Pandemia e sacralità

 

 

Una conversazione con Adriano Ercolani

a cura di Francesco Bove

 

Trinità (Andrej Rublëv)

 

Adriano Ercolani è uno scrittore e un critico letterario finissimo e collabora attivamente, tra le varie riviste, con ilfattoquotidiano.it, Linus e Minima&moralia.

Recentemente è stato tra gli ospiti protagonisti degli eventi organizzati dal progetto Tlon, la Festa della Filosofia alla Triennale di Milano del 19 gennaio e la maratona online #prendiamolaconfilosofia che il 4 aprile è stata in diretta streaming sul sito di Repubblica. Parto da un’intervista a Roberto Calasso del 2017 sull’Homo Saecularis proprio su La Repubblica, fatta da Dario Olivero in occasione del lancio del libro L’innominabile attuale, per parlare dell’importanza del senso del sacro, soprattutto in un periodo di quarantena.

Calasso dice che: Homo saecularis è un risultato molto sofisticato della storia. Per arrivare a lui bisogna essersi scrollati di dosso una quantità di pesi. E questa mancanza di gravami di vario genere – religioso, politico, tradizionale – non ha prodotto soddisfazione o felicità, ma una specie di panico. La vittoria della secolarità, che ormai pervade tutto il mondo, è paradossale. Homo saecularis si è trovato di fronte un mondo che non è in grado di trattare. Ha vinto ma gli manca qualcosa di essenziale, domina ma si rivolta contro se stesso.

Leggo questo frammento ad Adriano…

 

Che cosa ne pensi?

 

Sono temi abissali, è difficile parlarne in una maniera disinvolta. Chiaramente il discorso che fa Calasso è molto importante, sono temi di cui lui si occupa ad alto livello come autore ed editore. Partirei da alcune riflessioni: in Conversazioni su Kafka c’è una frase illuminante che Gustav Janouch attribuisce al grande scrittore boemo, ovvero che nell’era moderna “non esistono più i miracoli, ma solo le istruzioni per l’uso”. Con profondità affine, Pier Paolo Pasolini, in un’intervista con Jean Duflot , disse una frase che mi ha sempre colpito, soprattutto da parte di un marxista: “Io sono sempre più scandalizzato dall’assenza di senso del sacro nei miei contemporanei”.

E, come sappiamo, il rapporto di Pasolini col sacro era animato da una ricerca feroce e disperata, anche attraverso la dirompenza blasfema, ridestando quelle energie potenti anche attraverso la violenza. Senza scomodare il riferimento immediato di René Girard, il legame tra sacro e violenza era stato già esplorato da Roger Caillois ne L’uomo e il sacro.

Pochi anni prima, Artaud suggeriva (nel memorabile saggio-romanzo su Eliogabalo) di scuotere i “Principi originari” dal “fondo genesiaco delle cose”, vedeva nella follia lucida del vizioso imperatore quattordicenne un preciso rituale sacro, un’incarnazione dell’identità dei contrari. Non a caso Artaud stesso identificava col concetto stesso di Crudeltà il ritorno al valore sacro del teatro.

Tornando a Pasolini, è significativo che nella sua esplorazione spirituale sia partito dal Cristo fino ad arrivare all’apocalisse nera delle sue visioni di Salò, quindi al capovolgimento sadiano della prospettiva cristiana.

Dico questo perché siamo partiti da Calasso, un autore che nei suoi saggi, anche quando tratta di autori come Baudelaire, rintraccia, riconosce ed esplora questo doppio binario.

Baudelaire, ad esempio, arriva a simili approdi, con un percorso chiaramente diverso da quello di Pasolini, ma con una parabola non del tutto distante. Pasolini era figlio di un certo decadentismo, Carmelo Bene parlava a riguardo di un “dannunzianesimo inconfessabile”.

 

Anche se una volta a cena hanno litigato per questo, perché Pasolini non voleva accostamenti ideologici con D’annunzio.

 

Certo, perché, nonostante l’innegabile dono dello stile, D’Annunzio è uno che ha mescolato, banalizzando, Oscar Wilde e Nietzsche.

