERGIO GARUFI. Ti (uso il tu anche se non ci conosciamo, ma spero che ci si possa incontrare presto) rispondo su due diversi punti: il “ricordo deamicisiano” e la “semplicità del lessico”.
A) Il “ricordo deamicisiano”. Mentre scrivevo la mia lettera a Gianni, mi rendevo conto del sapore arcaico, forse anche decadente di quell’episodio. E tuttavia, l’episodio stesso si era presentato a me in quelle precise forme. Capisco che tu lo possa ascrivere alla categoria delle parabole edificanti inventate a bella posta per sostenere una certa posizione, ma per me il ricordo non è affatto deamicisiano, cioè non è preso a prestito da un immaginario trito e ritrito, il mio ricordo è assolutamente reale. La vera forza distruttiva del luogo comune e del topos letterario sta nella sua capacità di annullare il valore dell’esperienza nel momento in cui questa assomiglia a una delle rappresentazioni tipiche del luogo comune. E in quanto “comune” il luogo comune copre molte parti dell’esperienza quotidiana: è un luogo comune rappresentare la montagna innevata, ma la montagna è spesso innevata, è un luogo comune rappresentare i giapponesi con la macchina fotografica ed è vero che molti giapponesi non ce l’hanno, ma se io devo parlare di un turista giapponese devo per forza privarlo della fotocamera? I miei lettori malati, bendati e ingessati, i miei anziani lettori della casa di riposo ci sono stati davvero: per non essere deamicisiano potrei solo dimenticarli, far finta che non esistano. E allora corro il rischio e li rappresento così come sono, non mi autocensuro: se qualcuno lo trova deamicisiano pazienza, la realtà è spesso così; io non voglio costringere nessuno ad essere realista e a parlare della realtà, ma non credo di essere costretto a tradire la realtà per paura di ripetere degli stereotipi. Qualcuno si crede forse obbligato a non dire “Ti amo” al proprio compagno o alla propria compagna solo perché “Ti amo” ricorre nelle telenovelas e nei Baci Perugina? Pazienza.
B) Tu scrivi: “la chiarezza espressiva è data dall’incontro fra le parole e i concetti, non dalla semplicità del lessico adoperato”. Concordo pienamente, infatti non ho utilizzato il concetto di “semplicità del lessico” (ho anche controllato con CTRL+F, dalla ricerca non risulta), ma ho citato il Levi del “parlare oscuro”. L’opposto di “oscuro” è “chiaro”, non “semplice”. Secondo me la semplicità è una virtù, ma non può diventare “semplificazione” nel senso di “banalizzazione”. Alcuni concetti non possono essere risolti con l’omologazione al basso. Ma, al tempo stesso, “oscurità” non significa necessariamente adozione di uno stile “alto” (tu non lo dici infatti, ma forse, nel gioco delle opposizioni alto/basso, questa è una delle conseguenze delle tue affermazioni). Ci sono tanti modi per essere oscuri senza avere la maestria di Gadda; pensa a quanto è oscuro il “politichese”, che non ha certo le stimmate del linguaggio “alto” e che però rifiuta la “semplicità lessicale”. A me sembra che il linguaggio di certi critici, assomigli a quel politichese; che non sia complesso per la necessità di usare termini specialistici che coprano aree semantiche ben precise e non individuabili altrimenti, ma che si diletti di un linguaggio da iniziati, da carbonari, quando ci sarebbero altre vie non meno nobili (quindi non semplicistiche) per comunicare gli stessi concetti. Con questo credo di poter rispondere anche ad ALCOR che scrive: “questo appello alla chiarezza in sé salvifica e migliore fa un po’ ridere”. Non credo (e non l’ho scritto) che la chiarezza sia “in sé” salvifica: se la chiarezza penalizza, attraverso la banalizzazione, i contenuti non è per nulla salvifica, ma se, senza smarrire nulla del significato, io posso scegliere la chiarezza o l’oscurità, la mia preferenza va alla chiarezza.
4) A GILDA POLICASTRO che mi scrive: ”Patetico” è chi dice di non aver potuto leggere certi libri perché l’autore non glieli ha mandati. Lo sapeva che esistono le librerie? O la possibilità di ordinare i libri in rete?” Forse nella fretta non hai (mi permetto di dare del tu anche a te) colto un mio tentativo, probabilmente malriuscito, di autoironia sulle tue stesse parole: ““Ci sono sì o no, questi scrittori? Ci sono, (…) ma sono pochissimi (altro che vitalità), sono nascosti, scrivono, come Gabriele Frasca, romanzi su sottoscrizione, mandati in lettura ad interlocutori selezionati accuratamente in ambiti diversi”. Io volevo semplicemente dire che non essendo tra questi “interlocutori selezionati” non mi ritenevo degno di leggere i suoi romanzi, non che non avessi biblioteche o librerie o siti internet dove trovarli. A parte questo, ho fatto qualche ricerca per colmare la mia ignoranza e ho scoperto che, escludendo la saggistica e la poesia, “Santa Mira” uno dei pochi se non l’unico romanzo di Frasca (e tu parlavi di romanzi e non d’altro) è presente in non più di 10 biblioteche in tutta Italia. Da quanto tu scrivi, Frasca è uno dei pochi scrittori che diano segni di vitalità, uno dei pochi veri scrittori. Io non lo metto in dubbio, ma se i veri scrittori sono presenti in non più di 10 biblioteche di tutto il Paese (e non parlo delle librerie che, come si sa, sono biecamente asservite ai meccanismi di vendita) l’Italia è davvero una nazione perduta. Però ti faccio una proposta: se provassimo ad allargare un po’ la cerchia degli scrittori “vitali”? se provassimo a raggiungere una dimensione un po’ meno elitaria? Non dico ai best-seller, diciamo a quelli che sono stati letti non proprio dagli amici intimi. Il fatto di aver avuto pochi lettori non toglie nulla al valore di un libro, ma neanche lo colloca automaticamente nell’Olimpo della letteratura, e soprattutto non permette il ribaltamento di questo concetto, non permette di affermare che i romanzi che raccolgono consenso tra il pubblico sono di scarsa qualità o si piegano a chissà quali bassezze e convenzioni.
Ah, dimenticavo le tue parole conclusive: “A pensarci bene, non mi pare nemmeno degno di una risposta, quello che ha scritto Perissinotto. Mi pare infertile continuare a perder tempo così. Piuttosto, vado in libreria.” Io ho scritto che il modo in cui concludevi il tuo articolo mi sembrava “patetico” (e avrei dovuto trovare un termine che suonasse meno offensivo: faccio ammenda); tu mi rispondi che io sono patetico. Di questo passo finiremo al “Chi lo dice lo è mille volte più di me”. Non è possibile trovare un tono più propizio al dialogo?
Ad Andrea Cortellessa. Mi dispiace di rispondere “in corpore vili” quando invece ci sono mille interventi tuoi che meriterebbero una prosecuzione del dialogo, però parlare di Tognazzi e della filologia aiuta a svelenire il clima. L’osservazione di Andrea ci porta inevitabilmente al confornto tra Oralità e Scrittura. Non dubito che sul libro citato si parli di “supercazzora” e di “Brematurata” e che “Supercazzola prematurata” sua una “Lectio facilior”, ma il cinema, in quanto trasposizione orale e visiva di un testo scritto (la sceneggiatura), pone al filologo problemi nuovi, poiché mi sembra altresì che Tognazzi dica “SupercazzoLa” (vedi documentazione filmata: http://www.youtube.com/watch?v=_9MTJw5ctVE ). Dunque, quandanche supercazzoLa si ponesse come lectio facilior o come vulgata del più nobile “supercazzoRa”, non dovremmo domandarci, onorevoli colleghi, se, nobilitata dall’interpretazione dell’indimenticabile Tognazzi, quella della “SupercazzoLa” non diventi la versione da privilegiare? E soprattutto, non dovremmo domandarci se antani, come se fosse antani, o come romanza versus ugrofinnica, tapioca…
Scusate: è stata una giornata dura.
@Perissinotto
Ottima obiezione. Oralità e scrittura (bene, bene, proprio i temi di Frasca; nemmeno i suoi saggi hai mai letto? Eppure li hanno pubblicati illustri case editrici del settore: Costa & Nolan e Meltemi, per non parlare delle introduzioni alle traduzioni da Beckett, uscite da Einaudi. Mi permetto anch’io il “tu”). E ovvio: se è Tognazzi a pronunciare così, fa indubbiamente testo. E tuttavia: il fatto che mi sia venuto di andare a controllare sul testo, anzi sul pre-testo della sceneggiatura, indica che immediatamente, a memoria, il tuo mi pareva un errore da lectio facilior, appunto. Insomma, io la ricordo “supercazzora”. Ora vado a vedere il link di cui ti ringrazio, ma ipotizzo che la variante adiafora addirittura possa essere stata introdotta da uno dei (malriusciti) sequels: dacché s’inferirebbe che lo stesso Tognazzi si sia lasciato andare alla lectio facilior di se stesso! (ciò che è del resto lo specifico dei sequels, cioè della produzione di consumo, cioè esattamente di quanto ci stiamo occupando, cara Carlotta Vissani).
Hem.. signor Perissinotto non stia li a rispondere a tutti i commenti con pari dignità, altrimenti non ne viene fuori vivo, guadri che ci perde la salute in questi blog se si vuole essere precisi, educati e disponibili come è lei. Osservi tutto dall’alto. Non prenda esempio da Biondillo.
Agh, il link è scorretto! Crux, Crux! (Non: “Crucifige”.)
http://www.youtube.com/watch?v=89-p_JaWTWU&feature=player_embedded
Grazie Alcor! Adiafora limpidissima: il luogo è tratto dall'”Amici miei” originale, e Tognazzi pronuncia il lemma due volte: nella prima (0’45”) pare anche a me “supercazzola”, ma nella seconda (01’30”) è distintamente “supercazzora”. Resta che la lemmatizzazione (il titolo del frammento di YouTube) si orienta, come volevasi dimostrare, sulla facilior. (Anzi, addirittura doppiamenta tale: “super cazzola”.)
doppiamente
http://www.youtube.com/watch?v=_9MTJw5ctVE&NR=1
Da questa più esaustiva casistica si direbbe fifty fifty…!
Propenderei per super cazzola…
Detto questo: ciò che mi colpisce continua ad essere il ricorrere ossessivo di quello che per me è un falso problema. O una serie di falsi problemi.
La cosiddetta trasmedialità ad esempio: se uno scritto di critica letteraria è ‘stilcritico’ esso resta ‘stilcritico’ anche se trasmedializzato.
Oppure che significa comunicare? Siamo sicuri che La Cognizione, ad esempio, non comunicasse? Non è piuttosto interessante discutere di ‘come’ si comunica e di che cosa si comunica?
Lo spostamento – in ambito di critica e di critica del romanzo – di tutto il nostro discorso dalle teoresi al medium che le veicola (che è perfettamente comprensibile in ambito di altre disciplina che si ‘multiumedializzano’) quanto senso ha se parliamo di romanzo e ancor più di critica letteraria?
C’è molto da dicutere sul fatto che l’accuratezza filologica sia da auspicare sia che si parli di leopardi sia se invece si ricostruisce la situazione dei blog letterari italiani? E che senso ha discutere dell’adeguatezza dei commenti in calce ai post, piuttosto che dell’adeguatezza (teorica e creativa) dei post stessi?
Non sarà meglio che ci concentriamo sulle ‘strategie comunicative’, sullo strumentario della lettura critica (che nel caso dell’analisi della poesia è sconsolatamente povero ed inadeguato) sulla possibilità che ha la ‘forma romanzo’ di essere arte a sè, o non piuttosto solo genere letterario in prosa?
O ancora, non sarebbe salutare a tutti noi, parafrasando un Celeberrimo, visto che si discute di Web, invece di polemizzare tra critici ‘cartacei’ e critici ‘digitali’ ‘taliani di provare a fare una Gita a…. dot eu?
E’ come se il bisogno di spartirsi un territorio ci facesse passare ogni curiosità… il paradosso è che questo territorio, poi, rischia di non esserci più, o di non esserci più come prima, perchè non ne individuiamo i confini. Perchè non abbiamo le parole (e le ‘categorie) per farlo.
E allora non resta che la filologia della supercazzola…..
(sia detto senza spirito polemico)
Stimo tutti coloro che tra questo blog e Vibrisse hanno animato la discussione. Ma un dialogo serve se poi ne nasce una lingua. Che senso ha autoattribursi meriti (che siano di competenza critica, o di pure esperienza ‘nerd’, o di quel che vi piace di più) se la gerarchia che andiamo a costruire non ci aiuta poi a comprendere il funzionamento reale, la ‘prassi’ della letteratura? e che senso filologico ha chiudere un pezzo di critica letteraria con un aneddoto ‘personale’?
Scusate se insisto sulla poesia (è il mio lavoro , in fondo). Ma perché tanti critici letterari italiani non si pongono il problema che NON hanno gli strumenti per leggere (anche in senso strettamente lacaniano) la maggior parte della produzione poetica internazionale (e anche un PICCOLA PARTE DI QUELLA NOSTRA, ITALIOTA?)?
Perchè un autore è diverso da un critico? e io che faccio entrambi chi sono? L’imitazione calva di un ‘grillo’ di Bosch? Un autore come Scarpa è forse solo un ‘romanziere’? non credo.
eppure in almeno due casi (Rizzante e Wu Ming) ci sono stati contributi rilevanti alle analisi della narrazione. Contributi apparentemente diversissimi, eppure per certi versi simili, nell’attribuzione di enormi responsabilità ‘politiche e culturali’ che essi compiono nei confronti delle narrazioni.
Non sarà arrivato il momento che i critici riflettano sugli strumenti che utilizzano per leggere le ‘parole’, piuttosto che far finta che il Web non esista, e non sarà il caso che gli scrittori(i poeti, gli autori) inizino, invece di rivolgersi a una non ben definita comunicabilità, o alla loro pluriennale presenza in rete, a fare da sè, cercando essi stessi le ‘categorie’ che sono sottese al loro progetto?
e infine che senso ha chiamare elitari degli autori che, nonostante la eccellente qualità di quanto producono, non hanno accesso al mainstream? Vuol forse dire che Moravia era meno elitario di Emilio Villa? Ma siamo sicuri di conoscere il significato vero della parola elitario? Villa non scriveva per un elite, piuttosto per un ‘pubblico che ancora non c’è’ o finirà che persino la più ‘democratica delle opere dantesche, il Convivio, diventerà l’esercitazione blasé di un avanguardista in vena di filosofeggiamenti.
E non mi pare il caso.
Un caro saluto a tutti
lv
@perissinotto
io non ti contestavo il luogo comune, o la veridicità dell’episodio che hai raccontato. facevo piuttosto riferimento al ricatto emotivo, all’indulgere sui dettagli penosi, qualcosa di simile alla celebre critica di rivette a pontecorvo. per me quella non è pietà, è pietismo, così come l’idea che esponi di semplicità a me invece suona “semplicistica”.
non se ne esce. parlare di cose di tutti i giorni, in un romanzo, in poesia, in sede critica, in un dibattito è vietato, nel primo caso della lista ti senti dire che il minimalismo ha stancato: e sia. per me un autore chiarissimo e per niente facile è saramago. forse nei grandi avviene miracolosamente il connubio tra chiarezza e complessità; in poesia in compenso ci si deve, pare, inventare dei pastrocchi obbrobriosi, bislacchi, che neanche artaud o apollinaire quando volevano pijà pe c…, altrimenti sei crepuscolare (ma magari!), in un testo critico: chiudi porte e finestre, ché gli addetti ai lavori tanto capiscono (e giù le masturbazioni intellettuali), in un dibattito: parliamoci addosso, e ognuno si tenga le sue ferree immarcescibili convinzioni parolibere e parolaje.
grazie, andrea, per aver detto che ad un contratto con una qualche casa editrice famosa i duri e i puri non direbbero di no. è una vita che lo dico, ma di solito mi spernacchiano.
@ Lello Voce
“comprendere il funzionamento reale, la ‘prassi’ della letteratura”. Ecco, questo è un programma ambizioso ma almeno netto. Chiaro e distinto. Invece mi pare che l’intervento di Perissinotto prescinda completamente dal contesto editoriale, dalla cornice entro la quale l’industria dell’intrattenimento soffoca le narrazioni, le formatta, le impone al senso comune *come senso comune* (al punto che un capolavoro dei nostri giorni, *Santa Mira* di Frasca, possa essere negletto in ragione della sua – colpevolmente scarsa – diffusione). Nella sua replica a Giglioli si spinge, bontà sua, all’esigenza di “porsi in modo critico verso il mercato”, ma continua a non vedere il nesso – agli occhi, forse non solo miei, non meno che lampante – fra il suo appello ai sentimenti (e alla pietà: ha perfettamente ragione Garufi; del resto proprio il Celeberrimo da te evocato quante volte ha pesantemente ironizzato sulla letteratura che evoca “i mutilatini” al fine di far brillare la lacrimuccia all’occhio della sciùra consumatrice) del “common reader” e la strumentalizzazione che di questo (comprensibile, umano, forse troppo umano) anelito si fa oggi – ovviamente non solo in Italia ma anche a Chiasso e oltre.
E così anche le perplessità che qui e altrove ho espresso su *New Italian Epic* (che a te nondimeno pare uno dei pochi “contributi rilevanti alle analisi della narrazione”) derivavano proprio dal suo non tenere conto – il che mi pareva un colmo, dato il background culturale e politico dei suoi autori – dei condizionamenti che in ambito narrativo sempre più arrogantemente vengono esercitati dall’industria dell’intrattenimento e dai suoi manutengoli mediatici. Et pour cause.
Quello che mi pare insomma imperdonabile, nell’approccio di Perissinotto, è l’ingenuità. Vera o affettata.
“Bisogna irradiare e non solo il mondo, ma l’universo. Ogni parola un colpo andato a segno, ogni capitolo un’accusa al mondo e l’insieme una rivoluzione totale, del mondo intero, sino all’estinzione totale. Ma cosa significa estinzione ? L’inizio del nuovo”
(T.Bernhard)
« Se un lavoro non possiede splendore estetico, forza cognitiva e autentica originalità, non vale la pena leggerlo. La letteratura è un’epifania individuale e non deve avere alcuna valenza di riscatto socio-politico. »
(Harold Bloom)
Se qui, almeno, uno di voi, fosse in grado di dare forma ad un colpo andato a segno come questo
“Ho in mano uno stelo. Io sono lo stelo. Le mie radici affondano nelle profondità del mondo, in una terra prima secca, dura, poi umida, sempre più giù, attraverso vene di piombo e di argento. Sono pura radice. Ogni specie di vibrazione mi scuote, e il peso della terra grava sulle mie costole. In alto i miei occhi sono foglie verdi, non vedono…”
ed invece sempre e solo colpetti di tosse in cerca, chi più chi meno,
di monetine tintinnanti o colorate, da incollare all’album…
persino all’inferno, i dannati si dan tregua ogni tanto nel riprender fiato
per ricominciare con le loro bestemmie, voi niente…
miratevi ogni tanto…
un saluto
Robin Masters
@ garufi
Sto riflettendo su quello che ha scritto e in linea di massima la condivido.
se però un maniaco pluriomicida cannibale e seriale avesse detto: sa perissinotto, tra un massacro e l’altro (seguono descrizioni dettagliate) ho letto tutti i suoi romanzi, allora sì che il vomito strappato alla sciura consumatrice era una bella cosa da raccontare: non ingenuo non deamicisiano, a posto. ingenuità vera e affettata (dal killer).
saluti.
Intervengo sulla questione semplicità/complessità. Mi sembra chiaro che nessuna delle due, presa in sé, costituisca un valore. Dalla complessità va poi tenuta distinta la complicatezza – che è sempre negativa. Comunque: CHADZI MURAT, LA MORTE DI IVAN I’LIC, I COSACCHI sono meravigliosi esempi di semplicità sublime, così come I DEMONI, I FRATELLI KARAMAZOV e MEMORIE DEL SOTTOSUOLO sono meravigliosi esempi di complessità sublime. Chi è meglio, Tolstoj o Dostoevskij? Ancora: RE LEAR è semplice o complesso? E la RECHERCE, pur così sontuosamente architettata, non si riduce in realtà a vita (tempo) allo stato puro che fluisce? Ancora: l’ipertrofia di Foster Wallace è necessariamente migliore (o peggiore) dell’asciuttezza epica di McCarthy? Joyce è meglio o peggio di Kafka? E la TERRA DESOLATA è migliore o peggiore di una breve, fulminante silloge di Emily Dickinson? E una semplicità ellittica – come quella della Dickinson o di Tolstoj – non è forse ancor più complessa della complessità tout court? Non compie un “giro” in più? Celan non dice con due versi l’orrore che Primo Levi dispiega in molte pagine? Un’altra cosa poi mi sembra essenziale sottolineare: quando un autore è un grande autore, aderisce a se medesimo senza infingimenti o forzature, “produce se stesso” per così dire con dolorosa spontaneità; se dunque la sua indole artistica è “semplice”, egli (o ella) ne ricaverà opere semplici e ricche; se la sua indole artistica è “complessa”, egli (o ella) ne ricaverà opere complesse e ricche. Per concludere, è la ricchezza – e non la semplicità o la complessità – il criterio valido per interpretare adeguatamente un’opera d’arte degna di tal nome.
Alcune considerazioni a margine e qualche digressione.
1) Alessandro Perissinotto,
della tua lettera aperta mi sento di sottoscrivere gran parte delle considerazioni, ma onestamente (da scrittrice e da lettrice) non mi trovo d’accordo sull’assunto così com’è pronuciato, diciamo (scrivo per essere capito), e su alcune considerazioni relative al legame testo-autore-lettore, come fatto in sé significativo per la comprensione di un libro.
Personalmente credo infatti che si dia forma letteraria a mondi più o meno di invenzione per essere capiti, sì, ma in base alle scelte specifiche compiute nel tentativo di far coincidere il più possibile scelte formali (espressive, stilistiche, strutturali) e significati. E dunque credo che il fare letterario abbia specificatamente a che vedere, prima di tutto, con la lettura, la più attenta e «rispettosa» possibile.
(Come faccio, ad esempio, a capire quanto mondo cova dentro le poche pagine di «Colline come elefanti bianchi» di Hemingway se non provo a cogliere come sono articolati e sviluppati in quel racconto punto di vista, spazio, denominazione dei personaggi, dialoghi, modo stesso di concepire il valore semantico delle parole da parte dei protagonisti? e se non leggo, decifro, passo dopo passo tutto questo al di là del dato letterale… in sé esile, talmente esile da risultare, per molti lettori, inconsistente?)
Così, personalmente, (come molti altri scrittori e lettori) intendo il fare letterario nel suo specifico. Né riesco a svolgere bene il lavoro di editing (per una casa editrice di quelle «incriminate»), senza prima «entrare» nel cuore del libro che devo editare, per comprenderne la natura, i limiti, le possibilità inespresse o sostanzialmente estranee a quell’opera (per scelta dell’autore o magari proprio per limiti di «autorialità», diciamo).
Per tutte queste ragioni, in verità, se scrivo, vorrei, desidererei, essere, prima di tutto, letta (da chi, tra tanti libri, decidesse di leggere quel libro che «incidentalmente» è stato scritto da me).
Per tutte queste ragioni, se prendo in mano un libro, non posso che leggerlo e provare a capirlo attraverso la lettura, per poi magari ritenerlo inconsistente o ascriverlo a un ordine di scritture che magari potrei non definire letterarie in senso stretto… Considerazioni, però, che vengono sempre dopo, né potrebbe essere diversamente. Non sono una lettrice suggestionabile…
2) Andrea (Cortellessa) evoca la filologia… Bene!
Forse bisognerebbe, prima ancora che classificarli, giudicarli, celebrarli, stroncarli, rintuzzarli, snobbarli, santificarli… come spesso accade nella critica militante contemporanea… (e non mi riferisco ad Andrea, che è critico generalmente attento)… bisognerebbe semplicemente leggerli, questi autori contemporanei, che non mi pare proprio siano così uguali, così inconsapevoli, così succubi tutti del mercato, per quanto pubblicati da case editrici non proprio minime (che, i libri, non solo li pubblicano, certo, ma li producono come qualsiasi altro bene di consumo. E infatti, nel mio lavoro di editing, ho sempre ben chiaro, o abbastanza chiaro, la natura del testo che sto editando, e in genere mi comporto di conseguenza).
3) Così, beh… vorrei che la si smettesse con questa storia dell’autore soggetto al mercato o vittima dell’editor asservito al mercato e del critico libero (o frustrato dai libri-di-mercato).
Esiste un mercato del libro, è vero, ma esiste anche un mercato della critica… o comunque una pressione, se non altro, psicologica del mercato sulla critica (soprattutto militante) così come sugli autori… Su questo non mi sembra ci siano dubbi.
Esistono infiniti prodotti, che si denominano «libri»… e che riguardano ogni ambito del pensiero e ogni forma d’arte. E, nel vasto mondo della produzione libraria di varia fattura e natura, esistono scrittori, critici, scienziati, filosofi… che, ognuno nel proprio ambito, cercano di lavorare con consapevolezza, rigore e un certo tasso più o meno significativo di «autorialità», «visionarietà», «intuizione» (non in base a mere logiche di mercato, ma in base alle proprie possibilità e alle proprie istanze).
Che siano una minoranza mi sembra normale, anzi, fisiologico. Che tendano a scomparire nel mare della produzione mi sembra quasi scontato. Che non sempre scompaiano, mi sembra un miracolo. Che la critica fatichi a identificarli mi sembra un limite umanissimo nel mare magnum della produzione libraria… Che si rinunci a farlo e poi si giudichi tout-court lo stato della letteratura italiana in base a quel che si è riuscito a cogliere… questo, beh, mi sembra ingiusto. Meglio circostanziare i confini della propria visione, allora (cosa che vale per tutti, scrittori e critici, perché anche gli scrittori dovrebbero fare la loro parte di lettori attenti).
Quel che poi non mi sembra affatto rassicurante è la difficoltà di alcuni lettori anche «forti» a scegliere, e persino riconoscere quel che stanno leggendo o che vorrebbero leggere. E questo per mille ragioni, non ultimo il modo in cui si insegna spesso a «non-leggere» a scuola come all’università, ma anche perché molti di noi (scrittori, critici, lettori un po’ più consapevoli o di mestiere) – vuoi per stanchezza, opportunità, mancanza di energie, distrazione, egocentrismo, interesse, affaticamento… vuoi per rassegnazione – siamo venuti meno al ruolo di coscienza critica o più semplicemente, ormai da tempo, non riusciamo a fare arrivare la nostra flebile voce oltre una piccola cerchia di allievi, sodali, amici, o specialissimi cultori…
Ora, se non si comincia da lì, dal rigore, dall’indipendenza della lettura e del giudizio (cosa che vale anche, si badi, per gli scrittori), quale altra forma di rispetto del proprio e dell’altrui mestiere si può immaginare? e quale altro modo per dialogare? nel tentativo magari di trovare insieme un modo per farsi anche ascoltare magari oltre le nostre consuete asfittiche cerchie…?
io vorrei che un giorno arrivasse da me il mercato.
mi comprerei un gozzo con un venticinque cavalli a quattro tempi.
Sarò brutale e rozza: le vie che prende uno scrittore o un critico (oggi una delle parole più ambigue, una specie di contenitore buono per tutto) dipendono principalmente dalla distribuzione innata delle sue circonvoluzioni cerebrali, non vedo possibilità di conciliazione tra un’idea sostanzialmente bonaria e accattivante della letteratura da una parte e un’idea critica non consolatoria, perché riposano sulla persona.
Sono posizioni che non nascono soltanto dalla riflessione, dai maestri e dai compagni che si sono incontrati nella vita, sono posture complesse e inconciliabili, se non brevemente e occasionalmente, per estremo realismo tattico. I maestri si scelgono, e i compagni di strada pure, e si scelgono con una certa naturalezza, seguendo un certo istinto.
Tra post e thread la voce più “simpatica”, più “centrata”, più rilassata è certamente quella di Perissinotto, ma cosa ci dice in fondo? soltanto: lasciate che mi abbandoni a me stesso e ai miei lettori, in questo sta la mia soddisfazione. Ho visto anche altro, durante i “miei studi” ma non mi interessa.
@Biondillo
tu insisti a proporci un’altra sponda critica, ma il problema è che non è critica,
anche se credo che la maggior parte dei lettori apprezzino le schede che tu fai sugli scrittori, sono andata a leggermele seguendo i link, sono un riassunto della trama (che c’è sempre, e immagino che tu riesca a vederla anche quando non c’è) e che tu accompagni con qualche breve opinione personale e abbastanza generica sullo stile, e pensi, dal tuo punto di vista giustamente, di aver fatto il tuo lavoro, e l’hai fatto ma non è un lavoro di critico.
Il tuo mondo non è conciliabile con quello dei critici che critichi, accontentati che sia maggioritario.
Poi si può anche parlare di filologia, ermeneutica, posizioni ideologiche, critica dell’economia politica eccetera, ma prima, su tutto vittorioso, sta l’innatismo.
@ Evelina (Santangelo)
“Esiste un mercato del libro, è vero, ma esiste anche un mercato della critica… o comunque una pressione, se non altro, psicologica del mercato sulla critica (soprattutto militante) così come sugli autori… Su questo non mi sembra ci siano dubbi”.
Altroché! Parole sante! E’ proprio questo il punto (uno dei punti). La critica, per come la intendo io, ha abdicato da tempo, nella sua quasi totalità, al proprio ruolo di vaglio, esame e interpretazione, che da quando esiste l’industria dell’intrattenimento *ha sempre fatto da contrappeso* alle leggi di mercato, istituendo (a torto o a ragione nello specifico merito delle specifiche opere, non è questo il punto) dei valori “di prestigio” (il termine fa cahare, direbbe il Mascetti, ma non me ne viene uno migliore) che oggi fanno storia, fanno canone, fanno coscienza condivisa di *cosa è la letteratura*. Oggi invece i critici che hanno accesso ai mass-media (dalla televisione, che è la portaerei, ai magazine dei grandi quotidiani, che sono le corazzate, alle pagine interne dei medesimi quotidiani, che sono una flottiglia che non caha quasi più nessuno) sono quasi tutti completamente *embedded* nelle logiche di mercato. E di conseguenza fanno a gara a chi la spara più grossa, in un tripudio di snobismo e cinismo che fa sinceramente impressione. Di conseguenza Faletti può essere proclamato il maggiore scrittore italiano. Di conseguenza un furbo intrattenitore dal valore letterario da tempo non pervenuto, come Niccolò Ammaniti, può passare come uno scrittore di rilievo (e vincere premi “prestigiosi”, e avere recensioni in ginocchio su tutti i giornali, che si spingono all’arroganza di censurare chi eccepisce, foss’anche solo per una frase, dal coro di incensamenti). Ecco i motivi – non sono un arcano – della “difficoltà di alcuni lettori anche «forti» a scegliere, e persino riconoscere quel che stanno leggendo o che vorrebbero leggere”.
@ Lucy
Dalla citazione di Ammaniti si sarà capito, forse, che lo splatterino da commediola all’italiana con motoseguccia – quello che è stato definito “nichilismo di complemento” da un critico per questo censurato dal suo giornale – non mi fa meno cahare del ricatto emotivo del mutilatino (e comunque Ammaniti non si nega né l’uno né l’altro registro; la motoseguccia, del resto, sta lì a prevedere o prevenire il mutilatino). Il livello di formattazione, prevedibilità, stereotipia “citofonata da Marte” [(C) S. Ballestra] è analogo. Attenzione però: tu fai un’indebita sovrapposizione fra l’ipotetico giudizio sui libri di Perissinotto (i quali, ci riferisce lui e non abbiamo motivo di dubitarne, sollevano l’esistenza grama della ragazza di colore prona nel cronicario), sui quali nulla posso dire non avendoli letti, e il giudizio sul registro stilistico e sulla mozione degli affetti del pezzo postato qui da Perissinotto (sul quale appunto il mio giudizio concorda con quello di Garufi).
@ Enrico Macioci
Molto d’accordo. Complessità non è Oscurità (Levi è Complesso, dio sa quanto!, ma Chiarissimo; Celan è Semplice – inteso in senso geometrico e come economia di mezzi – ma Oscurissimo); e, come diceva Alcor, Sandro Penna è uno dei maggiori poeti del nostro Novecento. Il problema, in queste dicotomie che sono sempre astratte se non calate nel concreto specifico delle singole opere degli autori realmente esistenti, è che una volta di più prescindono dal paesaggio della “letteratura reale” (per usare l’aggettivo, stavolta, nel senso in cui connotava il “socialismo”): cioè dalle scelte dell’industria dell’intrattenimento che vanno *sempre*, guarda un po’, dalla parte dell’Ovvio, del Formattato, dello Standardizzato. E che hanno l’arroganza di proporre questi valori, atti al consumo Indifferenziato & Passivo, come valori letterari. Se non addirittura etici, morali!
Di qui l’evocazione della loro salvifica forza consolatoria, addirittura del valore morale dell’intrattenimento: ma come, a un povero lavoratore precario reduce da 10 ore di lavoro e 4 ore di spostamenti vuoi propinare Beckett? Crudele! Pazzo! Come se fosse colpa di Beckett, la schiavitù alla quale il povero lavoratore è incatenato *dallo stesso potere* che gli propina la minestrina di Ammaniti, e gliela fa pure pagare!
Andrea (Cortellessa),
sottoscrivo e credo anche che quella «colpa» lì che tu attribuisci alla critica («la critica, per come la intendo io, ha abdicato da tempo, nella sua quasi totalità, al proprio ruolo di vaglio, esame e interpretazione, che da quando esiste l’industria dell’intrattenimento *ha sempre fatto da contrappeso* alle leggi di mercato») ricada anche, per quel che a loro compete, sugli scrittori, quando da «lettori d’eccezione» si pronunciano sui libri degli altri o su qualsiasi altra manifestazione del pensiero, dell’arte, della condizione contemporanea…
Forse si potrebbe cominciare a dialogare intanto anche da qui.
ps.: una riflessione sul lavoro di editing: se c’è un momento in cui l’opera è lì nella sua essenza, nuda e cruda, è proprio in quella fase antecedente alla pubblicazione, quando ancora non è attiva la macchina della promozione, né i critici si sono pronunciati, né i premi la hanno consacrata… Lavorare come editor credo che aiuti paradossalmente ad assumere uno sguardo, non dico più libero (perché non tutti gli eding si scelgono e si portano avanti con convinzione), ma di sicuro più «laico».
Ad Andrea Cortellessa, soprattutto, con gli argomenti del quale sono, in linea generale, d’accordo. Ma. La domanda che mi pongo sampre quando un critico stigmatizza i condizionamenti del mercato e la colpevole invisibilità di autori davvero significativi, magari, come in questo caso, citati per nome e opera scritta, è la seguente: come fanno i critici con la voglia di trovare la qualità prescindendo dalle pressioni della grande editoria a “scoprire” questa qualità nel mare della produzione? Quali strategie di ricerca, quali canali? Io faccio il bibliotecario e ogni settimana mi trovo a esaminare, per decidere cosa acquistare e cosa no, una media di venti titoli nuovi solo per quanto riguarda la narrativa. Quale è la magia del critico che riesce a esaminare con attenzione critica migliaia di romanzi ogni anno e poi separare il grano dal loglio?
@ lucy.
solo per curiosità filologico poetica: ci dai un esempio di ” pastrocchi obbrobriosi, bislacchi, che neanche artaud o apollinaire quando volevano pijà pe c…”? Così tanto per stare al punto e non parlare del sesso degli angeli, posto che ovviamente poi può essere trasmedializzato pure quello…
Obrigado…
lv
Penso che nessuno qui voglia sparare sull’intrattenimento (io ci sparerei, perché l’intrattenimento non m’intrattiene, di solito). Il problema è quando il “corsera” dedica un’anteprima all’ultimo Dan Brown, dedicandogli l’apertura in prima pagina e tutta la famigerata terza di cultura. Mi pare del tutto evidente che un’operazione del genere sia possibile soltanto quando la mediazione critica non esista più (o sia confinata in cricche o riserve indiane), gli scrittori coltivino l’ossessione del piacere a tutti (e non del dispiacere a qualcuno, eventualmente) e i lettori abbiano subito un sistematico processo di rincoglionimento.
Scusate, volevo dire duecento libri nuovi, non venti (eh, sarebbe troppo facile…)
@ Evelina Santangelo .
Vorrei dire che hai ragione, ma poi mi accusano di essere falsamente accondiscendente (“bontà sua” scriverebbe Andrea Cortellessa). In ogni caso lo dico: hai ragione. Quello “Scrivo per essere capito” che conclude il mio pezzo e che è stato ripreso nel titolo (che non ho scelto io, ma che condivido) è un po’ troppo sbrigativo. Espone una parte del mio punto di vista, senza esaurirlo e ciò che tu scrivi aggiunge al dibattito elementi che, in massima parte condivido. Credo di non essere adatto all’immediatezza e alla brevità dei post, alla rapidità del loro scambio: intellettualmente sono un bradipo e ometto sempre qualche aspetto importante. Per questo esiste il dialogo, per completarsi vicendevolmente. Dunque grazie per le aggiunte e le precisazioni.
@ Alcor
Riprendo ciò che tu scrivi: “Tra post e thread la voce più “simpatica”, più “centrata”, più rilassata è certamente quella di Perissinotto, ma cosa ci dice in fondo? soltanto: lasciate che mi abbandoni a me stesso e ai miei lettori, in questo sta la mia soddisfazione. Ho visto anche altro, durante i “miei studi” ma non mi interessa.”
Per la verità, durante i miei studi (passati e presenti, visto che sono ricercatore universitario) ho visto anche altro e mi interessa conciliarlo con ciò che ho esperito in quanto scrittore: il contatto con i lettori fa parte di quello. Mi interessa uscire da posizioni settarie, da una sterile battaglia di scrittori vs. critici. Forse, e in questo hai ragione, non mi interessa tanto parlare di letteratura, quanto di comunicazione letteraria e la comunicazione non può prescindere dalla triade mittente, testo, destinatario (e da molte altre cose). Quella della comunicazione non è l’unica via, e quella di chi si occupa solo del testo è nobilissima; mi piacerebbe, lo ripeto, trovare dei punti d’incontro.
@ Sergio Garufi
Tu citi la polemica Rivette – Pontecorvo e ciò mi induce a divagare, ma neanche poi troppo: pietismo o realismo? Impossibile parlarne in cinque righe, credo però che valga la pena affrontare il rischio del “patetico” pur di non trascurare la “realtà”. La realtà a volte è patetica, indipendentemente da come la rappresentiamo, perché noi non ci possiamo impedire di guardarla con un filtro letterario o cinematografico, o anche solo col filtro delle fiabe che abbiamo sentito da bambini. Cionondimeno dobbiamo rappresentarla quella realtà e non è vero che nel rappresentarla la stravogliamo a fini pietistici, almeno non sempre. La critica di Rivette si riferiva a Kapo, ma se prendiamo in considerazione “La battaglia di Algeri” noi possiamo pensare ugualmente a una realtà addomesticata a fini ideologici e commerciali, al desiderio di provocare non tanto le lacrime, quanto una indignazione preconfezionata. Ma quella realtà è così poco addomesticata che, mentre il film fu praticamente vietato nelle sale d’Oltralpe, nelle scuole di guerra francesi e poi in quelle della dittatura argentina, fu impiegato come filmato di istruzione, come addestramento delle squadre antiguerriglia (vedi Marie-Monique Robin, “Escadrons de la mort, l’école française », La découverte ). Pietismo o realismo? Il dibattito ci porterebbe troppo lontano dal nucleo di questa discussione.
@ Andrea Cortellessa
Prima di tutto mi scuso con Gabriele Frasca per averlo chiamato in causa più volte: probabilmente non gli fa assolutamente piacere essere inserito a forza in questo dibattito; se lo vedrai, gli porgerai le mie scuse. Ribadisco (ma su questo non mi pare che ci siano dubbi) che anch’io mi dispiaccio che un romanzo di valore quale “Santa Mira” (che leggerò tra breve IBS permettendo) non abbia avuto maggiore diffusione. Ma qui cadiamo nella solita contraddizione: da un lato la pubblicazione presso una piccola casa editrice in una collana molto ricercata (quella diretta da te) è garanzia di qualità (per questo parlo di romanzo di valore ancor prima di averlo letto) ma non di diffusione, dall’altro, il passaggio a una grande casa editrice (che garantirebbe la diffusione) implicherebbe il riconoscimento del fatto che non sempre l’editoria dei grandi numeri, per citare le tue parole, “soffoca le narrazioni”. Quello che io rifiuto è l’equazione “pochi lettori scelti”= capolavoro, “Tanti lettori”= romanzo mercificato. Lo so che ci sono tanti buoni esempi che supportano questa posizione, ma ce ne sono altrettanti che falsificano l’uguaglianza.
E veniamo al tema dei “mutilatini”. Guardiamo alle mie parole con una certa diffidenza (come avete fatto tu e Sergio Garufi) può sembrare che io abbia scelto l’esempio dei lettori in ospedale per (ti cito) “far brillare la lacrimuccia all’occhio della sciùra consumatrice” e per ingraziarmi il “common reader”. Ma io quel testo l’ho pubblicato su Nazione Indiana, un luogo che non mi sembra frequentato da Sciùre consumatrici dalla lacrima facile e da “common readers” (anche se mi sento colpevolmente vicino alle une a agli altri), l’ho scritto per lettori come te. Nei miei otto romanzi credo che non ci sia un solo passaggio di quel tipo. La battuta sui “mutilatini” mi sembra un processo alle intenzioni un po’ facile, come se fossi così ingenuo (un po’ lo sono, ma non fino a questo punto) da pensare di influire sulla critica italiana a suon di scenette strappacuore. Attenzione dunque a non cadere nelle trappole del “Politically correct”, perché il politicamente corretto, in quanto stereotipo, sta portando alla paralisi del realismo. Mi spiego meglio. Se io racconto di una presentazione di libri in ospedale io non posso esimermi dal mostrare la mia partecipazione al dolore dei malati, ma se io mostro partecipazione trovo sempre qualcuno che mi accusa di falsità, che mi dice che la mia partecipazione è di facciata, che è solo un ossequio al politicamente corretto. Così, la mia sola via di fuga è quella di non parlare degli ospedali, delle fabbriche, della Resistenza, dei migranti, di tutte quelle cose che potrebbero suscitare (non strappare) una lacrima al lettore e che per questo motivo potrebbero attirarmi le ire dei critici della tua corrente? Certo, il rischio dello sciacallaggio emozionale è sempre presente. Da torinese avrei voluto scrivere un romanzo sull’incendio alla Thyssen-Krupp, ma sapevo che scrivere sopra un dolore così vivo e recente sarebbe stata un’operazione discutibile, un modo facile per creare consenso. Ma non posso impedirmi di affrontare il tema del dolore. Naturalmente, occorre che chi legge abbia un minimo di fiducia nell’onestà di chi scrive: come interpreteremmo “Se questo è un uomo” se partissimo dal sospetto che Levi non ha mai abbandonato il suo appartamento di Torino, se contemplassimo la possibilità che egli volesse impietosirci per vendere? Allo stesso modo in cui Rivette interpreta il film di Pontecorvo sui lager (v. sopra)? Non sto parlando del rapporto tra creazione letteraria e realtà (anche se quello mi sta a cuore e ne ho parlato sopra), ma di onestà nelle intenzioni comunicative dello scrittore.
Tu parti dal presupposto che io ricicli un immaginario di terza mano, tu postuli che la maggior parte degli scrittori subiscano (ti cito) “i condizionamenti che in ambito narrativo sempre più arrogantemente vengono esercitati dall’industria dell’intrattenimento e dai suoi manutengoli mediatici”. Potrei ribattere che io mi trovo da 13 anni in quell’industria e non ho mai subito condizionamenti, ma la tua facile replica sarebbe: “sei così condizionato in origine che non hanno neppure dovuto condizionarti loro, sei così condizionato che non ti accorgi dei condizionamenti. Non sai o fingi di non sapere che i condizionamenti stanno da un lato nell’idea di canone e dall’altro nella struttura stessa dell’industria culturale, non sai che il fatto stesso di guardare all’industria culturale come sbocco possibile del tuo scrivere è già frutto e non causa dei condizionamenti che hai subito. ” Inattaccabile da ogni lato, come il Comma 22. Già, la mia imperdonabile ingenuità, vera o affettata che sia. Ti cito ancora una volta: “Quello che mi pare insomma imperdonabile, nell’approccio di Perissinotto, è l’ingenuità. Vera o affettata.” Con la categoria dell’ingenuità si risolve tutto: l’ingenuo non è portatore di principi o opinioni differenti dalle mie, l’ingenuo è uno che non ha strumenti; se proprio vogliamo riconoscergli una qualche competenza è una competenza in malafede, è affettazione di ingenuità. Forse è vero, cercare il dialogo è una imperdonabile ingenuità (ah, spregevole esercizio di puro vittimismo!)
