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Tradurre Omero – Il ritmo del racconto.

[Nove mesi fa è stata pubblicata una nuova traduzione dell’Iliade. Nessun giornale, nessuna rivista, che io sappia, ha finora reso conto di questa impresa. La sua importanza storica è stata però riconosciuta da Franco Buffoni, che ha assegnato all’opera, in qualità di presidente della giuria, il Premio Marazza. Nel saggio che segue Daniele Ventre lascia aperto il suo laboratorio. DP]

di Daniele Ventre

Cuore, cuore – ti sconvolgono pene intollerabili –
sorgi, opponiti ai nemici, mostra il petto e affrontali,
preparandoti allo scontro, tu nei ranghi sèrrati
saldo. Hai vinto? Non mostrare gioia troppo esplicita.
Sèi sconfitto? Non gettarti dentro casa a gemere:
delle gioie sii felice, delle pene affliggiti,
ma non troppo: intendi quale ritmo regge gli uomini.[1]

Quale ampiezza di senso abbia il rhythmòs nell’arcaismo greco emerge con grande immediatezza da questo famoso frammento di Archiloco. Quello a cui il poeta di Paro allude è ovviamente il ritmo delle vicende umane fra felicità e angosce, fra vittorie personali e sconfitte: un ritmo da gestire nella misura del “non troppo”, secondo il canone apollineo della sapienza delfica. Nel sistema di simboli che costituisce il mito, questo ritmo era in potere delle tre Moire. Platone, che non ha mai pienamente inventato i suoi miti, ma li ha piuttosto adattati al contesto opportuno a partire dalle tradizioni arcaiche[2], le immagina sedute sulle ginocchia della Necessità loro madre, intente a far rotare il fuso dell’universo, tessendo e insieme cantando il presente, il passato e il futuro degli uomini “secondo l’armonia delle Sirene” (Respubl. 617c). Questo tessere-cantare il ritmo e la trama dei destini appaia le Moire alle Muse[3], tre secondo la tradizione più arcaica, testimoniata da Pausania (1, 2, 5; 9, 29, 2) – oltre che alle Sirene, che delle Muse sono “parodia” negativa[4]. Se ne ricava una concezione per cui mito, racconto, fabula, intreccio, trama sono essi stessi il tessuto del reale: a un livello più umano l’uso artistico della parola, per usare un’espressione cara a Walter Ong[5], si presenta ipso facto come tecnologia vocale, in particolare come textus, tessitura, tessuto, testo, secondo una metafora che spazia dallo hymnon hyphainein (“tessere l’inno”) degli aedi greci al fáig ferb (“intessé parole”) dei bardi antico-irlandesi, passando per l’avestico vacas-tashti – “inno” (letteralm. “struttura, tessuto, di parole, voci”) – e non è un caso che la nascita di forme metriche regolari e definite sia collegabile al progredire della cultura materiale associata all’attività del tessere[6]. Il quadro della situazione non è però completo se non si tiene presente che nell’economia dell’oral poetry ogni “parola” di cui il canto è tessuto è costituita da un intero verso: per il cantore orale un solo termine ricopre infatti i significati  di “racconto epico”, “articolazione vocale” “unità metrica”, il che sottende un’intima e ancora non problematica coincidenza fra contenuto, espressione e ritmo: tale è appunto la valenza del greco epos (“parola”, ma anche “epopea” ed “esametro”), singola articolazione di quella Ossa, “voce”, divina che porta la fama (kleos)[7]. Inscindibile dall’epos, “parola-verso”, è ovviamente la formula, espressione fissa impiegata sempre sotto le stesse condizioni metriche per identificare un’idea essenziale, secondo la ben nota definizione di Milman Parry[8]. A quest’orizzonte di tecnologia verbale primaria, in cui non si concepisce racconto strutturato se non come tessuto ritmico di parole-versi intrecciate di formule fisse, appartiene la poesia di Omero, ossia la tradizione che il suo nome fittizio di eroe dei cantori e dei rapsodi rappresenta[9].