Ha ridotto un discorso filosofico complesso a una seducente posa estetica.

Ti racconto un aneddoto personale: io mi feci bocciare scientemente in primo liceo, non raggiungendo la cifra minima di presenze che allora automaticamente obbligava a ripetere l’anno, perché volevo andare nella sezione dove insegnava Giovanni Casoli, un teologo di cui avevo alta stima. Avevo ragione perché mi cambiò la vita.

Dopo il liceo, collaborai a una sua antologia letteraria, che divenne pure un testo universitario (Novecento letterario italiano e Europeo), assieme ad altri collaboratori tra cui Daniele Capuano, che ritengo uno dei più grandi intellettuali italiani. Casoli, quando parlava di Baudelaire, lo ritraeva come “un cristiano diviso”. Se rileggiamo I Fiori del Male, ciò è chiaro fin dall’inizio, pensiamo al celebre sonetto Corrispondenze, spesso scolasticamente ridotto a mero “manifesto del Simbolismo”: le prime due quartine sembrano un brano di sapienza yogica. Del resto, “simbolo” e “yoga” hanno una simile etimologia, legata al concetto di “tenere insieme”, “agganciare”, “unire”. Però, notava Casoli, la ricerca di questa connessione con la natura, con il Tutto, con il Divino in Baudelaire avviene sul piano della percezione terrena, estetica, sensuale, a differenza del simbolismo medievale che mostrava l’unità del cosmico, per visibilia ad invisibilia, e utilizzava le immagini della vita quotidiana come figure dell’Assoluto, per rappresentare l’invisibile. Ciò è spiegato magnificamente da Auerbach nei suoi saggi danteschi.

Il simbolismo medievale mostra l’Unità tra il Creatore e tutte le creature, a loro volta unite, affratellate dal fatto di essere appunto creature, figlie dello stesso Creatore. Pensiamo a La Divina Commedia, a Giotto oppure, successivamente, alla Trinità di Rublev.

 

Quanto è necessario, in questo innominabile attuale, un discorso sul senso del sacro?

È fondamentale, ma non deve essere, necessariamente, collegato a una confessione dogmatica. Appunto, pensatori nominalmente atei, addirittura blasfemi, come Leopardi, Baudelaire o Pasolini hanno testimoniato una profonda connessione con la dimensione del sacro.

Il fanatismo è semplicemente sciocco.

Nella disperazione i ricercatori che non trovano questa unità agognata, che non riescono a soddisfare la loro sete di verità, arrivano ad invocare Satana, come appunto accade nelle Litanie a Satana di Baudelaire. E non sto parlando della visione romantica ottocentesca di Satana, che deriva da una distorsione di Milton, in cui cadde persino il Carducci. Piuttosto, è un discorso gnostico di coincidentia oppositorum, che ci porterebbe a William Blake, “il più grande poeta gnostico d’Occidente”, come lo definisce Daniele Capuano.

C’è molta confusione.

Negli ultimi decenni trovo uno sguardo meditativo limpido in pochi artisti.

Mi viene in mente Andrej Tarkovskij.

 

 

 

Trovo sempre una grande analogia tra Bresson, Ozu e Tarkovskij. Un giansenista, un regista zen e Tarkovskij esprimono, quasi, lo stesso tipo di cinema pur lavorando su chiavi diverse. Tarkovskij, in Andrei Rublev, ragiona per modelli esemplari. Nella parte con Teofane il Greco dice che la preghiera è l’unico modo per lanciare uno sguardo diverso verso cose che l’occhio non vede. Quindi, al di là delle loro differenze culturali, il senso del sacro potrebbe essere un segno per interpretare un reale che non riusciamo più ad interpretare, che ci domina?

 

L’analogia che tu hai trovato è importante, forse questi registi hanno in comune quello che Tarkovskij definiva, nel titolo di un suo libro,  come “Scolpire il tempo”, un concetto molto vicino alla visione di Pavel Florenskij, proprio colui che definì la Trinità di Rublev come, sostanzialmente, la dimostrazione dell’esistenza di Dio.

L’atto di “scolpire il tempo” crea una dimensione sacra.

Pensiamo all’etimologia di tempio, “templum”: la parte di cielo o di terra dalla cui osservazione gli àuguri traevano presagi, appunto “con-templando”. Quindi, il sacro ispira l’idea di ritagliare, estrarre, consacrare, appunto, dei momenti del tempo e dei luoghi dello spazio in cui entriamo in uno stato di consapevolezza diverso.

Uno sguardo che in Tarkovskij non trovi solo in Andrej Rublev ma anche in altri film, perché, in lui qualsiasi immagine è sacra. Ricordo che rimasi davvero sconvolto quando, mi pare in un volume della peraltro bellissima serie di saggi cinematografici Il Castoro Cinema, non ricordo chi dette un’interpretazione freudiano-marxista del suo film Lo Specchio. Questo critico scrisse chiaramente che dal film emergeva una personalità schizoide, infantile, immatura. Io posso comprendere una critica in cui non si apprezza un’opera oppure non si condivide la visione filosofica, ma non comprendere in maniera così grossolana un film, non scavare criticamente le ragioni di scelte stilistiche, non studiare la Weltanschauung dell’autore, beh, mi sembra assurdo, oltreché ridicolo. Tarkovskij è, forse, l’unico artista degli ultimi decenni che riesce a esprimere in maniera convincente il senso del sacro in una prospettiva di redenzione.

Spesso, accade il contrario.

Per esempio, in Lars Von Trier freme una sensibilità nei confronti del sacro, ma in una prospettiva capovolta.

Ciò accade programmaticamente in David Lynch, la sua frequentazione con la filosofia orientale gli fornisce l’accesso a una forma di conoscenza che, in mano a un artista consapevole, può incendiare un’immaginazione già fertile.

Discorso che vale in maniera diversa anche per alcuni momenti in Polanski.

Nel cosiddetto Kali Yuga, l’era della confusione secondo i testi induisti, gli artisti entrano in contatto con il sacro spesso attraverso il rovesciamento blasfemo.

Guido Ceronetti, ad esempio, gnostico puro, elogiava e citava l’interpretazione dei Salmi fatta da Diamanda Galás, una delle artiste più violentemente blasfeme che esistano, ma che in quella furia riesce a far vibrare le corde del sacro. Lei è sicuramente un’artista”visitata”.

 

Una delle più grandi voci, per me.

Indubbiamente.

E non è un caso che abbia esordito proprio interpretando le citate Litanie di Satana di Baudelaire.

Tornando alla tua domanda precedente,  il momento paradossale che stiamo vivendo è nel regno dell’extra-ordinario, una dimensione che spazza via le convenzioni, i ritmi comuni. Nel rovesciamento dei riti quotidiani, possiamo ri-afferrare il senso più profondo dei rituali sacri, di cui i primi (i riti quotidiani) sono un parodistico surrogato. Se leggiamo la prima pagina dell’Ulisse di Joyce, testo novecentesco per antonomasia, inizia con Buck Mulligan che prima di farsi la barba dice: “Introibo ad altare Dei”, il verso dei Salmi che prima della riforma liturgica dava inizio alla messa. Il rito borghese di farsi la barba diventa la parodia del rito cattolico, svuotato di significato.

In un momento in cui è urgente recuperare il senso del sacro (tema cruciale dei grandi contemporanei di Joyce, quali T.S. Eliot, Pound, Chesterton, Tolkien, C.S. Lewis), gli automatismi quotidiani ne ripropongono la mera meccanica esteriore, come un insensato simulacro.

Ora che, in tempi di pandemia, i ritmi quotidiani sono saltati, possiamo riappropriarci di una visione sacra, di una scansione  rituale del tempo.

Nel momento in cui ci ritagliamo un momento dedicato all’introspezione, alla meditazione o altre forme di ritualità, questo stesso atto, prima dell’eventuale pratica, conferisce sacralità a quel momento e a quello spazio.

Capisco che ciò possa sembrare assurdo e superstizioso per un razionalista, ma il rifiuto a priori della dimensione sacra è un condizionamento culturale uguale e contrario a quello dei dogmi religiosi.