@ Ares
Scrive: “Hem.. signor Perissinotto non stia li a rispondere a tutti i commenti con pari dignità, altrimenti non ne viene fuori vivo”
Ha ragione, credo che tutti i commenti abbiano pari dignità, ma davvero non se ne viene fuori vivi. Come dicevo, sono troppo bradipo (intellettualmente) per questi ritmi. Grazie per il consiglio, cercherò di metterlo in pratica.
@arvicola
Se lei è un bibliotecario e ha il compito di salvaguardare una produzione narrativa e poetica contemporanea che in libreria ormai osserva un tempo di “rotazione” di tre mesi (se va bene), davvero non la invidio. La sua è una responsabilità pesantissima; l’argomento di Perissinotto, nella replica mi pare a Policastro, è infatti da prendere seriamente. Con questa industria culturale (e soprattutto con le logiche perverse della distribuzione, che nessuno si azzarda a mettere in discussione) la presenza dei testi “giusti” in biblioteca è una minima quanto vitale riserva di futuro. Eppure. Come canonizzare il presente? A me pare assurdo che il nome di Gabriele Frasca, saggista poeta (e narratore) di valore non discutibile, possa essere ignorato da parte di un italiano che si professa “scrittore”; o che i suoi titoli figurino (secondo la testimonianza di Perissinotto) in sole dieci biblioteche del regno. Ma concreatamente come si è formata questa mia consapevolezza? (Che è poi mia e di pochi altri; e tanti altri possono, mi rendo conto, proporre il loro controvalore perfettamente alternativo al mio.)
Come canonizzare il presente, appunto? E’ la domanda che si fa ogni critico, ogni santo giorno; e una risposta “scientifica”, o anche solo metodologicamente conegnabile al prossimo, temo proprio non ci sia. Una volta erano le collane editoriali, la guida imprescindibile. Sulle collane vegliavano fior di editor (non nel senso qui esposto & nobilmente rappresentato da Evelina Santangelo), diciamo di responsabili, che poi erano a loro volta per lo più scrittori “indiscutibili” e che puntavano consapevolmente e intenzionalmente – su mandato di proprietà evidentemente più avvedute, e certo più etiche, delle presenti – a una politica “di prestigio”. Oggi basta vedere cosa accolgono, le principali collane di poesia e narrativa dei principali editori, e ci si mettono le mani nei capelli (mi rendo conto che sto assumendo un tono da “signora mia”, e me ne scuso col Celeberrimo e i suoi non pochi devoti). Oggi è più spesso la piccola e media editoria a fare un lavoro di ricerca e scavo più che meritorio (e che i “grandi” si astengono rigorosamente dal fare; perché come ha detto in un’intervista il direttore editoriale della più illustre “grande” casa editrice, “ciò che non sta sul mercato non è cultura”); occorre però avere, per separare il grano dalle centinaia di titoli di loglio, un grado di competenza letteraria (di storia del recentissimo passato: autori, linee, tendenze ecc.) e di avvedutezza circa i meccanismi di formazione della fama letteraria al presente, che appunto neppure i critici – i quali dovrebbero fare questo di mestiere – oggi sono spesso in grado di avere. Insomma, lei ha tutta la mia solidarietà.
lello voce: guarda, non mi faccio prendere al laccio con un’ammissione di nome e cognome, ma posso dirti che una poetessa, almeno, che compare qui e altrove e ho conosciuto solo attraverso i lit-blog mi ha lasciata esterreffatta e continua a lasciarmi di sasso per la totale incomunicabilità dei suoi versi, sgrammaticature, insomma: illegibilità. emozioni zero. mi sforzo umilmente di capire, e mi dico la storia dell’uso-cesira: che costei non ha nessun dovere di adattarsi alla mia comprensione e di piacermi. ebbene, non sono lettrice sprovveduta eppure a me sembra robaccia. so che lascia perplessi anche altri, mentre strappa consensi eccessivi e un po’ troppo zuccherosi (questo non mi convince, mi sa di piaggeria) in alcuni che reputo persone, per quello che ne leggo, dotate di capacità critica.
questa mattina ho letto un interessante articolo su repubblica di pietro citati che assumo, al di là della recensione sull’ultimo libro dello studioso francese marc fumaroli, come lettura di certi fenomeni letterari e artistici più in generale: “fumaroli e la fine dell’arte: perché il pop ha ucciso il genio”. mi sembrava cadesse a fagiolo con il garbuglio in cui sto involtolata ultimamente sul fronte di fatti che avrei negato da ragazza e che ora tornano di prepotenza a farmisi sentire: “torniamo all’antico, sarà un progresso”. l’antico pretendeva la limpidezza, l’essenzialità, che se praticata può farci apprezzare le uscite dal solco, lo scarto. gli scarti continui dalla lingua e dal senso finiscono per collassare e diventare “scarti”, tout court.
non faccio nomi, perché l’ultimo che mi ha chiesto nomi a certi nomi poi si è eclissato, mostrando in pieno quello che temo diventi per me da teorema un postulato: che tra cani non ci si morde. mi scuso della brutalità vernacolare applicata ad una cosa sacra come la letteratura.
(non risolviamo per favore la questione precedente con de gustibus…)
cortellessa: non mi pare di aver sovrapposto. ho detto solo che riportando perissinotto un dato realistico un po’ da “cuore” – perché la realtà è anche tenera e dolciastra – ci si sente urtati, mentre se il dato fosse di un tipo nettamente opposto forse non accuseremmo il tono e lo stile del post di perissinotto di giocare facile. sono rimasta su quel piano, non ho mescolato i dati. non credo che perissinotto volesse accattivarsi una platea come questa, d’altra parte lo dice, così poco incline al “facile” e più propensa a commentare-azzannare che a convenire sui fatti esposti. a me piace la sua chiarezza, come mi piace, per quello che ho letto, la sua scrittura creativa.
sulla chiarezza dello stile rimango sulle mie posizioni. per me gadda è chiarissimo, così come manganelli. altri invece, non mi convincono, mi pare mi prendano per il naso, come la poetessa sopraricordata ma non nominata. così come non mi ha mai convinto il quadratino nero in campo bianco o gli squarci sulla tela di fontana. è un po’ dura credere al nulla figurativo nelle arti figurative. oggi per esempio non si dipinge più: si fanno “allestimenti”. ho qualche resistenza, ammetto i miei limiti. così in letteratura: e questi aumentano perché leggo troppo, forse.
@ Alessandro Perissinotto
Apprezzo molto che, malgrado ti sia sentito offeso dal mio postulare la tua ingenuità (e me ne scuso), tu voglia tenere aperto il dialogo malgrado i presupposti assai diversi che, mi pare, ci dividono. Ribadisco quanto detto a Lucy: nulla so dei tuoi otto romanzi, qui sto più o meno sensatamente, ma spero onestamente sempre, commentando il testo che sta in cima al serpentone dei commenti. E’ un testo ben scritto, molto efficace, che infatti qui ha ottenuto almeno inizialmente molti plausi; ma che (per il mio gusto) stilisticamente fa appello a ben riconoscibili retoriche ricattatorie e a stereotipi consolatori. Perdonami ma non vale dall’appena espressa (e che non vuole essere offensiva, ci tengo a sottolinearlo) obiezione stilistica inferire quella da cui ti difendi e che è (sarebbe) una censura “contenutistica”. E’ chiaro che, se quell’esperienza si è prodotta e quella volevi porre all’attenzione del dibattito, hai fatto bene a valertene. E’ chiaro che la rappresentazione del dolore ha storicamente fatto parte della letteratura; ne è forse la quintessenza. Ma sai bene come, se la testimonianza di Levi (per continuare a usare un esempio-limite) si è (col tempo) insediata, nella considerazione della quasi unanimità dei lettori, come la testimonianza sulla Shoah è stato proprio in virtù e in ragione delle sue scelte stilistiche; del suo rifiuto cioè (ideologico, e in quanto tale in sé legittimo, per me!, ma spinto al punto tale da non fargli comprendere, ed esplicitamente rifiutare anzi, tanto Celan che Kafka, che pure ha tradotto: cioè quelli che per me sono rispettivamente il maggior poeta e il maggior narratore del secolo scorso) di usare certi toni che, nella letteratura concentrazionaria, si erano affermati come una retorica dominante e, appunto, senza volerlo consolatoria & ricattatoria. Lui peraltro questo poteva saperlo molto relativamente, dal momento che ha scritto Se questo è un uomo davvero “a caldo”. (E tanto più sono impressionanti quelle scelte stilistiche, allora: al punto tale che forse furono proprio esse la causa del rifiuto del manoscritto da parte dell’Illustre Casa Editrice che anche ai bei tempi, evidentemente, prendeva begli abbagli). Insomma, in letteratura tutto è lecito (come diceva Magrelli in un bell’intervento qualche tempo fa: “tranne il gabbiano che vola al tramonto”). Ma, come sempre, questa liceità è condizionata da come quel “tutto” sia stato scritto.
La carrellata di Pontecorvo era considerata addirittura “abietta” da Rivette, dando così una connotazione etica addirittura ultimativa (che nessuno qui s’è azzardato ad apprlicare al tuo testo, ovviamente) a una scelta stilistica di Pontecorvo: non, ovviamente, alla scelta tematica di rappresentare la Shoah (c’è da chiedersi peraltro se, a posteriori, Rivette non avrebbe fatto bene a rivalutarlo, Kapò, con quello che sull’argomento è venuto dopo…).
@ Perissinotto
Piccola (spero) postilla. Perché chiami “politically correct” un eccesso di sensibilità all’uso patetico di determinati materiali? A me pare che se c’è una definizione condivisibile di politically correct all’italiana è per la precisione la mozione degli affetti di orientamento veltroniano (appunto traboccante di buoni sentimenti, di dolorismo e buonismo un tanto al chilo). Il che, ci tengo a precisarlo, non vuole affatto dire che valga la pena abbracciare il suo simmetrico contrario (per es. appunto gli splatterismi fuori tempo massimo tanto esecrati da Lucy devota di Citati & Fumaroli): se c’è qualcosa di più stucchevole del politically correct è l’altrettanto programmatico e stucchevole politically incorrect.
@ Lucy
Visto che fai esempi concreti in ambito artistico (peraltro risalenti a una novantina – Malevic – e a una cinquantina – Fontana – di anni fa; entrambi beninteso ben saldi nel mio pantheon, e non solo nel mio ovviamente), occorre che tu faccia esempi concreti, in negativo, anche sulla letteratura di oggi. Ti piacciono i romanzi di Perissinotto, ok, io però non li conosco; di suo, come ho detto, il post che stiamo commentando è la prima cosa che abbia mai letto. E dei tuoi disgusti finora ci hai detto solo che si tratta di una poetessa non meglio identificata. Forse un ricorso un po’ più esplicito alla contemporaneità, Marc Fumaroli permettendo, permetterebbe di capirci meglio. Anche Gadda e Manganelli non aiutano granché, in tal senso (ma mi illudo di immaginare cosa avrebbe potuto pensare, quest’ultimo, del testo “ospedaliero” di Perissinotto).
@perissinotto
neppure io sono settaria, forse perché lo sono stata da ragazza ormai mi sono immunizzata, (interessante tra l’altro a questo proposito la supercazzola, nel ’75 né io né quelli come me andavano a vedere Amici miei, perdendoci un bel pezzo di Italia contemporanea) ma quello che non mi piace è la confusione dei piani, tu hai ragione a parlare di comunicazione, ed è con gli strumenti della comunicazione che hai raccolto il plauso dei primi commentatori, quali posizioni ci sono dietro le tue strategie comunicative? servono a far passare una posizione critica, una poetica? e quale? perché hai comunicato un sentimento al quale proprio in quanto sentimento hanno aderito in parecchi, un sentimento di conciliazione, accoglienza, sensibilità, semplicità, ma una posizione chiara, nonostante la tua semplicità e chiarezza, no.
O almeno io non l’ho vista. A meno che non si limiti alla rivendicazione di comunicabilità, ma tu mi fai giustamente notare nella tua risposta che sei anche ricercatore universitario, perciò non mi accontento.
Tu non sei per nulla ingenuo, il tuo post è molto più complesso, mediato e abile di quanto possa sembrare. E anche autentico, perché le forzature in questo campo non sono efficaci, bisogna che l’aderenza tra il sentire e la retorica sia consistente perché sia anche efficace.
Ma una posizione esplicita hai evitato di esporla, certo non lo è dire “troviamo dei punti d’incontro”, anche quando si è sinceri nel dirlo.
D’accordo, troviamoli, ma dicci prima quali sono i punti di disaccordo, perché Biondillo ti ha chiesto, o perché gli hai scritto questa lettera aperta?
@ Andrea Cortellessa
Qui scrivi:
Non capisco la funzione della parentesi. Puoi spiegare, se hai tempo (e voglia, ovviamente)?
il manga avrebbe forse detto che gli causavano un’angoscia dirupante, come a me marina pizzi. contento, cortellessa? e adesso inca.
@ Lucy
Perdonami, non era la delazione che invocavo, ma il tuo sistema di riferimenti. Le coordinate. Non che sia facile, lo so, a me verrebbe il mal di testa a provarci!
@ Lucy
Comunque, sempre permettendomi di interpretarlo in absentia, non avrebbe certo qualificato di “angoscia dirupante”, il Manga, la prosa qui proposta. Per lui era un connotato (artisticamente) positivo. Come per me Fontana, diciamo.