Da quanto detto finora, si comprende quale grado di coesione antropologica, ancor prima che artistica, possegga la forma poetica dell’epopea, in cui racconto, atto retico, ritmo sono concepiti come un’unità indissolubile, fatta di strutture ricorsive, componenti irrinunciabili di quello stile formulaico che è la dictio epica: un Wiedergebrauchsrede, cioè un “discorso di riuso”, sempre rifruibile –e teoricamente aperto nella sua modularità – atto a celebrare, codificare ed evocare situazioni tipiche, e pertanto del tutto opposto al semplice Verbrauchsrede, “discorso di consumo” di impiego quotidiano e occasionale, veicolatore dei significati ordinari del linguaggio ordinario[10]. Chi si ponga l’obbiettivo di tradurre l’Iliade o l’Odissea non può non tener conto di questa dimensione originaria del testo che ha di fronte, pena il potenziale decadimento dell’epos a  testo di consumo, non troppo dissimile dal para-mito del fantasy deteriore o dalla para-storia del cosiddetto new epic, pur apprezzabile, quest’ultimo, come letteratura “d’evasione” –e paragonabile al romanzo greco tardo-ellenistico, che è da considerarsi almeno in parte una forma prosasticizzata dell’epica[11]. Di qui, a mio parere, l’ambiguità pericolosa di quelle operazioni di traduzione che sostituiscono il vero e proprio verso (quale che esso sia) con la prosa o con il dinoccolato stico prosastico, avendo la pretesa di ribadire implicitamente che “se un uomo dei nostri tempi si ferma… a ripassare le parole – prive di suono, ormai – di un antichissimo poeta, non lo fa… per amore di belle frasi, di sonorità efficaci, di sapienti architetture verbali, di preziose invenzioni e ardimenti dell’espressione: tutto un giuoco che gli appare più ossessivo che affascinante, e comunque vano. L’ideale stesso della bellezza formale caro agli antichi, lo trova scettico: non crede che valga la spesa del suo tempo”. Questa presa di posizione appartiene alla veneranda Rosa Calzecchi Onesti, che la riferisce alla sua versione alineare di Virgilio – ma si attaglia altrettanto bene agli stichi prosaici del suo Omero[12]. E di fatto celebra la morte dell’epopea: si intenda, non una morte iniziatica preludio di una rinascita metamorfica, né tantomeno la più lapalissiana morte della forma in quanto storicamente superata, ma la sua estinzione come identità di genere poetico perfino in quei testi antichi che sono più propriamente epici, in quanto appartengono all’aurora della civiltà letteraria occidentale, a quella transizione mediale fra oralità e scrittura che trasformò l’arte verbomotoria della tessitura di parole in embrione di testualità. Nasconde questo pericolo di banalizzazione mortale anche la ben più nobile e criticamente fondata proposta “di un mimetismo più sostanziale” del traduttore che scivola “a livello metrico sul verso libero, fino a slittare nella prosa ritmica…”[13]: una soluzione certo agevole, per il degno filologo in cerca di una fedeltà di servizio che è però destinata a restare utopica, come è vero che l’opera di poesia, come ogni altro ente del mondo reale, non permette interpretazioni neutrali, così che le traduzioni di servizio rischiano di rendere alla poesia un servizio peggiore della meno fedele delle traduzioni “ritmiche”[14].

Qualcuno potrebbe certo obbiettare che una simile presa di posizione sarà altrettanto rischiosa, o che l’epos, fattosi parola scritta e fissata da che era semplice parola improvvisa e fluida, nel farsi prosa si adatterebbe ora a una nuova forma. L’epos ha certo mutato forma di tempo in tempo, ma non per mutarsi in materia priva, in tutto o in parte, di forme. Il canto di corte improvviso d’età micenea, forma disciplinata che si sviluppò, nei palazzi dell’età del bronzo tardo-elladica dotata di scrittura, a partire dall’oralità primaria dei protogreci – e somigliava forse, in parte, per dinamiche di compresenza fra improvvisazione e scrittura, all’ “inutile, maraviglioso mestiere” degli improvvisatori settecenteschi[15] – era con tutta verosimiglianza affine per forma e struttura metrica alle più tarde odi celebrative di poeti eolici come Saffo e Alceo ed era più vicino, sia per caratteristiche formali (probabile isosillabismo) sia per strutture semiologiche, alle origini indoeuropee del canto epico[16].  Il crollo dei micenei e l’avvento di nuove stirpi e di nuovi dialetti (dorico, ma soprattutto eolico e ionico), trasformò la tradizione epica, ripiombandola in una condizione di oralità primaria, vi aggiunse nuove componenti e memorie culturali, ne mutò la forma: intorno all’XI-X sec. a.C. l’esametro, con le sue strutture caratteristiche e la connessa dizione epica necessaria a padroneggiarlo, si veniva già a grandi linee delineando a partire dall’adattamento della versificazione tardo-micenea. Il retaggio dell’epos, passando dagli eoli agli ioni, assunse infine la lingua e la forma che contraddistinguono i due poemi omerici[17]. Infine, intorno alla metà dell’VIII sec., la tradizione orale si fissò su papiro o forse su pelle, in particolari circostanze politiche e culturali, e cominciò un nuovo cammino come ibrido mediale aperto fra  oralità e scrittura. Di tempo in tempo, l’avvento di una nuova dimensione culturale impose una ricodificazione dell’epos. Si dice sovente che la traduzione è tradimento. Nel caso di Omero la tradizione è stata anche traduzione, nel senso più ampio del termine, di trasferimento di una forma poetica da una cultura all’altra, attraverso dinamiche di autoadattamento e ricodifica. Una traduzione dell’Iliade o che voglia sperare di riuscire, almeno in parte, a compensare le perdite con i guadagni, deve tener conto di questo continua tra-ductio che è stata la tra-ditio. E non può cedere, in nome del presunto “servizio” al testo, sul fattore formale fondativo del ritmo e dello stile, pena una ricodificazione monca, più che in perdita, con buona pace del severo editto di André Lefevere e dei suoi astratti blueprints, i quali, nonostante l’impegno teorico profuso e le ottime premesse generali, sembrano sancire, in definitiva, una strategia del non tradurre, o del tradur pigro[18]. Tutte le motivazioni antropologiche e poetiche qui sommariamente ripercorse mi hanno in pratica indotto, nell’affrontare ancora una volta la traduzione dell’Iliade, a ritentare l’altra possibilità che Giovanni Cerri prospettava, nella già citata introduzione alla sua versione dell’Iliade: il “rispetto dell’omoritmia dei versi italiani”: in altre parole, il ritorno a un qualche tipo di verso narrativo cadenzato, di esametro ritmico, nei modi che ora cercherò di illustrare.

Da quanto abbiamo appena detto, traspare intanto una verità essenziale. Nel suo disperato e disperante nachleben (rivivere il testo, e farlo in qualche modo rivivere), di fronte al testo omerico il traduttore si trova a dover recuperare una dimensione cognitiva e una tradizione, ancor prima di una singola opera. L’epos è una forma letteraria in cui il diaframma che separa l’autore dal lettore è poroso e nello stesso tempo rigidissimo: l’autore, l’aedo, è infatti anonima espressione del suo contesto tribale, ma nello stesso tempo è sacer (nel senso positivo) e distinto dagli altri; la sua è una dimensione comunicativa sì popolare, ma anche codificata in una lingua tradizionale che spesso, accanto a dinamiche comunicative di interazione e permeazione tra fruitore e racconto, pone vere e proprie barriere di intellegibilità, per l’ambiguità di certe espressioni ed epiteti formulari. Il tutto è veicolato da un ritmo che per il greco antico era un letto di Procuste: per averne un’idea, si pensi che le odiate sequenze di sillabe lunghe, che il poeta esametrico deve limitare il più possibile, specie in chiusa di verso, occorrono in un testo ametrico nel 20% delle clausole di frase e periodo, e un restante 20-25% è dominato da sequenze di giambi e trochei, totalmente estranei al ritmo dattilico, confinato nel 6% scarso delle occorrenze. Improvvisare migliaia di esametri su un canovaccio commissionato dall’uditorio era dunque, per l’aedo, un vero tour de force verbale, che solo un’arte consumata e un bagaglio di quattro secoli di tradizione potevano permettergli di affrontare con successo ad ogni performance.