Penso si possa dire senza offendere nessuno che la Chiesa Cattolica è stata dominante in Occidente per 2000 anni e, paradossalmente, la diffusione universale del Cattolicesimo (destino presente nell’etimo del nome) ha progressivamente svuotato di senso iniziatico la sua liturgia.

Credo che le persone che vanno a messa consapevoli di tutti i passaggi rituali, di tutti i significati simbolici siano la minoranza. Elémire Zolla e Cristina Campo lo sapevano al punto da invocare il ritorno della messa in latino. Da un lato comprendo il loro anelito, è chiara la potenza mantrica delle formule antiche, l’incanto solenne di un’atmosfera rituale che si è smarrita, ma è un discorso che ha senso solo per chi ha profonda consapevolezza esegetica. Quando il tutto si riduce a una meccanica ripetizione di formule mandate a memoria si dà ragione Marx, si tratta di “oppio dei popoli”.

Il fatto che molte persone intelligenti abbiano un rifiuto in blocco del sacro e lo considerino un trucco e un inganno, è un’immensa perdita. Sto parlando, ovviamente, non di smontare le evidenti sovrastrutture ideologiche delle religioni storiche, ma di percepire, di connettersi a una dimensione più profonda e sottile dell’esistenza umana.

Baudelaire, nel sonetto citato, esordiva dicendo: “La Natura è un tempio”.

Questo tempio è da tempo abbandonato.

E come diceva Junger, “Gli altari in rovina sono abitati da demoni”.

Secondo la visione del tempo ciclico indù noi stiamo in una fase di finale transizione del Kali Yuga, l’età del ferro in senso esiodeo. Mi ha sempre fatto riflettere come Julius Evola, mente dal carisma incendiario quanto pericoloso, scagliasse strali contro il Kali Yuga ma, al contempo, ne sia stato uno dei più grandi agenti, avendo consegnato, in più conferenze, per sua stessa ammissione, chiavi di sapienza esoterica alle SS.

Uno dei tratti di quest’età della confusione è che chi lotta per una società più equa ignora o deride la dimensione spirituale, mentre chi la studia ed esplora spesso è vicino a ideologie prossime al razzismo e alla dittatura.

 

 

Le stesse Edizioni Mediterranee erano appannaggio dell’estrema destra.

Sì, se è vero che nel loro vastissimo catalogo hanno pubblicato testi pericolosi, va anche riconosciuto che hanno pubblicato anche molti libri fondamentali. L’ambito esoterico richiede un discernimento sottile e spietato.

La cultura di sinistra ha colpevolmente abbandonato il campo di questa conoscenza esoterica all’Estrema Destra.

Tratta bene il tema Erica Lagalisse in Anarcoccultismo, un libro molto interessante pubblicato da D edizioni. Anche le edizioni La Lepre in questo senso svolgono un ruolo importante. Del resto, come sai, collaboro con il progetto filosofico Tlon, che mostra la coerente convivenza tra il proporre riflessioni su temi di spiritualità ed esoterismo e il lottare culturalmente contro razzismo e sessismo.

La domanda resta: come mai gli artisti che evocano il sacro negli ultimi cento anni, da Artaud a Polanski, lo fanno all’interno della dimensione che Freud chiamava l’unheimlich, il perturbante? Tarkovskij, ripeto, è l’unico che testimonia epifanie luminose in maniera convincente. Anche Mallick ci prova ma i suoi film non hanno quella potenza illuminante. Talvolta si accosta Lars Von Trier a Tarkovskij, ma in realtà un film come Antichrist è l’opposto della Filocalia, di cui Tarkovskij era consapevole erede.

 

Sono chiaramente d’accordo con te, nonostante non apprezzi l’ultimo Von Trier. C’è una cosa che mi interessa a riguardo della follia divina, cioè il divino mutamento delle abitudini consuete. Oggi le nostre abitudini consuete stanno cambiando ma non in senso trascendente. C’è uno smarrimento insensato. Eppure un giorno i media fanno rimbalzare l’immagine del Papa che predica solitario in mezzo al colonnato del Bernini di Piazza San Pietro e, di colpo, gran parte degli italiani riscopre Dio. Quanto è stata forte quest’immagine per i cristiani? E quanto è stata potente nella mente di un uomo comune?

 

Lungi da me fare uno spot per la Chiesa Cattolica, ma non si può negare che sia stato un momento potentemente simbolico, una formidabile opera di comunicazione. Che poi sia merito di Bernini o di Michelangelo, è comunque un’immagine molto potente. Non sono cattolico, ma se lo fossi probabilmente avrei vissuto quel momento con forte riconoscimento, perché comunque è una spettacolare metafora della predica nel deserto spirituale contemporaneo. Poi, è chiaro che si può fare un’opera facile di decostruzione, non è che scopriamo ora le abili mosse comunicative della Chiesa Cattolica. Uno dei tratti del Kali Yuga è anche questo: essendo l’età della confusione, non esiste una netta distinzione tra “buoni” e “cattivi”. Questo manicheismo sterile, invece, è un limite dei pensatori laici, in cui spesso trovo molto fideismo e fanatismo, soprattutto a sinistra. Nel momento in cui si crede che la storia sia una costante dialettica di forze in conflitto, allora si dovrebbe accettare la dinamica dello scontro all’interno dei limiti umani, vale a dire: fai la guerra coi soldati che hai. Quindi, se in questo momento, la Chiesa Cattolica è uno dei pochi argini culturali alla deriva neofascista, ben venga, con tutto che la Chiesa Cattolica ideologicamente e filosoficamente può essere vista come un nemico storico. Sono fieramente anticlericale ma credo sia pacifico che Avvenire abbia fatto un’opposizione a Salvini più diretta ed efficace de La Repubblica.

La storia insegna: per sconfiggere Hitler, Churchill e Stalin si sono alleati.

Gandhi è venuto a Roma a parlare con Mussolini in chiave anti-inglese.

Fa riflettere che una tale sterile rigidità venga da esponenti di una parte politica teoricamente anti-dogmatica.

 

Qualche giorno fa ho intervistato un performer, Il ristretto, che mi ha detto una cosa su cui ho riflettuto molto. Secondo lui, in quarantena, una persona ritrova quel che ha coltivato nella vita, come se la casa fosse una dimensione purgatoriale. Quindi, a ben pensarci, ci sono tanti problemi privati che l’uomo, senza il senso del sacro, che non riesce a distaccarsi da una dimensione materiale, si trova durante il confronto con se stesso. Quindi, ti chiedo, quale può essere la via di fuga? L’arte può aiutarci?

Io vengo spesso considerato una persona piena di entusiasmo, ma in realtà di base sono pessimista, poiché semplicemente credo che un pessimista non possa mai essere deluso. Ciò non contraddice l’entusiasmo per le poche cose che ritengo degne.

“Pessimismo della ragione, ottimismo della volontà” secondo la nota formula di Gramsci.

Chiaramente, questa pandemia ci ricorda uno scenario da tragedia greca, un contagio che blocca tutto, che cancella la normalità.

Abbiamo citato molto Tarkovskij, era lui a dire perfettamente: “L’arte esiste e si afferma là dove esiste quell’eterna e insaziabile nostalgia della spiritualità, dell’ideale, che raccoglie gli uomini attorno a essa”.

Siamo partiti dallo smarrimento del senso del sacro, che ha decapitato l’esistenza dell’accesso a una dimensione interiore. Abbiamo smarrito il contatto con dimensioni della coscienza connaturate all’esistenza umana.

Non bisogna essere fascisti per riconoscere l’importanza di una lettura archetipica del reale.

Non bisogna nemmeno essere credenti per riconoscere l’importanza del sacro.

Detto questo, l’arte per me è essenziale in tempi “normali”, figuriamoci in tempi di pandemia.

Non parlo soltanto di Caravaggio o Wagner, penso anche a serie tv o saghe cinematografiche popolari, che possono essere occasione di riflessione filosofica collettiva.