D’accordo, Perissinotto, ci siamo tirati il cassino sporco in faccia a vicenda, e ora si è tornati a dialogare. Ne prendo atto. A me quell’articolo di Giglioli sulla mappatura dell’esistente (mappa di soli percorsi virtuali, senza nemmeno i nomi delle strade) aveva suscitato una reazione di sdegno, soprattutto perché ne conoscevo l’antecedente: il saggio sulla cosiddetta “letteratura dell’estremo” uscito sulla Treccani, in cui, all’opposto dello scritto sul manifesto, si riconosceva dignità letteraria ad oggetti cartacei del presente che chiamare romanzi era davvero molto generoso, difettando i libri in questione strutturalmente, formalmente, stilisticamente dell’abilitazione al genere, qualora questa si ritenga ancora (sbagliando) una condizione di partenza irrinunciabile per “narrare” oggi in Italia. L’Italia una tradizione di romanzi e romanzieri non ce l’ha, meno che mai nell’ultimo scorcio del vecchio secolo. E risalendo indietro, basti pensare al travaglio del già citato Gadda sui suoi, di romanzi, a Manganelli che fa di tutto (lo so perché ho visto le carte, sì, la filologia! anche quella, evviva!) per sottrarsi a questa tentazione, e s’inventa compulsivamente una digressione via l’altra perché *Hilarotragoedia* non assomigli a niente che si possa nemmeno per sbaglio paragonare a un romanzo, quel vieto depositario dell’aborrita “visione del mondo” filtrata dall’altrettanto aborrito “messaggio”. Giglioli, così mi pareva di inferire da quei suoi due scritti che qui riduco brutalmente all’osso, ritiene invece che la cosiddetta letteratura oggi debba inevitabilmente misurarsi con la definitiva sanzione della sua impraticabilità in forme che diremmo classiche e che il critico (che, con buona pace di Alcor non è ancora troppo diverso da quella definizione di Fortini che in questi giorni mi viene sempre a mente, e cioè colui che mette il suo sapere –frutto di anni di studio, da quello filologico, appunto, a quello delle più varie discipline, la storia, la filosofia, la stessa storia della critica, cioè il confronto con la tradizione critica, oltre che con la comunità ermeneutica attuale- a confronto coi testi e coi suoi lettori) non possa disinteressarsi di certi fenomeni, primo fra tutti il genere (all’interno del quale Giglioli mi pareva registrasse l’assoluto dominio del noir e del giallo, meno male non del rosa, che peraltro invece torna in auge nel cromatismo del bellissimo recente *Conglomerati* di Zanzotto), genere che è poi praticato più spesso nelle forme di stravolgimento dello stesso (sì, ma l’aveva fatto Gadda, appunto, col giallo, e molto meglio: dov’è la specificità di certi autori, se non è nemmeno in questo? Non hanno qualità letteraria, i loro testi, e, questo lo riconosce lo stesso Giglioli, non fanno niente di nuovo quando stravolgono il genere piegandolo a strumento di indagine sul presente, e dunque? Perché dovremmo occuparcene? La critica, intendo?).
Allora, arrivo tardi, e molte cose le hanno dette altri prima di me. Quello che mi preme sottolineare una volta per tutte, tornando all’idea della mappatura ma prescindendo in parte dall’articolo di Giglioli, è che sta prevalendo un dionisottismo fasullo, molto parziale e personalistico: quella che è prassi inevitabile (costruire attorno ad alcuni centri locali di aggregazione culturale, come gli editori soprattutto medi e piccoli, eventi e momenti di interscambio, ma, di più, di esibizione) diventa poi per gli autori stessi la prima tappa verso l’autolegittimazione assoluta e incondizionata. Mi ricordo del Jovanotti degli esordi, “bisogna farsi il movimento da soli”, era uno dei suoi slogan, e “il movimento è quando tu vai in giro a dire gimme five”. Ecco: il gimme five tra scrittori che si autolegittimano sarebbe il caso che assordasse di meno (lo stesso Jovanotti ha poi riacquistato un senso di sé nel mondo, per proseguire con la boutade), così come quel localismo che porta Perissinotto a credere che tutto si svolga attraverso contatti personali. Se Frasca è uno dei massimi autori a tutto campo del secondo Novecento, lui pensa invece che per leggerlo bisogna che se ne frequenti la casa (e mi agghiaccia ancora di più del “patetico” che dà a me quando scrive a Cortellessa: “chiedigli scusa, se lo incontri”). Basta con questi sistemi, basta. Perché la premessa o la conseguenza del gimme five tra scrittori è la delegittimazione della critica (e questo soprattutto mi preoccupava dello scritto di Giglioli, al di là della questione dei nomi), delegittimazione nichilista e postmodernista in ritardo, quando invece si torna a riflettere a partire da Žižek su tutto quello che di profondamente ideologico c’è nell’apparente sconfitta storica delle ideologie. E mi spiace che in fondo anche il discorso di Lello Voce, mutatis mutandis, si muova nella solita direzione: il critico è cieco, il critico non capisce, il critico è ottuso, non ha gli strumenti, non se ne occupa. Ma se proprio non volesse occuparsene, invece, in alcuni casi (ovvio che non sto parlando della poesia a cui si riferisce Voce, ma al criterio in sé)? Se i suoi strumenti volesse applicarli ad altro, un suo diritto oppure no? E a chi chiedeva perché critici e scrittori debbano per forza confrontarsi, vorrei rispondere con la menzione, proprio rispetto alla poesia, dell’opera più meritoria degli ultimi dieci anni, ovvero l’antologia di Sossella *Parola Plurale*: lì la critica non mi pareva affatto cieca e priva di strumenti, lì si è tornati a fare con la poesia contemporanea (ma, direi in generale, con le letteratura, appunto) quello che da sempre e ripetendo le parole di Fortini il critico va sforzandosi di fare: un’attività di mediazione, rispetto all’opera e ai suoi lettori. L’alternativa si chiama capitalism (cioè mercato e nient’altro che quello, non solo come ossessione del presente, ma come indicazione di tendenza per il futuro), direbbe Moore.
(mi accorgo ora, mentre posto il commento, che si è andati oltre nella discussione, mi aggiorno subito).
l’angoscia dirupante è quella che ti fa venire voglia di diruparti, o di fare hara hiri. se permetti. è connotato positivo nella misura in cui è positivo mettere presto fine alla propria esistenza. io se leggo o guardo certe opere:
prima mi sento scema
poi guardo se c’è una trave nelle vicinanze
poi butto un’ipotetica corda
poi ci ripenso
butto il libro
distolgo lo sguardo
” il critico (che, con buona pace di Alcor non è ancora troppo diverso da quella definizione di Fortini che in questi giorni mi viene sempre a mente, e cioè colui che mette il suo sapere –frutto di anni di studio, da quello filologico, appunto, a quello delle più varie discipline, la storia, la filosofia, la stessa storia della critica, cioè il confronto con la tradizione critica, oltre che con la comunità ermeneutica attuale- a confronto coi testi e coi suoi lettori)”
no, questa giovane signora non sa leggere, ormai non ho più dubbi
@Cano
Sì, rileggendo quella frase ci avevo fatto caso persino io. Uno stilkritik passato di moda (… averne!) ne dedurrebbe che la canonicità del Frasca narratore è, per chi ha scritto quella frase, di grado diverso da quella del poeta e saggista. E’ una domanda molto imbarazzante, dunque fai bene a porla. Diciamo intanto che tale ridotta canonicità è un fatto dal punto di vista editoriale (parametro che mi piacerebbe si tenesse sempre presente, in questa discussione). Ho menzionato gli editori del Frasca saggista, traduttore e introduttore (chiedo venia); quelli del poeta sono Einaudi e Sossella, editore quest’ultimo decisamente “non canonico” (e dunque di per sé non canonizzante) che ad oggi (e temo non per molto tempo ancora, dato che mentre si pettinano le bambole la macchina dell’editoria e della distribuzioni “reali” provvede a stritolare con la massima efficienza ogni forma di diversità) pubblica la migliore collana di poesia in circolazione in questo sventurato paese.
Il narratore l’ho (ri)pubblicato… io, dopo che ad averlo fatto erano stati negli ultimi anni Cronopio e la d’If. Qualche cosa vorrà pur dirla, questa circostanza. Per esempio che mentre con la saggistica (almeno quella letteraria) e con la poesia (figurarsi!) il margine di profitto è talmente esile che ci si può anche permettere, per intervalla insaniae, di far emergere i veri valori, in narrativa è non meno che essenziale – per la macchina di cui sopra – occultarli, negligerli, negarli.
Dopo di che, sì: sono pure dell’idea che il narratore Frasca non ci abbia ancora dato quello che è lecito attendersi dalla sua eccellenza come poeta e saggista (fra l’altro è lui il saggista che ha scritto il più originale e convincente libro sulle forme narrative uscito in questi anni, altro che Wu Ming!, La lettera che muore pubblicato da Meltemi: altra realtà editoriale indipendente e prestigiosa in gravissime difficoltà economiche). Non ho ancora letto tutto Dai cancelli d’acciaio che la “giovane signora” Policastro (come sei pariniana, Alcor!) richiamava alla nostra attenzione, anche perché… non è stato ancora tutto pubblicato e sono personalmente assai refrattario a ogni forma di serializzazione, dunque mi limito in queste considerazioni a Santa Mira e al Fermo volere. So peraltro che ci sono lettori di Frasca totalmente in disaccordo con me (e fortunatamente si ha l’impressione che questi lettori un po’ siano aumentati, negli ultimi anni). Cionondimeno ho qualificato molti commenti fa lo stesso Santa Mira come uno degli assoluti capi d’opera della narrativa italiana di oggi (non è un caso che abbia deciso di inaugurare con la sua riedizione la mia collana, sperando di salvarlo dal colpevole oblio in cui lo vedevo gettato; vana speranza). Ed è così: semplicemente si staglia dalla media dei prodotti “alti” oggi in circolazione da noi (non prendo neppure in considerazione la produzione di consumo che s’insedia impunemente in tutte le pagine culturali, in tutte le copertine di magazine, in tutte le trasmissioni radiotelevisive) d’un tale livello che non si può che considerarlo tale.
A proposito. Approfitto per rispondere a una provocazione non so più di chi, che diceva all’inizio della discussione, a un dipresso, scommetterei che tutti questi “puri e duri” sbaverebbero di fronte a un contratto Mondadori o Einaudi. Ora, a parte la salivazione che è sempre buona norma tenere sotto controllo, mi pare più che giusto che un ottimo scrittore desideri un ottimo editore (cioè ottimamente distribuito, con ottimo ufficio stampa, ottima promozione, ottimi rapporti con tutta la macchina mediatica). Ci mancherebbe altro! Il problema che non mi stanco di sollevare è che, a differenza dal passato, questi ottimi editori tendono assai marcatamente a preferire scrittori meno ottimi, diciamo. E con anni, ormai decenni, di queste scelte, certo si fatica di più a definirli “ottimi”, questi editori. Appunto.
@ Andrea Cortellessa
Grazie. In effetti, avevo avuto l’impressione che tu volessi creare una gerarchia tra il Frasca poeta e/o saggista e il narratore. La tua risposta mi soddisfa. Cordialità!
cortellessa, lo dicevo io, dei duri e puri. intendendo quelli che non pubblicano nemmeno a gratis presso un editore a pagamento. d’accordissimo sul fatto che buoni editori da un po’ pubblicano robetta. poi siccome strombazzano un po’ più degli altri il vinello annacquato passa per un robusto rosso d’annata. però i sommersi eterni si farebbero salvare volentieri dalla zattera (della medusa) mondadori-einaudi.
@ Lucy
Stiamo forse un po’ divagando, ma mi interessa questa cosa. Allora, se prendi “angoscia dirupante” alla lettera (e non c’è dubbio che Manganelli non scherzava, quando evocava certe sue sintomatologie) ovviamente nessuno se la può augurare. Eppure il Manganelli critico indulgeva assai a qualificare come positiva la carica di angoscia, di disperazione, di inquietudine che la lettura di un capolavoro può (secondo lui deve; ma lui era un genio e io no, dunque un simile estremismo non mi permetto di professarlo) indurre. Il che non significa che letteralmente ci si spari o ci si getta dal balcone, dopo aver letto certi libri. Ma significa che quell’Opera, artistica o letteraria, ci squarci davvero dei “divenire”, avrebbe detto invece Deleuze, imprevisti e imprevedibili; che insomma “spezzi il mare ghiacciato dentro di noi”, come opportunamente citava, Garufi, Kafka (qualcuno gli ha risposto: e che ne sai che quest’ascia non possa essere leggera come una piuma? mi permetto di rispondere io al posto suo: no, un’ascia non può essere leggera come una piuma; il “mare ghiacciato”, letterale e metaforico, non è tonno che si possa tagliare con un grissino). Una brutta poesia (non quella che citi, che non posso giudicare perché non ce l’ho sotto gli occhi; singoli sintagmi come sai possono squalificare anche i pià grandi capolavori) non ci ispira tutta questa negatività. Anche per il semplice motivo che nessuno ci obbliga a leggerla. Possiamo smettere quando vogliamo. Invece Kafka, o analoghi, non puoi smettere di leggerli. Anche se ti fanno male (anzi, soprattutto se ti fanno male). Penso a Kafka perché il racconto “ospedaliero” di Perissinotto – l’ho detto, è molto efficace – mi ha fatto sovvenire un mio ricordo ospedaliero. Il ricovero più preoccupante e angoscioso della mia esistenza fu a diciott’anni circa. Ne approfittai per leggere l’opera omnia di Kafka, appunto, diari compresi (le lettere le lessi anni dopo). Non so se la cosa mi diede la stessa forza, se mi sollevò la vita al pari della ragazza di colore prona nel cronicario di Perissinotto. E’ probabile che no. Sicuramente posso dire ora che quella era la circostanza meno adatta per gustare (sì, anche Kafka si “gusta”, e con che piacere!) quel tipo di letteratura. Ma con altrettanta sicurezza credo di aver fatto, quella volta (è stata una delle poche volte in cui mi riconosca una tale tracotante certezza!), la scelta “giusta” (è una contraddizione? sì, è una contraddizione). Vorrei solo che tutti fossero messi nelle condizioni di fare lo stesso tipo di scelta. Invece oggi non è così; e domani temo che sarà peggio.
le cose che si dicono hanno un versante pieno e uno vuoto. freud, il motto di spirito. l’accezione vuota di dirupante è, applicata comicamente alle circostanze “mi voglio uccidere, non è possibile leggere cosacce come queste”, l’accezione piena, cioè carica di significato è “ho letto qualcosa di tremendo, che fa un male-bene, che mi genera un’angoscia straziante”. è vero per molti grandi, non per tutti i grandi. ma è anche vero che c’è grandezza nella leggerezza. un’ascia è a volte una piuma.
OT
Cortelly, forse se all’ospedale si fosse presentato Kafka in persona a leggerti qualche sua pagina, ne saresti stato felice. :-)
Complimenti, comunque, io all’ospedale non sono riuscita a leggere niente.
Tu signor che farai poi che la dama
Con la mano e col piè lieve puntando
Move in giro i begli occhi; e altrui dà cenno
Che di sorger è tempo? In piè d’un salto
Balza primo di tutti; a lei soccorri,
La seggiola rimovi, la man porgi,
Guidala in altra stanza, e più non soffri
Che lo stagnante de le dapi odore
Il celabro le offenda.
:-)
Molto difficile che una piuma svolga la funzione di un’ascia. L’unico caso che mi venga in mente, su due piedi (sto parlando di veri “mari ghiacciati”, pack oceanici, eh, mica robetta), è il monologo della Marescialla, non ricordo più quale atto e quale scena (non sono il Celeberrimo!), nel Rosenkavalier di Hofmannsthal e Strauss. La leggerezza, gran pregio. Ma non quando hai problemi di pack.
@ Gerty
Eh, chissà. Pare che fosse un uomo dolcissimo, Franzy.
