Articolo precedente
Articolo successivo

Delirio e potere

di Pino Tripodi

 

Chi volesse comprendere le vicende del potere, di qualsiasi forma di potere, dovrebbe tenere bene in mente questo vocabolo: delirio. Il potere politico, in particolare, ha con   il delirio una relazione privilegiata. Pur non essendo da molto tempo la forma più acuta del potere di potere, il potere politico nel suo moto inerziale contemporaneo assume più di ogni altro potere la caratteristica quintessenziale del delirio. Il delirio non è una categoria psicologia del potere, ma la sua forma essenziale. Ciò vuol dire che nella natura del potere vi è inscritto il gene dell’eccedenza, quell’attributo di incontinenza che tende a  tracimare le vesciche che lo trattengono. Chi esercia un potere tende a varcare i limiti di quel potere. Così il potere estende le sue prerogative mentre chi lo esercita precipita nel proprio delirio. È in tal guisa che il potere astratto colonizza ogni pertugio di mondo mentre chi lo esercita ne viene sempre più imbrigliato. Quindi, più aumenta il potere astratto più viene limitato quello impersonificato. L’esercizio del potere politico è vistosamente affetto da delirio.

Prima di discutere dei temi della politica converrebbe indagare minuziosamente questa affezione e proporre qualche palliativo giusto per evitare che il delirio assuma forme più perigliose di quelle che circolano attualmente infettando parte estesa del pianeta.

Il delirio del potere ha effetti certo perversi. La perversione, indotta dall’innata eccedenza, comporta che chi esercita il potere lo interpreti come una estensione del  sé. Anziché ritenersi, com’è lapalissiano supporre, uno strumento del potere, il potente pensa al potere come a un proprio utensile che gli permette di gonfiare l’aria che respira. L’effetto delirante è che non c’è acqua che basti a a soddisfare la sete di potere. Ma in quell’acqua che estende il potere del potere il potente finisce per annegare di sua propria mano. A poco servono tutti gli esercizi retorici e istituzionali per impedire questa forma di puro delirio. Dopotutto, le regole, le istituzioni, le bilance dei poteri, gli elementi della rappresentanza hanno avuto nella storia della vicenda umana nient’altro che la funzione di imbrigliare il potere per impedirgli di delirare. Sono tutti argini per contenere le acque poteriche anzi che i potenti anneghino.

Nonostante tutti questi contenitori, che espandono a dismisura l’esercizio del potere – tanto da segnalare che nel regno delle libertà costituite a ciascuno è dato di esercitare una qualche forma di potere, dunque di godere del proprio delirio – nella normale vicenda storica, il delirio rimane la forma consustanziale del potere politico.

Di presso ai molteplici effetti di perversione, occorre tuttavia sottolineare che il delirio controintuitivamente ha effetti anche salutari per la tenuta di ogni sistema politico. Il motivo di questa controinduzione è palesabile in tantissimi luoghi del potere politico contemporaneo. Pur senza fare nomi che potrebbero concorrere ad ampliare il dispositivo di incontinenza poterica, chiunque può verificare a piacimento questi effetti benefici del delirio. Per sommi capi si potrebbero descrivere così. Date le regole funzionali della democrazia contemporanea, è molto facile che il potere politico sia esercitato da uomini deliranti, da persone cioè che interpretano il ruolo che il caso, il contesto, la situazione storica gli ha ritagliato come diretta espressione dei propri meriti e della propria volontà. Ciò è bene chiarire avviene perché le masse normalmente amano identificarsi nelle persone che si smassano, che desiderano essere non un continuum della vicenda umana ma un’eccezione. Stare da soli al comando, fare tutto ciò che passa per la mente, essere capi indiscussi di qualcosa, di un popolo, di una nazione, del mondo intero, essere venerati come un Dio, avere più poteri li Lui, commettere spropositi per il semplice gusto di verificare se le masse rimangono intruppate e festanti dietro il proprio idolo.

Il delirio piace alle masse. Ma per quanto piaccia, è proprio l’esercizio delirante del potere un piccolo freno se non un potente antidoto al desiderio di delirio delle masse. Preso nel suo delirio, infatti, inevitabilmente più prima che poi l’uomo di potere si incaglia. Il potere ha una vocazione corale, deve dirsi con tanti nomi per essere capace di qualcosa. Quando diventa monologo delira; all’apice comincia a  deflagrare, a sciogliersi come neve al sole. Privo di delirio, il potente potrebbe continuare all’infinito a commettere regolari nefandezze – la regola serve più a inscrivere il sopruso che a evitarlo, la corruzione è un dato sistemico del potere esercitato dalla moltitudine – ma il suo delirio lo porta alla perdizione. Infatti, le masse che lo hanno osannato, che hanno preteso che quel delirio si incarnasse, appena l’incontinenza è attiva, quando si verifica la situazione che si è agognata – pieni poteri per un uomo solo – cominciano ad essere vittime del suo proprio delirio che da quel momento si sgonfia con rapidità come un pallone bucato da un grande ago.