La possibilità di recuperare una simile tradizione, fatta di ritmo e formule, all’interno di una traduzione isometra, parrebbe a tutta prima chimerica. Eppure un metodo di approccio non troppo scorretto al folle volo esiste. Come già accadde su più larga scala per gli albori degli studi oralistici, che presero le mosse dallo studio di Mathias Murko sui bardi serbo-croati[19], l’aiuto, ancora una volta, viene dalla slavistica. Su un modo peculiare di tradurre, insieme a una traduzione, anche una tradizione e un ritmo, si è espresso infatti Giuseppe Ghini, nella sua analisi delle versioni ritmiche di Puškin da parte di uno dei traduttori “classici” delle versioni novecentesche dei russi, Renato Poggioli[20]. Certo, Poggioli a suo tempo criticava le versioni esametriche pascoliane di Omero[21]. D’altro canto la percezione delle forme metriche nella tradizione letteraria italiana, rispetto ai tempi di Poggioli, è mutata. Nel dilemma fra equivalente funzionale ed equivalente metrico del ritmo dell’originale, nessuno se la sentirebbe oggi di dire che l’endecasillabo sciolto (quello di un Caro o di un Pindemonte) è naturalmente al suo posto nella versione di un poema classico, non a valle dell’evoluzione formale che ha fatto dell’endecasillabo stesso un verso sempre più schiettamente lirico-discorsivo. Inevitabilmente, la scelta ricade su un certo tipo di verso lungo, narrativo, che costituisce un esperimento non canonico, ma certo abbastanza centrale nella poesia contemporanea: un esperimento, riconoscibile nell’opera di un Pavese  (le cadenze anapestiche di Lavorare stanca), o prima ancora di un Thovez (i doppi ottonari dattilici del Poema dell’adolescenza), alla cui radice rinveniamo pur sempre il cosiddetto esametro “barbaro” di carducciana e pascoliana memoria. L’esametro stesso è stato oggetto, peraltro, di una rivisitazione da parte di un poeta come Toti Scialoja, in raccolte come Rapide e Lente Amnesie e Costellazioni. L’esametro di Scialoja è un verso tendenzialmente isosillabico, tratto comune a tutti i versi tradizionali italiani, ma non all’esametro barbaro di Carducci e all’esametro “neoclassico” alla tedesca di Pascoli. Rispetto all’esametro di Pascoli nella sua forma base di diciassette sillabe, il verso di Scialoja appare alquanto liberalizzato (meno dattilico) dal punto di vista degli accenti, ma più rigido dal punto di vista della tipologia metrica, che ne fa quasi un verso doppio, con regole in der Masse piuttosto definite circa la posizione della cesura fra i due emistichii. Tenendo conto di questa tradizione novecentesca, si è scelto pertanto di assumere come misura ritmica portante della nuova versione dell’Iliade le diciassette sillabe dell’esametro accentuativo di Scialoja, il quale ha di fatto creato un verso isosillabico analogo, per struttura, a versi come l’endecasillabo o il doppio settenario. Su questo verso isosillabico si è agito ripristinando  l’andamento dattilico dell’ottonario e l’andamento anapestico del novenario, ed evitando il più possibile la soluzione ottonario tronco + decasillabo. Si è così ricostituita una sequenza esadattilica con una tipologia metrico-verbale propria, in parte autonoma rispetto all’esametro greco, ma compatibile con la tradizione metrica italiana otto-novecentesca. Questo scopo lo si è realizzato cercando di restituire il ritmo dall’interno della struttura del verso, evitando, per usare una definizione del Contini di Varianti e altra linguistica, l’influsso del tutto esteriore, di puro calco, della metrica classica[22]. Il verso che ne deriva è in tutto e per tutto un punto di equilibrio fra il verso lungo narrativo novecentesco, l’isosillabismo tradizionale e il filone della vecchia metrica barbara, che pure in apparenza sembra riprendere da vicino. All’aspetto strettamente metrico si mescola poi il tentativo, ancora più marcato che negli esperimenti pascoliani, di riesumare le figure di suono del testo (allitterazioni, omeoteleuti) nella posizione e nella funzione demarcativa dei tempi del dialogo e della narrazione, di diaframma fra récit e discours, che esse verosimilmente avevano[23], nonché lo sforzo di seguire il dipanarsi del discorso poetico dell’originale, con tutti gli enjambements e le simmetrie che lo caratterizzano.

È questo un ritmo che a ben vedere riesce ostico all’italiano, tanto quanto l’esametro risulta alieno alla prosodia ordinaria del greco. Perciò diviene inscindibile dalla restituzione del ritmo la restituzione della formularità del testo omerico, del suo discorso di riuso, dei suoi moduli ricorrenti secondo la via di un parryismo “elastico”[24], al fine di ricreare davanti al lettore i parallelismi spontanei che la dizione epica instaura nel corso della narrazione. Un’attenzione particolare si è data poi alla resa di epiteti formulari (come quelli delle divinità principali) in cui i nodi della tradizione si addensano: traduzioni al limite dell’espressionismo, come “occhi-di-strige” (“di civetta”) per glaukopis, epiteto di Atena, o “radioso”, con ripresa di uno stilema del Pavese dei Dialoghi con Leucò, per Phoibos, epiteto di Apollo, rispondono all’esigenza di recuperare il più ampio materiale possibile, in termini di basi totemiche, tabuiche e uraniche delle divinità greche evocate dall’epos. Si è così cercato di ricreare in piccolo una dizione epica, fatta di stilemi presi dalle precedenti traduzioni, così come dalla storia della poesia italiana considerata nel suo sviluppo, al fine di ricostituire l’equivalente di un linguaggio che era sì fatto per  la performance popolare del rapsodo, ma aveva anche, come si è detto, componenti che lo stesso aedo o rapsodo riadattava, faticando a comprenderle.

Tali i mezzi che si sono dispiegati nel tentativo di restituire al fruitore italiano del testo omerico un’Iliade che avesse credibilità come poema epico fissato nella scrittura, ma con un forte retaggio di oralità. Fino a che punto l’impresa sia riuscita, o abbia almeno dato vita a un’opera plausibile dal punto di vista della sua coerenza interna, lo deciderà il tempo.


[1] Archiloco, fr. 128 West –traduzione mia.

[2] Giorgio de Santillana & Hertha von Dechend, Il Mulino di Amleto – Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, ed. ital. Milano, 203, p. 358.

[3] Non solo poetico-divulgativa è l’intuizione di Robert Graves, La dea bianca, ed ital. Milano, 2009, p. 263

[4] Domenico Musti, I telchini, le sireneImmaginario mediterraneo e letteratura da Omero e Callimaco al romanticismo europeo, Pisa, 1999, p. 101.

[5] Il riferimento è ovviamente a Walter Ong, Oralità e scrittura – Le tecnologie della parola, ed ital. Bologna 1986.

[6] Cfr. Calvert Watkins, How to Kill a Dragon – Aspects of Indo-European poetics, New York-Oxford 1995, p. 14. Per le connessioni fra tessitura, motivi di ricamo e nascita di strutture metriche regolari nelle società primitive, cfr. Anthony Tuck, “Singing The Rug: Patterned Textiles and the Origin of Indo-europaean Metrical Poetry”, American Journal of Archaeology, 110 (2006), pp. 539-550.

[7] Cfr. John Miles Foley, The Singer of Tales in Performance, Bloomington, Indiana, 1995, pp. 2 s.

[8] Milman Parry, L’épithète tradionelle dans Homèere. Essai sur un problème de style homèrique, Paris, 1928, p. 16.

[9] A tal riguardo cfr. Marcello Durante, Il nome di Omero, in Sulla preistoria della tradizione poetica greca, vol. I, Roma, 1976, p.185-203 e Gregory Nagy, Homer’s name revisited, in La langue poétique indoeuropéenne, eds. George-Jean Pinault et Daniel Petit, Louvain-Paris 2006, pp. 317-330.

[10] Heinrich Lausberg,Rhetorik und Dichtung”, Der Deutschunterricht Jahrgang, 18 (1966) 6, pp. 47-93.

[11] Cfr. Otto Weinreich, “La fortuna di Eliodoro”, in P. Janni, Il romanzo greco. Polifonia ed eros, Venezia, Marsilio, 1989, p. 106.

[12] Virgilio, Eneide, Torino, Einaudi, 1979, trad. e introd. di Rosa Calzecchi Onesti, p. VII.

[13] Cfr. Omero, Iliade, introd. di Wolfgang Schadewalt, trad. di Giovanni Cerri, comm. Di Antonietta Gostoli, Milano, Rizzoli, 1999, p. 95 s.

[14] Un esempio in tal senso è dato dall’analisi comparata, da parte di Susan Bassnett (La traduzione – Teorie e Pratica, ed ital. Milano 1999, pp. 115-121) di diverse traduzioni italiane del sonetto XXX di Shakespeare.

[15] Ci riferiamo qui allo studio di Alessandra di Ricco, L’inutile e maraviglioso mestiere –Poeti improvvisatori di fine Settecento, Milano, 1990.

[16] Cfr. Martin L. West, “Greek Poetry 2000-700 B.C.”, Classical Quarterly 23 (1974), pp. 179-92, e soprattutto    Gregory Nagy, Comparative Studies in Greek and Indic Meter, Cambridge, Mass, 1974, p. 8 ss.

[17] Per i diversi strati e la storia della lingua omerica, dal miceneo all’influsso delle redazioni della prima età attica, basterà qui l’ovvio riferimento al monumentale Pierre Chantraine, Grammaire homérique, Paris, 1963-1972.

[18] Ci riferiamo qui specificamente all’André Lefevere di Translating Poetry, Seven Strategies and a Blueprint, Van Gorcum, Amsterdam. 1975 pp. 39-42 e alla sua proscrizione nei confronti delle traduzioni metriche.  Secondo Lefevere, la traduzione metrica sarebbe schiava di un solo aspetto del testo, trascurandone l’organicità. Tenendo presente l’antropologia del ritmo che innerva le culture poetiche orali-aurali, e continua a persistere anche dopo che Calliope apprende l’alfabeto (per dirla con l’Eric Havelock de “La musa impara a scrivere”, ed ital. Bari, 2005), si può capire quanto sia per molti aspetti fallace questa prospettiva, rispetto al problema di tradurre Omero. Si apre qui uno spazio di riflessione sulla traduzione letteraria in genere, ma non è questo il momento di dipanarne i nodi fino in fondo.

[19] Cfr. Mathias Murko, La poésie populaire épique en Yougoslavie au début du XXe siècle, Paris, 1909, che ispirò Antoine Meillet, Les origines indo-européennes des mètres grecs, Paris, 1923, p. 61, passo che è pietra miliare della fondazione degli studi oralistici su Omero.

[20] Giuseppe Ghini, “Tradurre il ritmo del poeta: Puškin nelle versioni ritmiche di Poggioli”, Studi Slavistici, 2 (2005), pp. 81-96.

[21] Renato Poggioli, “Note su alcune versioni italiane della poesia di Pushkin”, Letteratura, 1 (1937), 3, pp. 133 ss.

[22] Cfr. Gianfranco Contini, Innovazioni metriche italiane fra Otto e Novecento, in Varianti e altra linguistica, Torino, Einaudi, 1970, pp. 596 ss.

[23] Da questo punto di vista abbiamo seguito, per quanto possibile, la falsariga stabilita da Mario Cantilena, Sul discorso diretto in Omero, in Franco Montanari –Paola Ascheri (a cura di), Omero tremila anni dopo, Edizioni di storia e letteratura, Roma, 2002, pp. 21-39.

[24] Sull’uso elastico della formula, cfr. A. Hoekstra, Homeric Modification of Formulaic Prototypes. Studies in Development of Greek Epic Diction, Amsterdam, 1965 e J. B. Hainsworth, The Flexibility of the Homeric Formula, Oxford, 1968.

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9 Commenti

  1. Molto bello. L’Iliade è la tragedia umana da cui siamo gli eredi. Quando leggiamo Omero, siamo di fronte all’eternità. Eternità trasmessa dal ritmo, dalla metaphore:

    l’anima balla con il corpo mortale: i ritmo scorre nel dolore, nella fedeltà, nell’ammore, nella vita, nell’ombra scura della morte, nel coraggio, nell’onore. E’ il talento del tradutorre di fare ballare il nostro corpo di lettore.

    Non c’è spazio per il silenzio, neanche nella morte, c’è un canto, un canto interiore trasmesso dal verso, una musica che tiene della preghiera, non in un corpo immobile, ma in” transe”.

    Tutte le traduzioni non si valgono. Ho avuto nel tempo molti traduzioni dell’Iliade. Mi è accaduto leggendo, di sentire la sabbia, il polvero, la lotta ( ache se sono femminile), il sangue nella mia carne. Mi è accaduto di vedere Troie in un paesaggio di alba, di notte. Mi è accaduto di sentire la morte, la luce scomparsa, di sentirmi nel corpo di Hector, trascinata sotto i muri della città. Ho mescolato le mie lacrime a quelle di Achille,
    ho aspettato il ritorno di Hector, ma il verso mi diceva che ormai il sole era rosso d’incendio.

    Credo che leggere una pagine di l’Iliade sia un’ esperienza di umanità, di vincolo stretto con secoli antichi: si ritrova davanti al mare: sembra ogni volta onda nuova, diversa nel suo colore, nel suo ritmo, onda ranicchiata, po srotolata come pergama.
    Mi canta l’amore, l’attesa, il coraggio, la fedeltà;
    anche nel silenzio.
    Sotto la luce il corpo vivo, questa è una bella traduzione.

    Complimenti per questo post sublime.

  2. Il greco rusmos significa stadera, bilancia. Da qui il concetto di ritmo, il dondolio dei piatti che pesano oggetti.

  3. Essendo esperta di traduzioni mi rendo conto che tradurre un’opera del genere è come riscrvere un pezzo di storia dell’umanità. Un vero impegno – obiettivo di ogi traduttore letterario.

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domenico pintohttps://www.nazioneindiana.com/
Domenico Pinto (1976). È traduttore. Collabora alle pagine di «Alias» e «L'Indice». Si occupa di letteratura tedesca contemporanea. Cura questa collana.
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