@ Alcor
con tutto il mio disdoro, non si può dire altro che
:-) (c’è sempre una prima volta)
… Egri mortali,
Che la miseria e la fidanza un giorno
Sul meriggio guidàro a queste porte
Tumultuosa ignuda atroce folla
Di tronche membra e di squallide facce
E di bare e di grucce, or via da lunge
Vi confortate; e per le alzate nari
Del divin prandio il nettare beete,
Che favorevol aura a voi conduce:
Ma non osate i limitari illustri
Assediar, fastidioso offrendo
Spettacolo di mali a i nostri eroi.
Nostri eroi!
Benedicite!!
Il COR/PO della letteratura.
Amèn.
lucy dice
“…mi sembrava cadesse a fagiolo con il garbuglio in cui sto involtolata ultimamente sul fronte di fatti che avrei negato da ragazza e che ora tornano di prepotenza a farmisi sentire: “torniamo all’antico, sarà un progresso”. l’antico pretendeva la limpidezza, l’essenzialità, che se praticata può farci apprezzare le uscite dal solco, lo scarto. gli scarti continui dalla lingua e dal senso finiscono per collassare e diventare “scarti”, tout court.”
cool…
@Perissinotto
..non è lei un bradipo(inteletualmente) è il mezzo che la mette in difficoltà mettendola in relazione “Uno a Molti “: è umanamente impossibile per chiunque reggere questo tipo di relazione per più di 20 minuti. E’ un pò come stare chiuso in una stanza con persone che fanno contemporaneamente obiezioni e contemporaneamente pretendono da lei la stessa attenzione.
Deve solo ripreddisporre la sua emotività, così educata e cortese, non pretendendo di dare a tutti la stessa attenzione. Ripeto sarebbe impossibile per chiunque; i commentatori inevitabilmente esclusi saranno certamente ingrado di capire la difficoltà.
Pergiunta molti commentatori di NI, anche se particolarmente colti, non hanno il dono della sintesi e sbrodolano commenti prolissi, pretendendo di riproporre le stesse modalità di comunicazione adottate nel loro quotidiano, gravate dall’impossibilità di attivare le dinamiche della comunicazione “non verbale”, causa, spesso, di incomprensioni che rasentano il ridicolo.
E’ necessaria un’alfabetizzazione di massa alla comunicazione on-line, in pratica.
Si auto assolva dunque, e non rinunci ad utilizzare questo preziosissimo mezzo, e la prego, mi dia del tu, nel caso avesse la maleaugurata voglia di far riferimento ai miei commenti.
Con stima. Ale
P.S. l’avverto, qui dentro sono quello che fa più errori ortografici.. hem e logici, non stia li a contarli, non rileggo mai. ^__^
“molti commentatori di NI, anche se particolarmente colti, non hanno il dono della sintesi e sbrodolano commenti prolissi, […] pretendendo di riproporre le stesse modalità di comunicazione adottate nel loro quotidiano”
Ecco un commento “chiaro” che non può non essere apprezzato da Perissinotto. E’ scritto “per farsi capire”…
@ Ares
Scusi se mi sono permesso di inserire una parentesi nello stralcio di commento che ho riportato. Ero quasi tentato di aggiungere qualcosa al suo pensiero, ma sarà per un’altra volta.
Alfabetizzazione on-line – lesson one:
i nickname si danno del “tu” °-°, a chi si presenta on-line con il proprio nome e cognome è bene dare del lei, almenoché non autorizzi il “tu”.
Questa è la regola aurea.
Alfabetizzazione on-line – lesson two:
I nickname sono di norma più agressivi, alcuni anche maleducati(oltre che sgrammaticati ^__-).
I blasonati(coloro che mettono Nome e Cognome)sono, dinorma più educati, in compenso sono permalosissimi. ^__-
Caro Ares, Fortebraccio è il mio cognome. La B maiuscola è un modo per distinguermi dal corsivista (R.I.P.) dell’Unità (R.I.P.).
La saluto.
Eleuterio Fortebraccio
barboso/i nel senso di tediosi, noiosi, spigolosi e pure un po’ barbini.
Sicuramente non barbuti: quattro peli radi sul viso non li chiamerei barba.
Comunque, la pesantezza della critica, di certa critica, ovviamente. Roba da asfissiare e spossare gli indefessi :-)
Se, Eleuterio Fortebraccio. Questa è bella: meriterebbe un racconto. Fortebraccio, conosco solo un paese, in Italia, nel quale le donne si chiamano Aura, Zuma, Remes, Almea, Arpalice, Iones, Iana e gli uomini Ario e Auro (due piloti d’aereo), Sauro o Iames, ma Iames all’italiana, non James. E non mi risulta che ci sia nessuno, in quel paese, che si chiama Eleuterio e di cognome faccia Fortebraccio :-)
Blackjack.
PS: mi scuso per l’OT, ma non potevo perdere l’attimo fuggente. Poi leggerò…
Ah, c’è anche una Signora Ismene, pacatissima e piacevolissima, di una certa età, che convive tranquillamente col suo nome, fantastica; anche se non commenta su NI. E come dimenticare Elianora che fa sempre coppia con Teresiana? Le puoi trovare, sulle sponde del canale, che passeggiano pacate, ciacolando del più e del meno. Estate o inverno, primavera o autunno, non fa differenza.
Ecco; l’Eleuterio mi manca. Nulla, ho appena telefonato al Sindaco (con la S maiuscola che da quelle parti è ancora una personalità) e mi ha confermato che, nel circondario, un Eleuterio manca proprio. Ne trovasse uno vero, sarebbe persino disposto ad offrirgli la “paesananza onoraria” :-D
Blackjack.
La “paesananza onoraria” non mi sembra proprio malaccio.
Penso, però, che sarebbe una onorific(enz)a più adatta ai critisci. Molti di loro non aspirano (ad) altro.
Io mi accontenterei di conoscere più da vicino Elianora e Teresiana.
E.F.
Ammesso che occorra uno scopo, con la lettura e la scrittura potremmo eventualmente ottenere di capire noi stessi, d’interrogare il mondo o di averne un’esperienza estetica… ma parrebbe buffo leggere col preciso obiettivo di soddisfare l’inclinazione ad esser capito di un particolare autore che, temo, correrebbe il rischio d’essere decifrato anche senza i suoi programmatici sforzi di chiarezza.
[…] questo per dire che va bene provocare, va bene discutere, va bene lamentare le infime sorti e regressive dell’industria culturale, ma poi, a un certo punto, bisognerebbe […]
Le questioni capitali della letteratura sono da sempre riducibili a una – guarda caso, proprio quella che si evita da sempre di affrontare. E che riguarda, nello specifico, l’interrogazione del mondo.
Ci si è mai chiesto se il mondo ha piacere o meno di farsi interrogare da certuni individui?
Ecco, bisognerebbe che tutti gli scrittori, prima di esercitare, in via preliminare – una sorta di prova obbligatoria per accedere alla professione – fossero portati al cospetto del mondo e costretti a rivolgergli la fatidica domanda.
In Italia, oggi, riceverebbero l’assenso in tre o quattro (un paio solo se il mondo si distrae per un attimo, o perché magari gli va di formare un tavolo per una partita di tresette senza il morto).
Torno, orora da una giornata intensa a Ferrara, fatta di letture, incontri e scambi. In più parti, e in scenari “antropologici” differenti, ma mi porto nel cuore, fra queste, il bel gruppo di ragazze e ragazzi curvi sul libro che ho scelto per loro, “L’Adalgisa” dell’ingegnere.
Rileggerlo (con loro e commentarlo, parlare del noster Politeknik o della corrispondenza quarantennale con Contini) ridimensiona come è giusto che sia l’ego garrulo dell’imbrattacarte quale spesso (ma sempre meno) mi reputo. Mi pone nel giusto angolino in fondo, dietro la colonna, quasi sulla strada, ché mai sia mi si veda…
Torno, dicevo, e vedo un colonnone di parole alte nemmanco fossimo a San Gimignano. Insomma, solo a rimettermi in pari, è a me venuta la succitata angoscia dirupante. Ed ora che ho assolto al compito crollo esausto e agogno il sonno de’ giusti. Ecché domattina ho un incontro alla Biblioteca Braidense e ciccia che posso dirla, la mia.
Solo:
a Gilda Policastro: lo dico splatteristicamente (cioè “col coeur in man”): lungi davvero da parte mia fare il “dagli al critico”. Che tu possa crederci o meno non è così. Non ho voglia alcuna di scrivere il pamphlet “contro la critica” (titolo paraculissimo che farebbe di me, finalmente l’uomo ricco che non sono). Anche perché non è questa la mia vocazione né la mia natura. Ho profondissimo rispetto per i lavori, le competenze, le professioni, i curriculum. Sento necessaria, oggi ancor più, la presenza, l’ingombro, la frusta della critica. La auspicavo negli anni, in rete, e vederla ora cavalcare a pelo il mustang nelle praterie webbiche è, per me, uno spettacolo di prim’ordine. Come ho già scritto non rammento dove (non è l’età, è Morfeo) fatto salvo il – concedetemelo – orgoglio da pioniere di molti di noi, non sarò di certo io a mettere palizzate e a pretendere concessioni minerarie. Io, anzi, “euriko” di post in post, e ringraziovvi semmai della vostra presenza. Spero davvero sia crollata l’inutile parete di vetro fra “cartacei” e “webbici”, dato che tutti, qui, s’è transmediali – ma da mo’! (ché, invece, il soffitto di vetro, perdona la digressione, pare lungi dal frantumarsi. E forse anche in questo la rete può abbattere le differenze di genere, sessuale, e dare agio e aria ai talenti che davvero lo meritano).
Nessuna idiosincrasia nei confronti del tanto vituperato criticume. Mal ci fa lamentarci – io sono un lamentatore indefesso, lo so e appene me ne accorgo faccio ammenda. Brutta categoria è quella del generista che s’inalbera, che chiede la medaglietta, altrettanto lo sfoggio di principio d’autorità ad ogni piè sospinto. Se avessi in odio la critica non si capirebbe il mio ricercare voci esterne dal manipolo autoreferenziale della compagnia di giro. Ho corteggiato come un poeta provenzale per oltre un anno Marco Belpoliti per vederlo letto su queste pagine. Dico acciocché tu comprenda quanto le tue parole non siano mai, preventivamente, disprezzate, né che ci sia una strategia anti-alcunché.
E questo anche per Alcor.
Ché non so cosa abbia d’improvviso capito di me.
Due cose, veloci (come può essere veloce uno che sbadiglia ad ogni digitata):
1) mai pensato, di me, che stessi facendo critica quando mettevo in rete la frugale manciata di parole, di volta in volta, dedicata a libri differenti. La critica è ben altro, va bene disegnarmi come venissi giù con la piena, ma se non proprio rispetto, almeno abbiate pietà di questo pover’uomo! Con 2.000 (leggesi duemila) battute massime a disposizione, per una helvetica rivistuccola seria ma very popular -quella dove le metto su carta -, mica si può pensare di disquisire di massimi sistemi in pillole.
Le mie sono segnalazioni. Nulla di più. “Consigli per gli acquisti” direbbe il tale. Ammetti con me, dammene atto, ché i nomi consigliativi non sono davvero dei più usi (ne’ costumi patri). Alla casalinga (non di Voghera ma) di Mendrisio o di Bellinzona ho sussurato alle di loro trombe d’eustachio nomi che neppure negli annali maximi de’ magnifici quotidiani nazionali si trovano. Non ora, ma se vuoi, l’elenco te lo recapito a stretto giro di post.
E poi:
2) ho, al chiarissimo Alessandro, chiesto di intervenire su questo blog in tempi davvero insospettabili. Siamo non in regime di prescrizione, ma di nullità del processo, dato che il fatto criminoso non sussiste, come si dimostra nel passaggio apicale della torre perissinottiana: “Circa tre anni fa, mi chiedesti se avevo voglia di scrivere qualcosa per Nazione Indiana”. Tre anni non sono bruscolini, neppure paglia da incendiare. Che Alessandro abbia, sua spontissima, deciso orora di deliziarmi col suo scritto, non è perché l’ho pressato come fossi Sacchi col suo memorabile Milan, semplicemente perché hic et nunc lui m’ha dato da leggere le sue parole.
E io le ho, pensa, pubblicate, giustappunto pochi post dopo quello di Rizzante, che da tutt’altra posizione pone il problema. Apperciocché dal contrasto dei sapori, dal dolce e dall’agro si riesca a cucinare meglio, in questo calderone, dove tutti, un po’, si mette, chi del sale, chi del pepe. E chi della passione (la gran parte di noi, com’è ovvio. Ché è cosa buona e giusta.)
Amen.
ciao Biondillo, è che io leggo gialli, e mi ingegno a seguire gli indizi, e metto assieme i post con i quali tu rispondi ai post, me ne ricordo uno su Banville, in risposta a un dibattito che se non era direttamente sulla critica aveva visto però una contrapposizione tra te e i critici, poi il post dal titolo incriminato che tutti abbiamo criticato e tu pure (anche se l’irritazione che l’ha mosso la capisco tutta) poi questo, in più scrivi recensioni, e adesso leggo anche che hai letto e commentato Gadda a parlato di Contini a una classe di ragazzi, cioè tu, i cui studi mi pare siano andati in una direzione diversa, parli ai giovani di due autori che richiedono strumenti critici quanto mai sofisticati.
Premesso che io penso (o almeno accetto:-)) che ognuno sia libero di fare quel che gli pare, leggere i libri che gli piacciono e soprattutto, soprattutto scrivere i libri che vuole, tu hai una tua idea critica e mi piacerebbe sentirla detta chiara, questo post di Perissinotto sarà anche stato chiesto tre anni fa, ma è nella linea che dicevo.
Tu sei scrittore di libri in origine gialli, e architetto, sostieni però, in obiettiva contrapposizione con i critici che dovrebbero essere deputati a questo, un ruolo, non so come chiamarlo, di orientamento librario, è così difficile indicare i criteri generali?
E perché è così imbarazzante sentirselo chiedere?
Puoi anche rispondere che la critica è morta e che i critici devono pubblicare le loro pubblicazioni iperspecialistiche sul Verri senza infastidire la gente che è libera di dire quel che le pare e leggere come e cosa le pare, come in certi film americani, dove il prof chiede all’allievo, ma tu, cosa immagini che abbia pensato Anna Karenina mentre si buttava sotto il treno? Oppure, ma Lolita crescendo avrebbe portato le tracce degli abusi subiti nell’infanzia?
Io a questo liberi tutti che ormai governa i consigli di lettura sono contraria, ma non posso fare a meno di vedere che impazza, parliamone, così magari i critici veri cominciano a lavorare sul loro linguaggio.
E non solo per “essere capiti” il lavoro da fare è tanto e più sofisticato. Anche se non sono tanto ingenua da credere che basti un gesto di buona volontà in questa direzione, andare contro lo spirito del tempo è un’impresa difficile, se non disperata.
ma cosa gli hai raccontato su Gadda e Contini? sarei curiosa di saperlo
Forse ho capito: per Alcor la letteratura di Gadda e Contini sta ai giovani da orientare come le equazioni di Hawking stanno a lei: c’è quindi bisogno di un mediatore (l’Hawking “divulgatore”, nel secondo caso) dotato di un eccezionale dominio su ciò che deve essere mediato – ovvero, in fin dei conti, tradito: è ovvio che una trasposizione metaforica non potrà mai surrogare l’incessibile comprensione matematica, esattamente come una pagina di critica non potrà mai sostituire decenni d’esposizione alla materia letteraria. Penso che in questa bella discussione tutti abbiano ragione, in quanto fin troppo ovvi difensori del proprio percorso formativo, cioè della propria vicenda personale.
Ciao Elio, io penso che ci sia bisogno di mediazione, sì, non solo, perché esiste anche l’esposizione diretta e personale, ma rinunciare a questa mediazione impoverisce alla lunga anche l’esperienza personale della lettura.
Io ho sempre ascoltato molta musica classica, fin da bambina, e senza nessuna mediazione, finché pochi anni fa ho seguito un corso di De Grada sulla forma sonata, un corso di analisi della struttura di alcuni testi accompagnato dall’ascolto, e da allora, e solo purtroppo per quelle opere, la mia esperienza di ascolto è mutata radicalmente.
De Grada non usava gerghi, benché chiamasse ogni cosa col suo nome, ma solo perché dietro a quell’analisi c’erano strumenti precisi e specialistici era in grado di mediare e accompagnare anche ascoltatori ingenui come me a un ascolto infinitamente più ricco.
@Gilda
Per carità. il critico – in linea di fatto e di principio – si interessa di che gli pare, figurati.
A me dispiace invece che anche quando si pongono questioni teoriche di qualche momento, come mi parevano quelle che poneva il mio scrittino (non avete categorie critiche per ‘leggere’ la poesia,) si risponda che nessuno può obbligarvi. troppo facile, non credi? e tu, che non sei distratta come l’ingenuo Perissinotto certamente l’hai letto il mio saggio sul Verri che certe categorie le proponeva, ma per carità, io faccio il giullare, ho le scuole basse, nessun obbligo di tenernene conto, meglio anzi di no, vedi mai che venga in mente che da anni si leggono criticamente orature come se fossero ‘testi’, eppure sei una poetessa anche tu….macché la risposta è ‘sdegnosa e sprezzante.
Mi scuso, professoressa… ( e bada che quando ho usato lo stesso aggettivo per polemizzare con Carla Benedetti, anni fa, anch’ella si incazzò assai, quindi trovi da qualche parte già compilato l’elenco di tutte le malnatezze di cui mi rendo colpevole, riferendomi a te attraverso la metonimiia della tua attività lavorativa).
Infine fate come vi aggrada meglio: ognuno è libero di dire e fare e ‘leggere’ ciò che gli pare, persino, cara Gilda, di decidere che un dibattito letterario sia o meno ‘importante’ a seconda del numero di commenti che raccoglie. Come ho letto a tua firma, non ricordo se qui o su Vibrisse. Anche quella, se vuoi, è una categoria di ‘lettura’ del presente e della ‘prassi’ dell’arte.
O è libero di chiudere un suo pezzo di critica con un aneddoto più o meno personale. Anche quella può essere una ‘categoria’ se vuoi. La critica esperienziale…
Sono anni, dai primi Ricercare, che dico che non avete gli strumenti per leggere certi fenomeni poetici. Tu mi rispondi dicendo che nessuno può obbligarvi.
Benissimo. Ne prendo atto e ti giuro, che su questo non proprio più altro da dire.
Vuol dire che ho fatto bene a passare gli ultimi 2 giorni a leggermi i documenti sul caso Cucchi, piuttosto che certi dibattiti sul Web ‘come non se ne vedevano da tempo’
Son vecchio, Gilda, ho poco tempo, la merda monta, la storia inciampa, forse davvero non è più tempo (almeno per un vecchio ricoglionito come me) di far letteratura…
Un cordiale saluto
Lello
Alcor del mi corazon,
che debba lustrare le mostrine mi intristisce assaissimo. L’essermi messo l’alloro in capo (cum laude e bacio in bocca con lingua) con una tesi di analisi e critica della letteratura architettonica, nell’indirizzo storico-critico che te lo dico a ffa’? (tesi che attaversava la letteratura novecentesca e le sue influenze nella critica disciplinare di noi magutt), che abbia passato la mia triste gioventù negli archivi storici patri, perso gli occhi sui manoscritti di insigni artisti del manierismo lombardo, studiato filologia, analisi del testo, Estetica (a Filosofia in Statale), pubblicando, giovin scrittore, ben prima del primo romanzo, testi su Pasolini e Vittorini e Carlo Levi, etc. etc. pare poi farsi bello per nulla (ché chi si loda s’imbroda). Perché doverti dire che leggo da almeno un quarto di secolo l’opera gaddiana fin nelle sue intime pieghe, che posseggo la corrispondenza fra lui e il Contini, i testi critici di quest’ultimo su quell’altro precedentemente citato, etc. sembra giustificatorio.
Mai ti chiesi la patente, ti patentavi con le parole tue ai miei occhi.
Ecché tu leggi gialli, io no, qui sta il busillis. (neppure penso di scriverli, tra l’altro. Troppo complicato. Come ho gia detto il noir è una cosa troppo seria per lasciarla ai noiristi, soprattutto quelli italici).
Il Banville di cui sopra era previsto in pubblicazione su NI. Quando si scatenò la discussione alcuni chiesero a gran voce che si aprisse alle opinioni degli autori, alla loro bottega. “Tel chì”, ho pensato, “guarda che buciodiculo, ce l’ho bella e che pronta la voce di un autore”. Super partes. Banville, non certo la sciura Cesira. Ma alcuno lo lesse mai quel post, tropo presi allo sputo reciproco.
A Perissinotto non chiesi “questo post”. Mica ho esatto un post su commissione! A nessuno mai.
Chiesi un pezzo, un quel-che-ti-pare. Poteva essere (ed anzi credevo fosse) un racconto, vun de quei bun. Giuntomi la aperta lettera aprii io pure le braccia e lo accolsi come santa madre chiesa.
Sul tuo terzultimo paragrafo poi inebetisco. Quando mai ho parlato di morte della critica? (quando? Dove?) Di “lasciateci razzolar di per noi e voi schizzatevi puerili nel vostro brodo verrico”?
Alcor, chemmai ti feci?
(su quello che ho detto alla pargolanza liceale, non preoccuparti. Nulla di davvero pericoloso. Ho solo messo in mano un ordigno, quello del gran lombardo. Solo di questo mi vanto. Le mie parole svaniranno come lacrime nella pioggia. La copia cartacea, invece, dell’Adalgisa, loro, la terranno a casa e li accompagnerà per lunga pezza).
a propos: Ciao Lello! ;-)
@ Alcor
credo di aver conosciuto pochissime persone in possesso di TUTTI gli strumenti cognitivi e le conoscenze adeguati a capire DAVVERO Gadda (e io mi metto tra quelli a cui qualcosa manca, non tra i pochissimi) : che facciamo, smettiamo di leggerlo?
@ Gianni
le tue parole svaniranno come lacrime nella pioggia, l’immagine di te che le pronunci no, come il volto del bell’olandesone che non ne ha più imbroccata una, ma che tutti ricorderemo sempre (e io c’ero!)
Non farmi questa, Biondillo, non dirmi che non leggi gialli, dimmi almeno che leggi robaccia popolare transgender anche tu come me.
E adesso meno, purtroppo, che ho meno tempo e forze, ma in gioventù, quando mi manteneva mio padre, mi sono letta anche parecchi romanzi per cameriere.
E’ tutta roba che serve assaissimo, a mio parere, ma prima voglio sgombrare il campo da un sospetto di ostilità personale, non c’è, lo giuro su me stessa, che sono il mio bene più prezioso, e ti prego di credermi.
E men che meno voglio il tuo curriculum, la roba. Anche per me valgono qui “le tue parole ai miei occhi” .
Quel che mi interessa non è la roba in sé, è come la organizzi, a cosa ti serve.
(Però, Biondillo, che tu non abbia mai parlato di morte della critica non va a favore della tua roba, è come se io vedessi dei buchi nell’arredamento, dei riquadri troppo vividi sulla tappezzeria, lì dove un pezzo pregiato del dibattito è stato venduto distrattamente).
E a mio parere tu la organizzi con una decisissima propensione alla conciliazione, alla consolazione, alla bonomia non soltanto di tono, ma di sostanza, che è esattamente quanto la critica non dovrebbe fare, se è anche critica culturale.
Dimmi che sei d’accordo – e con tutto quel curriculum dovresti – che la roba deve servire anche come grimaldello intellettuale, per scomporre il meccanismo e vedere anche i trucchi di quel meccanismo, non solo tecnici, che se nel caso di Ammanniti, qui sopra, sono abbastanza evidenti, in moltissimi casi non lo sono, sono più subdoli.
Se dovessi dare un esempio sintetico di pensiero critico all’opera, mi verrebbe da fare quello di Adorno che dice di Strauß, sei un genio, vecchio mio, ma con Il cavaliere della rosa hai scritto una musica volgare, il teatro era vuoto e tu giustamente ti sei chiesto che senso ha per un musicista essere senza pubblico e il successo il pubblico te lo garantisce solo quando si argina la propria forza inventiva.
Forse Adorno esagerava, ma bisogna anche essere cattivi, cioè critici, considerare la critica un grimaldello multiplo, e tu invece Biondillo non sei cattivo, e soprattutto non vuoi esserlo, ma se non vuoi essere cattivo alla fine finisci, che tu lo voglia o no, per scivolare nel decorativo.
Litiga almeno un po’ con me.
Scrivo – questo commento – anche se se ne potrebbe fare a meno.
Lo scrivo per dire che, finché, in ogni discorso, ci si mette del “proprio”, non c’è granché da aggiungere.
Che posso rispondere a Perissinotto, quando mi ricorda, in ogni commento che ha scritto otto romanzi? Davvero è così importante quanti siano?
Io sono convinto che tanti non abbiano la più pallida idea di chi sia Perissinotto.
Come – forse ancora di più – molti non sanno chi sia Frasca.
Io sono fra quelli che ha idea di chi sia Gabriele Frasca, e non avevano mai sentito parlare di Perissinotto.
Insomma mi sembra tutto un rigirare intorno ai “titoli”, più o meno accademici:
“ho scritto otto romanzi” “Frasca l’ho pubblicato io” “meglio gli editor che hanno una visione laica” “meglio i critici, io c’ho una cosa mia sulla Treccani”.
Serve?
Davvero?
E a cosa serve?
Posso condividere la lamentela: “molte realtà prestigiose stanno scomparendo” e “non ci sono più le collane prestigiose”: ma poi?
Anche questo: serve? Non serve?
Si fanno sempre gli stessi discorsi:
– le combriccole, ovvero: chi è amico di chi, chi non vale nulla ma è “parente” di, e quindi;
– non c’è più una critica seria, militante;
– il mainstrem è il male? be’: non sempre, ma quasi sempre;
– ecco l’unico che: e via a citare Moresco, o Frasca …
Be’: basta.
Sul serio.
Inutile. Tutto ciò non ha effetti sulla realtà.
Si stanno consolidando delle posizioni: il critico, lo scrittore, l’editor e così via.
Con delle sottocategorie: io sono critico sul serio; oppure io sono scritore di “nicchia”, o io sono scrittore pubblicato dalla “grande” casa editrice, ma sto lì per cambiare le cose da dentro.
Dov’è l’innovazione?
Dov’è la risposta ai tempi, alla Televisione, alle tette da fuori?
Una letteratura di intrattenimento è sempre esistita. Sempre, e solo non dall’invenzione della stampa.
Ci siamo inventati i critici, perché ci dicessero cosa, invece, fosse degno di restare, di rimanere, nonstante il Tempo.
Ma è il Tempo che decide.
Va bene: non è solo il Tempo. Le cose devono pur esistere, per sfidare il Tempo. Devono pur essere visibili.
E allora la “battaglia” è giornaliera, personale.
Una battaglia di evidenze, contro le apparenze.
E credo che la battaglia vada fatta senza spocchia, senza la speranza di vincere.
E vada fatta perché necessaria.
Chi la “combatte” la combatte e basta, senza vanti, in silenzio.
Ciao Biond! ti fai un tiro?
a presto
lv
@ Andrea
Sorry ma non ti pare un po’ acrobatico definire La lettera che muore di Frasca un testo ‘sulle forme narrative’?
A me era sembrato – e come tale lo cito in ragione di una sconfinata ammirazione ad ogni pie’ sospinto – un testo soprattutto dedicato al rapporto tra poesia (orale) e letteratura. Che poi anche la poesia narri è altra cosa. La poesia per prima narra. Ma con quanto affrontato da Wu Ming e da Rizzante questo c’entra poco, mi pare…
ma forse abbiamo letto 2 libri diversi.
A fine settimana a Bologna mi porto la mia copia e controlliamo assieme.
salut
lv
Senza polemica, neanche a dirlo
lv
Alcor,
e chi a vo’ cotta e chi a vo’ crura! E se m’inalbero (coi nomi e cognomi, mettendoci il brutto muso) so’ greve e ingiurioso, e se mi placo so’ bonomico. Nix, rien a faire. Non ho alcuna credibilità, me ne farò una ragione.
Ma litigare con te, poffarbacco, mai e poi mai! E’ il mio animo deamicisiano che lo pretende (anche se poi, detto sottovoce, De Amicis era scrittore crudelissimo, a mio modesto avviso).
Che sia comunque pessimo scrittore lo dimostra il fatto che appaio ai tuoi occhi consolatorio e decorativo (l’identikit del perfetto autore di successo!), ma ciò non m’ha fatto cambiare di casa, vivo tutt’ora in affitto in un disprezzabile bilocale. E’ ora che cambi strategia, perdìo!
Su quel che leggo, ti elencassi la torre di tomi affianco al mio desco inorridiresti per le astrusità che mi infliggo. Ma che ci posso fare, i gialli m’annoiano. (tutti? No, mica tutti. Quasi tutti. Ma in quel “quasi” c’è la differenza. La mancanza di pregiudizio. Il piacere della scoperta inattesa, lo spalancamento di mondi.)
Sai, curiosità delle curiosità – tanto siamo fra di noi-, qual scrittore mi fece venir voglia di passare davvero al romanzo? (davvero nel senso che ero ormai al terzo saggio in volume, esclusi i testi su riviste). Uno che leggevo con studio matto e disperatissimo, al quale chiesi l’introduzione che poi mi regalò generosamente al mio tomo su PPP. “Scriva,” mi disse, “io iniziai alla sua età” (mi dava del lei. A me, miserabile studiosello imberbe. Passò automatico al tu e io per anni circumnavigai la lingua madre per evitare di cascare nell’intimo e immeritato discorso diretto). E’ tutt’ora un autore che mi fa tremare la voce le poche volte che incontro, come un ragazzino alle primissime armi. Vincenzo Consolo.
sarei curiosa di vedere dov’è che hai dato voce al perfido Franti che è in te, farei persino una ricerca in rete, se non dovessi disfarmi di un enorme e maledetto pollo, corredato di tutto ciò che fa pollo un pollo, compresi gli occhiettini morti con cui mi guarda dal bancone della cucina
perciò accetto la non lite, anche se sono certa che sarebbe stata una lite con sotto la rete di sicurezza e che si poteva fare senza troppo danno
@Lello Voce
Lungi da me voler minimizzare la tua battaglia critica a sostegno della spoken poetry. Il tuo saggio sul Verri non solo l’ho letto, me se ne discusse anche pubblicamente sulla tua pagina Fb (disdegni le polemiche nel web, ma ne ricordo una piuttosto accesa sotto il tuo post, in quella sede, ricchissima di commenti, alcuni dei quali ben motivati e argomentati. E però lungi da me anche misurare l’interesse di una discussione dal solo numero dei commenti, che se si tolgono i cinguettari e gli ammiccari degli amici di sempre e gli insultari e i malmenari dei nemici giurati, rimane spesso ben poco: su Vibrisse mi riconoscevo solo il merito, mettendo da parte ipocrisie di sorta, di aver portato nella discussione in rete alcuni colleghi refrattari se non ostili al mezzo: solo questo). T’invitavo però a non confondere la tua voce, voce di Voce, perciò ancor più risonante, nel coro delle lamentationes sulla distrazione dei critici. Ad alcuni piace Edoardo Sanguineti, a cui della lettura in pubblico come condivisione di un’esperienza alla maniera della spoken poetry attuale non è mai importato un fico secco, di più della possibilità che la poesia testimoniasse un’esperienza sociale tra le tante possibili (la politica è anche questo, raccontarsi con il proprio linguaggio e la propria ideologia nel proprio tempo, senza pretese di ipocrita affratellamento). Ad altri piace invece occuparsi dell’oratura, come tu la chiamavi, e lo fanno da tempo e con impegno. È una questione di scelte di campo, di orientamenti anche politici, se vuoi. Ma ridiscutiamone allora senza lamentationes, cominciamo a vedere (come aveva fatto *Parola plurale*, dando alla tua opera il giusto e opportuno risalto, e per merito dei critici, mica delle copie vendute, no?) cosa accade alla poesia attuale, in che direzioni si sta muovendo, dopo la fine irrimediabile delle poetiche e dei movimenti (il vostro Gruppo 93 è stato forse l’ultimo possibile), perché la poesia non ha mercato e però i poeti coevi hanno attenzione e spazi di visibilità mai avuti prima (il web, appunto, con i numerosissimi siti a partire dal tuo *absolute*, i festival e gli slam di cui tu sei il promotore in Italia, ma che ora dilagano con esiti non sempre all’altezza della tua primigenia intenzione di farne occasioni di vera aggregazione sociale: concordi che l’impressione è invece talvolta quella di una specie di vivaio di show-girl o di urlatori buffoni?). Personalmente io guardo al panorama della poesia attuale, ma soprattutto dei poeti della mia generazione, visto che mi chiami in causa direttamente, come a un mondo eccessivamente autoreferenziale, il cui problema principale non è il riconoscimento da parte della critica, quanto proprio aver mancato l’obiettivo a te caro di uscire fuori “dalla compagnia di giro” per far davvero comunità. Poi, che certi poeti performativi di oggi, a differenza di te, dell’Ottonieri degli esordi, di Durante etc. non scrivano testi di una qualità poetica tale da farli resistere sulla pagina e durare al di là della performance, mi pare che tu possa convenirne senza tradire la causa. Dunque non è al fenomeno in sé che bisogna guardare ma, conformemente ai tempi, ancora una volta ai singoli. Perché è di questo che vogliono continuare a occuparsi alcuni di noi, di tutto ciò che nel caos riesce ad emergere come valore, e dargli spazio, parafrasando l’abusato Calvino delle Città invisibili. E gli strumenti che tu invochi non saranno quelli della continiana esegesi di Tanto gentile e tanto onesta pare, ma nemmeno quelli dell’attenzione coatta a fenomeni di qualità molto varia e persistenza molto dubbia. Fatta salva la stima che ti ho sempre attestato pubblicamente, ma che non si estende, mi spiace, ai vostri attardati epigoni e ai tuoi maldestri imitatori.
@ Lello
Dato che non hai sottomano La lettera che muore, ti ricordo che certo parla di oralità e scrittura (l’ho tirato in ballo a questo proposito, qui, del resto) ma dedica ampie e assai innovative analisi alle lettere di Paolo di Tarso, a Boccaccio, Cervantes, Sterne, Flaubert, Joyce e poi ancora Beckett, Dick, Pynchon. Tutti testi in prosa e, per lo più, prosa narrativa. Dal che si vede che il lavoro di Gabriele sulla narrativa, come suo solito, è stato accompagnato da un’approfondita riflessione critica e teorica. Senza polemica, of course.
@ Andrea
Grazie, del pensiero. ce l’ho sul comodino. Ma sarò breve o finirò per usare strumentalmente il pensiero di un amico e di un intellettuale che stimo. In ogni caso: concordo del tutto sul giudizio che dai del lavoro di Frasca, e confermo l’elencazione. resto però fermo alla mia impressione che proporre la Lettera come un testo sulle ‘forme narrative’.
Questione di punti di vista, a questo punto…
@ Gilda
Ti ringrazio del tono pacato della replica.
Detto questo io mai non ho detto che disdegno le polemiche su Web. Ne ho fatte, ne faccio, e se il Dio dei Versi e dei Tiri mi darà ossigeno, ancora ne farò. E benvenuto ai refrattari. ma non è di questo che parlavo. E permettimi di mantenere i miei dubbi su certi tuoi interventi in rete e in stampa. Niente di personale, ma ho detto quel che penso e non mi offri ragioni per mutare il mio giudizio.
Io parlavo della latitanza di categorie critiche nell’analisi delle forme della poesia attuale. Non vedo perché questo dovrebbe – tout court – confondere la mia voce (che, visto il nomen, è in sè già una tautologia, dunque una paradossale garanzia di identità, perdona il lazzo) con coloro che combatterebbero contro la critica in quanto tale.
Poi mi lamento, certo, mi lamento anch’io, anzi a dire il vero io mi lamento (per quanto concerne codeste lacrimuzze pe le categorie ‘in versi’) sin dal 1994, seconda edizione di Ricercare, quando proposi un Ricercare che mettesse in discussione non solo le forme dell’arte ma anche quelle della critica. Nessuno mi filò. Allora come oggi. e dunque avrei l’età giusta per rendermi conto che è una battaglia persa 8e probabilmente inutile, che dire?)
Parola Plurale è stata un’ottima antologia ma se lo dico io la cosa perde senso, essendo praticamente l’unica antologia di qualche peso tra quelle prodotte a fine millennio che abbia avuto il malnato garbo di inserirmi.
Non ho mai parlato di distrazione, ma di qualcosa di molto più sostanziale e strutturale: la mancanza di categorie. da ciò discende, come corollario, che pur non avendo io nulla da lamentarmi a proposito dell’attenzione che Parola Plurale ha dato al mio lavoro (grazie all’ottimo saggio di Manganelli) non posso però non vedere che anche in quel caso l’ermeneutica era strettamente ‘testuale’. Hic rodus hic saltus. Vogliamo iniziare a discutere di queste nuove ‘categorie’, vogliamo interrogarci insieme su quali possano essere i metri, o se preferisci i ‘discorsi’, con quali misureremo la rilevanza degli aspetti formali orali di una poesia contemporanea? o no? o preferiamo far finta di nulla e continuare a fare quello che abbiamo (bada dico abbiamo) fatto finora, giudicando opere nuove con strumenti vecchi?
Il poetry slam poi è un medium, o se vuoi un format, come si direbbe adesso, che ognuno interpreta come preferisce. Il fatto che ci siano pessimi libri non fa del libro un medium spazzatura, né il Grande Fratello ci fa decidere che la televisione ‘in sè’ sia spazzatura. Non a me comunque. Continuo a guardare Report, la sera, e a volte trovo gradevole anche Lucarelli, o mi capita la fortuna di vedere questo o quel capolavoro del cinema. Dipende. Dal contesto.
Il mondo è pieno di buffoni, show girl, urlatori, tanto quanto di poeti pessimi, di critici rabberciati, e la societas letteraria italiana a volte spicca nell’organizzazione per cosche, famiglie, cordate, basta guardare ai premi, agli accessi all’editoria di mainstream, agli equilibri di potere che vi sono sottesi, lo notava giustamente Cortellessa, alle scelte di questa o quella casa editrice. E allora? Di fronte a questo che in un qualunque slam di qualsiasi parte d’Italia legga questo o quel pessimo poeta, non mi pare gran danno. se ne fanno altri davvero molto belli, a mio parere, a cui partecipano poeti di gran qualità, e in cui quel rapporto con la comunità interpretante, come direbbe Luperini, funziona mica male.
Io che c’entro? Sempre stato troppo poco invitante e eccessivamente bacchettone per interessare questi e quelli pure.
Ma scusa non mi pare una risposta alla mia domanda il tuo rifugiarti nel ‘bisogna parlare dei singoli non dei fenomeni’. La loro esistenza è mutua, il circuito è sempre cortocircuito, e facendo così mi pandizzi ancor di più: tra i panda-poeti c’è poi il panda-panda-Voce che fa poesia orale. Bella, eh, bellissima poesia, ma in ogni caso PandaPoesia.
No grazie. parliamo dei fenomeni delle tendenze, piuttosto. Altrimenti finirà che io e Cucchi, io e la Merini, io e Conte, o De Angelis o Rondoni (minchia quanti sono!) abbiamo non solo ragione entrambi, ma addirittura le stesse ragioni per avere ragione.
Lo sai bene, Gilda, è la vecchia trappola del. scelgo in base alla ‘qualità’, senza poi dir nulla a proposito dei criteri sui quali tale qualità si stabilisce.
Dei tuoi rapporti con miei attardati epigoni o maldestri imitatori nemmeno mi son permesso di chiedere conto, né a te né ad altro alcuno, essendo che io stesso se mai davvero ci fossero, li fuggirei. Dunque? Che ne parlamm’a ffa, come si direbbe a Napoli… Anzi ti prego di rileggere (e riascoltare ) la mia cosiddetta ‘poesia’, vedi mai che scopri che anch’io altro non sono che un attardato imitatore, un meldestro imitatore di me stesso. E credimi non avresti tutti i torti.
Con amicizia
Lello
PS: per altro: come faremo, ina ssenza di categorie critiche edatte a distinguere tra un urlatore e che si sgola e i Last poets? O traPatrizia Vicinelli e l’ansiosa lettura di un’esordiente allo sbaraglio che inghiotte il microfono?
PSPS sempre @ Gilda
“Poi, che certi poeti performativi di oggi, a differenza di te, dell’Ottonieri degli esordi, di Durante etc. non scrivano testi di una qualità poetica tale da farli resistere sulla pagina e durare al di là della performance, mi pare che tu possa convenirne senza tradire la causa.” E cco è esattamente questo il problema: che significa che un testo deve resistere sulla pagina? Perché è così importante che resista ‘sulla pagina’ se è nato per essere detto? Non è la pagina, il foglio, (né il codice, il medium) ad essere poetico, è la poesia. Anche la musica è scritta. ed è eseguita. Ciò che è musicale è il suo suono, a prescindere dai metodi che si utilizzano per fermarlo e renderlo ‘memorabile’.
come vedi – e lo dici tu stessa – le resistenze ad andare oltre la pagina son tutte lì… proprio tutte lì….
lv
Due brevi incisi, per insistere nel fuori-tema:
Ha ragione Lello: nell’oralità il “testo” è la performance, non lo scritto.
Ha torto Lello: le categorie critiche per valutare una performance esistono, il teatro del Novecento ne ha fornite di eccellenti. In fondo, come per altro indicato dal tanto citato Paul Zumthor, «il teatro rappresenta il modello assoluto di ogni poesia orale».
PS (sul tema):
«… quella vasta risonanza e quella insidiosa ambiguità che la miglior letteratura porta con sé … »
ng
koff koff koff… ehm… mumble…mumble
“Ma l’aspetto peggiore del Flaming consiste nello smarrimento del tema della discussione: ci si accapiglia sui toni delle repliche e si perde di vista l’argomento di cui si stava discutendo. Così, i blog letterari diventano spesso delle arene consacrate al nulla, a narcisistici giochi di parole…”
A me le derive non spaventano, Lucy. Spesso (quando non sono solo sputi e sentenze) portano a sondare territori inesplorati.
@ng
Ha ragione Lello : visto che il risultato, agli effetti della discussione è nullo – mi verrebbe da dire (secondo lazzo) che ‘la ragione è dei fessi’!
Ha torto Lello: adoro Zumthor, ma mi pare strumentale farlo diventare il paladino di una semiosfera linguistica teatro-centrica. Non credo sarei infelice di vedere un attore che interpreta i miei testi, ma ciò non toglie che, quando li interpreto io, non di sola ermeneutica si tratti ma di un aspetto strettamente ‘autoriale (si parva – parvissimissima Lelii licet…) ma di questo abbiamo già discusso a lungo e spero lo faremo ancora
un cordiale saluto
neanche a me le derive (tranne quelle populiste) spaventano. d’altra parte le “chiacchiariatelle ‘e niente” anche su blog ripropongono quello che si fa davanti ad un buon bicchiere: no, spero, nei dibattiti (“il dibattito nooo!”). però perissinotto, che non ama scrivere in rete, aveva espresso quella ragione, tra le altre: mi pareva giusto ricordarlo, perché si è puntualmente verificata. si sono verificate anche altre modalità ricorrenti: ma tacciamo, per lo migliore. buon proseguimento di discussione.
L’oggetto della critica è la produzione di conoscenza sull’arte, e nel vostro caso l’oggetto è l’arte letterataria.. bene..
..per cercare di capire e mettere un po’ d’ordine nei miei pensieri,.. vi sfrutto un po’, scusate:
non ho capito perchè ci si accapiglia sulla figura del critico, che sulla carta dovrebbero adoperarsi per il bene della letteratura e cercare di farla amare..
..il critico dovrebbe produrre conoscenza e affezione nei confronti dell’arte letteraria .. no?
Mi è perfettamente chiaro che il lavoro del critico è un lavoro complesso funestato da mille varianti, storico-sociologiche, simboliche e il lavoro del critico è ancor piu’ difficoltoso se il critico ha l’ambizione di occuparsi di una forma d’arte che gli è contemporanea..
.. ma quali sono le dinamiche che scattano e fanno si che due aggevolatori di conoscenza e sapere e affezione per l’arte, uno come produttore d’arte e l’altro come produttore di conoscenza sull’arte, dovrebbero accapigliarsi ?.
Mi pare che qui vi sia un problema metodologico in primis del critico che si accapiglia con l’artista e dall’altro dell’artista letterario che non ha di meglio da fare che accapigliarsi con il critico.
Perchè si arriva al punto di delegittimarsi a vicenda, che vantaggio ne ha l’arte ?.
Grassie é__è
p.s. se decideste di rispondere, parlate semplice, che non ho fatto le scuole alte. °__°