Pensiamo a Lost, ad esempio, una serie che, con tutti i suoi difetti e le sue furbate, ha cambiato la storia della tv, poiché ha tenuto incollati allo schermo decine di milioni di persone in tutto il mondo senza praticamente scene di sesso, i cui cosiddetti cliffhanger sono tutti incentrati su crocevie morali, su quesiti chiave della storia della filosofia,  riproposti sotto forma di conflitto tra i personaggi.

Dostoevskij e Camus per le masse.

In Italia, in passato, qualcosa di vagamente simile è successo con Il Segno del Comando che all’inizio degli anni ‘70 faceva 14 milioni di telespettatori, parlando di reincarnazione ed esoterismo, ispirandosi a Byron.

Punto di svolta storico, a livello internazionale, è stato ovviamente Twin Peaks, che si fonda sulla scoperta di una dimensione infernale dietro all’apparente tranquillità rassicurante e ha spalancato infinite possibilità di narrazione, prendendo lo schema classico del giallo e immergendolo in un’inquietante atmosfera occulta.

Guerre Stellari è dichiaratamente ispirato a il concetto di Viaggio dell’Eroe studiato da Joseph Campbell, ed è di fatto costruito su una cosmogonia taoista/eraclitea.

Tutte le grandi narrazioni popolari che dominano l’immaginario collettivo sono figlie di questa conoscenza archetipica.

Pensiamo a saghe come Il Signore degli Anelli, Narnia, ma anche Harry Potter, su ciascuna delle quali si potrebbe scrivere un lungo saggio di riferimenti e citazioni.

Basta leggere quali sono i film che hanno avuto più successo al botteghino di tutti i tempi, Avengers ed Avatar, molto diversi ma uniti da una palese struttura archetipica dei personaggi e della narrazione.

Non credo sia saggio lasciare il monopolio di questa conoscenza profonda della natura umana a chi incarna in questo momento storico le forze della barbarie.

Proprio quelle forze della barbarie che tutte queste narrazioni simboliche ci insegnano a riconoscere e debellare.

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4 Commenti

  1. Conversazione veramente interessante. Riflessioni e citazioni talmente ricche da lasciarmi lo stesso stupore dei fuochi d’artificio , quando mentre gusto i colori e le forme spero dentro di me che non sia l’ultimo….Conclusione magistrale.

  2. Una lunga disamina, ma una giusta e tempestiva riflessione sul senso del sacro in tempi di crisi, come quello che stiamo vivendo. Uno spazio che ora urge riscoprire perché troppo a lungo ignorato, per manzaza di tempo, disattenzione o disorientamento (veniamo, effettivamente da un era di grande confusione – Kaliyuga), o semplicemente perché considerato appannaggio di certi ambienti culturali o religiosi.

    Ora che ci è stato restituito il tempo, non ci resta che prenderci cura della nostra attenzione (selezionando con discernimento dove indirizzarla) e ritrovare l’orientamento, recuperando il valori fondamentali ed il senso profondo della nostra esistenza. Potremmo definire “Sacro” quello spazio interiore, già nostro, che da sempre ci appartiene, la nostra vera “Ricchezza”.

    Grazie Adriano Ercolani

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Giorgiomaria Cornelio è nato a Macerata nel 1997. E’ poeta, regista, curatore del progetto “Edizioni volatili” e redattore di “Nazione indiana”. Ha co-diretto insieme a Lucamatteo Rossi la “Trilogia dei viandanti” (2016-2020), presentata in numerosi festival cinematografici e spazi espositivi. Suoi interventi sono apparsi su «L’indiscreto», «Doppiozero», «Antinomie», «Il Tascabile Treccani» e altri. Ha pubblicato "La consegna delle braci" (Luca Sossella editore, Premio Fondazione Primoli, Premio Bologna in Lettere) e "La specie storta" (Tlon edizioni, Premio Montano, Premio Gozzano Under 30). Ha preso parte al progetto “Civitonia” (NERO Editions). Per Argolibri, ha curato "La radice dell'inchiostro. Dialoghi sulla poesia". La traduzione di Moira Egan di alcune sue poesie scelte ha vinto la RaizissDe Palchi Fellowship della Academy of American Poets. È il direttore artistico della festa “I fumi della fornace”. È laureato al Trinity College di Dublino.
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