Senza quei deliri gli uomini potenti contemporanei tramontati l’attimo dopo dell’alba avrebbero potuto governare parecchi ventenni.

Se il delirio è espressione del potere, come si può rendere il potere politico meno nocivo?

Chiaro, deve essere contenuto in vesciche capaci  e lubrificate.

Certo, va istruito del fatto che il suo potere checché ne pensino o ne desiderino le masse è un parafulmine di tutti gli altri poteri dati (le imprese globali, le macchine astratte delle regole e delle leggi, gli interessi sociali costituiti, le consorterie, i gradienti tecnologici e problematici dell’epoca).

Evidente, occorre portare minuziosa attenzione alla formazione delle leadership avvertendo che il refrain guai ai popoli che hanno bisogno di eroi è ancor più veritiero se in luogo degli eroi appiccichiamo i leader.

Un leader di tal livello necessita di pochi solidi attributi tra i quali si segnalano senza ordine d’importanza:

1) Non aspirare a diventarlo. 2) Avere in forte antipatia l’assoggettamento e il comando. 3) Pretendere che non sia dato il suo nome a nessuna formazione e a nessuna ideologia. 4) Stare lontano il più possibile dalle luci dei circoli mediatici. 5) Non amare il potere né diventare suo amante prediletto. 6) Essere all’altezza della storia che gli capita di vivere. 7) Banalmente, amare il prossimo come se stesso. 8) Evitare di dire io, ma stare anche attento a  pronunciare con delicatezza il pronome noi. Meglio indicare il nome dell’Istituzione che rappresenta. L’uomo dell’istituzione è la più importante declinazione soggettiva dell’istituzione umana. 9) Essere donna al di là dell’appartenenza di genere. 10) Sentirsi ricco nella povertà e povero nella ricchezza. 10) Esimersi da ogni lotta di potere. 11) Considerare il potere come limite funzionale, mai velivolo spaziale di carriera. 12) Deve in sintesi avere nelle sue corde il gesto e il suono esattamente contrari ai deliranti leader contemporanei.

 

 

 

 

Print Friendly, PDF & Email

1 commento

I commenti a questo post sono chiusi

articoli correlati

Un inizio

di Edoardo d'Amore
È una storia piccola, troppo minuta e fragile perché se ne sia parlato. Si può non credere a queste parole e andarla a cercare tra mondi virtuali e mondi reali, ma si scoprirà solo quanto già detto

Una facile profezia. La storica analisi di Hirsch jr. sulla scuola

di Giovanni Carosotti
Hirsch jr. denuncia la «refrattarietà dei pedagogisti a sottoporre le loro teorie a una libera discussione pubblica», consapevoli che quanto sostengono non reggerebbe a un adeguato confronto intellettuale.

Il pop deve ancora venire

di Alessio Barettini
Un esordio convincente, Il pop deve ancora venire, dove la forza della scrittura e la precisione del lessico appaiono in primo piano, con la padronanza di Anna Chiara Bassan e l'abilità nell'uso delle parole «instabili, precarie e mutevoli anche da sole.»

Il mazzero

di Arjuna Cecchetti
Beh, il mazzero inizia sognando che è a caccia. Insegue un animale, un cinghiale o un cervo, e lo segue lungo un fiume poi spara all'animale e lo uccide e quando lo raggiunge e lo gira, scopre che il cinghiale ha il volto di una persona che conosce.

Le rovine di La Chiusa

di Giorgio Mascitelli
In questo romanzo dominano le rovine, le discariche abusive, le costruzioni fatiscenti e per l’appunto i cimiteri di macchine: esse sono una forma di allegoria della condizione storica del presente

Buchi

di Serena Barsottelli
La sensazione che provava non era simile ai brividi. Eppure spesso tremava. Non si trattava neppure dell'umidità, quel freddo capace di filtrare sotto il primo strato di pelle e poi sciogliersi nei cunicoli tra nervi e vene.
Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli
Giorgio Mascitelli ha pubblicato due romanzi Nel silenzio delle merci (1996) e L’arte della capriola (1999), e le raccolte di racconti Catastrofi d’assestamento (2011) e Notturno buffo ( 2017) oltre a numerosi articoli e racconti su varie riviste letterarie e culturali. Un racconto è apparso su volume autonomo con il titolo Piove sempre sul bagnato (2008). Nel 2006 ha vinto al Napoli Comicon il premio Micheluzzi per la migliore sceneggiatura per il libro a fumetti Una lacrima sul viso con disegni di Lorenzo Sartori. E’ stato redattore di alfapiù, supplemento in rete di Alfabeta2, e attualmente del blog letterario nazioneindiana.
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: