La morte di Sordello nel Baldus

di Giorgio Mascitelli

 

Che il personaggio di Sordello, il poeta già presente nel Purgatorio dantesco, si trovi anche nel Baldus potrebbe essere tranquillamente letto come un localismo: il mantovano Folengo che in un’opera ambientata in parte anche a Mantova evoca un genius loci per nobilitare la materia macheronica. Forse però le cose non stanno del tutto così.

Sordello da Goito appare alla fine del terzo libro del Baldus. Baldus ancora ragazzino sta per essere arrestato dal bargello e dai suoi sbirri per aver ucciso a Mantova nel corso della festa delle calende di maggio un assalitore. Lo stesso Baldus chiede a Sordello di essere giudice nella contesa con la sbirraglia e ovviamente l’antico trovatore darà ragione a Baldus e anzi lo prenderà sotto la sua protezione. Folengo lo descrive come ormai vecchio, ma sostanzialmente secondo i canoni di rappresentazione della tradizione letteraria: insomma il Sordello del Baldus non è a prima vista troppo diverso da quello dantesco e agisce e parla con aristocratico senso dell’onore e della giustizia. Intima al bargello di lasciare il ragazzo, ma questi vuole procedere con l’arresto e portarlo in città da Cipada. Allora Sordello riprende la parola e, approfittando del fatto che si è radunata una piccola folla di contadini per assistere alla contesa, denuncia con vigore la malvagità e la corruzione degli sbirri, costringendo il bargello a rinunciare al suo proposito.

Sebbene egli riconosca in Baldus un suo pari travestito da contadino, per salvarlo richiama la natura di oppressi dei contadini di fronte al potere poliziesco e cittadino, inaugurando così un’inedita alleanza tra valori aristocratici e mondo contadino oppresso. Ovviamente parlare di valori aristocratici qui significa parlare di ideologia cavalleresca, ossia l’aristocrazia degli squattrinati e dei secondogeniti, e probabilmente significa parlare con più precisione di valori umanistici. La scena dello pseudocomizio è descritta da Folengo secondo i dettami dell’arte macheronica e dunque il poeta ci informa che Sordello è sì vecchio, ma si tiene bene tant’è vero che non sputa o scoreggia involontariamente come fanno gli altri vecchi. La vecchiaia e la saggezza rette da giusti valori dovrebbero consigliare e guidare il giovane Baldus, che non a caso si è messo nei guai durante la festa di primavera. Ma si sa che le cose nella vita non vanno mai così lisce e la vecchiaia è anche debolezza. Sordello nel quarto libro, chiamato a Mantova a difendere Baldus da nuove accuse, dovrà confessare i limiti della sua protezione, che è anche una paternità spirituale, perché gli manca la forza ormai di lottare contro il pretore della città. Difatti tre giorni dopo morirà o per il dispiacere o per l’avvelenamento procurato dallo stesso pretore Gaioffo.

Le sue ultime parole nel poema sono emblematiche: “At plures video de vobis torcere testam,/nasutosque mihi oranti deducere nasos./Sat bene nunc vestri pensiria nosco magonis,/ quare nolo meas ventis gittare parolas./ Quam doleo quod longa bovi paleria vecchio/ iam mihi nunc pendent, quam quod mihi bolsa  cavalla est./ Non animus, fateor, mancat, sed forza volavit.” ( IV,vv. 542-548: ma vedo che molti di voi girano la testa e allontanano da me che chiedo i loro nasi arricciati. Ora conosco abbastanza bene i pensieri del vostro magone perciò non voglio gettare al vento le mie parole. Ciò di cui mi lamento è il fatto che una lunga giogaia pende a me vecchio come ai buoi, e che la mia cavalla è bolsa. Non mi manca il coraggio, lo confesso, ma la forza se ne è andata). E’ una drammatica confessione d’impotenza che prelude alla morte ed è sorprendente che Folengo con un lingua dalle connotazioni comiche come il macheronico regga anche questa confessione così drammatica. La morte di Sordello potrebbe essere una sorta di passaggio di consegne allo stesso Baldus di quei valori, ma in realtà non è così perché al vecchio trovatore è mancato anche il tempo per istruire il suo pupillo. Allora quella morte rappresenta la morte dei valori umanistici, che non sono più patrimonio della cavalleria e non trovano nel mondo contadino chi li possa riprendere. La specificità di Folengo non sta però nella dichiarazione della fine del mondo cavalleresco, o meglio della fine dell’ideale di quel mondo, della qual cosa non mancano certo esempi illustri anteriori, contemporanei e posteriori, ma nel fatto che venga cercata come estrema salvezza di quei valori l’accordo con quella parte della società, i contadini, che è senz’altro la più lontana nella gerarchia sociale. Infatti la dichiarazione della fine della cavalleria, e più in generale della fine di un’idea aristocratica della vita, non è certo una caratteristica del solo Baldus, come si è detto, ma piuttosto una contraddizione interna dell’umanesimo che riprende, in realtà trasformandolo, un ideale aristocratico di vita proprio nel momento storico in cui la borghesia europea comincia la sua lunga ascesa che terminerà con il 1789 o il quarantotto. E’ invece peculiare di questo poema l’idea che tale concezione della vita possa essere ripresa solo dagli ultimi ed è comprensibile che sia isolato in ciò: chiedere alla plebe contadina, alla schiuma della società di comportarsi aristocraticamente significa essere per la rivoluzione. Il problema storico è che non c’è nessuna rivoluzione ( al massimo il sogno di questa per chi non sa che Lutero si è subito messo d’accordo con i principi), il problema letterario è che Sordello ormai vecchio muore senza poter correggere Baldus. E muore con pathos il combattente irriducibile, il poeta satirico che prende in giro i potenti ( gli storici hanno restituito un’immagine del Sordello reale, come era lecito aspettarsi, piuttosto diversa, ma qui è in questione il Sordello personaggio letterario introdotto da Dante), che anche nel Purgatorio non si piega a domandare favori per la propria anima, muore con il pathos, e la disperazione, di chi si deve arrendere (forza volavit, fateor ) perché non ha più energie.

Sordello richiama ai termini della loro oppressione i contadini, benché essi siano avidi e creduloni, come li descrive Boccaccio, il cittadino e borghese Boccaccio, e vorrebbe prestare loro un po’ della sua coscienza di sè, conferire loro la sua dignità come strumento di lotta, ma non è possibile, non ci crede nessuno, nemmeno Folengo temo. E Sordello paga questo errore con la sua incomprensibilità per i posteri. Infatti un curioso destino lo attende: Sordello viene rievocato anche in un grande romanzo del XX secolo, il Molloy di Beckett, quando ormai la civiltà cittadina del lavoro ha trionfato da tempo.  In un passo di questo romanzo Sordello viene confuso, ovviamente dal protagonista non dall’autore, addirittura con Belacqua, il personaggio dantesco che incarna la pigrizia; la confusione è giustificabile per un moderno, entrambi i personaggi nella Divina Commedia evidenziano una certa indolenza non affannandosi a venire incontro al poeta e alla sua guida, anche se una simile confusione avrebbe sorpreso non poco Folengo e Dante. Molloy, uno dei barboni beckettiani, si paragona a Belacqua o Sordello, non si ricorda neanche lui bene, perché pigrizia e nobile ritegno si confondono inevitabilmente nell’epoca dell’etica del lavoro (e a maggior ragione ancor di più nell’epoca dell’autoimprenditorialità).

Questa incomprensibilità di Sordello rispetto ai criteri ideologici del moderno e del postmoderno illumina anche l’incomprensibilità del macheronico. Non alludo qui alla difficoltà linguistica di questa mescolanza lessicale e sintattica di italiano, dialetto lombardo e latino, ma a un’incomprensibilità radicale di un linguaggio che nella sua alterità comica mantiene una tensione utopica, certo nel senso bachtiniano del carnevalesco. E una prova di tale tensione è offerta da quei pochi versi riportati sopra in cui un linguaggio comico, pastoso e scurrile riesce a tenere anche in un contesto di drammatica serietà. L’incomprensibilità del macheronico dunque è più radicale di quella linguistica ed è relativa al senso stesso della sua scelta come lingua e al significato della sua comicità. L’incomprensione è del resto il destino che tocca a coloro che hanno provato a percorrere vie che si contrapponevano a quelle dominanti e non sono riusciti a farcela, ai perdenti che non hanno potuto realizzare neanche un brandello della propria utopia. E’ un prezzo da pagare pesante, ma è il rischio che bisogna correre talvolta per giungere a testimoniare la propria porzione di verità.

 

 

 

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Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
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